L'ascesa del Coop Capitalism

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L’ascesa del Coop Capitalism
                                            di Noreena Hertz

La nuova alba

Alcuni dicono che l’attuale recessione finanziaria globale – una recessione diventata depressione,
avvertita a Londra, New York, Madrid e Atene – non avrà effetti importanti sulla natura del
capitalismo. Che ci siamo già passati in mezzo, abbiamo già affrontato e navigato nelle crisi del
capitalismo, e che il capitalismo ne è emerso illeso. E che tra cinque anni il capitalismo apparirà
sostanzialmente come era prima che la crisi iniziasse.

Comprendo questa prudenza a predire qualcosa di nuovo, e la riluttanza a definire il passato l’era
della morte del capitalismo. Ma non la condivido. Penso invece che le condizioni in corso stiano
facendo spazio a un modello che sarà radicalmente diverso dalla carneficina in atto.
Perché non credo che ciò a cui stiamo assistendo oggi sia una semplice variante della crisi russa,
della crisi giapponese e della crisi dot.com, crisi che hanno prodotto conseguenze ma non hanno
avuto impatto sull’ideologia o sulla traiettoria fondamentale dell’ideologia e delle policy
economiche e politiche.
Si comincia ad ammettere che questa prima piena crisi della globalizzazione, questa prima
recessione lose-lose in cui tutti perdono, una recessione multicolore perché coinvolge colletti blu,
colletti bianchi e tutte le categorie professionali, è profonda, perché colpisce negativamente
tantissime persone in ogni parte del mondo, ed è legata all’incrinatura ideologica della dottrina degli
ultimi 30 anni. Perciò credo che possa catalizzare un cambiamento radicale del capitalismo, un
cambiamento radicale delle relazioni tra i governi, il mondo degli affari e la società. E avrà
implicazioni rilevantissime per le nazioni, le istituzioni transnazionali, le imprese e gli individui.

Il Gucci Capitalism

Ho definito Gucci Capitalism l’era passata del capitalismo. Il Gucci Capitalism è una ideologia nata
a metà degli anni ’80, figlia prediletta di Ronald Reagan e Margareth Tatcher che ha avuto come
fatina buona Milton Friedman e come modello Bernard Madoff. Un’era che ha avuto i seguenti
assunti di base: i mercati si autoregolano, i governi lascino fare, gli individui non sono altro che
massimizzatori di utilità razionali.
Nell’era del Gucci Capitalism gli azionisti erano il re, o meglio, erano quelli che avevano proprietà
sufficientemente significative da poter essere influenti. La società, i lavoratori, i clienti, tutti coloro
che subivano le decisioni del mondo degli affari erano decisamente relegati in secondo piano.

E’ stato un periodo che ha promosso un credo quasi religioso nella capacità del mercato di essere
non solo un efficace meccanismo distributivo, ma anche un dispensatore di equità, giustizia e
perfino libertà, malgrado la crescente evidenza del fatto che le cose non stessero proprio così e che
in tutti i paesi che adottavano il Gucci Capitalism spalancandogli il cuore con più passione si apriva
un abisso sempre più ampio tra l’economia e la giustizia sociale.
Nel Gucci Capitalism i banchieri britannici portavano a casa stipendi 100 volte più alti di quelli di
un lavoratore normale, e i manager degli Hedge Fund americani potevano arrivare a guadagnare un
miliardo di dollari all’anno. Ma in entrambi i paesi la mobilità sociale in 30 anni non è migliorata.

E’ stato un periodo nel quale il mantra di Gordon Gekko “l’avidità è una cosa buona”, reso celebre
alla fine degli anni ’80 dal film “Wall Street”, è rimasto il motto dei due decenni successivi.
Il rischio era promosso dai politici e lodato dalla società, ma la responsabilità non godeva della
stessa reputazione. Un’era nella quale il successo era sempre più diventato qualcosa da misurare
esclusivamente con il denaro, e nella quale il denaro era diventato, in particolare nel settore
finanziario, qualcosa di separato dagli asset fisici o dalla sua potenziale realizzabilità.
Un’era nella quale non avere l’ultimo paio di scarpe da ginnastica della Nike o l’ultima borsa di
Gucci era diventato molto più vergognoso che avere debiti e nella quale, negli Stati Uniti, ogni
persona aveva in media nove carte di credito.
Non stupisce perciò che, in un’era caratterizzata da questo ethos dominante, i legislatori siano stati
troppo deboli, i banchieri troppo potenti, e sia mancato un sistema di check and balance. Non
stupisce che, in questa era, il mito che, per avere successo, uno dovesse avere una casa più grande e
l’ultimo modello della marca di moda, fosse attivamente alimentato da banchieri, intermediari
finanziari, multinazionali delle carte di credito e pubblicitari. E non sorprende che, con questa forza
motrice nella società, fosse in discussione non se, ma quando l’intero castello di carte sarebbe
crollato.
Quando questo è successo, è apparso chiaro a tutti come quel firmamento fosse vuoto e privo di
fondamenta. Il Gucci Capitalism era privo di veri valori, perché si focalizzava su un consumo
dissennato, superficiale e a breve termine così come il suo stesso nome suggerisce.

La fine di un paradigma

Ma gli attacchi e gli sprazzi di autoconsapevolezza possono avere vita breve e i paradigmi, come è
noto, sono duri da smuovere. Ci sono le condizioni per una nuova forma di capitalismo, una forma
che ho definito Coop Capitalism, che ha al centro valori di cooperazione, collaborazione,
coordinamento, comunità e comunicazione, da far emergere al posto del vecchio paradigma? Io
penso di sì.

Ci sono tre fattori chiave alla base del mio convincimento.

La vecchia ideologia è stata screditata sul piano intellettuale.

Nel Gucci Capitalism gli esseri umani erano diventati caricature, super-razionali, egoisti,
massimizzatori del profitto e del consumo. Invece si tentava di ridurre tutte le complessità di questo
mondo incasinatissimo a modelli matematici, grafici e matrici che potessero stare nelle pagine di
una presentazione in PowerPoint. E quando i fatti non si adeguavano al modello, alla matrice o al
grafico, i modelli e i grafici non cambiavano, e i fatti venivano spazzati sotto il tappeto.

Ciò ovviamente ha prodotto conseguenze di cui tutti ora siamo consapevoli. Ora si riconosce e si
ammette pubblicamente che si faceva troppo affidamento sulle previsioni e sui modelli degli
economisti. E finalmente sia nelle scienze economiche che nelle scienze sociali in generale si è
avviata una doverosa discussione sui limiti della disciplina, e si comincia a separare quelle che
erano “verità” da quelle che in realtà erano ideologie e non fatti.
Ciò continuerà a guadagnare slancio. Economisti come chi scrive e Paul Krugman, Joseph Stiglitz,
Jeffrey Sachs, venivano considerati “alternativi” nello scorso decennio, ora si guarda a noi per
guidare la ripresa. Forse perché abbiamo sempre compreso i limiti dell’economia e l’importanza di
un approccio più olistico. Io, per quel che mi riguarda, ho sempre integrato sociologia, storia,
scienze comportamentali, psicologia e anche antropologia nelle mie analisi. Ciò non è né
rivoluzionario né radicale, i più grandi economisti del passato, indipendentemente dalle loro
convinzioni politiche, come Schumpeter, Galbraith, Keynes, o Hayek, hanno tutti compreso che
l’economia non può essere chiusa in un silo, e che occorre molto di più di alcuni modelli matematici
per capire il mondo. E Adam Smith, oltre a scrivere “La Ricchezza delle Nazioni”, ha scritto “La
Teoria del Sentimento Morale”, riconoscendo che il mercato era amorale, e che al mercato la
moralità andava imposta.

I Governi adesso hanno il mandato di intervenire

La seconda ragione per cui probabilmente un nuovo modello di economia emergerà è che i Governi
adesso hanno un mandato per intervenire che per tre decenni semplicemente non hanno avuto. In un
recente sondaggio realizzato negli Stati Uniti, il Paese per tradizione più ostile all’intervento del
Governo, più di metà degli intervistati ora dicono che al libero mercato non deve essere consentito
di funzionare autonomamente. Questo è uno shock tellurico.
Le banche sono le prime a vedere l’impatto di questi interventi sanciti da leggi negli Stati Uniti, in
Gran Bretagna e altrove. Benchè io non profetizzi una generale microregolamentazione del settore
privato da parte dei Governi– e neppure la condividerei – vorrei avvisare ogni azienda che rischi di
essere percepita come nemica del bene pubblico che ora rischia di trovarsi in prima linea. Le
aziende che ovviamente possono essere le prime a essere messe nel mirino sono l’industria del fast
food e le grandi compagnie farmaceutiche. Con i costi del sistema sanitario che si impennano, e la
necessità dei Governi di tenere a freno la spesa, prevedo maggiore pressione sull’industria del fast
food affinchè si assumano la responsabilità della crisi dell’obesità e sulle aziende farmaceutiche
affinchè forniscano medicine a prezzi accessibili.

Nel Gucci Capitalism era raro richiedere alle multinazionali di operare per incrementare il bene
pubblico. Ora, specialmente a causa delle crescenti proteste dell’opinione pubblica e dei media e
dell’approssimarsi di un ciclo di elezioni politiche, sempre più spesso diventerà la regola.

L’ascesa di Paesi con mentalità diverse

La terza ragione per cui ci stiamo indirizzando verso una nuova era del capitalismo è che sta
emergendo una nuova configurazione di forze geopolitiche, per effetto della crescita di Cina,
Brasile, India e del rafforzamento del G20. Un nuovo organismo, credibile e coeso, che è forte,
pretende di essere ascoltato e ha limitata devozione – o meglio non ne ha affatto - rispetto al Gucci
Capitalism.

Ma non è solo questo nuovo blocco di potere che probabilmente sfiderà direttamente l’egemonia
intellettuale del Gucci Capitalism. Combinare questo fattore con la nuova amministrazione
americana, che già prima della crisi parlava della necessità di diffondere il benessere ed ha
abbracciato un ideale multilaterale, e con il fatto che l’Europa continentale è stata colpita in modo
particolarmente duro dalla recessione globale, dà un forte incentivo a prendere le distanze da una
ideologia che non si è mai preoccupata di prendersi cura e di fare nascere qualcosa dai suoi valori
comunitari intrinseci, e ora abbiamo tutti gli ingredienti al posto giusto per un significativo
cambiamento ideologico.
L’ascesa del Coop Capitalism

Okay, così siamo nel mezzo di un grande cambiamento ideologico. Ma ho ragione a prevedere che
prenderà la forma del Coop Capitalism?
Ovviamente è impossibile guardare con assoluta certezza dentro una sfera di cristallo. Ma
combinando un’analisi delle ragioni del tramonto del Gucci Capitalism con appropriati punti di
riferimento storici, e osservazioni sul campo con conversazioni con protagonisti e player che fanno
tendenza a livello globale, e facendo sondaggi sulla popolazione, penso che il Coop Capitalism
descriva almeno i contorni di ciò che probabilmente emergerà dalle ceneri del passato.

Abbiamo già prova del fatto che si affermano nuove, precise caratteristiche. Quanto meno si
riconosce che un mondo interconnesso ha bisogno di soluzioni interconnesse, il che naturalmente
non significa che tutti i paesi adotteranno le stesse politiche, né che (come già accade) sparirà il
mercato senza regole, ma che ci saranno movimenti verso soluzioni comuni e obiettivi condivisi.
Ad esempio, si continua a discutere sulla creazione di un sistema di regole per la finanza mondiale,
malgrado gli sforzi delle lobby industriali per impedirlo. Ma questo è solo l’inizio.
Poiché altre crisi vengono viste con la stessa lente della crisi finanziaria, cioè come problemi
comuni e collettivi, è probabile che saranno realizzati più accordi, istituzioni, patti globali per
affrontare la miriade di problemi che sono generati dall’economia e dalle azioni collettive degli
individui, le cui conseguenze ricadono sulla gente sia a livello nazionale che a livello
internazionale.

Ma non è a livello intergovernativo che vediamo i segni di più cooperazione. L’assunto del Gucci
Capitalism secondo il quale noi, come individui, fossimo esseri egoisti e iperindividualistici
preoccupati esclusivamente di massimizzare la nostra ricchezza, i nostri salari e le nostre risorse si
dimostra più una convenienza e un difetto degli economisti tradizionali che una accurata
raffigurazione del genere umano.
Benchè sia vero che negli ultimi venti anni ci siano state una percepibile pressione a far la gara con
i vicini di casa per avere un tenore di vita elevato e una crescente ossessione per i valori materiali,
questo sembra essere un fatto dovuto più alla educazione che alla natura. Gli studi antropologici
dimostrano che le società che hanno meno condividono di più.
Invece recenti lavori di economia comportamentale hanno confermato che la benevolenza non è
estranea alla natura umana. Così, mentre può essere vero che nel Gucci Capitalism ci fosse una
tendenza a giocare a bowling da soli, potrebbe non essere vero che noi siamo fondamentalmente
individualisti.

Più probabilmente stiamo entrando in un’età in cui si uniscono le forze e si tira insieme dalla stessa
parte, come accadeva durante la Grande Depressione e durante i bombardamenti nazisti sulla Gran
Bretagna, e sarà una delle caratteristiche chiave di questa era.
E’ presto per avere manifestazioni di massa di questo fenomeno, ma ci sono alcune cose a cui
dobbiamo prestare attenzione. La rapidissima crescita a livello mondiale del movimento
“freecycle“, i cui membri riciclano e regalano le loro cose anziché venderle su Ebay, la crescita in
Giappone del concetto di job-sharing, dove, invece di licenziare schiere di impiegati, per ridurre
l’impatto sociale gli impiegati scelgono di lavorare meno ore con un principio che ora viene
copiato in varie parti d’Europa. O il fatto che siano stati ricamati a mano dai Britannici più di un
milione di cappellini per bambini nei Paesi in via di sviluppo, non prima ma dopo l’inizio della crisi
finanziaria.
E’ interessante notare che ci sono alcuni modelli di business non tradizionali che sembrano adattarsi
all’agenda del Coop Capitalism e rendono particolarmente bene. Come le compagnie di servizi
finanziari guidate da donne, alle quali molti correntisti islandesi si sono rivolti dopo che i loro
macho banchieri hanno spinto il Paese sull’orlo del baratro. O un marchio come “Innocent”, che
produce succhi di frutta naturali, così impegnato nella difesa dell’ambiente che è stato tra i primi a
produrre bottiglie di plastica completamente riciclabili e si è posizionato dall’inizio come
un’azienda che mette al centro i valori della giustizia sociale a ambientale, e ha venduto il 20%
delle proprie azioni alla Coca Cola proprio nel mezzo della crisi.
Tra i modelli non tradizionali il movimento Cooperativo ci offre grande sostegno per un modello
cooperativo. Dalle cooperative italiane dell’Emilia- Romagna, una regione tra le più avanzate
d’Europa sede di oltre 8.000 cooperative, al Gruppo Desjardins, la cooperativa finanziaria del
Quebec, l’azienda con il maggior numero di occupati in quella regione, alla Svizzera, dove le
cooperative sono il più grande soggetto privato per numero di dipendenti, questo modello
organizzativo alternativo ha già un fortissimo impatto sull’occupazione e successo economico.
Ed è importante il fatto che in tempo di crisi le cooperative sembrano in grado di durare e
sopravvivere più a lungo di altre imprese. Un recente studio del Governo canadese ha concluso che
i business cooperativi tendono a durare circa due volte più a lungo dei business del settore privato.
La stabilità dell’impresa cooperativa è indicata dal basso numero di fallimenti e la longevità delle
cooperative è da attribuire in parte al fatto che sono radicate nelle loro comunità locali. Una qualità
che nei mesi di recessione che ci aspettano le aiuterà con ogni probabilità a resistere meglio di altri
competitori meno radicati.

In realtà, mentre la crisi finanziaria e la conseguente crisi economica hanno avuto un impatto
negativo sulla maggior parte delle imprese, le imprese cooperative in tutto il mondo mostrano
capacità di recupero. Le cooperative finanziarie rimangono finanziariamente solide; le cooperative
di consumo documentano fatturati in crescita; le cooperative di lavoro crescono perché le persone
scelgono la forma di impresa cooperativa per rispondere alle nuove realtà economiche.
E poi naturalmente ci sono la diffusione e il crescente successo di modelli collaborativi e
cooperativi di condivisione su internet, che non dovrebbero essere considerati come fenomeni
separati da quelli visti in altri settori, ma forse come una finestra di ciò che ora potrebbe funzionare
in altri contesti. Come l’I-phone e l’incoraggiamento di Facebook ai programmatori a creare
applicazioni per loro, lo sviluppo dei siti di social network, il successo del movimento dell’open
source con le sue storie-simbolo, Linux e Apache. Ma anche più in generale il “movimento open”,
che comprende l’”open design” dove, a Helsinki per esempio, c’è stata una rivoluzione nel modo di
progettare le case delle persone anziane con gli anziani che sono parte del processo di
progettazione, e il modello di creazione “open” proprio di Wikipedia.

Ciò che tutti questi fenomeni hanno in comune è che puntano a una versione multiplayer del
capitalismo che incoraggia tutte le parti a lavorare insieme per il raggiungimento di un bene
comune.

Il Coop Capitalism è la versione politico-economica di “Yes we can”. Un sistema che ha il
potenziale per essere più inclusivo, più equo e più partecipativo di quello che ha guidato il mondo
nel passato. Un sistema che tende a regole eque, alla giustizia sociale e alla sostenibilità e riconnette
l’economia con ciò che è giusto e ciò che ha senso.
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