Lotte operaie e tramonto del fordismo

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Lotte operaie e tramonto del fordismo
                         di Giuseppe Berta *

   L’autunno del 1969, con le sue propaggini, ha coinciso con
l’ultima stagione in cui il nostro paese ha vissuto un grande
entusiasmo collettivo, una fase in cui le aspettative individuali
e famigliari di miglioramento corrispondevano a vaste attese
di mutamento collettivo. Quarant’anni fa, il mondo del lavoro
era mobilitato in un’offensiva senza precedenti per strappare
salari più alti e migliori condizioni di impiego, in un quadro
in cui il progresso materiale sembrava alla portata di tutti, in-
sieme con una crescita della dignità e della responsabilità del
lavoro delle persone. Stride il contrasto con l’oggi, quando le
preoccupazioni di lavoratori e sindacati ruotano in primo luo-
go attorno all’intento di salvare i posti di lavoro dell’industria,
minacciati dall’onda lunga della crisi. Così, quello del ’69 è
passato alla storia come l’autunno caldo del conflitto indu-
striale, mentre ora, quando parliamo di relazioni sindacali
«calde», intendiamo soprattutto realtà d’impresa incalzate dal-
l’insicurezza economica e dalla precarietà degli sbocchi di
mercato.
   D’altronde, in quello scorcio finale degli anni Sessanta, l’Ita-
lia pareva davvero, nonostante le sue contraddizioni e i suoi
squilibri, in procinto di diventare un modello di società indu-
striale. Nel senso che l’industria e il lavoro di fabbrica sembra-
vano sul punto di dare una forma omogenea ai rapporti socia-

  *
      Professore di Storia contemporanea nell’Università Bocconi di Milano.

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li, di imporre modi e stili di comportamento destinati a pla-
smare la vita civile. Non a caso, sul sistema industriale si veniva
scaricando una massa di aspettative di cambiamento, come se
l’industria avesse in sé la forza per rispondere a un diffuso de-
siderio di cambiamento sociale. Nella società di oggi, al con-
trario, la forma prevalente dell’occupazione è quella terziaria,
nella varietà delle sue configurazioni, e prevalgono attività la-
vorative che non sono assimilabili alla produzione manifattu-
riera. Nemmeno il sindacato ha più il suo baricentro nella sfe-
ra della produzione, dal momento che il suo peso organizzati-
vo è rilevante in settori come il pubblico impiego (dove la sua
efficacia contrattuale si è rivelata superiore che nell’industria),
per non dire del seguito che trova fra i pensionati.
   Insomma, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando si
credeva che i delegati di reparto di Mirafiori, designati spon-
taneamente dai «gruppi operai omogenei», anticipassero i li-
neamenti di una nuova organizzazione del lavoro e, proba-
bilmente, di un nuovo assetto sociale. Per di più, l’autunno
caldo è il momento di una stagione sindacale fondata sulla
conflittualità, che durò per dieci anni e oltre, fino a quando
un nuovo autunno, quello del 1980 alla FIAT, avrebbe nuo-
vamente ribaltato i rapporti di forza, riconducendo le relazio-
ni industriali entro un alveo assai più stretto e delimitato. Un
capitolo eccezionale della storia italiana, dunque, punteggiato
di eventi drammatici e laceranti, lontano in maniera siderale
dai problemi odierni.
   Eppure, la vicenda dell’autunno caldo lascia dietro di sé
una lezione aperta, che non è consegnata interamente al pas-
sato, se si ripercorrono i suoi nodi irrisolti.
   Quello scoppio improvviso di scioperi, agitazioni, manife-
stazioni ebbe indubbiamente origine dalla maggiore trasfor-
mazione dell’Italia contemporanea ed era in certa misura ine-
vitabile. Gli operai che si mobilitavano e scioperavano erano
animati, ben più di quelli di oggi, da attese di progresso, per-
ché erano in gran parte giovani, che si aspettavano di vivere e
di lavorare meglio.

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Fra le espressioni del linguaggio pubblico oggi cadute in di-
suso vi è certamente quella di «classe operaia». Il suo declino
non è da ascrivere in toto al tramonto di una visione politica
che attribuiva al nucleo coeso dei salariati dell’industria il
ruolo di motore centrale del mutamento. Da oltre dieci anni,
analisti e commentatori segnalano che è vano ormai andare
alla ricerca di una classe «che non c’è più», come scrisse Gad
Lerner in una sua notissima inchiesta degli anni ’80. La forza
d’urto che ebbe il conflitto nelle fabbriche si resse su una con-
centrazione sociale senza paragoni, nella storia industriale
italiana, per densità e omogeneità: al cuore del sistema pro-
duttivo esisteva una massa di operai livellata per mansioni e
inquadramento professionale, età e reddito, che in quanto
tale formava «un terreno favorevole alla ripresa di una con-
flittualità generale e all’egualitarismo delle rivendicazioni sa-
lariali […]», in specie in contesti urbano-industriali difficili,
dove l’integrazione era un problema aperto.
   Quella classe operaia, che si sarebbe acquistata con l’autun-
no una visibilità e un rilievo nazionali, era in fondo il frutto di
un errore delle politiche del personale che le direzioni d’im-
presa avevano frettolosamente perseguito. Troppo prese dal-
l’urgenza di soddisfare una domanda di mercato che si anda-
va impennando, le aziende reclutavano frettolosamente un
personale cui si applicava un controllo di mero tipo discipli-
nare. Negli anni che precedettero il dilagare della conflittua-
lità, nelle maggiori imprese private non si attuò più nessuna
politica di differenziazione delle qualifiche e delle retribuzioni
verso una massa di lavoratori già resa eguale e compatta dal
partecipare alle identiche condizioni di vita e di lavoro, con
fasce di età relativamente prossime. L’ingresso della produ-
zione di massa nell’industria italiana aveva creato una classe
operaia che, pur relativamente poco sindacalizzata, non dove-
va tardare ad accorgersi delle proprie chances rivendicative. In
una situazione del mercato del lavoro tesa dal lato dell’offerta
(le associazioni imprenditoriali di Torino, per esempio, invi-
tavano le aziende aderenti a non farsi concorrenza sul piano

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salariale pur di assicurarsi il personale necessario), il dilagare
del conflitto, una volta innescatisi i primi scioperi, era quasi
inevitabile.
   Anche qui, tuttavia, bisogna resistere alla tentazione di
trattare l’autunno del ’69 alla stregua di un avvenimento an-
nunciato. I segnali di disagio, che preannunciavano l’ondata
conflittuale, erano numerosi, giudicati dalla prospettiva stori-
ca; non lo erano alla luce di molti princìpi e idee dominanti a
quel tempo. Secondo un’opinione diffusa, sarebbe toccato al-
l’affluent society di realizzare un’integrazione aconflittuale. Chi
sposava punti di vista più sensibili alle ragioni della politica
propendeva invece per valorizzare strumenti di redistribuzio-
ne come la programmazione economica, immaginando per
l’Italia un orizzonte socialdemocratico e laburista poco reali-
stico proprio per le caratteristiche del nostro sistema politico.
Intendiamoci: a rileggere adesso queste posizioni, che trova-
rono ascolto e rispondenza anche entro il movimento sinda-
cale, specie in quelle organizzazioni attente a declinare
un’identità di sindacato «moderno» (si pensi ai programmi dei
corsi di formazione che si svolgevano, ancora all’alba del ’68,
nella scuola CISL di Firenze), si potrebbe facilmente riscopri-
re in esse elementi di attualità. Vennero invece dimenticate
presto quando l’azione sindacale incominciò a modellarsi sui
ritmi del conflitto.
   L’autunno caldo condusse all’evidenza ciò che oggi non esi-
ste più, cioè una intensa e nitida identità operaia. Un’identità
che non è stata più così forte né compatta prima e dopo il
1969, ma che allora era posta ancora più in risalto dal non
possedere ancora – o dal possedere in modo incerto e preca-
rio, limitato a poche realtà aziendali – i diritti di cittadinanza
sociale. Nel quadro del cambiamento italiano, i lavoratori in-
dustriali dovevano acquisire la cittadinanza sociale in modi e
forme che esaltavano la spinta dal basso, perché l’autunno
caldo doveva compiersi con una saldatura imperfetta, non ba-
sata sulla sintonia, col riformismo che tendeva a introdurre la
cittadinanza sociale dall’alto delle politiche di governo. Le ri-

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forme erano nell’aria, nel 1968-69, da quella delle pensioni
allo Statuto dei diritti dei lavoratori: ma esse giunsero alla fine
del cammino pressoché in concomitanza con la mobilitazione
collettiva dei lavoratori.
   Per tornare al tema dell’identità operaia, va detto che que-
sta riuscì nel compito di trasformare quello che era un dato
aziendale in uno strumento di affermazione di un protagoni-
smo collettivo. Nell’ultimo scorcio degli anni Sessanta, stava
diminuendo il numero dei lavoratori che, interrogati su chi
fossero dal punto di vista dell’occupazione, rispondevano di-
chiarando il loro mestiere, la loro qualifica professionale. Man
mano che le fabbriche si riempivano di nuovi immigrati, cre-
scevano coloro che, privi di identità professionale, sceglievano
di qualificarsi in base all’azienda cui appartenevano.
   Declinavano perciò la loro generalità di «operaio FIAT», o
Pirelli o Alfa Romeo. Non era questa la tradizione del movi-
mento operaio, che aveva enfatizzato sempre il principio di
un’identità lavorativa dedotta dal mestiere, non dal luogo di
occupazione, a sottolineare che nel valore professionale era
iscritta una garanzia di autonomia. Ebbene, quella che ri-
schiava di essere un’identità operaia di risulta, subalterna in
fondo all’inquadramento in una struttura aziendale, sarebbe
stata convertita in una manifestazione orgogliosa di radica-
mento collettivo. Dall’autunno del ’69 in poi, dichiararsi ope-
rai di un grande gruppo, o dire di essere di Mirafiori, della
Bicocca o di Arese, avrebbe acquistato il senso di una procla-
mazione di appartenenza a un movimento sociale dotato di
potere e prestigio pubblico. Ciò rappresentò una leva potente,
oltre che per assicurare all’azione sindacale le risorse di mili-
tanza di cui necessitava, anche per guadagnare consenso fra
quella maggioranza di lavoratori che non sarebbero mai dive-
nuti soggetti direttamente attivi nei conflitti, pur essendo tut-
tavia indispensabili al loro esito.
   All’appuntamento con l’autunno caldo le grandi imprese
industriali – o meglio i loro gruppi dirigenti – arrivarono lar-
gamente impreparate, soprattutto prestando un fianco straor-

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dinariamente esteso e sguarnito all’urto con la conflittualità. A
onor del vero soltanto il sistema delle partecipazioni statali
aveva elaborato un proprio schema di razionalizzazione della
contrattazione, con una precisa definizione dei livelli e delle
competenze negoziali e delle relative clausole di rinvio. Ma
restava un disegno minoritario nel mondo industriale e nella
cultura imprenditoriale italiani, prodotto di un riformismo
raffinato quanto isolato. Del resto, il progetto di riforma della
struttura delle relazioni industriali non si era mai saldato con
la politica della programmazione governativa; rimaneva così
monco, appannaggio di una ristretta tecnocrazia troppo lon-
tana dai suoi referenti economici e sociali per divenire leva
autentica di riforma. Le grandi imprese private avevano inve-
ce condotto, lungo gli anni Sessanta, una navigazione lineare
quanto povera di innovazione. Avevano perso di smalto e di
leadership, dopo che era venuta meno la guida carismatica di
personalità come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei e si era
progressivamente appannata, con l’avanzare dell’età oltre la
soglia degli ottant’anni, anche quella di Vittorio Valletta. Era-
no ripiegate nella routine, dopo il sussulto e la breve lacerazio-
ne causati dagli scioperi del 1962-63. Nonostante le buone
performance economiche, erano organizzazioni stanche e stati-
che, dove vigeva la regola dell’anzianità anche e soprattutto
fra i capi, assai poco inclini ad ascoltare le voci discordanti
dalle loro.
   Ho già detto che in molti casi non si era più applicata una
vera politica del personale. Gli osservatori più vigili, gli stessi
operatori aziendali più giovani e a sufficiente contatto con i
lavoratori da prendere atto dei loro disagi, potevano constata-
re giorno per giorno l’addensarsi delle condizioni che prepa-
ravano gli scioperi del ’69: ben pochi di loro, però, avevano la
possibilità e soprattutto l’autorità per farsi sentire. Nel campo
della politica sindacale, poi, non c’era iniziativa: le direzioni
aziendali trattavano con Commissioni interne sempre meno
rappresentative. Non già perché gli eletti dai lavoratori non
sapessero esercitare il loro ruolo o fossero troppo esposti alle

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lusinghe della controparte: il loro handicap consisteva nel
fatto di essere pochi, lontani dai loro rappresentati, che li vo-
tavano solo ogni due anni, quando sarebbero serviti un lega-
me più stretto e una verifica più puntuale del loro mandato.
   Il difetto maggiore stava, dal lato delle imprese, nella rilut-
tanza ad affrontare le questioni della contrattazione collettiva,
quasi nella loro indifferenza ad esse, come se quello che con-
veniva loro di più fosse di neutralizzarne il più possibile gli
effetti di costo. Non c’erano negoziatori nelle file dei mana-
ger; quelli incaricati della funzione del personale erano appli-
catori di norme sancite da altri. L’aver costruito un’orga-
nizzazione gerarchica vasta, priva dell’intercapedine di sicu-
rezza che avrebbero potuto costituire delle sedi negoziali de-
centrate, fece sì che subissero per intero lo scontro con la
conflittualità.
   Fu l’autunno caldo a dare valore strategico alla gestione
delle risorse umane, per usare un’espressione del linguaggio
manageriale entrato successivamente in voga, e, correlativa-
mente, alle procedure del negoziato. La frontiera della con-
trattazione divenne l’argine della conflittualità. Il negoziato
come strumento per ricucire continuamente e tenere assieme
l’organizzazione aziendale è entrato nel patrimonio profes-
sionale del management con l’alta conflittualità cui aprì la via
l’autunno del 1969. Il compromesso, la mediazione, il proce-
dere per prova ed errore, l’esplorazione della percorribilità di
soluzioni alternative, tutte le componenti, insomma, dello
strumentario attuale della dirigenza d’impresa si sono affac-
ciate in forma confusa e talvolta parossistica nella fase della
grande turbolenza sindacale. Non è per un caso che i migliori
manager che si sono occupati in quegli anni di personale e di
relazioni col sindacato abbiano potuto mettere a frutto un’e-
sperienza dimostratasi utile in seguito in altre circostanze, in
ambiti operativi diversi.
   Per il sindacato, l’esperienza dell’autunno caldo fu ancora
più contraddittoria e intensa che per l’impresa. In quella
temperie convivevano spinte che andavano in direzioni oppo-

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ste: il globalismo derivante dal senso dell’unificazione sociale
subita dal mondo del lavoro si accompagnava a forme radicali
di decentramento della contrattazione, che si conformavano
sulle specificità delle singole realtà produttive. La matrice – o
lo scenario – comune all’iniziativa sindacale nel suo insieme
era costituita dall’industrialismo: il movimento dell’autunno
caldo non potrebbe essere descritto né compreso se non sullo
sfondo della centralità del sistema industriale nella società e
di una convinzione generalizzata circa il suo potenziale di tra-
sformazione. Certo, si trattava di un industrialismo dai con-
notati spesso immaginari o evocativi, fondato più che altro
sulla convinzione che il cambiamento sociale dovesse proce-
dere linearmente dalla fabbrica alla società. La visione del-
l’industria che si manifestava in quel periodo era soprattutto
quella di una potente leva di riforma sociale, mentre sfuggi-
vano le compatibilità economiche che dovevano essere man-
tenute perché essa potesse funzionare. Non di meno, non po-
chi dei quadri migliori reclutati dal sindacato nell’autunno
caldo avrebbero conservato l’interesse per l’organizzazione
industriale e per i problemi della sua regolazione sociale, al
punto di farne in alcuni casi l’asse portante del loro impegno
professionale. Raccolsero perciò la sfida che veniva dal muta-
mento del sistema produttivo fino a sviluppare caratteri di
negoziatori e operatori che, pur definiti per via originale, ap-
paiono complementari alle attitudini sorte dal lato dell’im-
presa.
   L’autunno caldo cambiò dunque i confini del lavoro e del-
l’impresa e contribuì in misura determinante al declino della
fase fordista in Italia. Bruno Trentin vi lesse, com’è noto, una
tendenziale soppressione delle frontiere fra l’economia e la
politica. L’emancipazione del lavoro diventava – nella sua
prospettiva di ripresa e di aggiornamento delle idee del-
l’«Ordine Nuovo» – una richiesta di potere e di responsabilità.
Questa fu la lettura dell’autunno che propose quando erano
ancora vibranti le sue conseguenze, nel momento in cui pub-
blicò il suo libro Da sfruttati a produttori, nel 1977. Ma su que-

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sta falsariga interpretativa continuò a orientare la sua inter-
pretazione fino alla sua elaborazione più distesa, il saggio in-
titolato La città del lavoro, apparso agli inizi degli anni Novan-
ta. Dal suo punto di vista, l’emancipazione del lavoro signifi-
cava insieme conoscenza, potere, responsabilità, una combi-
nazione di elementi di cui individuava l’origine nella lotta per
il superamento dell’assetto tayloristico e fordistico della fab-
brica che aveva fatto irruzione sulla scena sociale italiana alla
fine degli anni Sessanta. Dunque, una sostanziale linea di
continuità che lega la trasformazione del sistema di fabbrica
fordista agli obiettivi consapevoli del movimento sindacale,
non alla reazione della struttura d’impresa alla spinta conflit-
tuale dei lavoratori.
   Sappiamo oggi che non è andata così, che la fabbrica è cam-
biata non per effetto delle rivendicazioni operaie, ma per un
duplice processo di adattamento, al mercato e alle nuove for-
me flessibili di organizzazione della produzione. Si potrebbe
persino sostenere che in Italia, più che altrove, il superamento
del fordismo sia avvenuto mediante l’abbandono del modello
della grande fabbrica. Un abbandono i cui segnali incomincia-
rono a essere visibili alla metà del decennio Settanta, quando il
movimento sindacale si considerava ancora all’apice della sua
forza organizzata e riteneva di poter modificare la produzione
e gli stessi orientamenti della politica economica attraverso il
negoziato con le gerarchie aziendali e col governo.
   Ma allora il cambiamento era già in corso e gli analisti più
acuti del mondo delle imprese se ne erano accorti. Mi ha
sempre colpito il fatto che Trentin, al termine della lunga in-
troduzione a Da sfruttati e produttori, si soffermasse a lungo su
un libro che ci appare adesso acutamente anticipatore. Mi ri-
ferisco a Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana
(1976) che Giorgio Fuà pubblicò apparentemente in contro-
tendenza col dibattito prevalente sui caratteri dell’industria
italiana. E colpisce anche che fosse proprio la sinistra sinda-
cale a trattare con più considerazione Fuà, le cui tesi non fu-
rono allora ben comprese. Trentin e con lui Elio Giovannini,

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segretario confederale della CGIL, sui Quaderni di Rassegna
sindacale dimostrarono interesse e volontà di discussione verso
Fuà, che pure suscitò in molta parte della sinistra diffidenza e
chiusura.
   Fuà indicava come la politica verso il recupero di flessibilità
delle imprese passasse attraverso la diffusione dei sistemi di
piccola impresa, che attuavano un uso del territorio tale da
allontanarli dalle maggiori concentrazioni industriali. Mostra-
va un sistema produttivo che si radicava negli interstizi, nelle
nicchie, negli spazi che non erano stati toccati dalla grande
mobilitazione industrialista degli anni Cinquanta e Sessanta.
Delineava una mappa della geografia produttiva che affonda-
va le sue radici in un humus territoriale e sociale totalmente
diverso da quello della grande impresa segnata dal conflitto
sindacale e dalla sua continuità. Rilevava il profilo di un’eco-
nomia produttiva dai tratti irriducibilmente provinciali, inas-
similabile alla visione dell’industrialismo che ispirava invece
l’azione del sindacato.
   Trentin scelse di misurarsi con l’analisi di Fuà senza demo-
nizzarla, ma rappresentandola, con un artificio retorico, come
un quadro di ciò che sarebbe successo se il mondo del sinda-
cato e della sinistra non avesse saputo condurre una grande
battaglia di unificazione dell’universo del lavoro, per ricom-
porre contraddizioni che, se lasciate approfondirsi, avrebbero
portato allo scenario tratteggiato dall’economista marchigiano.
   In realtà, al contrario, Fuà coglieva un processo ormai di-
spiegato, che cambiava alla radice la struttura e la conforma-
zione dell’industria inserendovi la presenza sempre più estesa
e ramificata di quella che altri avrebbero chiamato l’«econo-
mia periferica». Il superamento del taylor-fordismo era in at-
to, ma in forme tutt’affatto diverse rispetto a quelle per cui
ancora si stava battendo una parte almeno del movimento
sindacale. Erano invece le forme di una produzione flessibile
e decentrata, dove i ruoli lavorativi erano scarsamente codifica-
ti, le distanze sociali accorciate, il coinvolgimento dei lavora-
tori nella vita aziendale un dato di partenza e un prerequisito.

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A rileggere oggi le prime ricerche economiche e sociologi-
che dedicate a quella trasformazione emerge bene che la ten-
denza era ormai delineata alla metà del decennio Settanta,
all’interno di realtà dove ormai giungeva attutita l’eco delle
grandi manifestazioni sindacali, senza riscontro in microcosmi
dove la vita economica si era riconfigurata e aveva trovato una
nuova strutturazione.
   Credo che sia stata quella la vera risposta che il mondo
della produzione diede al sommovimento dell’autunno caldo.
Una simile considerazione getta una luce differente sull’ul-
timo periodo della stagione dell’alta conflittualità, quella
compresa fra il 1975 e il 1980. La vicenda sindacale continuò
a dipanarsi sul teatro maggiore delle grandi fabbriche, sede di
generosi esperimenti di ricomposizione delle mansioni di la-
voro e di tentativi di colpire il paradigma taylorista nei suoi
fondamenti tecnici. Esperienze che suscitarono per un po’ la
partecipazione dei quadri sindacali e manageriali più solleci-
tati dalla sfida di provare che una diversa organizzazione era
non soltanto possibile, ma addirittura necessaria. Tentativi
che giunsero all’epilogo già alla fine del decennio, quando la
conflittualità industriale tornò alla matrice del rapporto di
forze. Ma non è stato certamente l’autunno del 1980 alla
FIAT a decretare la fine di questa stagione di volontà e di
sforzi generosi, quanto il fatto che s’era ormai consumata del
tutto la valenza universale dell’autunno e quell’entusiasmo
collettivo che l’aveva animato s’era disperso in tanti rivoli che
non erano più destinati a incontrarsi.
   Non so se i protagonisti di quell’epoca, a cominciare da
Trentin, abbiano visto più tardi nell’autunno e nel suo seguito
una grande occasione mancata. Se così fosse, anche questa
constatazione si collocherebbe nel solco delle aspettative tra-
dite del 1919-20. Ma proprio il decennio dell’alta conflittua-
lità sindacale svela come le grandi componenti di quel perio-
do non fossero riuscite a trasformare l’ondata conflittuale in
una forza di trasformazione del paese, con al centro un vasto e
omogeneo mondo del lavoro. L’incontro fra il lavoro, l’impre-

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sa e la politica ipotizzato da chi aveva sperato di mettere in
questione i confini tra le diverse sfere non si realizzò e la so-
cietà italiana uscì da quel tempo più segmentata e frammen-
tata, con cleavages destinati ad approfondirsi fino a rendere
dubbia la stessa tenuta della tessitura unitaria del paese.

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