India: vendere ed investire in una delle più grandi economie del mondo
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Vicenza, 29 giugno 2011 India: vendere ed investire in una delle più grandi economie del mondo L’economia indiana ed i suoi punti di forza Quando mi è stato chiesto di venire qui oggi a raccontare quello che credo di aver capito dell’India e della sua economia, come al solito, mi sono trovato un po’ in imbarazzo. E prima di arrendermi alle richieste di chi mi aveva esteso l’invito devo confessare di aver velocemente passato in rassegna tutte le scuse che avrei potuto accampare per non dovermi assumere questa responsabilità. Non è per una questione di pigrizia o per il fatto che non amo particolarmente parlare in pubblico, ma per via di una cosa che, per una persona nella mia posizione, è un po’ più difficile da giustificare. Ogni volta che mi si chiede un parere sull’India io mi trovo in grande imbarazzo. Dopo aver passato quattro anni e mezzo della mia vita a Delhi e aver scritto centinaia di articoli per il Sole 24 Ore. Dopo aver viaggiato in lungo e in largo per il paese, dalle montagne del Kashmir fino agli atolli dell’Oceano Indiano e dai deserti del Rajasthan fino alle foreste del Chhattisgarh e dopo aver visitato un centinaio tra megalopoli, metropoli, città, cittadine, distretti industriali, baraccopoli e villaggi sperduti a 10 ore di macchina dall’aeroporto più vicino. Dopo esser passato da fabbriche linde come ospedali e ospedali sporchi come fabbriche, dopo aver visitato stabilimenti, officine, raffinerie, call center, piantagioni, uffici pubblici, palazzi principeschi, seggi elettorali, botteghe e anche qualche campo campi profughi. Dopo aver intervistato ministri, leader politici, banchieri, imprenditori, maharaja, capi tribù, economisti liberisti e guerriglieri maoisti. Dopo aver fatto tutto questo. Ogni volta che devo dire qualcosa dell’India non so da che parte iniziare. Io penso che potrei passare i prossimi 10 minuti a convincervi che se volete essere rilevanti sui mercati globali, dovete essere in India. Altrimenti meglio cambiare mestiere. E con la stessa facilità potrei impiegare i prossimi 10 minuti a farvi passare la voglia di mettere mai piede in questo straordinario pezzo di mondo. Per capire come sia possibile avere idee tanto diverse su un paese, per di più in presenza di uno dei più solidi boom economici della storia recente può essere utile una breve digressione letteraria. Nel 1964 uno scrittore che di lì a qualche decennio avrebbe vinto il premio Nobel per la letteratura, VS Naipaul scrisse un libro bello e terribile sull’India, il paese dei suoi antenati, intitolato “Un’area di tenebra”. Una definizione che, a quasi mezzo secolo di distanza e nonostante la straordinaria scossa vitale dell’ultimo ventennio, per certi versi è ancora attuale. La conferma viene dal successo di un altro libro, “La tigre bianca” di Aravind Adiga, un giovane autore indiano che nel 2008 ha vinto il booker prize ovvero il più prestigioso premio letterario del mondo anglosassone. Nella Tigre bianca le regioni rurali dell’India vengono caratterizzate lungo tutto il libro con l’appellativo di “Tenebre”, in aperto contrasto con le città in cui il protagonista riesce, benché delittuosamente, a farsi strada. La domanda che viene da porsi è questa: a decenni di distanza - e decenni, badiamo bene, ricchissimi di trasformazioni in gran parte positive – ha ancora senso parlare dell’India anche in termini di tenebre?
Vicenza, 29 giugno 2011 La risposta a mio modo di vedere è sì. Ma spiegarlo non è sempre semplice anche perché in questi anni, in Italia forse più che altrove, non è stato facile gettare un fascio di luce che rendesse queste tenebre meno imperscrutabili, né farsi un’idea dell’India moderna che non fosse approssimativa al limite dello strabismo. Una parte della colpa risiede nel fatto che tra il boom economico italiano e quello indiano, al fianco di un numero rilevante di analogie (il forte processo di urbanizzazione, il motore del basso costo del lavoro e un certo arrancare dei servizi pubblici a fronte del dinamismo del settore privato) rimangono alcune differenze fondamentali. Perché obiettivamente è difficile paragonare un paese con oltre un miliardo di abitanti e alcuni degli indicatori sociali più drammatici del pianeta con l’Italia del secondo dopoguerra che, benché povera, aveva solo 47 milioni di abitanti e non viveva una carestia da quasi 3 secoli. Pensare al boom indiano solo ed esclusivamente nei termini in cui siamo abituati a ricordare quello italiano rischia quindi di essere fuorviante. Ma una parte di responsabilità nella nostra incapacità di capire la contraddittorietà del grande sviluppo in corso in India risiede anche nei meccanismi talvolta un po’ rozzi e schematici che governano il nostro giornalismo (e mi ci metto anch’io, ci mancherebbe) e la nostra saggistica (e qui invece professo la mia innocenza perché per vostra fortuna non ho mai scritto libri sull’India). Il lettore italiano curioso di cose indiane, dopo aver passato decenni a sfogliare uno straziante catalogo popolato di mendicanti menomati, bambini afflitti da malattie dimenticate, stagnazione economica e leader politici assassinati, si è trovato d’improvviso catapultato in un mondo fiabesco e commovente fatto di ragazzi diligenti che, grazie al mondo appiattito dalla banda larga, impartiscono lezioni di matematica via computer ai propri viziati e ignoranti coetanei americani. Passi che ciò che è nuovo fa inevitabilmente più notizia di ciò che è vecchio, ma ogni tanto un pizzico di contesto in più e qualche semplificazione in meno non guasterebbero. Soprattutto per poter tratteggiare un’India più vicina alla realtà, laddove il paese, per la sua vastità geografica e demografica e per la sua complessità culturale e sociale è inevitabilmente assai più contraddittorio di quanto non suggeriscano certi schematismi. Non è un caso che, a vent’anni dall’inizio delle riforme economiche, molte cose siano cambiate straordinariamente in meglio e tante altre siano rimaste maledettamente uguali. Se negli anni 80 occorrevano dai 6 agli 8 anni - non giorni o settimane o mesi, ma anni - per farsi allacciare una linea telefonica, oggi bastano pochi minuti per avere un BlackBerry perfettamente funzionante. E infatti, secondo le stime più prudenti, mezzo miliardo di indiani hanno già un numero di telefono. Che gli consente di tenere i contatti con i parenti lontani, con i clienti e i fornitori e, sempre più spesso, di accedere a quei servizi bancari che, offerti in forme più tradizionali, eluderebbero gli strati più svantaggiati della popolazione, contribuendo a perpetuarne la marginalità. Eppure, sul fronte opposto, secondo la graduatoria stilata annualmente dalla Banca Mondiale, la burocrazia indiana resta una delle più incomprensibili, elefantiache e annichilenti del pianeta. Contribuendo a fare della terza potenza economica dell’Asia (dopo Cina e Giappone e ormai davanti alla Corea del Sud), il 134esimo paese al mondo per la facilità con cui si possono fare affari. Collocando l’India non solo ben lontano da quei grandi paesi emergenti a cui viene spesso associata come Cina e Brasile, ma anche diverse posizioni più indietro dei suoi disgraziatissimi “cugini” come Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka, nazioni note più per piaghe come terrorismo, regimi dittatoriali e guerre civili che per la propria capacità di attrarre investimenti.
Vicenza, 29 giugno 2011 Sotto la voce “progressi” è difficile non collocare il miglioramento dell’aspettativa di vita, passata dai 58 anni del 1991 ai 64 del 2008, un balzo che non si spiega solo con i progressi della scienza medica, ma piuttosto con lo straordinario tasso di crescita del Prodotto interno lordo che, dopo decenni, ha finalmente cessato di languire intorno della cosiddetta Hindu rate of growth, il cosiddetto “tasso di crescita indù”, un modesto 2-3% che veniva puntualmente vanificato, anno dopo anno, da un pressoché uguale incremento demografico. Oggi, a vent’anni dal quel fatidico 1991 (quando il paese era ormai sull’orlo del default) e nonostante si sia solo all’indomani di una spaventosa crisi economica globale, il tasso di crescita del Pil indiano oscilla tra l’8 e il 9% annuo, secondo solo a quello cinese tra le economie di grandi dimensioni. Eppure secondo il ministero delle Finanze indiano dal 1987 a oggi il consumo di calorie del 50% di popolazione meno abbiente non è aumentato, bensì sceso. Non è un caso che, secondo i dati dell’Unicef, il 46% bambini indiani con meno di 3 anni sia meno sviluppato di quanto dovrebbe. Dietro i fallimenti che continuano a rallentare la altrimenti irresistibile ascesa dell’India, come detto, non c’è solo la timidezza con cui un ceto politico in buona parte cresciuto nel mito dell’autosufficienza sta introducendo le riforme economiche a lungo rimandate. C’è anche il livello spesso non eccelso della classe politica del paese (secondo la classifica di Transparency International il livello di corruzione è lo stesso della Liberia); ci sono civil servant di prim’ordine, specie nell’Indian Administrative Service e nel Indian Foreign Service a fianco di altri sfacciatamente disonesti; c’è un’atavica rassegnazione di larghi strati della popolazione (anche se gli ultimi anni hanno visto dei segnali di riscossa, confinati però tra i ceti medio alti dei grandi centri urbani). È anche per questo che è dannatamente difficile venire qui e cercare di vendervi qualche comoda verità sull’India. Il paese è troppo contraddittorio: nello stesso governo convivono alcuni degli uomini politici più ignoranti e corrotti del paese e il primo ministro forse più onesto e competente del mondo. Noi occidentali vediamo nell’India – anche a ragione – il paese più spirituale del mondo. Salvo accorgerci che le divinità più popolari sono quelle associate al successo negli affari. A guardarlo dall’esterno si è tentati di tentare il paragone con l’Italia e parlare di un’economia che cresce mentre la politica dorme, ma allo stesso tempo come non riconoscere alla classe politica indiana, pur con tutti i suoi difetti, il merito di essere riuscita a tenere assieme un paese così diverso e frammentato che nel 1947 al momento della sua nascita nessuno avrebbe scommesso mezza rupia sulla sua tenuta? Proprio perché l’India è tanto complessa, sfaccettata e soprattutto contraddittoria, l’unico consiglio che mi sento di dare a un imprenditore che si avvicina al mercato indiano è di riflettere. Non tanto sull’opportunità di entrare. A meno che voi produciate automatismi per porte e cancelli, lavastoviglie o impianti di autolavaggio – tutte attività che in India sono prerogativa del personale di servizio - credo che questo paese possa offrirvi dei dignitosissimi margini di crescita. La riflessione che vi invito a fare è sul come entrare e sul con chi entrare. Molte delle joint venture meno fortunate che ho visto nascere e naufragare in India in questi anni sono state affossate da due fattori: partner sbagliati e la convinzione – errata – che l’India è un mercato talmente vasto che c’è spazio per tutti, che basti esserci per potere vendere. Sul primo punto quello che mi sento di dire è “Non abbiate paura di perdere qualche mese più del previsto prima di individuare il socio giusto”. Incontrate più di un possibile
Vicenza, 29 giugno 2011 partner. Affidatevi a una società di consulenza o a un grande studio legale, passate qualche settimana in India e cercate di fare un po’ di networking per capire chi è la persona giusta con cui fare affari. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo anni fa, oggi ce l’ha felicemente al proprio fianco anche in business completamente diversi da quelli di partenza. Si ritrova con un mediatore culturale indispensabile per gestire la complessità indiana. E viene invitato, con tutti gli onori, ai matrimoni dei figli del proprio socio. Chi, per fretta per entusiasmo o per superficialità, non ha fatto la due diligence che sarebbe stata opportuna prima di scegliere un partner non solo non è cresciuto come avrebbe dovuto, ma spesso ha dovuto fermarsi, e ricominciare tutto da capo, perdendo soldi, tempo e fiducia. Restando scottato da un paese che ha moltissimo da offrire, ma che ha una classe imprenditoriale che quando vuole non fa sconti. E sa essere spietata con un socio sbagliato almeno quanto con un competitor agguerrito. Quanto al “come entrare” il consiglio che mi sento di dare è il seguente: non vi lasciate sedurre da business plan basati su proiezioni di crescita cinesi. In taluni settori possono rispondere al vero, in altri certamente no. Ne sanno qualcosa i marchi del lusso che dopo anni di rodaggio iniziano ora a prendere le misure a un bacino di clienti rivelatosi più piccolo del previsto. Dopo decenni trascorsi mestamente nel mito dell’autosufficienza, oggi finalmente gli indiani hanno possibilità di scelta non troppo dissimili da quelle che abbiano noi in occidente. E un numero crescente di loro chiede ai prodotti che compra qualità e prestigio, ma a prezzi competitivi, come ha imparato la Renault quando ha tentato, senza successo, di vendere agli indiani la Logan. La maggior parte degli automobilisti indiani forse non può ancora spendere cifre esorbitanti per una vettura, ma non per questo si rassegna a comprarne una così sfacciatamente brutta. È anche per questo rapido formarsi di un ceto medio in grado di discernere assai bene tra ciò che vale o non vale la pena di acquistare, che lasciarsi intrappolare dalla contrapposizione tra il numero crescente di benestanti e quello, crescente anch’esso, dei diseredati è un po’ superficiale. Significherebbe dimenticare che nel mezzo, tra i miracolati del boom e coloro su cui la modernità si sta abbattendo violenta e incomprensibile come uno tsunami, non c’è solo un confine, che per taluni purtroppo continua a restare invalicabile. Ma c’è anche una vitale e straordinariamente promettente zona grigia fatta di centinaia di milioni di persone che negli ultimi anni hanno visto crescere il proprio reddito a tassi che non hanno precedenti nella storia del paese. E non si tratta soltanto delle famiglie benestanti (quelle con introiti superiori ai 34mila dollari annui), passate da 1 a 2,5 milioni in soli 5 anni. Ma di una fetta di popolazione enorme, circa un terzo del totale ovvero 400 milioni, che senza poter essere ancora considerata a pieno titolo parte del ceto medio da anni a questa parte si nutre in maniera più ricca; sogna, e talvolta acquista, una moto. E, estate dopo estate, passa con crescente orgoglio e sollievo dai ventilatori, ai cooler fino ai condizionatori d’aria. Sono loro il vero motore produttivo della nuova India, e sono sempre loro i consumatori incrollabilmente fiduciosi che nei mesi cupi della grande crisi economica mondiale hanno continuato a far girare l’economia, consentendo a New Delhi di attraversare quasi indenne la tempesta che in Occidente, tre anni più tardi, continua ad agitare i sonni di ministri delle Finanze, banchieri centrali e imprenditori come voi. Si tratta di una fetta di popolazione che è quanto di più nuovo abbia saputo produrre la società indiana e che è stata capace, tra le altre cose, di sottrarsi almeno in parte alla tradizionale bipartizione tra
Vicenza, 29 giugno 2011 città e campagne. Perché se è vero che molti di loro vivono nelle cosiddette metros come Delhi, Mumbai e Bangalore è innegabile che altrettanti risiedano in città decisamente più piccole, non di rado con meno di un milione di abitanti. Se un giorno potremo parlare finalmente dell’India essendoci liberati dell’odioso dualismo tra luce e tenebre il merito sarà in buona parte anche loro. Marco Masciaga Giornalista economico
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