James Senese e i Napoli Centrale di scena a Laurino

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James Senese e i Napoli
Centrale di scena a Laurino
Va in scena sabato 25 di Settembre, nell’anfiteatro naturale
di Laurino, l’ultimo appuntamento del Cilento Music Festival
kermesse artistica ideata e diretta da Lillo De Marco.
Concerto da non perdere, inserito nella seguitissima tournée
italiana, del sassofonista napoletano James Senese – con la
storica band Napoli Centrale – a supporto della sua ultima
fatica discografica dal titolo “James back” (Ala
Bianca/Warner) e del docu-film “James” – di Andrea Della
Monica – presentato con successo alla Mostra Internazionale
del Cinema di Venezia 2020. “Nella società attuale – dichiara
James Senese – è diventato molto difficile far prevalere il
bene sul male e ancora più complesso parlare alle persone per
cercare di far capire loro quella che per me è la strada
giusta dei sentimenti. Ogni persona ha un proprio credo, non
siamo tutti uguali e ognuno costruisce il proprio mondo in
modo differente. Ma uno dei problemi principale è che vi sono
persone che hanno velleità dominanti. Per realizzare il mio
ultimo lavoro discografico ho guardato un po’ dappertutto, per
trovare una voce comune che potesse entrare nel cuore della
gente. E’ un disco molto sofferto ma pieno d’amore ed è
proprio l’amore quello che io cerco in ogni momento della mia
vita e del mio lavoro. Il lavoro che ho fatto è stato di
cercare un unico suono: quello della verità, il mio essere
nero e bianco… per potermi ritrovare e ritrovare la mia
identità. Sembrano canzoni ma sono al di sopra delle canzoni,
sono lo specchio della mia vita, in questi brani si sente il
soffio del mio cuore.”
L’ Elisir d’amore, “Venite,
venite a vedere!”
di Olga Chieffi

Questa sera, alle ore 20, nell’arena lirica del Ghirelli,
ultima opera en plein air in cartellone prima dell’agognato
ritorno in teatro, con l’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti,
un melodramma giocoso, che sarà ambientata coraggiosamente nel
settembre del 1943 a Salerno dal regista areniano Stefano
Trespidi. Vicenda, libretto e musica formano un miracolo di
perfezione che fa di questo lavoro uno dei massimi risultati
del teatro in musica e difficilmente un allestimento di
quest’opera delude o risulta sconclusionato: basta non tradire
l’ingenuità maliziosa della storia e si è sulla buona strada.
L’opera datata 1832, conta due soli personaggi buffi, Belcore
e Dulcamara: il primo caricatura del militare galante è stata
affidata alla voce di Biagio Pizzuti, e il secondo, il dottore
ciarlatano, sarà interpretato da Misha Kiria. Quanto agli
altri personaggi, i veri protagonisti, Nemorino e Adina, lui,
il tenore Valentyn Dytiuk, appartiene alla categoria dei
ragazzi timidi e sentimentali, sospirosi e facili alle cotte,
mentre lei, il soprano Irina Lungu, pur facendo la civetta e
dandosi delle arie, è in fondo una donna semplice e
innamorata, suscita il sorriso per il suo carattere
squisitamente femminile, per la simpatica malizia. Intorno,
comunque, dovrebbe spirare una rustica aria di paese, che
l’orchestrazione rende ancor più agreste. Gli abitanti danno
l’idea di vivere fuori dal mondo, ma in realtà ne sanno una
più di Dulcamara, con il loro sornione, concreto agnosticismo,
che in sostanza profitta ora di questo, ora di quell’altro che
capita in giro. Il pudico ingenuo Nemorino riuscirà a far
breccia nel cuore della “fittaiuola” con la tenerezza della
sua commovente devozione, e non per merito del filtro al
Bordeaux. Siccome in quel mondo tutto da sempre, va per il
meglio, anche i ciarlatani giungono a proposito. L’opera ebbe
un’accoglienza tanto favorevole da sorprendere lo stesso
Donizetti che l’aveva composta in soli quattordici giorni. La
romanza da utilizzare già era in serbo ed era il pezzo forte
dell’opera “Una furtiva lagrima”, dolce, appassionata,
voluttuosa, affettuosa come una serenata, si annuncia a scena
vuota col fagotto, accompagnamento di archi pizzicati e arpa,
lo strumento dell’innocenza come in Lucia. Sul piano musicale
e teatrale rappresenta la più bella risposta che si poteva
dare alle fanfaronate di Dulcamara, che non era venuto da
quelle parti, a bordo del suo carro, per affrontare problemi
di cuore così cocenti, ma soltanto per aumentare, dello
stretto indispensabile, il pizzicore dei sessi addormentati.
La sua tiritera di marca rossiniana “Udite, udite, o rustici”,
lascia largo spazio alla declamazione del basso comico, a
spassi onomatopeici e allitteranti,      che il personaggio
abbandona soltanto quando prende         parte, nei punti
significativi, ai disegni melodici e ritmici dell’orchestra:
la chiusa, “Così chiaro è come il sole”, riassume in forma
ternaria di danza allegra, contadina, il concetto
dell’umorismo ciurmatore. Certo, il furbacchione è tanto ben
trovato che contagia l’intero dinamismo dello spartito,
trascinando bisticci, agitazioni, languori e villanesche di
chiara e godibile umanità, le guance arrossate dal buon vino
(vi scorra o no l’attesa lagrimuccia). Sotto il profilo
tecnico, il compositore scrive senza dare l’impressione del
calcolo, senza incertezze e problemi; rivelando un eccelso
mestiere e una fiducia illimitata nella sicurezza
dell’esposizione. Al tempo stesso la profondità e la
convinzione della melodia, così come la sottile abilità di
orchestrare in modo moderno, per quei tempi, pongono lo
spettatore in condizione di afferrare senza sforzo la natura
dei personaggi e l’intreccio della vicenda. A completare
l’eccellente cast ci sarà Miriam Artiaco, che vestirà i panni
di Giannetta. Sul podio l’esperta bacchetta di Daniel Oren,
sarà ancora una volta alla testa dell’Orchestra Filarmonica
Salernitana “G.Verdi” e del coro, preparato da Armando Tasso.
Si replica fino al 28 settembre.

De   Marino  festeggia  il
“Trentennale” con le Terme
Stabiane
Domani, sabato 25 Settembre 2021 alle ore 21.00 con il “Live
String Quartet” (Alessio Coppola, Pasquale Di Palma e Marta De
Marino) Espedito De Marino si esibisce nel suggestivo scenario
delle “Antiche Terme” di Castellammare di Stabia (Na), a 30
anni dall’ultimo Concerto tenuto nelle Terme (30/7/1991), fu’
quella una serata memorabile, vide fra gli ospiti d’onore
Roberto Murolo, Nunzio Gallo, il Teatro San Carlino, altri
esponenti del mondo afferente la Cultura, lo spettacolo, la
politica. In programma Musiche e canzoni “Identitarie” tratte
dal più noto “Pentagramma Napoletano” intersecato a
virtuosismi    andalusi/Mediterranei.      L’Evento   rientra
nell’Estate promossa dall’Amministrazione Comunale di
Castellammare di Stabia e l’organizzazione è curata da
Vincenzo Pugliese. L’ingresso è libero ma bisogna esibire il
green pass.

Raffaele Alfano: dalla parte
della tromba
di Olga Chieffi

Elisir   d’amore   I   atto   scena   quarta:   nella   piazza   del
villaggio, tra il via vai di gente indaffarata. Una cornetta
sul palco annuncia l’arrivo di un “gran signore”, con un
motivo indelebile, squillante in 3/8, un richiamo
irresistibile: arriva Dulcamara. E’ questa una delle scene
centrali dell’ opera di Gaetano Donizetti che chiuderà
l’estate del Teatro Verdi, in trasferta all’arena lirica del
Ghirelli, quella che introduce l’ultimo dei quattro personaggi
principali dell’opera, il ciarlatano, colui che darà una
svolta decisiva all’opera, rompendo la situazione di stallo
iniziale, ovvero l’idillio impossibile tra Adina e Nemorino.
La riflessione sul personaggio, stavolta, la faremo dalla
parte della tromba, incontrando la prima parte dell’Orchestra
Filarmonica Salernitana, Raffaele Alfano. Raffaele, domani
sera ti ritroverai a introdurre il Dottor Dulcamara,
personaggio chiave dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti,
quasi un deus ex machina. Per il binomio Oren Trespidi come
eseguirai queste battute? “Per questa produzione di Elisir
rimarrò, per così dire, in “buca”, siamo all’aperto, diciamo
che non mi muoverò dal mio leggìo, anche perché la location
all’aperto, non facilita gli spostamenti. In questo caso,
adotterò un suono classico, pulito, marcando gli accenti e
badando al crescendo sulla quartina di semicrome che porta
allo squillo d’annuncio di Dulcamara, richiesto dal M° Daniel
Oren”. La tromba è uno strumento angelico e guerriero, non
solo, naturalmente, per Gaetano Donizetti, che canta
dolorosamente nel Don Pasquale, incarnando, perfettamente le
aspirazioni eroiche frustrate di Ernesto e la sua partenza,
un’allusione   fonica abbastanza esplicita alla cornetta del
postiglione,    carica di malinconia romantica, o nel “Don
Sebastiano”    con “Squilla la tromba”, in cui le trombe,
praticamente   fanno graziare Zaida e comandano la partenza
delle navi dal porto di Lisbona, quali le tue esperienze?
“Sicuramente, preferisco la “tromba triste” del Don Pasquale,
in cui mi esprimo meglio e riesco a coinvolgere l’ascoltatore
maggiormente col bel suono e l’iridescenza del colore, che con
lo squillo. Mi piacerebbe molto ripetere l’esperienza del Don
Pasquale e creare nuovamente il climax per il “Povero
Ernesto”. La tromba ha scelto Raffaele Alfano o Raffaele ha
scelto la tromba? “La tromba ha scelto Raffaele, senza alcun
dubbio. Mio zio, Antonio Esposito, era il patron del Gran
Concerto Bandistico “Città di Fisciano” e nelle formazioni di
giro, i protagonisti sono il maestro direttore e il flicorno
sopranino, il “flicornino” concertista. Da piccolissimo, zio
mi portava in giro con la banda e gli occhi erano rivolti agli
ottoni lucenti dei flicorni e delle trombe, ma non azzardavo a
chiedere di suonare. Quando zio mi propose lo studio della
musica e quello della tromba, fui felicissimo. Mi affidò,
così, ad Andrea Santaniello, fratello di Carmine, trombettista
e attuale direttore del Conservatorio San Pietro a Majella di
Napoli e di lì ho iniziato il mio percorso di studio”. Quando
e come ti sei accorto che la musica sarebbe stata la tua
strada? “La decisione è giunta subito. Ho iniziato con la
banda, ho suonato di tutto, anche la musica leggera, tutto il
cantautorato italiano e anche il Rhythm&Blues e sua
evoluzione. In una tournée con Ennio Morricone, ci siamo
sfidati “after hours”, per divertimento, con il sassofonista
Gianni Oddi, su polke,mazurke, tanghi e fox trot,
nell’interpretazione del liscio, di cui sono amante e anche
ballerino”. Freddezza, passione per un acuto, per un passaggio
difficile. Quanto cuore e quanta ragione prevede il mix di
Raffaele Alfano? “Viene sempre prima il cuore, poi la ragione
e in ultimo la perseveranza. Prima di un acuto che decreterà,
nel pubblico, entusiasmo o avversione, perché è così, puoi
aver suonato benissimo sino alla fatidica battuta, ma se
stecchi sarai ricordato solo per l’errore, come avviene per i
cantanti, un respiro profondo e un sol pensiero che, se sei
arrivato sul palcoscenico per eseguire quella pagina, sei in
grado di riuscire e andrà sicuramente bene. Nel momento in cui
hai pensato tutto ciò l’attimo fatidico è passato”. La tromba
è uno strumento dai mille volti, lirico, sinfonico e non si
può non guardare anche al jazz, che ha offerto una svolta
tecnica fondamentale a questo strumento. “Certo, si devono
conoscere e praticare tutti i generi. Anche la mia proposta da
didatta esplora per intero l’universo trombettistico. D’altra
parte ottoni e ance non possono assolutamente esulare dalla
musica afro-americana, i cui interpreti azzeccarono subito la
fisionomia espressiva e altamente tecnica, di questi
strumenti, oltre ad offrire un volto individuale a ciascuno
dei tagli”. In genere, si inizia sempre guardando, ascoltando
e cercando di “imitare” i propri modelli, i propri capiscuola,
quali i tuoi? “Ho sempre ammirato Wynton Marsalis, genio
proteiforme,     forse    il   trombettista     maggiormente
rappresentativo di questo inizio del nuovo millennio, virtuoso
inarrivabile che sposa le due anime dello strumento, quella
jazz e quella squisitamente accademica. Poi, c’è Maurice Andrè
la massima tromba classica del secolo breve, il padre di tutti
noi. Nel nostro teatro Sergej Nakarakiov, uno dei massimi
trombettisti mondiali, ha tenuto due giorni di masterclass, in
cui ci siamo potuti confrontare con la sua tromba pirotecnica,
nonché col suo flicorno ove mostra uno stile legato sensibile
e profondo con un suono meraviglioso. Non per ultimo, ma
unicamente poiché solo pochi, purtroppo, hanno, ad oggi,
potuto godere della sua maestria, su trombe, trombini e
flicorni, per sua inspiegabile scelta, è Vincenzo Toriello, il
quale, e qui lo affermo senza temere smentite, potrebbe
assurgere alla ribalta internazionale”.

A             Nocera                     Superiore
arrivano Colapesce                              e        Di
Martino
di Monica De Santis

La coppia di cantautori Di Martino-Colapesce battezza la prima
edizione della rassegna Nuceria Music Fest, in programma
Domenica 26 Settembre al Parco Archeologico (ex Foro Boario)
di Nocera Superiore. Il festival – promosso e finanziato dalla
Regione Campania attraverso la Scabec (società in house della
Regione impegnata nella promozione del patrimonio culturale
campano) in collaborazione con il Comune di Nocera Superiore –
punta alla valorizzazione del patrimonio culturale e artistico
della città attraverso una giornata fatta di itinerari, visite
guidate e concerto finale nell’ex Foro Boario, a due passi dal
Battistero paleocristiano di S.Maria Maggiore che conserva
intatto il secondo fonte battesimale più grande d’Italia dopo
quello lateranense e che sarà visitabile nell’arco della
giornata. «Stiamo lentamente, ma con la necessaria prudenza,
tentando di restituire ai cittadini di Nocera Superiore una
programmazione di eventi e di percorsi culturali finalizzati a
valorizzare il patrimonio archeologico dell’antica Nuceria –
spiega il sindaco Giovanni Maria Cuofano – ed è in questa
direzione che abbiamo immaginato un appuntamento annuale da
istituzionalizzare in grado di unire la musica, lo spettacolo,
la cultura e che ha trovato un mecenate nella Regione Campania
attraverso la Scabec. Lorenzo Urciullo e Antonio Di Martino,
questi i loro nomi all’anagrafe, di Colapesce e Di Martino.
Lorenzo Urciullo è originario di Solarino, in provincia di
Siracusa. Classe 1983, è nato il 6 settembre, sotto il segno
zodiacale della Vergine. Ha 37 anni. Il nome Colapesce è
ispirato ad una leggenda siciliana secondo la quale Colepesce,
abile pescatore, decise di restare sott’acqua a sorreggere
l’Isola per evitare che sprofondasse nel mare. Antonio Di
Martino è originario di Misilmeri, in provincia di Palermo.
Classe 1982 è nato il 1 dicembre sotto il segno zodiacale del
Sagittario. Ha 38 anni. Come il collega Colapesce ha un
passato in una band, i Famelica, che ha fondato nel 1998. Nel
2010 il gruppo cambia nome e prende il cognome del frontman,
Dimartino, e pubblica 3 album. Di Martino è anche scrittore:
nel 2019 è uscito il suo primo romanzo, Un mondo raro. Lo
stesso titolo dell’album realizzato in coppia con Fabrizio
Cammarata. Lo stesso anno è diventato papà ed è tornato sulle
scene musicali da solista con l’album Afrodite. Dal 2020 fa
coppia con Colapesce: il duo aveva già collaborato in passato
nelle scrittura di brani per diversi cantanti italiani, tra i
quali Levante, Marracash e Francesco Renga. L’inizio del
concerto è previsto alle ore 21:30 e l’accesso all’area sarà
consentito entro le ore 20:30. L’ingresso è gratuito, ma
previa prenotazione da effettuare sulla piattaforma web
eventbrite.it             al          seguente           link
https://www.eventbrite.it/e/biglietti-colapesce-di-martino-nuc
eria-music-fest-175323867407 sino ad esaurimento dei posti
disponibili a sedere sistemati, all’interno del Parco
Archeologico, in maniera distanziata secondo le norme anti-
Covid. Per accedere all’area sarà necessario essere muniti di
documento di riconoscimento, ricevuta di prenotazione nominale
del biglietto gratuito e green pass.

Antonio     Florio:                                    dai
Carabinieri alla banda
Di Antonio Florio
“…..Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il
quale, sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo si
trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone,
si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada,
coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il caso di
maggiori disgrazie.” E’ il terzo capitolo del Pinocchio di
Carlo Collodi, attraverso il quale un po’ tutti hanno
cominciato a conoscere gli amici Carabinieri, e che io
incontrai per la prima volta da piccolissimo proprio alla
processione di San Matteo. Mia madre, Giuseppina Fiorillo, non
ha mai mancato di partecipare a nessuna processione patronale
e ha sempre portato con sé tutti i suoi figli. Quell’anno
particolare eravamo in quattro io e i miei tre fratelli più
piccoli, Silvano, Ciro e Lucio. Mia madre portava il più
piccolo Lucio in carrozzino, uno sulla pedanetta delle ruote e
due per mano. Io ero il più grande e, naturalmente, il più
irrequieto e, attirato dalle luci, dalla gente, dalle
bancarelle, dai venditori di palloncini (la festa di oltre
settant’anni fa era una festa vera, fatta di suoni, colori,
profumi, afrori, stanchezza!), volevo divincolarmi dalla mano
di mia madre. Lei pensò bene di chiamare i Carabinieri, che
all’epoca giravano in alta uniforme, col famoso pennacchio
rosso e blu e di affidarsi a loro per farmi portare nelle
patrie galere, in caso di ulteriori segni di irrequietezza e
insofferenza. Ebbi, così, timore e non lasciai più la mano di
mia madre. In seguito,     ho partecipato alla festa di San
Matteo da musicista, da direttore musicale e, quando mio padre
Franco, ebbe l’incarico da Alfonso Menna, di rifondare la
banda dell’Istituto Umberto I, a cavaliere degli anni ’70 e
’80, ho suonato anche in processione. Si partì dall’istituto
suonando, come ai tempi d’oro della formazione dell’ Umberto
I, per andare in duomo e mio padre volle far tappa dinanzi
alle cancellate delle carceri di Sant’Antonio, che davano
sulla strada, per donare un segno di festa anche a quanti non
avrebbero mai potuto partecipare ai festeggiamenti e anche
perché diversi carcerati erano passati dal cosiddetto
“serraglio”, in cui lui stesso era stato ospite, istitutore e
Maestro. Fu una processione lunghissima quella, con un
repertorio marciabile scelto da mio padre, quasi per intero
composto dal Maestro Gaetano Savo, da “Creola” a “Rinascita” a
“Vessillo”, provato per giorni, non solo musicalmente, ma
anche nel passo, che ci aiutò a superare la fatica e a
sostenere lo sforzo sovrumano dei portatori. Poi, la corsa giù
dal duomo per partecipare alla festa musicale in piazza
Amendola e alla prima “salve”, intorno alla mezzanotte tutti
felicemente distrutti a Lungomare per ammirare i fuochi
pirotecnici.

Musica   per   il   solenne
pontificale di San Matteo
di Olga Chieffi

Il canto liturgico è parte integrante della liturgia solenne
perché favorisce la partecipazione di tutta l’assemblea dei
fedeli. Difatti, «non c’è niente di più solenne e festoso
nelle sacre – recita il Sacrosantum Concilium – celebrazioni
di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà
e la sua fede… L’azione liturgica riveste una forma più nobile
quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il
canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del
popolo». Il canto, adeguato alla nobiltà della liturgia, fa
parte dell’ars celebrandi a servizio della bellezza; non va
considerato come un’aggiunta ornamentale in vista di una
maggiore solennità, ma appartiene alla forma simbolico-rituale
propria della celebrazione eucaristica, si fa evento che,
nella fede, i cuori amanti e oranti possono intuire e
sperimentare nello Spirito, attraverso i segni. Stasera nel
solenne pontificale di San Matteo, che si terrà a partire
dalle ore 18, in piazza della Libertà, celebrata dal Vescovo
Andrea Bellandi e dal cardinale Pietro Parolin, saranno i 60
coristi del coro diocesano, unitamente all’ensamble, diretti
da Remo Grimaldi ad animare musicalmente la celebrazione. Il
Maestro Grimaldi ha inteso spaziare dal sentire musicale di
Francesco Gabellieri espresso nella sua Missa De Angelis,
della quale ascolteremo il Kyrie Eleison, il Gloria, il
Sanctus, l’Agnus Dei, ispirati alla messa gregoriana, sia
nell’utilizzare anche solo i suoi riconoscibilissimi temi, sia
nel gioco drammaturgico dell’alternanza tra la melodia
gregoriana per Schola a due voci dispari, assemblea e organo,
popolare nella sua disarmante e naturale semplicità, all’
Alleluia Pasquale e all’Inno d’amore di Marco Frisina, canti
di semplice e gioiosa lettura, adatti a tutti, i Salmi
responsoriali di Don Emanuele Andaloro, sino al Misericordias
Domini di Henryk Jan Botor, attento a timbri e colori,
affidati in particolare all’organo, per chiudere con l’Inno di
San Matteo. Grande attesa e preparazione per questo evento che
vedrà schierato un ensemble di dieci strumentisti con Giorgia
Nardiello e Simone Giliberti al violino, Francesca
Scognamiglio alla viola, Valentino Milo al cello, Giuseppe
Grimaldi al contrabbasso, Claudia De Simone al flauto, Antonio
Del Giorno all’oboe, Marianna Natale al clarinetto, Mirko
Santoro al fagotto e Roberto Grieco alla tromba, con Anna
Bardaro all’organo.

Viaggio    nella    canzone
napoletana con Don Michele
di Olga Chieffi

Non c’è festa senza musica e stasera alle ore 21, sarà proprio
il parroco del Duomo di Salerno, Don Michele Pecoraro, a
salire sul palco, dopo i riti dedicati al Santo Patrono
Matteo, montato nella cornice accogliente e severa del
quadriportico, per offrire una serata che racchiuderà le gemme
più preziose della grande tradizione musicale popolare
partenopea. “Il titolo del concerto “Nunn’ è acqua” – rivela
Don Michele – è un verso di “Fenesta vascia” una canzone molto
antica, una delle mie preferite, risalente al XVI (o, più
probabilmente, al XIV secolo), scritta in dialetto, in
endecasillabi, da un autore ignoto, che all’inizio del 1800,
Giulio Genoino riadattò le parole al dialetto napoletano
dell’epoca e ai versi si aggiunse la musica di Guglielmo
Cottrau che la pubblicò nel 1825. Tenendo questa splendida
canzone, che ha avuto interpreti e arrangiatori di estrema
raffinatezza, come clou della scaletta, farò, con quanti
interverranno in atrio, un viaggio che attraverserà, a volo
d’angelo, l’universo della canzone napoletana”. Don Michele
avrà quali compagni di viaggio un quintetto di all stars, che
schiera Nicola De Angelis al pianoforte, Luca Petrosino che
ricordiamo sul palco di Sanremo a fianco di Ermal Meta, in
“Caruso”, al mandolino, Domenico Farina al flauto traverso e
Giuseppe Palladino con Gerardo Genovese, alla chitarra. Con
loro, Don Michele passerà dallo schizzo di quell’acquerello di
fine Ottocento alla “macchietta”, alla canzone di “giacca”, un
omaggio a suo padre Antonio, appassionato interprete del
genere, il quale gli ha instillato l’amore per la canzone
napoletana. E come chi legge un libro interagisce con la
pagina scritta, interpretando in maniera personale fatti e
personaggi, così, chi canta, frugando soprattutto nella sua
memoria, contribuisce un poco a ricreare quel canto. Le
canzoni rappresentano la storia di un popolo che attraverso
altissimi versi e musica immortale, si è posto in cammino,
cantando il suo amore, aprendosi ad ogni contaminazione, pur
mantenendo intatta la propria inconfondibile identità,
misteriosa e sfuggente. Quindi, Don Michele ci trascinerà
sull’onda sonora delle melodie napoletane che sono parte del
nostro più intimo sentire, attraverso arrangiamenti originali,
che ispirandosi alla città e ai suoi mille volti, ha scelto la
via della mescolanza, aprendo un dialogo con i diversi generi
musicali che hanno incontrato il canto napoletano. Un
canzoniere è una raccolta di musiche e versi che con i loro
contenuti hanno raccontato semplicità ed erotismo, esoterismo
e magia, rituali sacri e profani, feste popolari, in cui le
suggestioni, le intonazioni, le evocazioni di un vernacolo che
è più una lingua che un dialetto, si trasforma in un canto ora
dolente, ora euforico, capace di esprimere l’eterno incanto
dei sensi di questa magica Partenope. Il canzoniere allestito
da Don Michele principierà con un duo tra canto e mandolino
sulle note di “Palummella zompa e vola” ispirata da un’aria
del personaggio di Brunetta dall’opera buffa La Molinarella,
di Niccolò Piccinni, andata in scena a Napoli nel 1766,
inizialmente una satira contro il Regno d’Italia e un lamento
alla perduta libertà del meridione all’indomani di quella che
per taluni era ritenuta una conquista ingiusta, poi modificata
da Cottrau, per rinverdire quel gioco inimitabile tra musica e
parole. Dal mare nascono e al mare ritorneranno, infatti, le
note di questo concerto, che abbracciano la tradizione
popolare, la “poesia cantata” del repertorio d’autore,
completata dalla memoria sonora collettiva con il vigore
ritmico e l’aggressività espressiva che sa trasformarsi in
danza e nella eterna sfida del popolo partenopeo alla vita.

Il canto “Sui Generis” di 67
belle voci
di Vincenzo Leone

“Sui Generis”. Di “Maria e Gennaro Rivetti” Partecipa alla
terza edizione della “Festa dei cori. Salerno, La Woodstock
corale”. Organizzato da “ARCC”, avrà luogo domenica, al parco
del Mercatello, ore 19. Composto principalmente da famiglie
amanti della polifonia, “Sui Generis”, strizza l’occhio a
grandi e piccini, mettendo al primo piano, il coinvolgimento
emotivo e relazionale attraverso il canto d’insieme. Diretto
dai Maestri “Gennaro e Maria Rivetti”, il coro si avvale
dell’accompagnamento pianistico del Maestro Corrado Vecchi. Il
variegato collettivo, porta in scena svariatissimi generi
musicali, come la musica sacra, profana, contemporanea ed
etnica, riscuotendo parecchi successi e consensi anche su
scala internazionale. Esempio, la “Rassegna di cori
internazionali della Val Pusteria, nel giugno del 2019, o il
primo posto allo “Scapolare d’oro”, nella città di Campagna,
nel giugno del 2016. Durante l’intero periodo di Lock down, le
prove e le attività del complesso, non hanno mai incontrato
difficoltà. Grazie alle tecnologie “smart”, è stato possibile
partecipare al “Fabriano choral festival (web edition), nel
luglio 2020. I componenti sono ben 67. Si dividono in 36
soprani, 19 contralti e 12 tenori. Eccolo la lista completa.
(Gennaro Rivetti, Maria Rivetti, Sissi Cappello, Ferdinando
Vecchi, Corrado Vecchi, Davide Urru, Antonio Urru, Daniele
Signorelli, Maurizio Sconza, Cristian Polverino, Marco
Percoraro, Fulvio Mammone, Orlando Landi, Angelo Fiore,
Guerino Ferri, Giuseppe Del Giudice, Monica Zoccola, Luigia
Zoccola, Giuditta Spagnuolo, Antonietta Scotillo, Consiglia
Sconza, Anna Scandone, Monica Rossi, Carmelina Perolicchio,
Geradina Mondelli, Anna Mele, Cristina Marotta, Ida Mammone,
Stefania Maddalo, Letizia Ferro, Giuseppina Fattorusso, Emilia
Erra, Alesandra Crudele, Irene Concilio, Camilia Viscito,
Wendu Urru, Susanna Urru, Luisa Fernanda Urru, Carlotta Urru,
Brandon Urru,Luigia Trivisone, Vittoria Miyuki Trezza, Regina
Stanzione, Luigi Maria Signorelli, Gaia Rita Signorelli,
Angelo Signorelli, Antonio Sconza, Angelina Riviello, Maria
Teresa Rega, Roberta Pierro, Fiorella Pellegrino, Martina
Pecoraro, Anna Palma, Federica Mazzoni, Stefania Maisto, Anna
Gisolfi, Maria Giuliana Giannattasio, Vincenza Galbini,
Giovanna Franco, Giulia Fiore, Giovanna Fiore, Vittoria
Ferri,Stefania Ferri, Maria Giovanna Ferri, Daniela
Ciaparrone, Loredana Ciaglia, Annalisa Castagna, Milena
Bottiglieri, Diego Maria Andreoli, Carmen Andreoli e Bruno
Adreoli). Questi, alcuni dei nomi che parteciperanno alla
manifestazione di domenica, che avrà come ospiti, quattro cori
differenti. “Sui Generis”, diretto da “Gennaro e Maria
Rivetti”. “Armonia”, diretto da “Vicente Pepe”. “Daltrocanto”,
diretto da “Patrizia Bruno”. “The Angel Voices”, diretto da
“Marinella Miceli”. L’evento inizierà alle ore 19, e la
prenotazione è obbligatoria su www.postoriservato.it. Per
altre info su “Sui Generis”, visitare la pagina web
corosuigenerissalerno@gmail.com, con relativi link youtube e
facebook.

Rigoletto:                       maestri                   e
Maestrini
di Olga Chieffi

L’opera lirica è stata, sin dal suo apparire, il campo di
rivelazione dei caratteri salienti di un’epoca e l’occasione
per divulgare ideologie consolidate o innovative, ma anche il
luogo trionfale della contaminazione, della melodia sublime,
del virtuosismo vocale e del folklore collettivo. Divismo e
passione, pettegolezzo e complessità dell’allestimento,
partitura e loggione vi si miscelano in un coacervo
affascinante, quanto esplosivo, purchè si rispettino la musica
e i dettami del compositore, poiché l’artista, sia esso
musicista, scrittore, pittore, scultore o attore, dovrà
sottomettersi unicamente all’Arte, con coerenza ed umiltà, nel
momento in cui va a realizzare un’opera e a proporla in
pubblico. Mercoledì sera, è andata in scena la prima del
Rigoletto di Giuseppe Verdi, ancora una volta all’aperto,
nell’arena lirica del Teatro Ghirelli. Un’opera difficile da
dirigere, con orchestra, coro, banda di palcoscenico, che ha
visto, ancora una volta, Daniel Oren sul podio, fare i salti
mortali per dare corpo a quella rappresentazione che è sempre
assunta dentro la sua musica. Con il “Prologo”, spoglio e
madido di tensione, di gesti, costruito sugli squilli della
maledizione, le sensazioni nell’oblio per le voci nel vento,
l’ambiguità degli accordi vuoti prima del temporale, un
ricordo pastorale, suono di strumenti antichi dentro
l’osteria, elemento astratto, preso per la sua sinistra
stranezza, la timbrica raffinatissima (il duetto spettrale e
languido Rigoletto-Sparafucile), un pensiero mahleriano sulla
chiusa di “Caro nome”, difficoltà che nel contesto del
Ghirelli si sono, purtroppo, fatte sentire. Alle difficoltà
musicali si sono aggiunte quelle registiche di Stefano
Maestrini, che non ha fatto ballare, speriamo per assoluta
soluzione artistica, le danze più raffinate che incarnano la
galanteria di facciata del cortigiano (Minuetto e Perigordino,
ambedue francesi, quasi una indicazione nascosta circa la vera
identità del soggetto), lasciando il palcoscenico pieno di
gente, nel salone dei Giganti del palazzo di Matova,
praticamente “Freddo ed immobile/ Come una statua/Fiato non
restagli /Da respirar”(ma questa è tutt’altra opera). Ad
alzare la tensione e ad introdurre la vera protagonista
dell’opera “La Maledizione”, ci pensa il conte di Monterone,
un ottimo Italo Proferisce e sua figlia, interpretata da
un’intensa Fortuna Capasso, che si rivelerà il “doppio” di
Gilda, la quale dopo l’offerta da parte dei cortigiani al
Duca, apparirà in scena con la veste lorda del sangue
virginale, intuizione registica passata e didascalica. Se
dovessimo individuare un’immagine scenica, per Gilda, invece,
questa sarebbe la porta. La porta che congiunge e separa,
limite visibile fra esterno e interno, emblema per eccellenza
dello stesso luogo scenico, del vedere e non vedere. La porta,
dunque, non vale a segregare Gilda dal mondo. Dietro la porta
Gilda viene posseduta dal Duca. La porta, infine, sospenderà
per un attimo – un’eternità – Gilda e i suoi assassini: un
sottile diaframma impedisce che l’esterno si precipiti
all’interno, e che una lama penetri la carne. La totale
segregazione dal mondo predispone Gilda a darsi interamente al
primo uomo che incontra. I mutamenti d’animo sono tutti un po’
bruschi in quest’opera, perché sembrano scoprire emozioni,
certezze, paure covate in precedenza. Bene Franco Vassallo che
produce il gelo istantaneo nell’udire la maledizione, come
Gilda, cedere e scivolare nelle mani del seduttore per
un’oscura profonda affinità propria alle vittime. La purezza
si rovescia e la sua immediata adesione al sacrificio diviene,
per così dire la massima trasgressione all’autorità paterna.
Non sa della madre, del padre, la famiglia. L’unico nome di
cui viene a conoscenza – dall’amante – ed è una menzogna. I
cantanti si sono calati nell’allestimento con molta
partecipazione, e fra loro ha spiccato Franco Vasallo nel
ruolo del titolo che, nonostante qualche defaillance
d’intonazione, del resto come tutti, dai cantanti
all’orchestra, con l’intelligenza e la sensibilità
dell’interprete navigato ha compensato ampiamente, rivelando
un fraseggio sempre appropriato, soprattutto nei momenti
cantabili. Decisa e cupa la frase “Se il Duca vostro
d’appressarsi osasse, ch’ei non entri, gli dite! E ch’io ci
sono”. Ci attendavamo un qualcosa in più dal Duca di Mantova,
Valentyn Dytiuk, autore di una buona prova vocale, ma non
interpretativa. Il suo duca non è libertino a tutto tondo: ne
è simbolo la sincera trepidazione amorosa che traspare da una
semplice frase come Sua figlia!, rinforzata dalla magnifica
linea di Parmi veder le lagrime, e che porta alla cabaletta
“Possente amor” in questo punto, infatti, il duca cambia
definitivamente, si spoglia e va a prendere la sua preda. Ma
la scena della taverna che Maestrini ha voluto esplicita e
triviale con la richiesta di Maddalena, ha tozzato in primis
con il volto dolce da bravo ragazzo di Valentyn, con la sua
gestualità, col suo modo di stare in palcoscenico, annullando
completamente l’idea registica. Hasmik Torosyan ha timbro è
fresco e luminoso, facendosi apprezzare soprattutto per la
sicurezza dell’emissione, come testimoniato dal finale di Caro
nome tenuto morbido tradita un po’ dal trillo a spegnersi a
scena aperta, bene anche il finale dell’opera, per la
morbidezza dei suoni e il legato. Ci sono i gorghi neri del
Mincio nello Sparafucile di Carlo Striuli, non adeguatamente
differenziato nel fraseggio dal duetto del primo atto, alla
concitazione dell’assassinio nel terzo. Sufficiente la
Maddalena di Martina Belli, disinvolta in scena, ma con alcuni
problemi di intubazione della voce nel registro medio. Nel
folto numero dei personaggi di fianco, si sono distinti Angelo
Nardinocchi nei panni di Marullo, Matteo Borsa (Enzo Peroni),
la Contessa di Ceprano (Miriam Artiaco), il Conte di Ceprano
(Maurizio Bove) e Giovanna (Victoria Shereshevskaya). Un po’
di mordente, quanto ad accento orchestrale, è sembrato mancare
in passi topici come “Cortigiani vil razza dannata” o “Sì,
vendetta”, riscattati però da un finale lirico nel ricamo di
clarinetto e archi. Buona la prova del Coro preparato da
Armando Tasso. Si replica stasera con Mario Cassi nei panni
del buffone gobbo.
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