Il segreto meglio custodito: intervista a Mario Levrero

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Il segreto meglio custodito:
                   intervista a Mario Levrero

A dieci anni dalla sua morte, Ñ recupera una lunga chiacchierata con Mario Levrero,
lo scrittore uruguayano trasformatosi nella più grande scoperta letteraria
latinoamericana di questo secolo.
Di PABLO SILVA OLAZABAL

Nel settembre del 2003, mentre Mario Levrero stava scrivendo (senza saperlo?)
quella che sarebbe stata la sua ultima opera –il racconto Burdeos, 1972-, propose
alla sua socia Gabriela Onetto, con cui gestiva un laboratorio di scrittura online, la
stesura di un testo a cui, da uno scherzo del fratello di Gabriela, fu dato il nome
provvisorio di The Mario Levrero’s Writing Guide For Dummies [“La guida alla
scrittura per negati, di Mario Levrero”]. La sua idea era che questa guida alla
scrittura o Manuale per idioti raccogliesse i consigli, gli esercizi e le linee d’azione
usate nel laboratorio virtuale. Il progetto era di organizzarli in un libro chiaro e
accessibile, di diffonderli oltre l’ambito degli alunni. Dal momento che Gabriela
viveva in Messico, Levrero finì per chiedere a Christian Arán, un alunno di
Montevideo che aveva frequentato i suoi corsi, di realizzare la prima parte del
progetto, cioè di fargli visita per registrare le sue riflessioni. (“All’inizio ti suggerisco
di fare una lista di elementi disordinati: dopo troveremo loro una struttura”, scrive
Levrero in un’e-mail inviata a Christian). Da questi incontri sarebbe nato un testo
che Gabriela Onetto avrebbe completato e strutturato in un libro. Sorpreso dalla
richiesta, il giovane Arán dubitò di essere indicato per questo incarico, e per alcuni
giorni rimase in prudente silenzio. Il 16 settembre 2003, lo stesso giorno in cui
metteva il punto finale alla stesura di Burdeos, 1972 (un racconto che raccoglie una
serie di ricordi che lo perseguitarono per quindici giorni, e li appunta con data e ora
precise), Levrero gli mandò la seguente e-mail: “Ehi, sbrigati con quella guida per
coglioni, non pensarci troppo, devi approfittarne mentre sono ancora nel mondo
tridimensionale”.
Arán infine accetta e si accordano per programmare le sessioni e iniziare a lavorare,
ma tutto viene messo in stallo per le feste di fine anno. Intanto Levrero si stava
isolando sempre più, braccato dalla sensazione che il suo tempo stesse per finire
(arrivò persino a sognare il suo epitaffio e chiese alla famiglia di non lasciarlo solo
nella data sognata). Le registrazioni, realizzate tra gennaio e febbraio 2004, non
furono mai trascritte. “Sentivo che era una grande responsabilità di cui non ero
capace,” dice Arán.
Appena qualche mese più tardi, il 30 agosto 2004, Levrero lasciava il mondo
tridimensionale. Dieci anni dopo, quasi avesse ancora qualcosa da dirci, torna in
quest’ultima intervista, ottenuta da Pablo Silva Olazábal e ceduta a uno dei suoi
editori argentini, Facundo R. Soto, perché giunga ai lettori, così come lui desiderava.

Perché ha deciso di provare a tenere un laboratorio, di stimolare qualcuno alla
creazione?
La prima volta che ci pensai fu a Buenos Aires. Fu quando smisi di lavorare in una
casa editrice come caporedattore di riviste di intrattenimento. Avevo bisogno di
guadagnarmi da vivere e mi venne in mente che fra le altre cose avrei potuto tenere
un laboratorio di scrittura. Per cui mi unii a un’amica professoressa di letteratura
(Cristina Siscar) che aveva i titoli adeguati per convocare gente con una certa
serietà. Ci riunimmo, preparammo degli esercizi semplicissimi, come quelli di un
laboratorio normale. Ci facemmo un po’ di pubblicità, trovammo quattro o cinque
alunni, e cominciammo a lavorare così. Continuando mi resi conto di quanto poco
significato avessero questi esercizi. Non toccavano i punti essenziali.

Quali erano questi esercizi “da laboratorio normale”?
Erano giochi di parole con testi altrui. Completare, proseguire, immaginare. Sempre
in funzione della parola e non di ciò che sta dietro alla parola. Non di ciò che è la
materia prima della letteratura. Tra gli esercizi iniziali pensai di inserirvene alcuni
basati sulle esperienze personali, ad esempio racconti creati a partire da un sogno.
In seguito mi accorsi che questi esercizi avevano risultati migliori. I testi erano più
ricchi e coloriti perché le consegne erano più motivanti. Allora iniziai a capire, in un
processo che non diede risultati fino a molto tempo dopo, che dovevo eliminare gli
esercizi che avevano a che fare con la parola e lavorare con quelli che traevo
dall’esperienza personale.

Dalla sua esperienza di autore.
Di scrittore, sì.
Cosa si riesce a fare a partire da un sogno che non si può fare con un altro tipo di
esercizio?
I sogni hanno immaginazione, sono composti fondamentalmente da immagini e
sono tra i pochi legami che uniscono alcune persone al loro inconscio, che è il
deposito dell’esperienza personale più profonda e la materia prima essenziale
dell’arte, sia per la letteratura che per qualsiasi altra disciplina artistica.

L’arte è…
L’arte è ipnosi.

In altre parole…
L’arte è creare una specie di congegno in grado di ipnotizzare un’altra persona per
trasmetterle vissuti o esperienze spirituali che non si traducono in fatti percettibili.
Scrivi una storia, e la storia che scrivi è come una trappola che trattiene l’interesse
del lettore perché in quello stato creda a ciò che sta leggendo e abbassi i livelli critici
della coscienza.

Diceva che all’inizio del laboratorio gli esercizi si basavano sulla parola. Ciò
rendeva difficile il contatto con il mondo interiore?
Se lavori a partire dalla parola si riduce tutta la struttura a un gioco intellettuale e
finisci per lavorare con gli strumenti dell’io. Così ti perdi gli strumenti di tutto il resto
dell’essere, che sono molto più contundenti.

In una delle pagine del laboratorio virtuale, sul sito di Gabriela Onetto, lei
sottolinea come gli esercizi mirino ad approfondire il mondo interiore, a navigare
nell’inconscio e a metterci in contatto con esso.
Certo.

E dopo, quando riceve l’esercizio di qualcuno che frequenta il suo laboratorio,
come valuta se ha navigato o no nell’inconscio? Ha degli strumenti per farlo?
C’entra con la psicanalisi?
No, è una cosa del tutto intuitiva (lungo silenzio). Non so, ci si accorge quando una
persona sta parlando con la sua voce più vera, più profonda. È questo che ci dà il suo
stile. L’alunno che viene per la prima volta al laboratorio di solito pensa di dover
cercare di scrivere come si deve scrivere. Qualsiasi stile personale viene cancellato,
eliminato, e dall’alunno non ricevi altro che penosi sforzi per adeguarsi a uno stile
convenzionale che secondo lui è il migliore, quello ideale, perché lo ha assorbito da
diverse fonti in cui ha riposto grande fiducia. In un certo momento della sua vita
queste fonti fidate gli hanno detto come si deve scrivere. Tutto questo non serve a
niente e deve essere distrutto. Bisogna far sì che l’alunno riesca a esprimersi con la
sua voce personale, con il suo stile. Ci si accorge quando una persona sta cercando
di usare una voce convenzionale o quando sta dicendo le cose come le sente.

E così lei interpreta la struttura del racconto, i condizionamenti psichici di
ognuno…
No, per niente. Assolutamente no.

Non li vede come risultati di una terapia?
Non c’entra nulla. A volte il laboratorio ha effetti terapeutici, ma sono effetti
secondari che non hanno nulla a che vedere con il laboratorio. Quello che cerco di
ottenere io è di sentire la vera voce dell’alunno. Quando sento che si sta esprimendo
con lo stile che gli si addice, attinente al suo modo d’essere, di pensare, di provare,
diverso da qualsiasi altro io abbia sentito, va bene così. Non mi interessano i
contenuti. Possono essere marxisti, di Karl Marx, o marxisti di Groucho Marx. Non
importa, non interessa assolutamente. Siamo tutti unici e a me interessa che sia se
stesso.

E come riesce a convincere un’altra persona che quella è la sua voce? A volte
durante il laboratorio le persone leggono e non notano la differenza. Non si
accorgono se è la loro voce o no.
Non se ne accorge nessuno.

Nessuno si accorge se sta leggendo con la propria voce? Nemmeno quelli che
ascoltano?
È la stessa cosa. Sia quando ascolta che quando legge, la gente si concentra ancora
molto sui contenuti. Giudica un testo in base ai contenuti. A volte anche per i suoni,
per la combinazione delle parole. Quando qualcuno dice “mi è piaciuto tanto il tuo
testo nella parte in cui hai scritto questa cosa”, vuol dire che il testo non va bene,
ma che c’è qualcosa in rilievo, che spicca, qualcosa che è stato pensato o che è
venuto fuori casualmente con una forma particolarmente fortunata, che emerge dal
contesto, e che in un certo senso è una toppa, un elemento mancato all’interno del
testo generale. Allora si salva “almeno” questo. La gente presta attenzione ai
contenuti, agli argomenti, alle fortunate combinazioni di parole, persino alle facezie,
che non hanno nulla a che vedere con la letteratura. L’unica cosa che importa in
letteratura è lo stile. Una volta che l’hai trovato puoi scrivere qualsiasi cosa.
Qualsiasi narrazione, qualsiasi cosa che dici andrà bene, si adatterò perfettamente a
ciò che stai esprimendo. Può essere in qualche modo sgradevole o per nulla
edificante, ma questo sei tu, un essere unico. Lo stile personale è impossibile da
raggiungere con la pratica. Non esiste pratica che lo possa garantire.

E l’ipnosi si ottiene solo quando il testo è scritto con uno stile personale? O
quest’ultimo è qualcosa che si può, diciamo, simulare o falsificare? Lo stile
personale è vincolato all’ipnosi dell’arte?
In un certo senso sì, perché… chiarisco che l’idea dell’ipnosi dell’arte non è mia, è
tratta da un libro, Psicanalisi dell’arte di Charles Badouin. Quest’autore va anche
oltre, per esempio dice che quando guardi un quadro le sue forme costringono gli
occhi a seguire un percorso prestabilito. Gli occhi si muovono seguendo una serie di
linee e di colori e senza che tu te ne accorga inizi a entrare in una sorta di trance. E
in questa trance ciò che percepisci non è nel quadro ma nell’anima dell’artista. Cioè
l’ipnosi permette di trasmettere il contenuto di un’anima a un’altra anima,
indipendentemente dal soggetto del quadro. Per rispondere alla tua domanda,
credo che se il testo è riuscito, se è narrato con uno stile personale, il lettore entra
inevitabilmente in questo tipo di trance, che non è quella abituale
dell’addormentarsi, anche se una volta mi sono addormentato leggendo alcuni temi
di Mónica. Mi sono addormentato e ho persino russato (ride), ma dopo sono riuscito
a commentare tutti i passaggi. Continuavo ad ascoltare dormendo.

Ti trasporta, ti fa immaginare ciò che stai ascoltando?
No. È una percezione speciale. La trance si produce anche quando leggi senza che
nessuno ti parli. È semplicemente… insomma, una delle idee contemporanee sulla
trance è che qualunque forma di concentrazione lo è. Stai studiando e ti concentri.
Così entri già in una sorta di trance. Se adesso, parlando con me, mi presti molta
attenzione, anche così stai entrando in una sorta di trance. C’è un tipo di trance
specificamente artistica, letteraria, pittorica, la cui finalità è di sopprimere la critica
intellettuale. Allora se credi a quel che leggi, a quel che vedi, se credi al film mentre
sei al cinema, se credi che stia succedendo nella realtà –quando è ovvio che non è
così- sei in trance. L’opera cattura così tanto la tua attenzione che l’autore in quel
momento, non si sa bene come, diciamo sottobanco, ti trasmette contenuti della
sua anima che non è possibile vedere nella sua opera perché non si trovano lì. O
almeno non sono espliciti. Per esempio io percepisco molto degli alunni attraverso i
loro testi, perché sto cercando di percepire l’alunno nella sua totalità, non in quello
che mi sta dicendo, che non mi interessa, ma in una quantità di piccole cose che
formano un tutt’uno, l’alunno. I suoi gesti, la sua voce, tutto. Capisce cosa sto
dicendo? Mi sembra che suoni un po’ confuso. Vediamo, facciamo un esempio, a
volte sogni una persona e quando ti svegli ti accorgi che il suo aspetto nel sogno non
corrispondeva a quella persona. L’immagine poteva essere qualsiasi cosa, poteva
essere altro, poteva essere qualcosa che si vedeva appena, ma nonostante ciò,
inspiegabilmente, nel sogno sapevi che era questa persona e non qualcun altro. Non
ti è mai successo?

No.
Ci sono elementi di una persona invisibili, incomprensibili, che sono quelli che
compongono l’Essere. È ciò che si manifesta quando uno dice “questo sentimento è
lui”. Nel sogno sai che è lui, ma non sai perché, l’immagine non corrisponde, la
situazione non corrisponde, ma sai ugualmente che è quella persona. Questi
elementi intangibili non hanno una forma fissa di espressione convenzionale e si
percepiscono attraverso l’inconscio, negli stati di trance o nei sogni. Cioè negli stati
che non sono supervisionati dall’io. Stati in cui è stata sospesa la funzione critica
dell’intelletto.

L’obiettivo del laboratorio sarebbe quello di far scrivere una persona a partire
dalla sua voce interiore?
Certo.

Così il laboratorio sarebbe fatto su misura.
Per fare in modo che l’alunno sia ciò che è.
Ma a livello artistico non servono altre cose, questioni tecniche di equilibrio, di
proporzione? O quando si riesce a parlare con la propria voce questo viene in
automatico?
Esatto. Tutti questi tecnicismi li ha inventati la critica, sono a posteriori. Prima viene
l’opera e dopo viene l’analisi dei ricorsi, delle tecniche, di questo e di quell’altro…
ma l’artista non deve pensare a queste cose, l’artista deve pensare a ciò che sente e
a ciò che vede nella sua mente ed esprimerlo. Tale espressione ha già un suo
equilibrio proprio, artistico. Che sia convenzionale o no è un’altra cosa, ma non si
costruisce l’arte con la tecnica. Mi chiedevi prima se l’ipnosi dell’arte si può ottenere
attraverso mezzi tecnici senza mettere in gioco l’anima, ecco, è ovvio che sì,
evidentemente è possibile. Puoi riuscire a catturare l’attenzione e a suscitare una
grande concentrazione in colui che riceve il messaggio, che sia pittorico o letterario,
attraverso mezzi esclusivamente tecnici, senza mettere in gioco nulla di personale. È
una cosa molto difficile da fare, ci vuole molto lavoro e il risultato… Ci sono opere
che ti incantano, che sono esclusivamente intellettuali e che ti catturano lo stesso,
ma non so bene cosa ti lasciano alla fine. Tendo a credere che non lascino molto,
almeno non come memoria personale. Cioè, non rimane come esperienza
personale, come qualcosa che uno porta al limite del sentire, del dire “questo l’ho
vissuto”. Sono solo piccole trance che riescono a captare l’attenzione del lettore
senza agire su di lui.
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