Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
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Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump ROMA – Uno spettro ha inseguito Hillary Clinton per tutta la campagna elettorale del 2016: quello di Bengasi. La città libica che agli occhi dei suoi detrattori è diventata il simbolo di tutto il marcio rappresentato dalla candidata, diffondendosi sotto forma di teoria cospiratoria in grado di farsi meme. In realtà a distanza di anni Bengasi è diventato un esempio di offuscamento politico perfetto: il riferimento era agli attacchi contro soldati americani avvenuti tra l’11 e il 12 settembre 2012, che costarono la vita a quattro statunitensi, e per i quali vennero accusati Barack Obama all’epoca Presidente degli Stati Uniti d’ America ed Hillary Clinton, suo Segretario di Stato . Infatti nessuna indagine trovò e portò alla luce qualsiasi tracce di negligenza sul loro operato, ma la storia continuò a diffondersi, sospesa tra il vero ed il falso. Lo stesso genere di “fake news” su Benghazi è ritornata in una sua applicazione e variabile più attuale, realizzata su misura dei social network ed i loro algoritmi. Questa volta al centro della questione c’è Nancy Pelosi, la speaker della Camera degli Stati Uniti , di origini molisane, un’altra donna avversaria di Trump, e tra le persone che potrebbero mettere in moto la macchina dell’impeachment contro il presidente Trump. Da qualche mese i media si divertivano a notare quanto fosse facile per la Pelosi fare deragliare Trump, spesso costringendolo a scivoloni pubblici (come quella volta che gli fece affermare che lo shutdown del Governo sarebbe stata un’idea sua e solo sua, come se fosse un vanto). Le cose sono cambiate la scorsa settimana, quando ha cominciato a circolare tra i circuiti della destra americana, un filmato che è stato retwittato dal commander-in-chief in persona. E il video, pur essendo palesemente falso, è rimasto ancora lì, online su Facebook e Twitter, destinato a offuscare il nome di Nancy Pelosi nel suo futuro. La versione originale del filmato mostra la speaker parlare al microfono, mentre la versione proposta dall’amministrazione Trump, è stata invece rallentata abbastanza al punto tale da da farla sembrare un po’ ubriaca.
Un effetto video-digitale che era già venuto alla luce nell’esilarante spot Apple di Jeff Goldblum, modificato per farlo sembrare sbronzo, ma ecco che, nel 2019, fa tranquillamente capolino in un articolo sulla politica estera, a dimostrazione della squallida evoluzione dei nostri eventi. Ormai non costituisce più notizia che un filmato contraffatto sia stato messo online, chiaramente non siamo così ingenui, così come non fa neanche notizia, purtroppo, che un presidente come Donald Trump l’abbia subito fatta propria e “legittimata” (a voler essere cinici). La vera novità e notizia è costituita dal comportamento social network, che sull’onda degli svariati scandali che hanno interessato Facebook e non soltanto, negli ultimi anni hanno avviato programmi contro le fake news. A metà maggio proprio Facebook ha presentato un report sulla trasparenza in cui ha confessato (senza vergognarsi dei precedenti omessi controlli) di aver cancellato in sei mesi 1,3 miliardi di account falsi e di bot . “Questo è solo l’inizio”, ha detto Guy Rosen, che si occupa di sicurezza per l’azienda: “Le persone possono segnalare molti più tipi di contenuti”. Quando l’ ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ora avvocato di Trump, ha scoperto il video-fakenews della Pelosi e lo ha ritwittato, da quel momento il video è passato dal profilo “ufficiale” del Presidente Trump a quello della Casa Bianca (che lo ha persino ritwittato) e quindi migrato anche su Facebook, insieme alle strumentali dichiarazioni di Donald Trump su “Crazy Nancy” e la millantata (non reale) follia della speaker della Camera degli Stati Uniti. Se dovessimo dare credibilità ai responsabili della sicurezza di Facebook, asterebbe segnalarlo e la clip sparirebbe dal social network, ma allora ci si chiede: come mai quel video-fakenews è ancora online, visto che YouTube ha cancellato e rimosso immediatamente il contenuto? Facebook ha fatto quello che fa sempre in questi casi: spendersi in una spiegazione piuttosto contorta. Monika Bickert, che si occupa di counterterrorism per il social network, ha spiegato alla Cnn che l’azienda, cioè Facebook “sa che il video è falso” ma che lo ha lasciato online, anche se “abbiamo drasticamente ridotto la circolazione di quel contenuto”. Incredibile se non paradossale il motivo? “Pensiamo sia importante che le persone possano decidere a che cosa credere”. Difficile capire quante persone siano state danneggiate da quel video, ma Facebook li ha ignorati e calpestati tutti: sia chi trova inquietante quella millantata “riduzione” della diffusione del contenuto, e quelli che invece hanno a cuore… la realtà. E la correttezza dell’informazione.
Da mesi negli USA i repubblicani e la destra radicale americana denunciano un’ipotetica campagna di “silenziamento” politico parte di Facebook e Twitter, accusate di essere di sinistra. Una campagna è arrivata fino al Senato, e che riguarda molto da vicino i “trumpiani“. Se l’azienda agisse per cancellare quella che è palesemente una vecchia bufala propagandistica aggiornata ai tempi nostri, paradossalmente farebbe un assist alla Casa Bianca, dimostrando in qualche modo le sue paranoie di censura. Ma forse questa è l’ultima cosa di cui Facebook ha bisogno, di questi tempi. Una cosa è certa. Ormai bisogna credere solo a quello che si vede con i propri occhi. Di persona. Obama a Milano: “La tecnologia che riduce la manodopera nel mondo avanzato è un problema” Il clou della seconda giornata italiana di Barack Obama in Italia, a Milano è stato l’intervento al summit forum sull’innovazione alimentare Seed&Chips. Obama ha iniziato il suo discorso ringraziando il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, l’ex premier Matteo Renzi e l’ex sindaco Letizia Moratti per “l’impegno in Expo”.”La mancanza di cibo è una delle cause del’immigrazione” ha detto sottolineando che gli Stati Uniti “non sarebbero quello che sono senza il contributo di milioni di italiani che hanno anche dovuto subire discriminazioni, ma che con fede, convinzione e lavoro duro hanno avuto successo dappertutto e hanno rafforzato gli Stati Uniti”. Obama poi ha parlato del futuro della terra spiegando che l’obiettivo dev’essere quello di “sviluppare sistema non soggetto ai cambiamenti climatici“, sottolineando che “l’uomo ha causato molti problemi al
pianeta e adesso deve risolverli“. “Vi porto i saluti di Michelle. E vi dico che torneremo molto spesso in Italia. Ricordiamo i nostri viaggi in Toscana, a Roma, lei ricorda il suo viaggio a Milano per Expo con Sasha e Malia. Per questo dico, torneremo molto spesso in Italia” ha aggiunto. “Vi prometto che torneremo tantissime volte qui in Italia” ha ripetuto. La visita al Cenacolo. Obama, accompagnato nella sua visita dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, dal direttore del Polo Museale Lombardo, Stefano L’Occaso e dalla direttrice del Cenacolo Vinciano, Chiara Rostagno, è rimasto incantato dal capolavoro di Leonardo da Vinci conservato al Cenacolo. “Straordinario… – ha detto l’ex presidente degli Stati Uniti – Leonardo è un genio” . Obama è rimasto una ventina di minuti a Santa Maria delle Grazie. “È stata una visita appagante per
come Obama ha dimostrato di conoscere il nostro patrimonio – ha raccontato ai giornalisti L’Occaso il direttore del Polo Museale Lombardo – Si è informato in particolare sullo stato e sulle tecniche di conservazione dell’affresco ed è rimasto entusiasta di questo luogo”. L’ex presidente americano era arrivato al Cenacolo Vinciano intorno alle 10,25 di questa mattina. Il celebre dipinto di Leonardo è custodito presso la basilica di Santa Maria delle Grazie e Obama ha raccontato di essere stato consigliato dalla moglie Michelle sull’importanza di non perdere questo sito durante la sua trasferta in Italia a Milano. Fin dalle prime ore di quest’oggi l’area del piazzale di fronte alla chiesa era stata transennata e resa inaccessibile, così la folla si è assiepata intorno alle transenne. Le persone sono comunque riuscite a vedere Obama quando è sceso dall’auto. Questo pomeriggio, durante uno dei momenti di Seeds&Chips – The Global Food Innovation Summit, il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha consegnato le chiavi della città nelle mani dell’ex presidente americano. Della consegna del sigillo se ne parla da settimane ma non era chiaro quando sarebbe avvenuta. In mattinata è arrivata la conferma dal cerimoniale. “Sarà un incontro privato – spiega il primo cittadino milanese – se non altro per questioni di sicurezza, con qualche partecipante. Vedremo di testimoniarlo almeno con la fotografia. Ma sono molto felice di potergli consegnare le chiavi”. Sala ha sottolineato ancora una volta il legame tra queste fiere e Expo, “e qui la cosa bella sono i giovani. Qui ci sono tanti giovani
imprenditori da tutto il mondo, vuol dire che questo tema è molto attrattivo, ha opportunità di business e permette di mettere insieme questioni sociali con quelle dell’economia. Quella di quest’anno è un po’ una prova – ha aggiunto – Questa idea della food week ha fatto numeri straordinari, sentivo che Taste of Milano ha fatto più 20-25 per cento, oggi vedremo con Obama”. E si pensa già all’anno prossimo: “Ci sarebbe un po’ questa idea di creare una sorta di Davos del futuro. Ci vuole tempo e pazienza“. Aperti i seggi delle “primarie” Pd. Si vota fino alle 20 ROMA – Al voto oggi per le primarie del partito il popolo dem chiamato ad esprimersi nella sfida fra l’ex premier Renzi, il guardasigilli Orlando ed il governatore della Puglia Emiliano. Si vota in 10 mila gazebo e seggi in tutta Italia, dalle 8 alle 20, resta l’incognita affluenza: il partito spera in almeno un milione di partecipanti.
Nel 2013 furono quasi tre milioni. “Le primarie restituiscono potere ai cittadini” è l’appello di Renzi, che rivendica la capacità del Pd di “discutere, partecipare, votare“. “Non si decide solo chi guiderà il Pd, si decide anche tra centrosinistra o un’alleanza con Berlusconi‘, aggiunge Orlando. Puntuali i soliti proclami privi di sostanza di Emiliano per il quale “non è detto che Renzi vinca” promettendo che, se anche l’ex premier dovesse vincere, gli renderà dura la strada. Anche se le sue sono solo affermazioni di facciata non avendo alcuna possibilità di vittoria, ma solo affermazioni mediatiche. Per votare bisogna presentare documento d’identità e tessera elettorale. Chi non è iscritto al Pd deve anche versare un contributo minimo di 2 euro. Hanno l’obbligo di registrarsi on-line i ragazzi tra i 16 e i 18 anni, gli studenti e i lavoratori fuori sede e coloro che domenica non si troveranno nel loro Comune di residenza. Gli stranieri possono votare se con permesso di soggiorno o richiesta di rinnovo, esibendolo con la carta di identità. Possibile anche il voto on line, a patto di essersi registrati prima. Per votare si potrà barrare il nome della lista del candidato a segretario nazionale che si intende sostenere. Aperti gli ottomila gazebo, mentre la campagna si è chiusa con ironia. “Ciao Matteo, che fine hai fatto? Non so se ti ricordi, ci sono le primarie, anche se il Pd non le ha pubblicizzate per niente – ironizza Andrea Orlando nell’ultimo giorno della campagna -. Dai,
vieni a votare anche tu”. Si decide oggi il nuovo segretario dem con un’assise organizzata in fretta e furia, che è andata avanti senza sussulti. Le uniche polemiche sembrano destinate ad arrivare da Napoli, dove la direzione nazionale del Partito Democratico ha deciso di inviare come “osservatore speciale” il renziano Ernesto Carbone. Più che osservare, godrà di potere assoluto sui seggi, compreso quello di chiuderli immediatamente in presenza di eventuali irregolarità o situazioni sospette. Nell’ultimo mese vi sono stati pochi acuti, e pressochè nessun colpo basso. Orlando ha provato ad animare le ultime ore prima del voto solo il Guardasigilli, aprendo alle elezioni anticipate: “Se dopo le primarie si farà una nuova legge elettorale – rilancia dai microfoni di Radio Radicale – si può anche non arrivare al 2018. Senza riforma, si finisce a fare il governo con Berlusconi“. Tutto ciò non trova d’accordo l’ex premier Renzi che gli replica: “È un’accusa che mi fa un po’ ridere, la larga coalizione con Berlusconi l’hanno fata quelli del No al referendum“. E’ noto a tutti che sarà proprio Palazzo Chigi ad avvertire le tensioni del giorno dopo. Infatti il premier Paolo Gentiloni si è speso pubblicamente per Matteo Renzi. Una posizione chiara ed espressa alla luce del sole come fa notare che Maria Elena Boschi : “Ha fatto bene a non nascondere la sua vicinanza”. I problemi, in realtà, per la durata del Governo in carica potrebbero arrivare proprio dal leader di Rignano, che non ha rinunciato alla tentazione di elezioni politiche nel 2017. Ma per adesso Renzi incita alla partecipazione. “Sta accadendo una cosa semplice: vogliono togliervi le primarie – sostiene l’ex-premier -. Dicono che se solo un milione andrà a votare, sarà un flop. Ignorano che un milione di persone sono una forza
strepitosa“. E proprio per agevolare l’affluenza, a Milano si potrà votare anche in alcuni bar, pizzerie e gelaterie. L’ex-premier ha già fissato appuntamento per lunedì 8 maggio a Milano, mentre si sta lavorando su un altro con le rispettive mogli, che dovrebbe avvenire una decina di giorni dopo, in Toscana. Matteo Renzi ci si è dedicato nelle settimane scorse, tra un impegno e l’altro di campagna per le primarie. Augurandosi che saranno i primi incontri internazionali da segretario rieletto del Pd: in particolare con l’ex presidente americano Barack Obama, al suo primo tour in Europa dopo l’uscita dalla Casa Bianca. Renzi ha spiegato ad alcuni amici che quello dell’8 maggio “è un incontro non ufficiale, ho piacere che Obama venga in Italia e vado volentieri a Milano a salutarlo“, In questi mesi, racconta chi gli è vicino, che i contatti con il predecessore di Trump, sono rimasti aperti dopo che, da presidente del consiglio, era stato l’ultimo ospite straniero alla Casa Bianca durante il mandato di Obama. Renzi si presentò ad otobre dell’anno scorso accompagnato dalla moglie Agnese e una parata di talenti italiani (dalla campionessa paraolimpica di scherma Bebe Vio alla sindaca di Lampedusa Giusy Nicolini, fresco premio per la pace Unesco, a Roberto Benigni); trovando un accoglienza amichevole in Obama che lo accolse con un largo sorriso e parole di sostegno per l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre. Obama dopo l’impegno milanese, resterà in Europa: il 25 maggio è in programma a Berlino un incontro con la cancelliera tedesca Angela Merkel , mentre il 26, in concomitanza con l’apertura del G7 a Taormina, lui si recherà nella Scozia anti-Brexit. È prima di questi appuntamenti, in una data ancora da designare con certezza – potrebbe
essere venerdì 19 o martedì 23 – che si sta lavorando a un nuovo incontro tra i due. Questa volta esteso alle mogli, perché Michelle dovrebbe raggiungere il marito dagli Stati Uniti. Oggi però Matteo Renzi, l’ex segretario ricandidato cercherà di vincere le primarie del Partito Democratico, proiettandosi ai primi appuntamenti da “leader” riconfermato. L’ultimo discorso di Barack Obama da Presidente degli USA : “Si può fare. Lo abbiamo fatto. Si può fare” di Barack Obama L’inizio “Sono arrivato a Chicago quando avevo poco più di vent’anni, e cercavo
di capire chi ero e cosa fare della mia vita. È stato in quartieri poco distanti da qui che ho cominciato a lavorare con i gruppi parrocchiali e a osservare il potere delle fede, e la silenziosa dignità dei lavoratori di fronte alle difficoltà. È stato qui che ho imparato che il cambiamento avviene solo quando le persone normali ne sono coinvolte e si uniscono per ottenerlo. Dopo otto anni da presidente, lo credo ancora. E non sono solo io. È il cuore pulsante dell’idea americana, del nostro coraggioso esperimento di autogoverno. È la convinzione che siamo stati tutti creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, come la vita, la libertà e la ricerca della felicità. È l’insistenza che questi diritti, per quanto auto-evidenti, non si sono mai auto- rispettati; che siamo noi, il popolo, attraverso lo strumento della nostra democrazia, che possiamo formare un’unione sempre più perfetta. […] Sì, i nostri progressi sono stati squilibrati. Il lavoro della democrazia è sempre stato duro, controverso e a volte sanguinoso. Per ogni due passi avanti, spesso ci sembra di averne fatto uno indietro. Ma il lungo corso dell’America è stato definito dal movimento in avanti, dal costante allargamento del credo dei Padri Fondatori perché abbracciasse tutti e non solo alcuni” Se otto anni fa vi avessi detto Se otto anni fa vi avessi detto che l’America avrebbe invertito la sua grande recessione, rilanciato l’industria dell’auto e innescato il più grande periodo di creazione di posti di lavoro della nostra storia… se vi avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo cubano, fermato il programma nucleare iraniano senza sparare un colpo, e fatto fuori il regista dell’11 settembre… se vi avessi detto che avremmo ottenuto il matrimonio egualitario, e il diritto alle cure sanitarie per altri 20 milioni di nostri concittadini… avreste potuto pensare che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Ma questo è quello che abbiamo fatto. Questo è quello che avete fatto. Voi siete stati il cambiamento. Avete risposto alle speranze delle persone e, grazie a voi, da quasi ogni punto di vista oggi l’America è migliore e più forte di quando abbiamo cominciato.
Barack Obama si asciuga le lacrime durante il suo discorso di addio da presidente degli Stati Uniti – Chicago, 10 gennaio 2017 Non è ancora abbastanza Pur con tutti i progressi che abbiamo fatto, sappiamo che non è ancora abbastanza. La nostra economia non funziona né cresce abbastanza quando pochi prosperano alle spese della nostra crescente classe media. E le grandi disuguaglianze corrodono anche i nostri principi democratici. Mentre l’uno per cento ammassava una ricchezza sempre più grande, troppe famiglie nelle città e nelle campagne sono state lasciate indietro – gli operai licenziati, la cameriera o l’infermiere che non riescono a pagare le bollette – e oggi pensano che il sistema funzioni contro di loro, che il governo sia al servizio dei potenti. La ricetta per aumentare il cinismo e la polarizzazione politica. Non ci sono modi veloci per correggere questa tendenza di lungo periodo. Sono d’accordo che il commercio internazionale debba essere equo e non solo libero. Ma la prossima ondata di licenziamenti non verrà dall’estero. Verrà dal continuo progresso nell’automazione che renderà obsoleti molti posti di lavoro. E quindi dobbiamo formare un nuovo patto sociale, per garantire ai nostri figli l’istruzione di cui hanno bisogno, per dare ai lavoratori il potere di unirsi in un
sindacato per chiedere paghe migliori, per aggiornare il nostro welfare così che sia adatto al modo in cui viviamo, per aggiornare il fisco così che sia le persone che le multinazionali che guadagneranno di più dalla nuova economia non evitino i loro doveri verso il paese che ha reso possibile il loro successo. Possiamo discutere sul come raggiungere questi obiettivi. Ma non possiamo metterli in discussione. Se non creiamo opportunità per tutti, la disaffezione e la divisione che ha fermato i nostri progressi non farà altro che aggravarsi. C’è una seconda minaccia per la nostra democrazia, vecchia quanto la nostra nazione. Dopo la mia elezione qualcuno aveva parlato di una America post-razziale. Questo punto di vista, per quanto ben intenzionato, non è mai stato realistico. L’etnia è una forza potente e spesso divisiva nella nostra società. Ho vissuto abbastanza da sapere che le cose oggi vanno meglio di dieci, venti o trent’anni fa: non si vede solo nelle statistiche ma nel comportamento dei giovani americani di ogni orientamento politico. Ma non siamo ancora al punto in cui abbiamo bisogno di arrivare. Tutti noi dobbiamo fare di più. […] Niente di tutto questo sarà facile. Per molti di noi è diventato più comodo ritirarci nelle nostre bolle, che sia il nostro quartiere o il nostro college o la nostra chiesa o i social network, circondati da persone esattamente come noi con le nostre stesse idee politiche, e non metterci mai in discussione. La frammentazione dei nuovi media – un canale per ogni gusto – rende questo isolamento naturale, persino inevitabile. E ci sentiamo così sicuri dentro le nostre bolle che accettiamo solo informazioni compatibili con le nostre opinioni, vere o false, invece che basare le nostre opinioni sui fatti. Il discorso di Obama in tre minuti: Una base comune di fatti Questa è una terza minaccia per la nostra democrazia. La politica è una battaglia di idee. In un dibattito sano, daremo priorità alla discussione di certi obiettivi e dei diversi modi per raggiungerli. Ma senza una base comune di fatti, senza la volontà di ammettere l’esistenza di nuove informazioni, senza saper concedere che a volte il tuo avversario ha dei buoni argomenti, e che la scienza e la ragione sono importanti, continueremo a parlarci uno sull’altro, rendendo impossibile trovare un terreno comune e fare compromessi. Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione La nostra democrazia è minacciata ogni volta che la diamo per scontata. Tutti noi, a prescindere dal nostro partito, dovremmo darci
da fare per ricostruire le nostre istituzioni democratiche. Visto che il nostro tasso di affluenza al voto è tra i più bassi tra le democrazie avanzate, dovremmo rendere votare più facile e non più difficile. Visto che la fiducia nelle nostre istituzioni è bassa, dovremmo ridurre l’influenza corrosiva del denaro nella nostra politica, e insistere sui principi di trasparenza ed etica. Visto che il Congresso non funziona, dovremmo disegnare i nostri collegi in modo da incoraggiare i politici a prendere decisioni di buon senso, e non posizioni estremiste. Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione: da ognuno di noi che accetta di avere delle responsabilità da cittadino, a prescindere dalle sue idee e da chi sia al potere. La nostra Costituzione è un regalo meraviglioso. Ma in realtà è solo una pergamena. Non ha potere di per sé. Siamo noi, il popolo, che le diamo potere con la nostra partecipazione e le nostre scelte. Col nostro difendere o no le nostre libertà. Col nostro rispettare e far rispettare o no lo stato di diritto. L’America non è fragile. Ma i grandi progressi che abbiamo fatto nel nostro viaggio verso la libertà non sono scontati. Li indeboliamo tutte le volte che permettiamo al dibattito politico di diventare così velenoso che le brave persone decidono di non impegnarsi in politica; così pervaso dal rancore che giudichiamo malevoli gli americani con cui non siamo d’accordo. Li indeboliamo tutte le volte che ci definiamo più americani di altri nostri concittadini; tutte le volte che pensiamo che tutto sia corrotto intorno a noi, e ne incolpiamo i leader politici senza prendere in considerazione il nostro ruolo nell’eleggerli. Sta a tutti noi essere guardiani preoccupati e gelosi della democrazia; abbracciare con gioia questo compito per continuare a migliorare la nostra grande nazione. Perché per tutte le nostre differenze, condividiamo tutti lo stesso titolo: cittadini. In fin dei conti, ce lo chiede la nostra democrazia. Non solo quando c’è un’elezione, ma nell’arco di tutta una vita. Se siete stanchi di discutere con degli sconosciuti su internet, cercate di parlare con qualcuno di persona. Se qualcosa dovrebbe funzionare meglio, allacciatevi le scarpe e datevi da fare. Se siete delusi dai vostri rappresentanti, raccogliete le firme e candidatevi voi stessi. Fatevi avanti, fatevi sotto. Perseverate. Qualche volta vincerete. Altre volte perderete. Presumere che ci sia del buono nel prossimo può essere un rischio, e ci saranno momenti in cui sarete molto delusi. Ma per chi di voi sarà fortunato abbastanza da riuscire a fare qualcosa, da vedere da vicino questo lavoro, lasciate che ve lo dica: può ispirarvi e darvi energia. E più spesso di quanto pensiate la vostra fiducia nell’America e negli americani sarà confermata. La mia lo è stata di certo.
Barack, Michelle e Malia Obama dopo il discorso d’addio di Obama da presidente degli Stati Uniti – Chicago, 10 gennaio 2017 I ringraziamenti finali Stasera sono qui alcune persone che erano con me nel 2004, nel 2008, nel 2012, e forse anche voi ancora non credete a quello che abbiamo fatto. Non siete i soli. Michelle. Per gli ultimi venticinque anni sei stata non solo mia moglie e la madre dei miei figli, ma la mia migliore amica. Hai assunto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai reso tuo con grazia e grinta e buon umore. Hai reso la Casa Bianca la casa di tutti. E oggi una nuova generazione si pone obiettivi ambiziosi anche perché ha te come modello. Mi hai reso orgoglioso. Hai reso orgoglioso tutto il paese. Malia and Sasha, sotto le più strane delle circostanze, siete diventate due meravigliose giovani donne, intelligenti e bellissime, ma soprattuto gentili e riflessive e piene di passioni. Avete sopportato con facilità il peso di questi anni sotto i riflettori. Di tutto quello che ho fatto nella vita, la cosa di cui sono più orgoglioso è essere vostro padre.
Joe Biden, il ragazzino balbuziente di Scranton che è diventato il figlio prediletto del Delaware. Sei stato la prima scelta che ho fatto da candidato, e la migliore. Non solo perché sei stato un grande vice presidente, ma perché in questo affare io ho guadagnato un fratello. Vogliamo bene a te e a Jill come parte della nostra famiglia, e la nostra amicizia è una delle più grandi gioie della nostra vita. Al mio formidabile staff. Per otto anni – e per alcuni di voi, molti di più – ho assorbito la vostra energia, e ho cercato di riflettere quello che voi mi mostravate ogni giorno: cuore, carattere e idealismo. Vi ho visti crescere, sposarvi, avere dei figli, e iniziare incredibili nuovi viaggi solo vostri. Anche quando le cose si sono fatte toste e frustranti, non avete mai lasciato che Washington si prendesse le cose migliori di voi. L’unica cosa che mi rende più orgoglioso di tutte le cose buone che abbiamo fatto insieme è il pensiero di tutte le cose formidabili che farete da qui in poi. E a tutti voi lì fuori, ogni organizzatore che ha cambiato città durante una campagna elettorale per dare una mano, ogni volontario che ha bussato porta a porta, ogni giovane che ha votato per la prima volta, ogni americano che ha vissuto e respirato il duro lavoro del cambiamento: siete stati i migliori sostenitori che chiunque potesse sperare, e vi sarò grato per sempre. Perché sì, voi avete cambiato il mondo.
La conclusione Ecco perché stasera lascio questo palco più ottimista per il nostro paese di quanto fossi quando abbiamo cominciato. Perché so che il nostro lavoro non solo ha aiutato molti americani; ha ispirato molti americani, soprattutto i più giovani, a credere che ognuno può fare la differenza; a legarci a un destino più grande del nostro destino individuale. Cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita. Non ho intenzione di fermarmi: sarò accanto a voi, da cittadino, per tutti i giorni che mi rimangono. Per adesso, che siate giovani o giovani nel cuore, ho solo un’ultima richiesta per voi. La stessa cosa di otto anni fa, quando vi chiesi di fidarvi di me. Vi chiedo di crederci. Non nella mia abilità di cambiare le cose, ma nella vostra. Vi chiedo di tenere viva la fiducia nell’idea che ci hanno tramandato i nostri Padri Fondatori: quell’idea che parlava agli schiavi e agli abolizionisti, quello spirito che cantavano gli immigrati e gli esploratori e chi marciava per ottenere giustizia; il credo di chi ha piantato bandiere su campi di battaglia stranieri e sulla Luna; il credo al centro di ogni americano la cui storia non è ancora stata scritta. Si può fare.
Lo abbiamo fatto. Si può fare. Donald Trump è il 45° presidente Usa. L’America lo ha scelto ed eletto Dopo Barack Obama sarà Donald Trump il 45esimo presidente degli Stati Uniti, il nuovo “inquilino” chiamato a sedersi nello studio ovale della Casa Bianca, a capo della superpotenza americana. Hillary Clinton alle due del mattino, quando nella suite dell’Hotel Peninsula di Manhattan, dove aspettava i risultati delle elezioni presidenziali, ha capito la realtà. La prima donna alla Casa Bianca non sarà lei. Ha telefonato all’avversario e non ha parlato ai suoi sostenitori, lo farà più tardi (nelle ore del pomeriggio in Italia). “Andate a casa, non avremo niente da dire stasera” ha detto a suo posto John Podesta, il manager della sua campagna aggiungendo “Questa è stata una lunga notte, dopo una lunga campagna. Quindi possiamo aspettare ancora un po’, per garantire che tutti i voti vengano contati. Siamo orgogliosi della strada che abbiamo percorso insieme, e siamo orgogliosi di voi. Abbiamo fatto insieme un grande lavoro, e ancora non lo abbiamo finito” . Che i repubblicani dovessero conquistare la Casa Bianca, dopo otto anni di governo democratico, era plausibile. E, in fondo, anche sano e fisiologico. Che dovessero conquistarla con un candidato così poco rappresentativo della loro storia e dei loro valori, questo è il lato implausibile della faccenda. Il consenso di Donald Trump è stato ottenuto soprattutto negli stati industriali, e la sua vittoria va riconosciuta come fortemente radicata in questo scontento del mondo del lavoro, del declino della classe media americana. Non è irrilevante affermare con chiarezza queste cose in queste prime ore della vittoria di Donald Trump. L’evento accaduto questa notte è di proporzioni storiche. Il successo del Tycoon costituisce l’esplosione del sistema dei partiti americani – quello democratico che ha perso voti della sua tradizionale base sociale, e quello repubblicano che sulla base del calcolo di interessi della sua tradizionale base ha preso le distanze da Trump. Ed è significativo
che il nuovo presidente arrivi a Washington, nello studio ovale della Casa Bianca, sostenuto da un voto che mette al centro proprio quel mondo del lavoro che in questi anni è stato sottovalutato dai partiti tradizionali , accantonato, se non incredibilmente abbandonato. Se si guarda alla mappa elettorale americana, fa notare in queste ore il celebre sito di analisi politica Fivethirtyeight, fondato da Nate Silver, la lista degli stati dove Donald Trump ha vinto è perfettamente sovrapponibile con quella identificata da David Autor l’economista del Mit come la mappa degli stati dove maggiore è stato l’impatto delle importazioni cinesi – impatto stimato nella perdita di 2 milioni di lavoro tra il 1999 e il 2011. “Io non sono un politico. I politici parlano ma non agiscono. Io sono il contrario” disse all’inizio della corsa presidenziale. Mai come questa volta si può parlare di un “self made president”. Si è fatto da sé come imprenditore di successo – dai borough del Queens alla Trump Tower della Manhattan più glamour – tanto ricco quanto discusso. Si è conquistato da solo la presidenza degli Stati Uniti, spazzando via tutto e tutti: non aveva al suo fianco l’establishment del Partito Repubblicano, mai così freddo con un suo candidato, tentato addirittura di abbandonarlo nel corso della campagna. Non ha mai avuto al suo fianco la stampa, ostile al punto di demonizzarlo tanto in patria quanto all’estero. Non ha avuto il sostegno delle cancellerie estere e degli operatori finanziari internazionali, che salvo rare eccezioni hanno sostenuto la corsa di Hillary Clinton. Ha fatto a meno della spinta dei vip americani, attivissimi negli endorsement a favore dell’ex first lady per tutta la durata della campagna elettorale e fino all’ultimo giorno. Non ha potuto contare sul presidente uscente Barack Obama e anche questa si è rivelata un’arma a suo favore, perché ormai gli Usa hanno voltato le spalle all’esperienza democratica.
La vittoria di Trump fa letteralmente saltare il banco. Ha smentito le previsioni dei sondaggisti, che lo hanno visto sempre indietro, pur registrando una rimonta nelle ultime settimane, a dimostrazione ancora una volta dell’incapacità dei sondaggi di leggere fino in fondo gli umori della gente, negli Stati Uniti come altrove in passato. Ha cancellato mesi di campagna attiva della stampa americana e internazionale, mai così schierata in una corsa presidenziale e mai così compatta a sostegno di Hillary Clinton: solo 2 testate statunitense si sono schierate con il candidato repubblicano, contro 57 esplicitamente al fianco della candidata democratica, il numero di endorsement più basso per un candidato nella storia americana. Anche per la stampa sorge un interrogativo quasi esistenziale sulla capacità di analisi del sentiment popolare, sulla lettura del malcontento delle aree rurali, delle zone industriali, della working class sempre più impoverita e ansiosa di cambiamento. Il trionfo di The Donald è una sconfitta cocente per Hillary Clinton, che si è rivelata un candidato debole e poco amato. Si dice negli Usa che per vincere un candidato deve essere empatico, deve risultare simpatico e vicino alla gente: questo non è mai riuscito a Hillary, ma non è solo questo. Hillary è stata considerata come il vecchio, la continuità, l’establishment, è stata considerata Clinton III, esponente della Dynasty che ha già eletto due volte il marito Bill. La sua sconfitta è anche e soprattutto il fallimento politico di Barack Obama e della sua avventura politica nata sotto il segno del “change”. Un cambiamento che diede la vittoria all’outsider del 2008, ma che l’America profonda (e non solo) non ha visto nelle proprie tasche e non immagina nel proprio futuro. IL PRIMO DISCORSO
Già nel suo primo discorso di ringraziamento, Trump ha usato i toni più morbidi della conciliazione nazionale. Una sola sicurezza esiste però fin da ora. La fuoriuscita del consenso dai partiti tradizionali è un fenomeno già in corso nei vari paesi europei, compreso l’Italia, ma il voto americano vi inserisce un segno in più: la vittoria di Donald Trump è la prima affermazione di un movimento antisistema americano che porta un suo leader al vertice. È un voto che istituzionalizza nel punto più alto del sistema il rifiuto del sistema stesso. “Per repubblicani e democratici è arrivato il tempo dell’unione – ha detto Trump nel suo primo discorso dopo i risultati – La nostra non è stata una campagna elettorale, ma un grande movimento“. Emozionato, è salito con la famiglia al completo sul palco , accanto a lui sua moglie Melania, la nuova “First Lady” vestita di bianco, e tutti i figli. Come colonna sonora è stata scelta la musica di Independence Day. “Prometto che sarò il presidente di tutti gli americani. Ve lo prometto: i dimenticati di questo Paese, da oggi non lo saranno più“. “Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle
le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato sodo e le dobbiamo una grande gratitudine” ha detto Trump. Il vincitore delle elezioni presidenziali ha poi teso la mano ai democratici (“è il momento di unirci e superare le divisioni”) assicurando di voler “buoni rapporti con l’estero” e che “saremo giusti con tutti i popoli e le nazioni”. Infine un passaggio sull’economia: “Raddoppieremo la crescita e saremo l’economia più forte al mondo“. Parla di un America da curare, di infrastrutture da ricostruire, della creazione di migliaia di posti di lavoro, di veterani di cui occuparsi. “Abbiamo un piano economico incredibile: raddoppieremo la crescita e creeremo più forte economia del mondo. Non c’è nessun sogno troppo grande, nessuna sfida troppo grande che possa mettere in pericolo il nostro futuro. Dobbiamo riprenderci il destino del nostro Paese. Dobbiamo avere sogni di successo“. Sulla politica estera dice semplicemente “andremo d’accordo con tutti, cercheremo il dialogo”. Raffica di ringraziamenti anche per Rudolph Giuliani (ex sindaco di New York) ed altri componenti della sua campagna elettorale.Poi quelli per i servizi segreti, di sicurezza, le forze di polizia, insomma le parti della “difesa” e delle forze armate americane. “Inizieremo subito a lavorare per il popolo americano. Il mio lavoro vi renderà fieri di me ancora. Adoro questo Paese, grazie a tutti!” . Poi ringrazia i suoi genitori “due bravissime persone”, le sorelle, i fratelli, la moglie Melania, il figlio, Ivanka e tutti gli altri componenti accanto a lui . “I love you” ha concluso. E stata una lunga difficile notte per i democratici americani. Dopo poche macchie blu apparse sui contorni della mappa americana,
sin dalle prime ore dello spoglio elettorale, si è colorato tutto di rosso repubblicano. Un pezzo dopo l’altro. Stato dopo Stato. L’Empire State Building come un enorme schermo proiettava numeri che da incredibili diventavano velocemente indiscutibili. Le persone per le strade, dietro le transenne, davanti alle tv nelle case, incredule con gli occhi sbarrati sui monitor dei propri smartphone. Blu, rosso, i volti di Hillary Clinton e Donald Trump nelle spillette delle persone che assistevano allo spoglio in diretta del loro futuro. “È una notte meravigliosa. È una notte fantastica per l’America – ha detto Curtis Ellis, alto consigliere di Trump quando già era chiara la vittoria – È una notte grandiosa per tutta la gente del mondo“, e le persone iniziavano a defluire dalle piazze. Dopo aver assistito a un’estenuante campagna elettorale piena di veleni, polemiche e colpi bassi, circa 220 milioni di aventi diritto sono stati chiamati prima a scegliere, poi aspettare il nome del 45esimo presidente degli Stati Uniti. L’ONDA POPULISTA Ora si discuterà di quanto era debole Hillary Clinton come candidata, degli errori commessi durante la campagna elettorale, dell’impatto della lettera con cui il direttore dell’Fbi Comey aveva annunciato di aver riaperto l’inchiesta sulle mail private usate quando lei era segretario di Stato. Tutto vero, ma la vittoria di Trump è stata determinata da un vento più grande degli stessi Stati Uniti, che aveva cominciato a soffiare con la Brexit in Gran Bretagna, e ora ha raggiunto anche le coste degli Usa. Una rivoluzione populista, magari venata anche di pulsioni razziste, che però con l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca diventa il fenomeno politico dominante dell’Occidente. Hillary Clinton ha vinto nel Vermont, Delaware, Illinois, Maryland, Massachusetts, New Jersey, Rhode Island, District of Columbia, New Mexico, ma fino allo Stato di New York, ha raccolto soltanto briciole. Anche i sostenitori con il passare delle ore diventavano sempre più cauti. “Comunque vada l’America resta una grande nazione. Domani mattina sorgerà lo stesso il sole “ha detto Barack Obama. La stessa Hillary ha twittato in anticipo un “qualsiasi cosa accada, grazie lo stesso“. Poi sono arrivati i consensi della Virginia, California,
Oregon, Hawaii e Colorado. Ma non è bastato. Il Nevada o il Maine non hanno fatto differenza e determinato alcunchè. Il consenso per Donal Trump è diventato un’onda rossa. Si è aggiudicato Oklahoma, Mississippi e Tennessee, Alabama e South Carolina. Poco dopo Arkansas, Nebraska, South e North Dakota, Wyoming e Texas. Il New York Times a metà notte, per la prima volta ha cambiato le proiezioni dandolo per vincente al 58 per cento.
Donald Trump è sempre stato avanti nella corsa per la Casa Bianca mentre erano restati Michigan, New Hampshire e Wisconsin a restare in bilico, ma fino ad aggiudicarsi i 279 grandi elettori (i delegati che il 19 dicembre eleggeranno formalmente il nuovo presidente americano), ben 9 in più dei necessari a conquistare la presidenze, lasciandosi dietro Hillary a contare i suoi 218. Un giornalista inviato del quotidiano francese Liberation, presente nel cuore di una città tradizionalmente democratica, ha catturato le parole di una ragazza, mentre parlava al telefono con la sorella: “È una follia” il suo commento. Ed il cronista francese continua: “La folla è muta non osa parlare” . Times square, New York, era avvolta nel silenzio. Trump ha trionfato nelle aree del Paese a forte presenza di elettori bianchi, facendo molto meglio di Mitt Romney quando quattro anni fa venne sconfitto da Barack Obama. Hillary Clinton non è riuscita ad attirare i voti delle minoranze, cioè di quella parte dell’elettorato che furono la chiave dei successi del presidente uscente, ha scritto il Washington Post.
I repubblicani hanno confermato il controllo della House of Representative, secondo quanto previsto, anche se la maggioranza si è ridotta. Il Grand Old Party avrebbe 235 seggi contro i 247 delle precedenti elezioni del 2014; i democratici che ne avevano 185 sarebbero saliti a quota 200. I repubblicani hanno strappato ai democratici la Camera sin dal 2010. Ancora in bilico il Senato, dove sono in ballo 35 seggi su 100. MERCATI A PICCO I mercati hanno reagito alla vittoria di Trump con un crollo generalizzato, soprattutto perché lui rappresenta un’incognita. Il suo programma economico infatti è rimasto vago, forse di proposito, a parte la determinazione di tagliare tasse e regole. Sul piano internazionale, poi, il tycoon ha messo in dubbio il futuro della Nato e ha previsto che l’Unione Europea continuerà a disintegrarsi, dopo l’uscita della Gran Bretagna. Tutto questo preoccupa la comunità internazionale, ma lo ha reso ancora più popolare fra i suoi sostenitori, stanchi come lui di vedere che “gli Stati Uniti non vincono più“, e pagano per la difesa e gli interessi di tutti gli altri. Il trionfo temuto di Donald Trump è stata una zampata sull’economia mondiale. Il pesos messicano , cioè la moneta del Paese, costante obiettivo degli attacchi di Trump, dalle accuse ai migranti bollati come criminali e al progetto di costruire un muro lungo il confine) ha perso il 5%. La Borsa di Tokyo, innervosita dall’andamento del voto, ha visto l’indice Nikkey, a metà seduta, cedere il 2,2% a quota 16.788,90. Il Giappone e i mercati asiatici temono molto la vittoria di Trump che tra i suoi obiettivi ha l’abolizione del trattato di libero scambio Ttp (Trans Pacific Partenership) firmato nel 2015 tra gli Usa e 12 Stati del pacifico. Tristezza e anche qualche lacrima tra i supporter di Hillary Clinton al quartier generale democratico a New York.
LA RIVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO L’ultima chiave della vittoria di Trump è stata certamente nel linguaggio, diretto e anche offensivo. La sfida alla “correttezza politica“, che per i suoi sostenitori è solo ipocrisia, usata per mascherare le politiche che li danneggiano. Gli hanno perdonato tutto, incluse le registrazioni in cui diceva di poter prendere le donne come voleva, confermando che se fosse sceso nella Fifth Avenue e avesse sparato a qualcuno, non avrebbe persone neppure un voto. Ieri sera infatti tutti quei voti gli hanno consegnato la Casa Bianca, incoronandolo come “leader” di una rivoluzione piena di incognite per alcuni, e speranze di riscatto per altri. “Un onore, una serata eccezionale, un periodo eccezionale”. Così Donald Trump ha concluso il suo discorso dopo la vittoria nelle elezioni presidenziali Usa. Il magnate newyorkese ha poi voluto ringraziare tutti, citando Mike Pence, che era il candidato repubblicano alla vicepresidenza. Al termine dell’intervento i sostenitori hanno intonato “Usa, Usa”. Trump ha poi baciato tutta la famiglia e i suoi accanto a lui. Ecco le immagini trasmesse in diretta da SkyTg24. Il nuovo presidente americano ha festeggiato a New York. Per la prima volta in oltre 70 anni, la metropoli americana ha ospitato per l'”Election Day” il candidato repubblicano e quello democratico dopo una battaglia elettorale e sui media durata quasi due anni. Alla Casa Bianca va Donald Trump ed una cosa è certa: il nuovo presidente non deve ringraziare nessuno. Con il Congresso americano in mano al Partito Pepubblicano avrà mano libera per influire profondamente sugli Stati Uniti d’America, anche se si troverà di fronte un Paese lacerato e in una profonda crisi sociale che, se non saprà ricucire, rischia di diventare dirompente. L’8 novembre 2016 è quindi definitivamente una data che può stravolgere la storia. Gli Stati Uniti hanno avuto un presidente nero, e prima o poi avranno anche un presidente donna. Non sarà Hillary Clinton, però. Quella che sembrava la predestinata, ma passerà invece alla storia solo per la più bruciante sconfitta politica degli Stati Uniti.
I Gufi e la comunicazione nella politica di oggi di Gianluca Comin * Ho seguito con molto interesse la diatriba andata in scena sulle pagine de Il Fatto Quotidiano tra Antonio Padellaro e Filippo Sensi, il portavoce del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Al centro del contendere l’autorevolezza della comunicazione istituzionale del primo ministro. È uno spunto interessante per analizzare in che direzione sta andando la comunicazione politica degli ultimi anni. Il gufo utilizzato dal premier nelle slide della conferenza di fine anno simboleggia indubbiamente il disfattismo nostrano. Quel gruppo di persone che non crede nel cambiamento perché «finora non è successo niente» e pertanto non pensa né spera che possa avvenire. nella foto Filippo Sensi portavoce di Matteo Renzi AVERE UN NEMICO IN POLITICA È UTILE. L’utilizzo di un nemico, vero o inventato, è una pratica piuttosto comune nella dialettica politica degli ultimi cinquant’anni. Fa sentire i cittadini parte di un gruppo, sicuri di stare dal lato “giusto” della barricata, e delinea nettamente il perimetro del messaggio pronunciato da un leader. Tuttavia, come ha cercato di spiegare Filippo Sensi, i codici comunicativi dei leader politici stanno cambiando radicalmente. Non bisogna stupirsi che un premier giovane, che si è sempre presentato come alfiere del cambio generazionale, si faccia portatore di innovazioni comunicative che possono spiazzare un pubblico di giornalisti e politici abituato a codici più tradizionali. Basti pensare al presidente degli Stati Uniti Barack Obama. L’abbiamo visto di recente sgommare su una corvette del 1963 accanto al conduttore televisivo Jerry Seinfield, per il programma televisivo Comedians in cars getting coffee. Ma non è la prima volta che Obama si lascia andare a simpatiche gag. Il popolarissimo sito Buzzfeed lo ha convinto a girare un video virale dal titolo Things everybody does, but doesn’t talk about, in cui faceva smorfie davanti allo specchio e si fotografava con un selfie stick. O ancora la cancelliera Angela Merkel, che di certo non manca di un forte lato istituzionale, mentre beve una pinta di birra ai
festival folk di paese. Non ultimo Vladimir Putin, che più volte ha mostrato il suo lato “privato”, attraverso servizi fotografici in palestra, a pesca o assieme ai suoi cani. Tuttavia il leader politico è in grado di distinguere nettamente i vari contesti in cui si trova e non compiere errori: negli incontri ufficiali lo stile deve essere chiaramente istituzionale e rigoroso. Tornando all’esempio di Obama, è proprio la sua capacità di essere sé stesso con naturalezza (dal pranzo al McDonald’s al ricevimento a Buckingham Palace) che rende il suo comportamento in pubblico più credibile e genuino. nella foto Antonio Padellaro ORA SI PARLA AGLI ELETTORI, NON AI GIORNALISTI. Il premier Matteo Renzi può essere a volte criticato per la sua tendenza a forzare un po’ la mano di fronte a un pubblico, come quello italiano, che non è pronto a vederlo con un cono gelato in mano e subito dopo in divisa davanti ai soldati in Libano. Rimproverargli però l’incapacità di gestire le diverse tipologie di comunicazione è esagerato. Al centro dello scontro Padellaro-Sensi c’è una tendenza della comunicazione politica che fa ormai la differenza: la scelta dell’interlocutore. Matteo Renzi, come Berlusconi prima di lui, non parla in via preferenziale ai giornalisti o agli addetti ai lavori, ma agli elettori. È questa forse un’ulteriore forma di disintermediazione operata dal leader del Partito democratico, che ha impatti sia sul linguaggio sia sul modus operandi di chi fa politica. Anche negli scontri pubblici più celebri, come quello con i sindacati, è chiaro che il vero destinatario dei suoi discorsi è sempre stato il cittadino-elettore, non qualche autorevole editorialista. Il gufo, senza per forza giustificare l’aggressività retorica di Renzi, potrebbe essere interpretato come il simbolo dell’altro da sé: il “diverso” perché portatore di una visione antitetica delle cose, più scettico sulla possibilità di intervenire nel contesto che ci circonda. Da qui gli attacchi, non solo di Padellaro, a un linguaggio considerato troppo diretto e poco istituzionale: parlare in modo semplice e senza filtri (senza per forza scivolare nel semplicismo) evita sicuramente le secche del “politichese”, ma toglie al giornalista il (legittimo) potere di interpretazione della notizia e di decrittazione del linguaggio politico. L’OBIETTIVO È RESTARE A GALLA NEL FLUSSO DI NOTIZIE. A che pro dedicare il caffè mattutino alla lettura di pensosi editoriali, quando
basta scorrere le agenzie (o la timeline di Twitter!) per venire a conoscenza delle decisioni del premier? Forse è proprio questo il senso della polemica tra un cronista di razza come Padellaro e un ex giornalista quale Sensi. In realtà, a ben guardare, la sterzata comunicativa del leader Renzi è dovuta soprattutto a un contesto in vorticosa evoluzione, segnato da eventi che, a mio avviso, hanno imposto al ‘Rottamatore’ un cambio di paradigma: penso all’impetuosa discesa in campo di Beppe Grillo e al successo del suo movimento, all’esigenza di rilanciare il centrosinistra umiliato dalla “non- vittoria” del 2013 e alla diffusione a macchia d’olio dei social network, con cui è necessario fare i conti. Restare a galla nel flusso quotidiano di notizie e identificare strategie che permettano ai leader di partito di non essere travolti dal mare del web è un obiettivo che richiede (anche) l’adozione di un linguaggio incisivo e diretto, a tratti aggressivo o canzonatorio. L’essenziale è trovare sempre il giusto equilibrio tra compostezza istituzionale e dirompenza verbale. * tratto dal quotidiano online Lettera43 E’ Sergio Mattarella il nuovo Presidente della Repubblica di Marco Ginanneschi Standing ovation a ripetizione e tanti applausi dopo la quarta votazione a Camere congiunte per Sergio Mattarella , che ha supera il quorum, ricevendo 665 voti e diventa il dodicesimo presidente della Repubblica italiana. “Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E’ sufficiente questo“, le sue prime parole da capo dello Stato (video). Ieri Matteo Renzi aveva auspicato “la più ampia convergenza” sul nome del giudice costituzionale ed ex ministro della Difesa e oggi su Twitter gli ha subito augurato “buon lavoro“. Il neo presidente, si è limitato ad una breve dichiarazione dopo la proclamazione dei risultati: “Il pensiero – ha detto Mattarella – va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. È sufficiente questo“. Poi nel pomeriggio, a sorpresa, la significativa visita alle Fosse Ardeatine e il messaggio: “L’Europa
sia unita contro chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore“. L’Italia ha quindi un nuovo capo dello Stato e presto la barriera presidenziale tornerà a sventolare sul torrino del Quirinale, assieme al tricolore e alla bandiera europea: il giuramento nell’aula di Montecitorio è fissato per martedì alle 10. Mattarella arriva sul Colle presidenziale portando con sè una lunga esperienza istituzionale: è stato parlamentare, più volte ministro della Repubblica ed anche giudice della Corte Costituzionale (per nomina parlamentare avvenuta nel 2011) carica che ha ricoperto sino ad oggi. Immediato l’augurio di buon lavoro inviato via Twitter dal premier Matteo Renzi, “regista” della strategia che ha portato al Quirinale, Mattarella: “Buon lavoro, Presidente Mattarella! Viva l’Italia“. Numerosi gli esponenti di governo che senza aspettare l’esito definitivo dello spoglio hanno fatto altrettanto. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ed attuale capo dello Stato reggente dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano, si è affidato al social network Facebook: “Una grandissima gioia e il piccolo rammarico di non aver potuto aggiungere il mio voto alle 665 schede sulle quali è stato scritto il suo nome“. Auguri e felicitazioni sono arrivate a Mattarella, da diversi leader internazionali, da Barack Obama a François Hollande, ed anche da Papa Francesco. “Mi è gradito rivolgerle – ha scritto il Papa a Mattarella – deferenti espressioni augurali per la sua elezione alla suprema magistratura dello Stato italiano e, mentre auspico che ella possa esercitare il suo alto compito specialmente al servizio dell’unità e della concordia del Paese, invoco sulla sua persona la costante assistenza divina per una illuminata azione di promozione del bene comune nel solco degli autentici valori umani e spirituali del popolo italiano. Con questi voti – ha concluse Papa Francesco rivolgendosi al neo Presidente – invio a lei e all’intera Nazione la benedizione apostolica”. Qualche minuto prima del Papa, appena il nome di Mattarella ha superato il quorum dei 505 voti necessari per l’elezione, è arrivato dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana il messaggio di auguri per il neo presidente della Repubblica. “L’elezione del Capo dello Stato – scrive la Cei – rappresenta uno dei momenti più importanti della vita democratica, perché garantisce un riferimento di unità per il popolo e per la Nazione. Nel salutare rispettosamente e con viva soddisfazione l’elezione di Sergio Mattarella, nel quale il parlamento ha riscontrato le necessarie caratteristiche di ‘dignità
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