LA RESPONSABILITÀ MEDICA NELLE INFEZIONI OSPEDALIERE

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LA RESPONSABILITÀ MEDICA NELLE
INFEZIONI OSPEDALIERE

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INDICE

01
    Definizione di Infezione Ospedaliera:fonti
    scientifiche e giuridiche

02
    Fenomeno dell’Antibiotico-Resistenza:
    cause, effetti e numeri

03
    Responsabilità medica e prova liberatoria:
    Giurisprudenza in materia di I.O.

04
    Conclusioni

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Definizione di Infezione Ospedaliera: fonti scientifiche e giuridiche

                Studi scientifici effettuati in tutto il mondo documentano come
      le infezioni ospedaliere o nosocomiali costituiscano oggi una delle mag-
      giori cause di morbilità e di mortalità; la frequenza di tali infezioni rap-
      presenta un indicatore importante della qualità del servizio sanitario
      erogato in termini di efficienza e costi pubblici aggiuntivi, che spesso
      risultano ingenti ed evitabili.
                I fattori che possono contribuire ad incidere sulla frequenza delle
      infezioni nosocomiali sono molteplici: il fatto che i pazienti ospedalizzati
      siano spesso immunodepressi e sottoposti ad accertamenti costanti e trat-
      tamenti invasivi; le procedure di cura e l’ambiente ospedaliero; l’utilizzo
      estensivo degli antibiotici che facilita l’insorgere di resistenze; il costante
      cambiamento nell’attuale pratica medica che comporta nuovi rischi e vei-
      coli per lo sviluppo delle infezioni.

               Il primo profilo problematico che emerge è quello inerente
      la loro definizione, che assume specifica rilevanza sul piano medico
      e giuridico: in generale le infezioni ospedaliere (da ora I.O.) sono quelle
      acquisite durante la degenza nella struttura ospedaliera e che non erano
      presenti nel paziente, o in fase di incubazione, al momento dell’ingresso
      o del ricovero, che deve essere avvenuto per causa diversa dall’infezione,
      insorte durante la degenza o successivamente alle dimissioni.

                 In modo più appropriato rispetto all’evoluzione del sistema
      complessivo di assistenza sanitaria, oggi si parla, nel linguaggio scientifico
      e anche giuridico, di Infezioni Correlate all’Assistenza (da ora I.C.A.),
      una terminologia che tiene conto della necessità di ampliare il concetto
      di infezione ospedaliera a quello di infezioni correlate all’assistenza sani-
      taria e sociosanitaria. Negli ultimi anni, infatti, l’assistenza sanitaria ha
      subito profondi cambiamenti, mentre prima gli ospedali erano il luogo
      in cui si svolgeva la maggior parte degli interventi assistenziali in seguito,
      a partire dagli anni Novanta, sono aumentati sia i pazienti ricoverati in
      ospedale in gravi condizioni, quindi a maggiore rischio di infezioni ospe-

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daliere, sia i luoghi di cura extra-ospedalieri come le residenze sanitarie
assistite per anziani, l’assistenza domiciliare e ambulatoriale.

         L’utilizzo del termine I.O. e la sua inclusione nella “macroarea”
delle ICA, deve tenere conto del caso concreto e della genesi dell’infe-
zione, pur potendo ricondursi ad unico fenomeno generale, che sul piano
definitorio ha risentito dell’evoluzione scientifica e giurisprudenziale.

          Per definire, individuare e classificare le I.O. si è fatto riferimento
alla letteratura scientifica internazionale (in particolare quella del Centers
for Disease Control and Prevention di Atlanta) e nazionale sul tema, alle
circolari del Ministero della Salute (52/85 e 8/88), alla normativa (da
ultimo la Legge Gelli-Bianco 24/2017), alla giurisprudenza di legittimità
e di merito in materia che, a tal proposito, richiama la più autorevole e
riconosciuta letteratura scientifica sul punto.

  Ŧ Possono definirsi I.C.A. quelle i cui segni emergono:
  Ŧ Almeno 48 ore dopo il ricovero in ospedale;
  Ŧ Fino a 72 ore dopo la dimissione;
  Ŧ Fino a 30 gironi dopo un intervento chirurgico;
  Ŧ Fino a 1 anno in caso di impianto permanente.

         In ambienti sanitari (ad esempio cliniche di lungo degenza o RSA)
dove il paziente viene ricoverato per motivi diversi dalla causa infettiva.

         Secondo i C.D.C. di Atlanta (acronimo di Centers for Disease
Control and Prevention, importante organismo di controllo sulla sanità
pubblica degli Stati Uniti d’America, un’agenzia federale degli Stati Uniti,
facente parte del Dipartimento della salute e dei servizi umani), sono da
considerare infezioni correlate all’assistenza (I.C.A.) quelle i cui sintomi e
segni sono insorti a partire dal terzo giorno di ricovero in poi, dovendosi
reputare “esterne” quelle presenti fin dall’ingresso in ospedale, cioè insorte
da due giorni prima del ricovero e fino ai primi due giorni di ricovero.

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         L’European Centre for Disease Prevention and Control
ha definito le infezioni del sito chirurgico (SSI-Surgical Site Infection)
come infezioni postoperatorie che si verificano 48 ore dopo l’intervento
ed entro 30 giorni, o entro un anno in caso di impianto permanente di
dispositivo.

          Per questi ed altri motivi sono da considerarsi infezioni correlate
all’assistenza, e dunque suscettibili di richiesta di risarcimento danni per
“malasanità”, gli episodi con insorgenza dei primi sintomi e primi segni di
infezione successivi al terzo giorno di ricovero ospedaliero.

          Tale definizione è stabilita principalmente a fini epidemiologici
ma assume anche rilevanti conseguenze sia in ambito scientifico, ai fini
della gestione clinica dell’infezione, sia in ambito giuridico ai fini dell’at-
tribuzione della responsabilità medica civile che, se non risulta agevole
rispetto al singolo operatore, risulta molto più percorribile nei confronti
della struttura sanitaria.

         Pertanto, dall’analisi della letteratura scientifica si evince che
un’infezione, per poter essere considerata associata all’assistenza sani-
taria, deve insorgere dopo almeno 48 ore di ricovero e non deve essere
presente (neanche in fase di incubazione) al momento dell’ingresso in
ospedale.

          Questo però non vuol dire che le ICA (Infezione correlata all’as-
sistenza, definita come “una condizione sistemica o localizzata dovuta ad
una reazione avversa alla presenza di un agente/i patogeno/i o della sua
tossina/e. Non devono esserci evidenze che l’infezione fosse presente o in
incubazione al momento dell’ammissione”) insorgono esclusivamente
durante la degenza, infatti, potrebbe accadere che l’insorgenza avvenga a
distanza di molti giorni dal ricovero, magari quando il paziente è tornato
a casa, questo è il caso delle infezioni della ferita chirurgica (cd. infezioni
del sito chirurgico).
          La c.d. Legge Gelli-Bianco, n. 24 del 2017, ha attuato una significa-

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tiva riforma in materia di responsabilità medico-legale anche nei casi di infe-
zioni ospedaliere ponendo l’accento, in particolare, sulla difficoltà di indivi-
duare gli operatori sanitari ai quali attribuire la responsabilità per l’infezione
contratta durante la degenza presso una struttura sanitaria.

          Al fine della risoluzione di tale problematica, la succitata legge ha
riconosciuto l’esistenza, già ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza, di
una responsabilità di tipo contrattuale in capo alla struttura, alla quale potrà
esser rivolta la richiesta risarcitoria, e, conseguentemente, la responsabilità del
professionista è divenuta residuale nonchè di natura extracontrattuale, eviden-
ziando, inoltre, l’importante ruolo del “rischio clinico”, da arginare mediante
l’adozione di specifiche procedure volte a evitare l’insorgenza delle I.O. che
dovrebbero così divenire, almeno in linea teorica, maggiormente “prevedibili”
e “prevenibili”.

         Se è vero che di solito sono considerate “nosocomiali” le infe-
zioni che si manifestano più di 48 ore dopo l’ingresso o 72 ore dopo le
dimissioni va precisato che molto dipende anche dal caso concreto
e dal relativo “tempo di incubazione” della singola infezione che
assume quindi rilievo come parametro per individuare/definire le I.O.
(o più in generale le ICA).

          A tal proposito la letteratura scientifica, sia italiana che internazio-
nale, le circolari ministeriali sul punto, la dottrina giuridica e la giurispru-
denza in materia hanno individuato dei limiti e dei parametri temporali, più
o meno precisi, per definire le infezioni ospedaliere o nosocomiali: “48 ore
dal ricovero e fino a 3 giorni dopo le dimissioni.”

           In realtà il secondo parametro, quello “in uscita” (tempo dopo le
dimissioni del paziente), finisce per risultare necessariamente molto più
aperto e ampio rispetto al parametro utilizzato “in entrata” (tempo dopo il
ricovero), in quanto collegato al “tempo di incubazione” della specifica infe-
zione, che può variare in base al caso concreto, e che assume rilievo ai fini
giuridici.

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         Le infezioni acquisite in ospedale sono genericamente conosciute
come “infezioni contratte a causa del ricovero” in una struttura sanitaria e
la Circolare del Ministero della Sanità n. 52/1985 chiarisce che trattasi
di “un’infezione di pazienti ospedalizzati, non presente né in incubazione
al momento dell’ingresso in ospedale, comprese le infezioni successive alla
dimissione, ma riferibili per tempo di incubazione al ricovero.”

          Nel definire le I.O. (in senso più ampio le ICA), si fa riferi-
mento, infatti, a quelle non manifeste clinicamente né in incubazione al
momento dell’ingresso e che si rendono evidenti dopo 48 ore o più dal
ricovero, nonché quelle successive alla dimissione, ma causalmente rife-
ribili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmis-
sione al ricovero medesimo, tale ultima tipologia rappresenta una quota
sostanziosa delle I.O., che soprattutto concerne l’infezione di ferite chi-
rurgiche riscontrabile in una percentuale oscillante dal 19 al 66%.

          Caratteristica prioritaria risulta, quindi, che l’infezione debba
essere cronologicamente riconducibile ad un ricovero anche se, da un
punto di vista causale, assume maggiore rilevanza la tipologia del pato-
geno interessato, comprendendo il termine I.O. varie entità nosologiche.
          Il fatto che l’infezione si sia manifestata dopo la dimissione, non
esclude la sua origine ospedaliera come risulta dalla definizione di infe-
zione riportata dallo stesso Istituto Superiore di Sanità: “Si definiscono
così infatti le infezioni sorte durante il ricovero in ospedale, o dopo le
dimissioni del paziente, che al momento dell’ingresso non erano manifeste
clinicamente né erano in incubazione…”. (Tribunale di Siena, sentenza
n.1199/2017)
          Il termine infezione Ospedaliera o nosocomiale comprende varie
entità nosocologiche e segnatamente infezioni insorte nel corso di un rico-
vero ospedaliero, non manifeste clinicamente né in incubazione al momento
dell’ingresso e che si rendono evidenti 48 ore o più dal ricovero e le infezioni
successive alla dimissione, ma casualmente riferibili, per tempo di incuba-
zione, agente eziologico e modalità di trasmissione, al ricovero medesimo.
(Corte d’Appello di Catanzaro, sentenza n.1446/2018)

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          Per infezione acquisita in Ospedale si definisce un’infezione con-
tratta durante il ricovero in ospedale, che non era manifestata clinicamente
né in incubazione al momento dell’ammissione, ma che compare durante
o dopo il ricovero e da questa è determinata (Circolare Ministero Sanità
n.52/1985). Più recentemente, per I.O. si intende un campo più vasto
all’interno delle Infezioni Correlate all’Assistenza (I.C.A.) che include
tutte le infezioni riconducibili a tutti i momenti assistenziali della pratica
clinica, anche non strettamente ospedalieri, infezioni che per essere definite
tali, devono essere insorte in un paziente ricoverato nell’ambito della rete
di sorveglianza che al momento dell’ammissione al ricovero non presentava
segni di una infezione o di una sua incubazione o l’agente eziologico e le
modalità di trasmissione, nonché il periodo di incubazione, devono essere
compatibili con l’intervallo di tempo intercorso tra l’esposizione all’agente
responsabile e la comparsa della malattia. (Tribunale di Palermo, sen-
tenza n.5124/2017).

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Fenomeno dell’Antibiotico-Resistenza: cause, effetti e numeri
               Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, strettamente connesso
      al tema delle infezioni ospedaliere, è determinato da molteplici fattori,
      in particolare l’uso continuo e inappropriato di antibiotici, ha favorito la
      diffusione di ceppi resistenti, spesso correlate all’assistenza sanitaria.

               L’avvento e l’impiego degli antibiotici ha avuto una portata
      rivoluzionaria per la medicina moderna nelle modalità di approccio al
      trattamento e alla prevenzione delle infezioni, tuttavia, recentemente, il
      fenomeno dell’antibiotico-resistenza (AMR, Antimicrobial resistance) è
      aumentato purtroppo in maniera considerevole, impattando sulla sanità
      pubblica in maniera devastante, variando in base allo specifico agente
      patogeno, al singolo antibiotico e/o all’area geografica.

               L’OMS, in occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità del
      2015, ha adottato il Piano d’Azione Globale (GAP) per contrastare la resi-
      stenza antimicrobica fissando cinque obiettivi strategici finalizzati a:

               • migliorare i livelli di consapevolezza attraverso
                 informazione ed educazione efficaci rivolti al per-
                 sonale sanitario e alla popolazione generale;
               • rafforzare le attività di sorveglianza;
               • migliorare la prevenzione e il controllo delle infezioni;
               • ottimizzare l’uso degli antimicrobici nel
                 campo della salute umana e animale;
               • sostenere ricerca e innovazione.

               A tal proposito l’Oms, a seguito dell’elaborazione dei dati dispo-
      nibili, ha ipotizzato uno scenario drammatico: entro il 2050 la prima
      causa di morte saranno le infezioni da germi resistenti con un numero di
      vite perdute, 10 milioni, superiori alle morti che il cancro causa attual-
      mente. In Europa si prevedono 392.000 morti e 120mila in Italia, che
      già oggi con 10mila decessi l’anno è la nazione più colpita assieme alla
      Grecia.

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          I numeri dell’Antibiotico resistenza:
          sono 700mila i decessi nel mondo causati ogni anno da batteri
resistenti agli antibiotici, 33mila in Europa e 10mila in Italia, che registra
la più alta mortalità per infezioni antibiotico resistenti, concausa di altri
49mila decessi;

         Ŧ l’Oms prevede che entro il 2050 la prima causa di morte
           saranno le infezioni da antibiotico resistenza con 10 milioni
           di vite perdute nel mondo, superiori alle attuali morti per
           cancro;
         Ŧ secondo i dati del Centro Europeo per il Controllo delle
           Malattie (Ecdc) e dell’European Antimicrobial Resistance
           Surveillance Network (Ears-Nest), le persone che potreb-
           bero perdere la vita entro il 2050 in Europa sono 392mila e
           120mila in Italia;
         Ŧ solo il 50% delle infezioni sarebbero prevenibili, per il
           restante, ammessa la capacità preventiva, servono nuovi far-
           maci;
         Ŧ grazie a nuovi antibiotici si potrebbe ridurre di un
           terzo la mortalità salvando già oggi, solo in Ita-
           lia, 3mila vite l’anno. Ma sono solo 12 al mondo le
           nuove molecole in fase avanzata di sviluppo clinico.

          I risultati del primo rapporto nazionale dedicato all’AMR,
pubblicato nel novembre 2019, hanno evidenziato come, nel corso del
2018, le proporzioni di resistenza delle otto specie batteriche responsa-
bili di infezioni gravi in ospedale (Staphylococcus aureus, Streptococcus
pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli,
Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter spp.) alle
principali classi di antibiotici continuano a mantenersi più alte in Italia
rispetto alla media europea, ma complessivamente si è osservato un anda-
mento in calo rispetto agli anni precedenti. In particolare, la resistenza
agli antibiotici carbapenemi rimane comunque a livelli molto elevati
in isolati di Acinetobacter spp. (82%), Klebsiella pneumoniae (30%) e

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Pseudomonas aeruginosa (16%), mentre tra gli isolati di Escherichia coli
si riscontrano livelli elevati di resistenza alle cefalosporine di terza gene-
razione (29%) e ai fluorochinoloni (42%). Oltre un terzo degli isolati
di Staphylococcus aureus (34%) erano resistenti alla meticillina (MRSA),
mentre incrementi significativi si sono riscontrati nella percentuale di iso-
lati di Enterococcus faecium resistenti alla vancomicina (19%). In modo
preoccupante, alcuni tipi di batteri mostrano profili di resistenza multi-
pla, come per esempio nel 76% degli isolati di Acinetobacter spp., il 33%
degli isolati di K. pneumoniae, il 15% degli isolati di P. aeruginosa e l’11%
degli isolati di E. coli.

          Quando gli antibiotici sono utilizzati in maniera non corretta
(rispetto alle dosi, al numero di somministrazioni, ai tempi necessari per la
guarigione), i batteri possono adattarsi agli stessi e sviluppare una resistenza
agli antibiotici (c.d. antibiotico-resistenza), spesso deve essere studiata la
combinazione di più antibiotici o deve essere scelto l’antibiotico più adatto
alla terapia di quel singolo caso, spetta al medico decidere la terapia più
idonea, in base a dettagliate informazioni raccolte. (Corte d’Appello di
Catanzaro, sentenza n.100/2019).

         L’antibiotico resistenza, inoltre, è una caratteristica spesso fre-
quente di questi batteri, specie nelle cosiddette infezioni nosocomiali, costi-
tuendo un problema da non sottovalutare; pertanto la corretta scelta tera-
peutica deve basarsi necessariamente sull’antibiogramma. (Tribunale di
Latina, sentenza n. 1757/2020)

          Il Ministero della Sanità, al fine di uniformare l’Italia alla maggior
parte dei paesi europei, con circolare n. 52 del 20/12/1985 e successiva-
mente con circolare n. 8 del 30/01/1988, aventi per oggetto la lotta alle
Infezioni Ospedaliere, ha recepito in pieno le raccomandazioni europee
ufficializzando il problema ed indicando la composizione di massima del
Comitato per le I.O. (CIO), nonchè alcuni provvedimenti organizzativi
da attuare in ciascun presidio ospedaliero. Ogni anno, in Italia, si verificano
dalle 450.000 alle 750.000 infezioni causate da germi responsabili delle

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più diffuse e più gravi complicanze durante la degenza ospedaliera, que-
ste patologie hanno una maggiore incidenza nei reparti di Terapia inten-
siva (21,4%), nei reparti di Medicina (17,3%) e nei reparti di Chirurgia
(10,8%).

          Secondo l’Ecdc, circa 1 paziente su 15 ogni giorno in Italia con-
trae un’infezione durante un ricovero in ospedale ma quello che emerge in
maniera altrettanto evidente dallo studio del Centro Europeo per le Malat-
tie infettive (Ecdc) è che oggi in Italia la probabilità di contrarre infezioni
durante un ricovero ospedaliero è del 6%, con 530 mila casi ogni anno: dati
che pongono l’Italia all’ultimo posto tra tutti i Paesi in Europa. In Italia si
stimano circa 7.800 casi di decessi all’anno per infezioni acquisite nei noso-
comi, pari al doppio delle morti legate agli incidenti stradali. Le autorità
sanitarie hanno adottato alcuni provvedimenti al fine di fronteggiare il pro-
blema: le succitate circolari n. 52/1985 e n. 8/1988, hanno previsto l’isti-
tuzione del Comitato di controllo, organismo intra ospedaliero deputato
alla stesura, alla conduzione ed al controllo dei progetti finalizzati alla ridu-
zione dell’incidenza delle infezioni ospedaliere, ed altre disposizioni, sia di
carattere generale per la creazione di un sistema di Clinical Risk Manage-
ment, sia più specifiche a livello locale come, ad esempio, i piani regionale
per la prevenzione delle malattie infettive.

          I dati della mortalità causata dalle infezioni ospedaliere sono
molto preoccupanti: si è passati dai 18.668 decessi del 2003 a 49.301 del
2016, l’Italia conta il 30% di tutte le morti per sepsi nei 28 Paesi Ue (Rap-
porto Osservasalute 2018). Dimostrazione che molto di più deve essere
fatto dalle Autorità sanitarie di questo Paese anche quali Linee Guida che
ogni Azienda Ospedaliera debba rispettare.

         Secondo la definizione del National Nosocomial Infection Surveil-
lance System (NNIS), per infezione del sito chirurgico (SSI, surgical site
infection) si intende un’infezione che si verifica entro 30 giorni dall’in-
tervento chirurgico o entro 1 anno se in seguito alla procedura chirurgica
viene lasciato in situ un impianto, ovvero un corpo estraneo impiantabile,

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di origine non umana.
          La locuzione “infezione del sito chirurgico” (SSI, surgical site
infection) è stata introdotta nel vocabolario medico nel 1992 per sostitu-
ire quella precedente di “infezione della ferita chirurgica.”

           Tali infezioni sono estremamente eterogenee, rendendo dunque
difficile una determinazione precisa della loro epidemiologia. La loro
incidenza, infatti, varia in maniera considerevole in funzione non sol-
tanto del tipo di intervento, ma anche dell’ospedale, del paziente e del
chirurgo, nonostante ciò, grazie al sistema di sorveglianza epidemiolo-
gica in atto negli Stati Uniti da parte dei Centers for Diseases Control
National Nosocomial Infection Surveillance (CDC NNIS) sono disponi-
bili, al riguardo, molte informazioni. Le SSI occupano, nell’ambito delle
infezioni nosocomiali, il terzo posto per ordine di frequenza, costituendo
il 14,16% di tutte le infezioni osservate nei pazienti ospedalizzati ed il
38% di quelle che si osservano nei pazienti chirurgici. Negli Stati Uniti,
le SSI si verificano nel 2-5% dei pazienti sottoposti ad interventi chirur-
gici e quindi, valutando che ammonta all’incirca a 15 milioni il numero
di interventi/anno, si stima che le SSI risultano pari a 300.000-500.000
casi per anno. In Europa, alcuni dati epidemiologici confermano che
l’incidenza delle SSI può raggiungere valori anche del 20%, ma che tale
incidenza dipende molto dal tipo di chirurgia, dai criteri di sorveglianza
utilizzati e dalla qualità dei dati raccolti. I dati europei sottolineano l’e-
videnza che l’aumentato numero di procedure chirurgiche mini-invasive
ha di fatto ridotto il numero di SSI.

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Responsabilità medica e prova liberatoria: Giurisprudenza in
materia di I.O.
               Giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione è orien-
      tata, ormai da tempo, nel senso di richiedere al paziente la sola dimostra-
      zione di avere avuto un contatto con una determinata struttura sanitaria
      per un trattamento astrattamente idoneo a determinare un’infezione
      nosocomiale, o più in generale un’infezione correlata all’assistenza, ed
      i suoi postumi e la prova del danno in seguito alla permanenza in quella
      determinata struttura.

                 Alla struttura sanitaria spetta, invece, dimostrare la diligenza del
        suo operato e dei propri operatori, la speciale difficoltà dell’intervento,
        l’imprevedibilità di un determinato evento e che questo si sia verificato
        per cause di forza maggiore, indipendenti dal suo comportamento ovvero
        la mancanza di nesso di causa tra evento ed operato dell’Ospedale/strut-
        tura sanitaria.

                   Da segnalare la recente ordinanza della Cassazione, n. 17696
        del 25 agosto 2020, in tema di responsabilità della struttura ospeda-
        liera, in relazione al decesso di una paziente avente come causa finale uno
        shock settico, tuttavia, l’evento non avrebbe avuto inizio se non ci fosse
        stata un’infezione da stafilococco aureo (frequente origine nosocomiale
        e particolare resistenza di questo batterio agli antibiotici) inclusa espres-
        samente dalla stessa CTU “tra le concause della morte” della paziente: in
        mancanza dell’infezione originaria, la sopravvivenza della paziente agli
        esiti della caduta accidentale sarebbe stata “più probabile che non”.
                   Il fenomeno della antibiotico-resistenza comporta la
        necessità di una particolare attenzione, da parte della struttura
        sanitaria, alla sterilità di tutto l’ambiente operatorio, in quanto,
        “l’insorgenza di un’infezione del genere non può considerarsi un fatto né
        eccezionale né difficilmente prevedibile. E l’onere della prova di avere
        approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della
        sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura.” La struttura sani-
        taria deve garantire la sterilità non solo dei ferri chirurgici, ma dell’in-

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tera sala operatoria e risponde anche dell’opera dei terzi della cui col-
laborazione si avvale, dato che tali compiti non spettano direttamente
al chirurgo operatore. Pertanto, la Cassazione rileva che, a seguito del
ricovero della paziente, gravavano sulla struttura sanitaria una serie di
obbligazioni di natura contrattuale e tra queste, “pacificamente… anche
l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura
chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento
ha luogo; tanto che questa Corte ha affermato, proprio in un caso di infe-
zione batterica contratta in ambiente operatorio, che il debitore (cioè la
struttura sanitaria) risponde anche dell’opera dei terzi della cui collabora-
zione si avvale, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., dato che la sterilizzazione
della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta diret-
tamente al chirurgo operatore”. La responsabilità della struttura sanitaria
per il fatto degli ausiliari di cui si avvale si estende dunque alla condotta
di tutti gli operatori chiamati a dare il proprio contributo all’operatività
della struttura stessa. Se non risulta prospettata la possibilità che l’infe-
zione possa avere un’origine diversa da quella nosocomiale, secondo la
Cassazione, infatti, deve darsi per accertata, anche se in via presuntiva,
la dimostrazione da parte dei danneggiati che il contagio sia avvenuto
in ospedale. Ciò che rileva, a tal proposito, è che l’Azienda ospedaliera
dimostri la regolarità dell’operato dei suoi ausiliari, anche in relazione
alle operazioni di sterilizzazione dell’ambiente operatorio. Alla luce della
giurisprudenza suindicata, infatti, una volta dimostrata, da parte del dan-
neggiato, la sussistenza del nesso di causalità tra l’insorgere (in questo caso)
della malattia ed il ricovero, era onere della struttura sanitaria provare
l’inesistenza di quel nesso (ad esempio, dimostrando l’assoluta correttezza
dell’attività di sterilizzazione) ovvero l’esistenza di un fattore esterno che
rendeva impossibile quell’adempimento ai sensi dell’art. 1218 del codice
civile.

          In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professio-
nale sanitaria, il danno-evento non è la violazione delle “leges artis” nella
cura del paziente, ma il danno del diritto alla salute di quest’ultimo, che è
l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato.

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          Da tale principio di diritto consegue che, ove sia dedotta una
responsabilità di natura contrattuale del sanitario, il paziente è tenuto
a provare, anche a mezzo di presunzioni, che esiste un collegamento
causale tra la condotta del sanitario e l’insorgenza della malattia nuova
o l’aggravamento di una patologia preesistente lamentata dal paziente
stesso, la struttura sanitaria è tenuta a provare l’adempimento o che
l’inadempimento è dovuto ad una causa “imprevedibile ed inevitabile”,
che ha reso impossibile il corretto adempimento della prestazione. Nel
caso in commento, la Corte d’Appello ha ritenuto che la paziente avesse
correttamente fornito la prova del nesso di causalità materiale tra l’evento
lesivo (danno all’occhio) e comportamento della struttura mediante un
ragionamento probabilistico, basato sulle presunzioni sopra viste e dun-
que correttamente deducendo da fatti noti (assenza dell’infezione all’in-
gresso in ospedale; accesso alla zona infetta solo da parte dei dipendenti
dell’ospedale) il fatto ignoto (cioè il comportamento attivo o omissivo di
un dipendente dell’ospedale quale causa del contagio).

         In tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della strut-
tura ospedaliera dimostrare che al momento della trasfusione il paziente
avesse già contratto l’infezione per la quale domanda il risarcimento.
(Cassazione civile sez. III, 24/09/2015, n.18895).

          Così la recente sentenza della Cassazione Sez. III, n. 11599 del 15
giugno 2020 sul nesso di causalità materiale in materia di infezioni, deci-
sione conforme al principio di diritto riaffermato in una delle sentenze
del cosiddetto “decalogo di San Martino 2019”, sulla base della quale: “In
tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanita-
ria, il danno-evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla
cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis”
nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse
primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia
dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento
della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute,
è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di

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causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di
nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debi-
trice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la
causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione
della prestazione” (Cass. Civ., Sez. III, n. 28991 dell’11 novembre
2019).

         A fronte della prova del nesso di causalità fornita correttamente
dalla paziente, la semplice produzione, da parte della struttura sanitaria,
dei protocolli ospedalieri per le medicazioni in fase post-operatoria è rite-
nuta, quindi, insufficiente.

         Con riferimento al nesso di causalità tra comportamento erro-
neo e insorgenza di infezioni nosocomiali, l’orientamento della Cassa-
zione non è quella di individuare la causa precisa e/o la modalità specifica
di insorgenza dell’infezione con criteri di certezza, ma quella di ricorrere
alla prova presuntiva e al criterio della probabilità logica o razionale, del
“più probabile che non”, principio sancito dalle Sezioni Unite Cassa-
zione, n. 576/2008, e nella giurisprudenza successiva.

         Nelle I.O. (oggi ICA in senso più ampio), infatti, per il rico-
noscimento del nesso causale è sufficiente che sia individuata l’astratta
compatibilità tra infezione e trattamento sanitario ricevuto, in assenza
di certezza in ordine ad altre cause alternative di spiegazione dell’ori-
gine dell’infezione o la corrispondenza, sotto il profilo cronologico, tra
momento di manifestazione dell’infezione e periodo di ricovero.

         Nell’ipotesi di infezione contratta in ambito ospedaliero –
cd. infezione nosocomiale – graverà sul soggetto danneggiato, oltre alla
prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della patologia ovvero
dell’insorgenza di nuove patologie, anche la prova del nesso causale tra il pre-
giudizio lamentato e l’infezione, secondo un criterio di “probabilità logica”,
mentre graverà sulla struttura sanitaria – una volta accertata la sussistenza
di tale nesso causale – l’onere di dimostrare di avere diligentemente ope-

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rato, sia sotto il profilo dell’adozione, ai fini della salvaguardia delle con-
dizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirur-
gica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti
normative e dalle leges artis, onde scongiurare l’insorgenza di patologie
infettive a carattere batterico, sia sotto il profilo del trattamento terapeu-
tico prescritto e somministrato al paziente dal personale medico, succes-
sivamente alla contrazione dell’infezione. Il mancato raggiungimento
della prova in ordine agli enunciati profili da parte della struttura sanita-
ria, ne comporta la responsabilità diretta nella causazione dell’infezione,
per non aver messo a disposizione del paziente le attrezzature idonee ad
evitare l’insorgenza della complicanza infettiva. (Tribunale Agrigento,
02/03/2016, n.370)

          In mancanza di prova in ordine alla effettiva sterilità dei locali
in cui fu eseguito l’intervento e della strumentazione utilizzata, così
come in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni
ospedaliere ed alle verifiche e precauzioni adottate a tal fine, sia la strut-
tura sia i medici vanno considerati responsabili per l’infezione nosoco-
miale contratta dal paziente, (Tribunale di Milano, sentenza n. 1007
del 5 febbraio 2020, in tema di infezioni nosocomiali, prova liberatoria
in giudizio e ripartizione della responsabilità tra medici e struttura).

          Le indagini tecniche svolte nel procedimento hanno confermato
che la presenza di Escherichia Coli fosse “assai probabilmente” riconducibile
ad inquinamento perioperatorio, in quanto “Nessuna prova è stata offerta
in ordine alla effettiva sterilità dei locali in cui fu eseguito l’intervento e
della strumentazione utilizzata… i convenuti non hanno fornito indica-
zione alcuna in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni
ospedaliere, né i medici convenuti – entrambi operatori nell’intervento de
quo e dunque tenuti ad operare con la dovuta prudenza e diligenza – hanno
dato atto delle verifiche e precauzioni adottate a tal fine.”

        I CTU hanno censurato la condotta dei medici non solo in
merito all’omessa prevenzione ma anche con riferimento alla cattiva

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gestione dell’infezione, considerato che “il quadro infettivo iniziato
subito dopo l’intervento e durato 5 mesi è stato gestito con lunghi e inutili
tentativi di mantenere gli impianti… difficilmente l’infezione di un
impianto, qualunque esso sia si può risolvere senza la rimozione dello stesso,
come infatti è successo. Sarebbe stato prudente rimuovere gli impianti dopo
i primi tentativi fallimentari di terapia antisettica, bonificare così le tasche
ed eventualmente dopo un adeguato periodo di tempo (almeno 6 mesi), se
il paziente lo richiedeva, reimpiantare due nuove protesi.”

        Il Tribunale ha quindi affermato la responsabilità sia dei
medici che della struttura tanto per l’insorgenza, quanto per il pro-
lungamento dell’infezione sofferta dal paziente.

         Le infezioni ospedaliere non sono colpa di chi ha curato il
paziente ma della struttura dove è stato curato, con questo principio
il Tribunale di Roma, Sez. XIII, con sentenza pronunciata nel procedi-
mento R.G. n.34214-2012 e pubblicata in data 27-09-2018, ha condan-
nato un’azienda ospedaliera a risarcire un paziente per aver contratto
durante un ricovero e come conseguenza di questo un’infezione che lo
aveva costretto a sottoporsi a ulteriori interventi chirurgici.

          Il Nosocomio è quindi responsabile se non può dimostrare di
aver fatto tutto il necessario per evitarle e l’azienda va condannata a risar-
cire il paziente, Linee guida e protocolli sono inutili se non si vigila “quoti-
dianamente, nei modi possibili e fattibili, sull’applicazione di esse sul campo,
cosa che avviene di rado”. Nel caso in esame il paziente non si lamentava
dell’intervento, ma dell’infezione ospedaliera per la quale chiedeva un
risarcimento e l’ospedale si costituiva contestando la domanda ed eviden-
ziano che al paziente erano state somministrate le migliori terapie per
debellare l’infezione insorta, mentre non c’era nessuna correlazione con
l’infezione insorta e diagnosticata dell’operazione. Una prima perizia
rilevava il nesso causale tra l’intervento e l’infezione della ferita da con-
siderarsi a tutti gli effetti ospedaliera, tuttavia, reputava che l’infezione
non fosse attribuibile a malpractice medica quanto a carenza strutturali

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e organizzative dell’ospedale. Il giudice disponeva una nuova consulenza
secondo la quale: - non c’erano dubbi che il batterio fosse di origine
ospedaliera; - il contagio presupponeva una qualche carenza, una deficienza
di attenzione e di messa in opera in ordine alle procedure di sanificazione
e di asetticità che devono costantemente garantire la sicurezza del paziente
contro i contagi da infezioni nella struttura ospedaliera. Secondo il Giu-
dice è pressoché impossibile, anche accertando la natura e provenienza
ospedaliera del batterio che ha contagiato il paziente ricoverato, e anche
nella certezza che questo non fosse affetto prima del ricovero dalla relativa
patologia infettiva, individuare il luogo e il momento, il settore di attività,
la causa scatenante, il punto debole della catena di protezione delle misure
di sanificazione. Una volta accertato quindi che il paziente abbia contratto
l’infezione, si legge nella sentenza, “in virtù dei principi che regolano l’o-
nere della prova, in materia contrattuale non vi può essere alcun dubbio che
incombe alla struttura ospedaliera provare di avere adottato tutte le misure
utili e necessarie per una corretta sanificazione ambientale, al fine di evitare la
contaminazione. In altre parole l’Ao doveva fornire la prova che l’evento dan-
noso (contagio) non rientra tra le complicanze prevedibili ed evitabili. Qual è
il modo di adempiere a tale prova negativa? Quello di fornire la prova positiva
di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha finora escogitato per evitare
o quanto meno ridurre al massimo il rischio di contaminazione e di diffusione
del contagio”. Dall’ulteriore perizia chiesta dal Giudice può affermarsi, con
assoluta certezza, che è mancata la doverosa ed esigibile attenzione, da parte
del nosocomio, alla predisposizione ed attuazione di adeguate misure di sani-
ficazione…è completamente inutile elaborare protocolli e linee-guida da parte
dei Comitati per le infezioni ospedaliere, se non si vigila quotidianamente, nei
modi possibili e fattibili, sull’applicazione di esse sul campo, cosa che avviene
di rado.
           La sentenza rileva il danno biologico sia temporaneo che perma-
nente evidenziando che le infezioni ospedaliere, oltre ad essere una con-
traddizione, rappresentano un problema reale della sanità pubblica, che
comporta un peso economico per i cittadini e un fallimento dell’assistenza.

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Conclusioni

               Alla luce delle considerazioni svolte, che dimostrano l’aumento
     dei casi di infezioni correlate all’assistenza ospedaliera, è necessario sen-
     sibilizzare i cittadini e gli operatori sanitari sul tema della prevenzione e
     dell’antibiotico-resistenza, mediante corrette pratiche di prevenzione e
     protocolli adeguati, in grado di ridurre l’impatto economico sul Sistema
     Sanitario Nazionale, considerato che i costi di trattamento di una sin-
     gola infezione vanno dai 5 mila ai 9 mila euro, nella piena consapevo-
     lezza dell’importanza nella scelta degli strumenti giuridici di tutela per i
     pazienti, in materia di risarcimento danni da responsabilità medica per le
     I.O., oggi definibili ICA in senso più ampio e completo rispetto all’evo-
     luzione del sistema sanitario complessivo.

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