Il genio di Raffaello Claudio Strinati

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Il genio di Raffaello

Claudio Strinati

     Quando Raffaello arriva a Roma cambia profondamente stile certamente a causa del veloce
arricchimento delle sue esperienze oltre l’insegnamento del Perugino. L’anello di congiunzione tra il
periodo fiorentino e quello romano è senza dubbio costituito dalla Deposizione Borghese. Qui il
peruginismo sembrerebbe scomparso, è già evidente la conoscenza di Michelangelo, l’incomparabile
cromia è ormai del tutto personale, compiuta appare la sintesi tra l’educazione umbra, la cognizione
della maniera di Leonardo, l’intuizione di una nuova forma basata sulla esattezza del disegno e
sull’espressione.
     Il Trasporto di Cristo al Sepolcro è opera nel contempo di dottrina e di spontaneità, denota
conoscenza delle fonti classiche ma è moderna nella costruzione e nel sentimento. Inoltre è
superbamente eseguita e, c’è da ritenere, molto velocemente. Rispetto alle proverbiali indecisioni
leonardesche e rispetto al rovello michelangiolesco, sempre insoddisfatto e sempre conflittuale,
Raffaello ha le carte in regola per essere artista efficace ed efficiente, pronto a soddisfare esigenze della
committenza che abbiano carattere di immediatezza. I ritratti nuziali di Agnolo e Maddalena Doni ne
erano stati esempio preclaro. Dovendo fornire opere di uso pratico e subitaneo, Raffaello aveva creato
due capolavori di impressionante potenza, una sorta di sintesi formidabile e duratura tra il
fiamminghismo prediletto nell’ambiente fiorentino di fine Quattrocento e il leonardismo della
Gioconda, recente e stupenda novità.
     Si era mostrato sensibile all’adulazione figurativa per Fra Bortolomeo (la stessa Deposizione
Borghese ne dipende per qualche aspetto) ma senza porsi nello condizione dell’imitatore. Che, però,
fosse capacissimo di farlo, l’imitatore, l’aveva ampiamente dimostrato negli anni immediatamente
precedenti fino al punto di sembrare un clone del Perugino nel Matrimonio della Vergine di Brera e
nella Crocifissione Mond. Insomma, poteva fare qualunque cosa ed era, nello stesso tempo, del tutto
autonomo e personale ma pur sempre incline, a buon bisogno, a lavorare anche come sommo artigiano,
privo di reale ispirazione ma dominatore assoluto di uno stile.
     E che ci fosse in lui questa attitudine artigianale si capisce bene dal proseguimento della sua
attività dopo la Deposizione Borghese. Di Perugino, a quel punto, parrebbe non restare nulla e, a
giudicare da quello che ci è rimasto, la sua capacità di evolversi ha pochi paragoni nella storia generale
delle arti. Bisogna arrivare alle avanguardie del Novecento per trovare un artista il cui punto di
partenza e quello di arrivo si manifestino con tale distanza. In definitiva la sua carriera dura, almeno
per la storiografia attuale, venti anni. Resta abbastanza statica per i primi sette-otto e poi avanza
vertiginosamente per i successivi dieci, cioè dal 1509 al 1519, dato che ben poco può essere poi detto
sull’attività svolta nei primi mesi del 1520 quando incontrò la morte.
     Dieci anni che, dal solo punto di vista dell’evoluzione stilistica, sono importanti, non tanto perché
il maestro urbinate cambi continuamente quanto perché il salto radicale che compie nella stanza della
Segnatura e che entro certi limiti resta quasi inspiegabile, viene costantemente arricchito e
contraddetto, ingigantito e immiserito dall’invenzione del suo nuovissimo criterio della Scuola con cui
la storiografia successiva, e ancora oggi, ha dovuto fare i conti senza mai poter dare una risposta
esauriente al questito di fondo, chiarissimo ai ricercatori ma oscuro nelle conseguenze ultime.
     È stato notato, e di nuovo magistralmente ribadito da Meyer zur Capellen nel suo monumentale
lavoro monografico, che fino al 1507 Raffaello, giovanissimo ma chiamato “maestro” già nel primo
documento che lo riguarda nell’anno 1500, non sembra avere intorno a sé una bottega nei termini
tradizionali, per come un tale principio di organizzazione del lavoro era stato consolidato in numerosi
centri della pittura e scultura umanistiche.
     Fermo restando il fatto che resta irrisolto il quesito in merito alla filiazione di Raffaello dal
Pinturicchio o dal Perugino o direttamente dal padre Giovanni Santi, tramite Evangelista di Pian di
Meleto o qualcun altro affine, Raffaello appare abbastanza lineare e coerente, discepolo più che
docente, fino alla Deposizione Borghese. È un peruginesco scrupoloso, al massimo livello di qualità
espresso da quell’ambito culturale. È certamente determinato dalla lezione paterna ed è radicato in
quell’ambiente dell’Italia centrale che annovera anche il Pinturicchio tra i suoi massimi esponenti.
Insomma, tra il cadere del Quattrocento e il 1505-1506, Raffaello sembrerebbe uno dei tanti maestri di
acuto profilo, di nobile espressione e di altissima dignità che mantengono la scuola peruginesca al
livello che le competeva.
     Ma, come è noto, questa scuola aveva in sé gli elementi della propria decadenza nell’ostinazione
del Perugino a mantenere le proprie formule figurative le più fisse possibili. Raffaello, dunque, compie
in un paio d’anni un processo storico dentro di sé che annienta in breve tempo la forte componente
artigianale rimasta evidente in lui per parecchi anni specie nel mantenimento scrupoloso dell’apparato
iconografico peruginesco fino ai limiti della copia perfetta, impedendogli in sostanza di divenire a sua
volta capo bottega.
     Così ha qualcosa di prodigioso il suo spostarsi perentoriamente sul versante opposto che scardina
la dimensione artigianale della creazione artistica a favore di una concezione completamente
inaspettata del linguaggio artistico, sulla cui base crea la Galatea della villa di Trastevere e le Sibille di
Santa Maria della Pace per Agostino Chigi e la stanza della Segnatura. Inoltre fa tutto questo con
assoluta e sollecita rapidità, qualificandosi come artista probo e scrupoloso che è in grado di inventare
ed eseguire una sequenza di capolavori in breve lasso di tempo, a differenza di ogni altro artista
operante a Roma in quel momento.
     Dimostra di avere le idee chiarissime, di essere fermamente determinato e di sapere bene come si
lavora. E immediatamente inventa una nuova idea di “bottega” pittorica mettendo a disposizione di
molti un linguaggio che è nato proprio per essere disponibile, comprensibile e divulgabile, ma a cui
nessuno aveva neanche lontanamente pensato fino al 1507-1508.
     Nessuno sa veramente per quale motivo Giulio II, affascinato come raccontano le fonti di fronte
all’affresco dell’Esaltazione dell’Eucarestia, avrebbe cacciato via ogni altro artista e lasciato Raffaello
a dominare il campo. Però si trattava, relativamente all’apparato figurativo da apprestare per le Stanze,
di un impegno sulle prime eminentemente pratico e qualitativamente non primario. In definitiva, infatti,
c’erano da sistemare ambienti che dovevano essere occupati e immediatamente fruiti. Non si trattava di
apprestare un’opera d’arte che nascesse con le stigmate dell’esemplarità come la cappella Sistina o la
basilica di San Pietro. Si trattava di fornire una valida decorazione per un appartamento destinato ad
attività politica, amministrativa, forse anche abitativa. Non era quello un luogo così fatalmente
deputato a stabilire la gloria di un artista.
     Ma Raffaello trasformò un fattore di apparente debolezza in un fattore di forza. Era libero e poteva
creare su temi dottrinali. Li trattò secondo il principio della “Scuola”, la stessa che si apprestava a
mettere in piedi per lavorare. La cosiddetta Disputa sul Santissimo Sacramento, la discussione dei
sapienti dell’ antichità, l’incontro dei Poeti, la firma dei decreti, sono altrettante funzioni esemplificanti
concetti appropriati al luogo: l’ esercizio dell’Arte, della Religione, della Filosofia, della
Giurisprudenza e dell’Amministrazione. Ebbene, nella stanza della Segnatura tutte queste mirabili idee
del Vero, del Bene e del Bello, sono formulate dal maestro in un solo modo, attraverso la formula
figurativa della riunione dei rispettivi esperti. L’idea fu quella di fornire a ogni gruppo una
ambientazione idonea che permettesse alle persone, viventi ed effettivamente operanti in quel contesto,
di riconoscersi autocompiacendosi. La stanza della Segnatura fu la rappresentazione di una società
reale in forme allegoriche e fantasiose. È il lavoro del perfetto “cortegiano” non solo perché fornisce al
potente la lusinga, ma perché elabora un linguaggio che è sintesi in sé. È commedia e tragedia,
magniloquenza e sobrietà, naturalismo e utopia, riconoscibilità assoluta ed enigma. Così il sommo
artigiano è capace di montare uno spettacolo figurativo di altissima qualità e di novità sorprendente nel
giro di pochi mesi, mentre Michelangelo si affatica nella volta sistina in un andirivieni continuo di
esaltazione e di dubbio, come sembra risultare piuttosto chiaro dalle fonti.
     Il grande artigiano, mentre esegue l’opera esemplare della Segnatura, già costruisce una Scuola,
per sé e per i posteri, che mette al lavoro sulla base di criteri certi. La Segnatura è la stanza della novità
dove si discute, si scoprono i personaggi, ci si diverte e si medita, si esplora il muro dipinto con
l’attenzione dello scienziato e la disinvoltura del teatro, dove i dotti hanno molto da dire a commento
delle immagini sotto il doppio profilo aneddotico e speculativo, e il pittore è un demiurgo che inventa
un universo intero.
     Tutto questo era già contenuto nella Deposizione Borghese, ma Raffaello stesso non avrebbe
potuto prevedere gli immediati sviluppi quando si accingeva a consegnare l’opera ad Atalanta Baglioni.
     La pittura che Raffaello fa è essa stessa una Scuola e dunque la capacità didattica vi rifulge
immediatamente. L’opera d’arte che Raffaello ha eseguito è di uso immediato, da un lato, ma ha
l’ambizione di stabilire un metodo prima non esistente, qualcosa che resterà imperitura.
     Qui sta la grande novità di Raffaello rispetto ai coetanei e ai grandi che lo avevano
immediatamente preceduto, compreso Leonardo da Vinci. Si può paragonare in tal senso l’Ultima cena
di Leonardo a Milano con la Scuola di Atene nella stanza della Segnatura. Tra le due opere passano
forse meno di dieci anni, sono vicinissime nel tempo e Raffaello potrebbe aver citato il lavoro di
Leonardo, anche se forse non lo vide mai, in modo criptico perché al centro della Scuola di Atene c’è
veramente Leonardo da Vinci in persona o almeno così la tradizione ci vuole far credere. La
prospettiva dell’Ultima Cena non è dissimile dall’idea del tempio aereo bramantesco della Scuola di
Atene. Cristo al centro dell’Ultima Cena equivale figurativamente al Platone nelle vesti di Leonardo
della Scuola di Atene. Però, comunque li si voglia interpretare, gli Apostoli di Leonardo sono allineati
dietro la tavola, compongono gruppi mirabili, stabiliscono ipotesi di decifrazione su cui si
affaticheranno le menti dei più grandi studiosi e narratori dei secoli a venire.
     I personaggi di Raffaello invece passeggiano e si aggirano in quel singolare spazio che è la Scuola
di filosofia, dove si raggruppano con una idea del tutto simile a quella leonardesca ma, proprio per
questo, ne potrebbe essere la parodia. A Erasmo da Rotterdam l’atteggiamento degli umanisti della
Curia papale sembrò fondamentalmente ridicolo perchè pomposo, retorico e vuoto e la Scuola di Atene
di Raffaello potrebbe essere stata condotta con un senso dell’autoironia molto marcato e non solo per la
calvizie di Bramante in bella evidenza. Mai si era vista una cosa simile. Certo, in apparenza, se ne
erano viste tantissime di situazioni analoghe, ad esempio nel Mantegna, un nume tutelare ancora
vivente e autorevole quando Raffaello mise mano alla Segnatura. Ma, appunto, è incomparabile in
Raffaello l’invenzione del “genere” pittorico nuovo. In quale “genere” rientri il Mantegna è
inequivocabile perché comprovato da pochi ma certi documenti. È la “rappresentazione all’Antica” in
cui l’opera dipinta rientra nella generale idea della rievocazione, sia pur fantastica, di un mondo remoto
per definizione ritenuto irrecuperabile ma esemplare, immobilizzato perchè non più riproponibile ma
immaginato sotto l’aspetto letterario, deducendosene che la realtà della storia sia, appunto,
comprensibile solo attraverso la metafora scritta.
     Ma un conto è la “Camera Picta” del castello di San Giorgio a Mantova, che è l’equivalente di una
declamazione, un conto è la Scuola di Atene che è l’equivalente di una conversazione. La classicità di
Raffaello non è quella della fonte letteraria considerata deposito di ogni cognizione, la classicità di
Raffaello è il prodotto migliore di una società che vuole autocelebrarsi considerandosi perfettamente
compiuta ma con un senso dell’attualità molto più forte di quello della rievocazione.
C’era bisogno di chi fosse in grado di rappresentarla quella società, e fu Raffaello.
     La contrapposizione Raffaello-Michelangelo non è soltanto un’invenzione degli antichi per
scrivere la storia sempre in termini di esemplarità semplificata. È proprio vera. Michelangelo non
ragiona mai in termini di adesione alla concretezza storica del proprio tempo. Pensa sempre “sub specie
aeternitatis”. Raffaello è l’esatto opposto. È il cronista del suo tempo, sia pure in veste umanistica e
l’opera d’arte che fa è quella che serve al momento.
     Il suo Baldassarre Castiglione sarà una presenza in casa ed è dipinto per la moglie e per i figli che
lo hanno davanti agli occhi; il Ritratto di Leone X con i cardinali serve per un pranzo di nozze non
potendo il papa presenziare in persona. Gli affreschi della Farnesina di Agostino Chigi servono anche
loro per le nozze che si celebreranno nella villa, officiate da Leone X. La Madonna del velo (forse
quella a Chantilly) e il Giulio II sono appesi in Santa Maria del Popolo probabilmente per una
cerimonia e non hanno un precisa collocazione stabile documentata in chiesa! La Sacra famiglia di
Francesco I e il San Michele arcangelo sono regali per Parigi alla casa reale per consolidare rapporti
che si stanno evolvendo tra Curia e Francia e che richiedono anche donativi di alto profilo. La
Fornarina fu forse anch’essa un quadro nuziale. Le pale d’altare che il maestro fa sono in larghissima
maggioranza per destinazioni fuori Roma (senza tener conto qui di quelle giovanili, tutte per Perugia,
come la pala Oddi, la pala Colonna, la pala Ansidei) onde soddisfare esigenze immediate di pubbliche
relazioni, così per la Santa Cecilia di Bologna, per la Madonna Sistina a Piacenza, per lo Spasimo di
Sicilia, per la Trasfigurazione destinata a Narbonne, per la Visitazione dell’Aquila o per
l’Incoronazione delle Monache di Monteluce a Narni. Gli stessi cartoni per gli arazzi della cappella
Sistina sono un lavoro strumentale per i tessitori! Persino la pala dell’Ara Coeli detta la Madonna di
Foligno ha una storia sconcertante perché stette pochissimo sull’altare e probabilmente fu fatta per una
circostanza specifica data l’autorevolezza del committente, Sigismondo de’ Conti. A Roma le pale
d’altare di Raffaello non servono e non le fa.
     Le opere che Raffaello fa sono opere che servono, e debbono essere eseguite rapidamente per
mantenere legami di utile collaborazioni tra l’ambiente della Curia e personalità di riferimento in vari
luoghi d’Italia e Francia.
     Raffaello è l’artista disponibile per antonomasia e il suo stile è “disponibile” perché perfezionato
esclusivamente su modelli.
     Non si conosce quasi mai con documentata precisione la genesi di tanti quadri celeberrimi di
Raffaello, dalla Madonna della seggiola, alla Madonna del granduca, alla Madonna dei garofani, da
tanti ritratti a tanti piccoli e meno piccoli quadri, specie di Madonne con il Bambino e san Giovannino
o altri personaggi della Sacra Famiglia, che gli si attribuiscono sempre sul filo dell’incertezza per quel
che riguarda l’assoluta autografia.
     Rientra in questa casistica il fatto che ogni tanto si trovano nella produzione di Raffaello opere
sacre su tela, cosa rarissima per quei tempi, ma presumibilmente dovuta al fatto che si trattava di quadri
forniti occasionalmente per cerimonie, manifestazioni o simili.
     È possibile che il suo grande successo sia stato dovuto a questo: era veloce, lavorava
preferibilmente per circostanze occasionali ma la sua esecuzione era perfetta, accuratissima, sempre
inventiva pur in un orizzonte creativo alquanto limitato.
     Si potrebbe definire artista dell’alta mondanità: cene, matrimoni, riunioni, donativi… È possibile,
allora, che abbia inventato un vero e proprio mercato d’arte, come, del resto, è provato dallo
straordinario sviluppo delle stampe di traduzione da lui impresso alla sua Scuola. È possibile che alcuni
quadri di cui non si riesce a stabilire la commissione fossero nati per essere venduti su un mercato
certamente ancora ristretto e, in tal senso, Raffaello potrebbe essere stato il primo a lavorare senza
committenza diretta. Del resto il suo grande protettore, al di là della figura del Bramante, fu sempre
Agostino Chigi, l’uomo più ricco e influente sul piano finanziario della Roma del tempo e interessato
concretamente alla produzione artistica di alto ma anche medio livello che l’urbinate, forte della sua
capacità creativa e organizzativa, avrebbe potuto quasi monopolizzare.
     Del resto l’incunabolo di tutto questo è proprio nella sublime e inattesa bellezza della Deposizione
Borghese, questa sì una vera tradizionale commissione, intorno alla quale ruota tutta la parabola
successiva, almeno fino al 1515, della carriera di Raffaello.
     Dal 1515 in poi, infatti, è evidente come il lavoro dell’artista cambi. Raffaello diviene architetto,
impresario, soprintendente alle Antichità, curatore di spettacoli e manifestazioni, e quindi tende a
realizzare la premessa che lo aveva portato a trasformare l’attività dell’artista d’occasione in attività di
artista dominante.
     Aveva inventato uno stile che poteva essere ampiamente ripetuto e sviluppato da una Scuola
competente e questo spiega l’impossibilità assoluta, per un cospicuo gruppo di opere, di dirimere
l’attribuzione tra la certezza evidente della mano del Maestro e la cosiddetta “collaborazione”.
     Negli ultimi cinque anni non si capirà mai bene dove Raffaello metta concretamente mano. Non è
sufficiente la diatriba, costante nella storiografia, tra Giulio Romano, Giovan Francesco Penni,
Polidoro da Caravaggio, Perin del Vaga, Raffaellino del Colle, Vincenzo Tamagni e pochi altri. La
miriade di varianti che si riscontra in breve lasso di tempo su opere sovente di alta qualità fa
comprendere il metodo di “sparizione” di Raffaello, già a partire dal 1512-1513. Basti pensare a
quell’enigma insolubile che è la stanza dell’Incendio di Borgo, nel contempo somma e vile,
sbalorditiva per acume e novità e, anche, per mediocrità e banalità esasperante.
     Ma nei cinque-sei anni precedenti il 1515 il legame tra la produzione acclarata di Raffaello e la
Deposizione Borghese resta forte e chiaro ed è possibile vedere le conseguenze che egli trarrà, anche se
inizialmente con scarsa consapevolezza, dal suo stesso capolavoro.
     La Deposizione Borghese, infatti, mette da parte il peruginismo dal punto di vista stilistico, ma non
è completamente separata dal mondo peruginesco. Niente vi compare che possa giustificare l’ipotesi di
una immissione nel tessuto pittorico da parte di Raffaello di componenti che non siano di carattere
doloroso, meditativo, etico.
     Il primo Raffaello era stato, a ben vedere, sorprendente per nobiltà d’animo e tornitura della forma.
Del Perugino vede sempre un aspetto che nel Perugino stesso c’era ma era rimasto in ombra per tanto
tempo, quello di un approccio duro e aspro alla materia pittorica presentata, però, sempre con il
massimo della raffinatezza e della cromia compatta. Un’immagine strana qual’è quella raffaellesca del
Cristo benedicente di Bergamo giustifica pienamente il suo capolavoro giovanile dello Stendardo di
Città di Castello e giustifica pienamente la micrografia del dittico del Sogno del cavaliere e delle
Grazie. La fonte è nel Perugino del Cambio, vera enciclopedia della forma peruginesca, ma la grafia
raffaellesca è potente e antiedonistica. Non è lecito tracciare un’ipotesi di decifrazione in chiave
sentimentale per un prodotto figurativo di primo Cinquecento, ma è suggestiva l’ipotesi che Raffaello
pensi e conduca tutto quello che fa nei primissimi anni in chiave melanconica, una chiave di lettura che
non compete alla quiete peruginesca. Non è illecito vedere lo Stendardo di Città di Castello alla luce
dell’idea di un’esplicita volontà di emancipazione di un giovane che nasce in un ambiente
profondamente consapevole e orgoglioso di sé. C’è un paradosso latente perché Raffaello, giunto al
tempo della Segnatura, è già pronto per la messa a punto di nuovi prototipi levigati e armoniosi cui era
stato educato fin dai primordi. Certo c’erano state, subito prima della Deposizione, l’esperienza
leonardesca, l’idea della costruzione piramidale del quadro, la conferma che solidità della forma ed
estenuata dolcezza delle espressioni possano convivere in una sorta di “poetica dello sguardo”, per cui
il pittore può costringerci a guardare il quadro facendo sì che i personaggi si guardino l’uno con l’altro
a fare da guida all’osservazione del fruitore, come nel caso, veramente da manuale, della Bella
giardiniera, dove chi osserva il dipinto deve osservarlo secondo la direzione degli sguardi tracciata da
Raffaello stesso e non può non compiacersi della netta compattezza del quadro bellissimo. Ancora,
nella Bella giardiniera è presente l’idea peruginesca iniziale, la circoscrizione della forma così come la
si nota in un’opera presumibilmente del tutto giovanile come il Cristo benedicente di Bergamo. Ma i
“dolci nodi” di petrarchesca memoria emergono in tutta la loro suggestione in un lavoro come la Bella
giardiniera che assimila il più alto portato fiorentino e tuttavia gli studi per la Deposizione Borghese
fanno vedere abbastanza bene come la forma esca dalla struttura peruginesca per approdare a un
aspetto totalmente nuovo. Certo la predella, con lo strano equilibrio tra reminiscenze esplicitamente
pinturicchiesche e citazioni, neanche troppo criptiche, michelangiolesche, denota bene la cultura di un
artista che non avrebbe mai potuto credere a una possibile contrapposizione tra Avanguardia e
Tradizione. La grandezza di Raffaello, nel suo passaggio a Roma, consiste in questo. Capisce che non
esiste propriamente un passato superato e da contestare e neppure un approdo così perentorio nella
modernità che cancelli il pregresso incombente, come Michelangelo certo avrebbe potuto pensare per
la sua opera rispetto al Botticelli. La scomparsa dell’influsso peruginesco consiste, per Raffaello, nella
conferma della sua specifica qualità, affermatasi subito, fin da giovanissimo, e poi immessa troppo
presto nell’esigenza di imitare e copiare. Ma l’urbinate non era nato così, anche se aveva forse il più
grande talento di imitatore e improvvisatore che si sia mai visto. Del Perugino gli rimase sempre quella
singolare “crudeltà” che il grande maestro umbro non avrebbe mai voluto ammettere.
     La “crudeltà” peruginesca, che al Perugino prima procurò successi strepitosi e poi una altrettanta
dura condanna per aver mantenuto immobile il proprio stile al mutare dei tempi e delle esigenze,
restava sedimentata nella forma del Raffaello “romano”, già in quella sorta di “prova generale”
nell’affresco della chiesa del monastero di San Severo a Perugia che è veramente da porre un attimo
prima della Disputa sul Santissimo Sacramento e ancora mantiene il sedimento di Fra Bartolomeo tanto
importante specie nell’incompiuta ed emblematica pala Dei per Santo Spirito a Firenze, anche se non
sempre messo nella giusta luce.
     Ma quando Raffaello mette mano alla fatale stanza di Eliodoro non dimentica il principio supremo
del suo diventare “romano”: non esiste contrapposizione tra Avanguardia e Tradizione e, nell’opera
moderna e rivoluzionaria per antonomasia, la Liberazione di san Pietro dal carcere, che resterà la
scuola del mondo fino al Caravaggio e oltre, l’angelo che libera san Pietro e lo porta per mano verso la
luce è peruginesco.
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