L'uomo responsabile del cambiamento climatico
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L’uomo responsabile del cambiamento climatico Bruno Carli e Paolo Saraceno Il cambiamento climatico in corso è causato dall’uomo, questa è la tesi sostenuta dal rapporto IPCC 2013: un lavoro di 2216 pagine scritte dai 259 esperti del Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite. Un lavoro scrupoloso sottoposto alla revisione di più di 1000 scienziati. Si tratta del quinto rapporto pubblicato dall’IPCC e appare dopo numerose critiche e tesi alternative avanzate sui precedenti rapporti (anche se sono rare quelle provenienti dal mondo scientifico). Gli scettici hanno contestato in alcuni casi l’esistenza stessa del cambiamento climatico, in altri la responsabilità dell’uomo oppure la gravità del fenomeno. Tuttavia, in nessuna di queste critiche è presentata un’analisi organica delle osservazioni, dei modelli e delle previsioni come invece è fatto nei rapporti IPCC. Per agevolare il controllo e la scoperta di eventuali errori (che in passato ci sono stati e sono sempre possibili) il gruppo IPCC segue il principio della massima trasparenza sulle metodologie adottate; i dati sono corredati dall’errore di misura e tutte le affermazioni sono accompagnate dalla stima della loro certezza, espressa in termini di probabilità. Per queste ragioni il quinto rapporto IPCC dimostra un autoconsistenza che s’impone con autorevolezza sulla moltitudine delle critiche. Il rapporto, assieme ad una sua sintesi di 36 pagine (il “summary for policemakers”), possono essere scaricati da http://www.ipcc.ch/. Le prime quattro figure qui riportate sono prese dal summary. I punti essenziali del rapporto sono: Si conferma l’esistenza e l’aggravarsi del cambiamento climatico. Quest’affermazione si basa sull’aggiornamento delle serie storiche delle misure dei parametri climatici. In particolare, si osserva che: • Le ultime tre decadi sono state le più calde degli ultimi due secoli e ciascuna di esse è stata più calda delle precedenti (figura 1) • Negli ultimi vent’anni i ghiacciai hanno continuato a ridursi a livello mondiale e in particolare la massa dei ghiacciai perenni della Groenlandia e dell’Antartide si è ridotta, così come l’estensione della copertura di ghiaccio nel mare Artico in primavera. Si stima (con una probabilità superiore al 90%) che la perdita dei ghiacci tra gli anni 1971-2009 sia stata in media di 226 miliardi di tonnellate/anno, un valore che sale a 275 se mediata tra gli anni 1993-2009, mostrando che il fenomeno è in crescita. • La maggior parte dell’energia accumulata dal pianeta negli ultimi 40 anni è finita negli oceani, dove, a partire dal 1970, si osserva un aumento della temperatura delle acque superficiali di 0,11°C per decade. [Digitare il testo] Pag. 1
Figura 1: Temperatura globale mediata su 10 anni che mostra in modo inequivocabile la crescita in corso a partire dal 1970. • Per effetto dello scioglimento dei ghiacci e della dilatazione termica dell’acqua dovuta al suo riscaldamento, i livelli dei mari sono cresciuti in media di 1.7 mm tra il 1901 ed il 2010. Un valore che sale a 3.2 mm/anno (figura 2) se la media è fatta tra gli anni 1993 al 2010 mostrando che il fenomeno è in crescita. L’aumento del livello dei mari è oggi il più alto degli ultimi 2000 anni e, potrebbe arrivare ad un un metro entro la fine del secolo (il rapporto 2007 prevedeva un innalzamento massimo alla fine del secolo di 59 cm). Figura 2: Aumento del livello dei mari • I livelli di anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e ossido d’azoto (N2O) hanno raggiunto i livelli più alti mai registrati negli ultimi 800.000 anni (da quando è possibile determinarne con precisione le abbondanze dai campioni di atmosfera del passato intrappolati nelle profondità dei ghiacci artici). Il 30% circa dell’eccesso di anidride carbonica emessa dall’attività umana è assorbita dagli oceani causando un aumento della loro acidità e la distruzione delle barriere coralline. [Digitare il testo] Pag. 2
Figura 3: Calcolo delle variazioni di energia entrante (radiative forcing) relative alle condizioni presenti nel 1750 (prima della rivoluzione industriale) dovuto alle principali componenti del sistema climatico. Delle forzanti rappresentate in figura solo la radianza solare è naturale (per altro nulla all’interno dell’errore) le altre sono di origine antropogenica. Altre componenti (come i vulcani e le emissioni degli aerei) sono considerate dai modelli, ma non sono rappresentate in questa figura. Si conferma che il riscaldamento anomalo è dovuto prevalentemente alle attività umane. La certezza di questa dichiarazione passa da una probabilità superiore al 90% del rapporto IPCC 2007 ad una superiore al 95% nel rapporto attuale. Questa conclusione si basa sul calcolo delle variazioni delle “forzanti radiative” (che determinano l’energia assorbita dal nostro pianeta e quindi influenzano il clima), calcolate in watt/m2 e riassunte in figura 3. Il calcolo è fatto utilizzando modelli atmosferici che, grazie a un importante lavoro di verifica e miglioramento, oggi riescono a riprodurre le variazioni storiche della temperatura osservata nelle diverse zone della terra, inclusi i raffreddamenti causati dalle polveri eruttate dai vulcani e il rapido riscaldamento osservato nella seconda decade del secolo scorso (figura 1). I modelli hanno qualche difficoltà a spiegare perché dopo il 1998, l’anno più caldo in assoluto, la temperatura dell’atmosfera abbia smesso di crescere, mentre ha continuato a crescere quella dei mari. [Digitare il testo] Pag. 3
La perturbazione introdotta dall’uomo è più che triplicata dal 1950 ad oggi, come risulta dalla forzante radiativa totale dovuta alle attività umane per gli anni 1950, 1980 e 2011 mostrata nella parte inferiore della figura 3. La CO2 resta la forzante che da il contributo maggiore. Si conferma la gravità dei futuri effetti del cambiamento climatico in atto. Le previsioni affrontano le diverse manifestazioni degli effetti climatici (temperatura, piovosità, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello del mare) prendendo in considerazione quattro possibili scenari. Il primo scenario, contraddistinto dalla sigla RPC2.6, considera l’adozione di una politica di mitigazione virtuosa con una significativa riduzione delle emissioni di gas serra. Altri due scenari (contraddistinti dalle sigle RPC4.5 ed RPC6.0) considerano una mitigazione intermedia con il mantenimento delle emissioni al livello presente e il quarto scenario (contraddistinto dalla sigla RPC8.5) considera la crescita delle emissioni senza nessuna politica di mitigazione. I quattro scenari sono da considerarsi ottimistici perché nessuno di essi prevede l’emissione di CH4 dovuta al riscaldamento del suolo (dal materiale organico contenuto nel permafrost che si sta sciogliendo) e dal degassamento dei mari che potrebbe avvenire con il crescere della temperatura. Figura 4: Serie storica e proiezione al 2100 della media globale della temperatura della superficie terrestre nel caso dei due scenari estremi presi in considerazione dal rapporto IPCC la banda colorata rappresenta l’errore associato al calcolo. A destra del grafico è mostrato, per tutti e quattro gli scenari, il riscaldamento previsto alla fine di questo secolo con il suo errore. La figura 4 mostra le previsioni relative all’aumento della temperatura superficiale nei due scenari estremi. Il miglioramento dei modelli ha ridotto le incertezze (indicate dalla banda colorata), rispetto a quelle che si avevano nei precedenti rapporti, per cui oggi la dispersione della previsione non è più dominata da queste incertezze, ma dagli scenari che si verificheranno, cioè dalle scelte che saranno fatte dall’umanità per la riduzione delle emissioni di gas serra. [Digitare il testo] Pag. 4
Alla fine del secolo, nel caso dello scenario virtuoso (RPC2.6), l’ aumento di temperatura previsto è di circa 1°C (fra 0,3 e 1,7°C) e di circa 3,7°C (fra 2,6 e 4.8°C) nel caso dello scenario senza mitigazione (RPC8.5). Sembrano variazioni piccole di temperatura, ma in effetti non lo sono, basta considerare che tra i massimi dei periodi freddi glaciali e quelli caldi interglaciali la variazione della temperatura media del pianeta è stata di 5 gradi. Quale di questi scenari è più probabile? Il rapporto IPCC non si avventura in questo tipo di considerazioni che dipendono dalle scelte della politica. Ma è possibile fare qualche ipotesi; la prima è che siamo lontanissimi dallo scenario “virtuoso” (RPC2.6) e da quelli intermedi che prevedono il mantenimento al livello attuali delle emissioni perché, malgrado la crisi mondiale le emissioni continuano a crescere. Per la sola CO2 si ha una crescita del 3% l’anno e si è da tempo superato di 100 volte le emissioni geologiche (vulcani e quant’altro); nel rapporto dell’IEA: “Traking Clean Energy progress 2013” (scaricabile dal web) si osserva che le tonnellate di CO2 emesse per unità di energia prodotta, non sono cambiate negli ultimi 20 anni. Nel 1990 si producevano 2,39 tonnellate di CO2 per ogni TEP di energia prodotta (con fossili, rinnovabili e nucleare), nel 2012 se ne sono prodotte 2,37. Poiché l’indice è relativo, nei 23 anni considerati dall’IEA la produzione mondiale d’energia è aumentata di 1/3 per cui della stessa quantità sono aumentate le emissioni di CO2 . Una crescita simile sta avvenendo per il metano che ha un effetto serra 25 volte superiore a quello della CO2 e probabilmente accelererà negli anni a venire per la scoperta dello Shale Gas e dello Shale Oil che hanno enormemente aumentato le riserve di gas e petrolio a disposizione dell’umanità. Appare quindi probabile che gli scenari peggiori previsti dall’IPCC siano i più realistici (se non addirittura ottimistici), se non avverranno cambiamenti drastici nel modo di produrre energia. Poiché le a rinnovabili non sembrano essere oggi in condizioni di rallentare la crescita dei consumi dei combustibili fossili, la sola opzione per rallentare la loro crescita appare essere il nucleare, con le nuove generazioni di reattori più sicuri di quelli del passato. Un problema che in una società moderna dovrebbe essere affrontato con un’analisi dei rischi posti dai cambiamenti climatici rispetto a quelli del nucleare. Il rischio Climatico Il rischio climatico non è diverso dagli altri rischi, per affrontarlo si deve ragionare in modo simile a quello che si dovrebbe adottare per tutti gli eventi pericolosi (alluvioni, terremoti, maremoti, frane ...). Un’analisi degli strumenti necessari per limitare i rischi è fornita dallo Special IPCC Report pubblicato nel 2012 con il titolo: “Managing the risks of estreme events and disasters to advance climate change adaptation”, (reperibile in rete) dove si osserva che il “rischio” collegato ad un evento dipende da 3 fattori: - l’azzardo: la probabilità che l’evento si verifichi - l’esposizione: l’essere in condizioni di essere colpiti dal verificarsi dell’evento; ad esempio un’eruzione vulcanica, un terremoto, una frana, colpisce chi ha costruito in zone vulcaniche, sismiche, franose. [Digitare il testo] Pag. 5
- la vulnerabilità all’evento; i danni e i lutti causati dai terremoti dipendono da come si costruiscono le case. Nessuno dei terremoti che hanno colpito l’Italia negli ultimi 1000 anni (almeno) causerebbe gravi danni nel Giappone di oggi dove, a differenza dell’Italia, la vulnerabilità delle abitazioni è molto bassa. Gli ultimi due fattori dipendono dalle scelte della politica che dovrebbe ridurre l’esposizione delle popolazioni al rischio e ridurne la vulnerabilità. Nel caso dei cambiamenti climatici, l’intervento politico può agire anche sul terzo fattore l’azzardo perché la causa predominante del cambiamento è l’attività dell’uomo e non come negli altri casi un evento naturale non controllabile. La gestione del rischio nel caso dei cambiamenti climatici è riassunta nello schema mostrato in figura 5. Figura 5: Illustrazione della gestione dei rischi discussa nel rapporto speciale dello IPCC (SREX), pubblicato nel 2012. Il nuovo rapporto IPCC deve pertanto essere visto come l’evoluzione delle nostre capacità di previsione dei cambiamenti climatici e come aggiornamento dello strumento con cui si valuta l’azzardo. Se esistono ancora delle incertezze nei modelli, queste non possono essere addotte come scusa per non intervenire. L’esistenza stessa del rischio impone alla politica una responsabilità dell’intervento e, qualora il rischio non fosse quantificato in modo sufficientemente affidabile, si deve allora promuovere lo sviluppo della conoscenza e della ricerca per migliorare le valutazione del rischio. Se invece si giudica che il rischio è ben quantificato si può,. nel caso del rischio climatico, intervenire su tutti e i tre fattori, riducendo l’azzardo con una politica tesa a ridurre le forzanti e riducendo l’esposizione e la vulnerabilità, prevedendo ad esempio gli effetti sul territorio prodotti dai cambiamenti climatici inevitabili, come la crescita del livello dei mari o dei deserti. [Digitare il testo] Pag. 6
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