Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump

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Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Il problema dei social network : i
"deep fake" ed il video falso
postato da Donald Trump
ROMA – Uno spettro ha inseguito Hillary Clinton per tutta la campagna
elettorale del 2016: quello di Bengasi. La città libica che agli occhi
dei suoi detrattori     è diventata il simbolo di tutto il marcio
rappresentato dalla candidata, diffondendosi sotto forma di teoria
cospiratoria in grado di farsi meme. In realtà a distanza di anni
Bengasi è diventato un esempio di offuscamento politico perfetto: il
riferimento era agli attacchi contro soldati americani avvenuti tra
l’11 e il 12 settembre 2012, che costarono la vita a quattro
statunitensi, e per i quali vennero accusati Barack Obama all’epoca
Presidente degli Stati Uniti d’ America ed Hillary Clinton, suo
Segretario di Stato .

Infatti nessuna indagine trovò e portò alla luce qualsiasi tracce di
negligenza sul loro operato, ma la storia continuò a diffondersi,
sospesa tra il vero ed il falso.

Lo stesso genere di “fake news” su Benghazi è ritornata in una sua
applicazione e variabile più attuale, realizzata su misura dei social
network ed i loro algoritmi. Questa volta al centro della questione
c’è Nancy Pelosi, la speaker della Camera degli Stati Uniti , di
origini molisane, un’altra donna avversaria di Trump,         e tra le
persone    che   potrebbero     mettere     in  moto    la   macchina
dell’impeachment contro il presidente Trump. Da qualche mese i media
si divertivano a notare quanto fosse facile per la Pelosi fare
deragliare Trump, spesso costringendolo a scivoloni pubblici (come
quella volta che gli fece affermare che lo shutdown del Governo
sarebbe stata un’idea sua e solo sua, come se fosse un vanto).

Le cose sono cambiate la scorsa settimana, quando ha cominciato a
circolare tra i circuiti della destra americana, un filmato che è
stato retwittato dal commander-in-chief in persona. E il video, pur
essendo palesemente falso, è rimasto ancora lì, online su Facebook e
Twitter, destinato a offuscare il nome di Nancy Pelosi nel suo futuro.

La versione originale del filmato mostra la speaker parlare al
microfono, mentre la versione proposta dall’amministrazione Trump, è
stata invece rallentata abbastanza al punto tale da da farla sembrare
un po’ ubriaca.
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Un effetto video-digitale che era già venuto alla luce nell’esilarante
spot Apple di Jeff Goldblum, modificato per farlo sembrare sbronzo, ma
ecco che, nel 2019, fa tranquillamente capolino in un articolo sulla
politica estera, a dimostrazione della squallida evoluzione dei nostri
eventi.

Ormai non costituisce più notizia che un filmato contraffatto sia
stato messo online, chiaramente non siamo così ingenui, così come non
fa neanche notizia, purtroppo, che un presidente come Donald Trump
l’abbia subito fatta propria e “legittimata” (a voler essere cinici).
La vera novità e notizia è costituita dal comportamento social
network, che sull’onda degli svariati scandali che hanno interessato
Facebook e non soltanto, negli ultimi anni hanno avviato programmi
contro le fake news. A metà maggio proprio Facebook ha presentato un
report sulla trasparenza in cui ha confessato (senza vergognarsi dei
precedenti omessi controlli) di aver cancellato in sei mesi 1,3
miliardi di account falsi e di bot . “Questo è solo l’inizio”, ha
detto Guy Rosen, che si occupa di sicurezza per l’azienda: “Le persone
possono segnalare molti più tipi di contenuti”.

Quando l’ ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ora avvocato di
Trump, ha scoperto il video-fakenews della Pelosi e lo ha ritwittato,
da quel momento il video è passato dal profilo “ufficiale” del
Presidente Trump a quello della Casa Bianca (che lo ha persino
ritwittato) e quindi migrato anche su Facebook, insieme alle
strumentali dichiarazioni di Donald Trump su “Crazy Nancy” e la
millantata (non reale) follia della speaker della Camera degli Stati
Uniti.

Se dovessimo dare credibilità     ai responsabili della sicurezza di
Facebook, asterebbe segnalarlo e la clip sparirebbe dal social
network, ma allora ci si chiede: come mai quel video-fakenews è
ancora online, visto che YouTube ha cancellato e rimosso
immediatamente il contenuto? Facebook ha fatto quello che fa sempre in
questi casi: spendersi in una spiegazione piuttosto contorta. Monika
Bickert, che si occupa di counterterrorism per il social network,
ha spiegato alla Cnn che l’azienda, cioè Facebook “sa che il video è
falso” ma che lo ha lasciato online, anche se “abbiamo drasticamente
ridotto la circolazione di quel contenuto”. Incredibile se non
paradossale il motivo? “Pensiamo sia importante che le persone possano
decidere a che cosa credere”.

Difficile capire quante persone siano state danneggiate da quel video,
ma Facebook li ha ignorati e calpestati tutti: sia chi trova
inquietante quella millantata “riduzione” della diffusione del
contenuto, e quelli che invece hanno a cuore… la realtà. E la
correttezza dell’informazione.
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Da mesi negli USA i repubblicani e la destra radicale americana
denunciano un’ipotetica campagna di “silenziamento” politico parte di
Facebook e Twitter, accusate di essere di sinistra. Una campagna è
arrivata fino al Senato, e che riguarda molto da vicino i “trumpiani“.
Se l’azienda agisse per cancellare quella che è palesemente una
vecchia bufala propagandistica aggiornata ai tempi nostri,
paradossalmente farebbe un assist alla Casa Bianca, dimostrando in
qualche modo le sue paranoie di censura. Ma forse questa è l’ultima
cosa di cui Facebook ha bisogno, di questi tempi.

Una cosa è certa. Ormai bisogna credere solo a quello che si vede con
i propri occhi. Di persona.

Obama a Milano: “La tecnologia che
riduce la manodopera nel mondo
avanzato è un problema”

                                      Il clou della seconda giornata
italiana di Barack Obama in Italia, a Milano è stato l’intervento al
summit forum sull’innovazione alimentare Seed&Chips. Obama ha iniziato
il suo discorso ringraziando il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, l’ex
premier Matteo Renzi e l’ex sindaco Letizia Moratti per “l’impegno in
Expo”.”La mancanza di cibo è una delle cause del’immigrazione” ha
detto sottolineando che gli Stati Uniti “non sarebbero quello che sono
senza il contributo di milioni di italiani che hanno anche dovuto
subire discriminazioni, ma che con fede, convinzione e lavoro duro
hanno avuto successo dappertutto e hanno rafforzato gli Stati Uniti”.

Obama poi ha parlato del futuro della terra spiegando che l’obiettivo
dev’essere quello di “sviluppare sistema non soggetto ai cambiamenti
climatici“, sottolineando che “l’uomo ha causato molti problemi al
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pianeta e adesso deve risolverli“. “Vi porto i saluti di Michelle. E
vi dico che torneremo molto spesso in Italia. Ricordiamo i nostri
viaggi in Toscana, a Roma, lei ricorda il suo viaggio a Milano per
Expo con Sasha e Malia. Per questo dico, torneremo molto spesso in
Italia” ha aggiunto. “Vi prometto che torneremo tantissime volte qui
in Italia” ha ripetuto.

La visita al Cenacolo. Obama,      accompagnato nella sua visita dal
ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, dal direttore del Polo
Museale Lombardo, Stefano L’Occaso e dalla direttrice del Cenacolo
Vinciano, Chiara Rostagno, è rimasto incantato dal capolavoro di
Leonardo da Vinci conservato al Cenacolo. “Straordinario… – ha detto
l’ex presidente degli Stati Uniti – Leonardo è un genio” .

                                      Obama è rimasto una ventina di
minuti a Santa Maria delle Grazie. “È stata una visita appagante per
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come Obama ha dimostrato di conoscere il nostro patrimonio – ha
raccontato  ai giornalisti L’Occaso il direttore del Polo Museale
Lombardo – Si è informato in particolare sullo stato e sulle tecniche
di conservazione dell’affresco ed è rimasto entusiasta di questo
luogo”.

 L’ex presidente americano era arrivato al Cenacolo Vinciano intorno
alle 10,25 di questa mattina. Il celebre dipinto di Leonardo è
custodito presso la basilica di Santa Maria delle Grazie e Obama ha
raccontato di essere stato consigliato dalla moglie Michelle
sull’importanza di non perdere questo sito durante la sua trasferta in
Italia a Milano.     Fin dalle prime ore di quest’oggi l’area del
piazzale di fronte alla chiesa era stata transennata e resa
inaccessibile, così la folla si è assiepata intorno alle transenne. Le
persone sono comunque riuscite a vedere Obama quando è sceso
dall’auto.
Questo pomeriggio, durante uno dei momenti di Seeds&Chips – The Global
Food Innovation Summit, il sindaco di Milano Giuseppe
Sala ha consegnato le chiavi della città         nelle mani dell’ex
presidente americano.     Della consegna del sigillo se ne parla da
settimane ma non era chiaro quando sarebbe avvenuta. In mattinata è
arrivata la conferma dal cerimoniale. “Sarà un incontro privato –
spiega il primo cittadino milanese – se non altro per questioni di
sicurezza, con qualche partecipante. Vedremo di testimoniarlo almeno
con la fotografia. Ma sono molto felice di potergli consegnare le
chiavi”.

Sala ha sottolineato ancora una volta il legame tra queste fiere e
Expo, “e qui la cosa bella sono i giovani. Qui ci sono tanti giovani
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imprenditori da tutto il mondo, vuol dire che questo tema è molto
attrattivo, ha opportunità di business e permette di mettere insieme
questioni sociali con quelle dell’economia. Quella di quest’anno è un
po’ una prova – ha aggiunto – Questa idea della food week ha fatto
numeri straordinari, sentivo che Taste of Milano ha fatto più 20-25
per cento, oggi vedremo con Obama”.
E si pensa già all’anno prossimo: “Ci sarebbe un po’ questa idea di
creare una sorta di Davos del futuro. Ci vuole tempo e pazienza“.

Aperti i seggi delle “primarie” Pd.
Si vota fino alle 20
ROMA – Al voto oggi per le primarie del partito il popolo dem chiamato
ad esprimersi nella sfida fra l’ex premier Renzi, il guardasigilli
Orlando ed il governatore della Puglia Emiliano. Si vota in 10 mila
gazebo e seggi in tutta Italia, dalle 8 alle 20, resta l’incognita
affluenza: il partito spera in almeno un milione di partecipanti.
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Nel 2013 furono quasi tre milioni. “Le primarie restituiscono potere
ai cittadini” è l’appello di Renzi, che rivendica la capacità del Pd
di “discutere, partecipare, votare“. “Non si decide solo chi guiderà
il Pd, si decide anche tra centrosinistra o un’alleanza con
Berlusconi‘, aggiunge Orlando. Puntuali i soliti proclami privi di
sostanza di Emiliano per il quale “non è detto che Renzi vinca”
promettendo che, se anche l’ex premier dovesse vincere, gli renderà
dura la strada. Anche se le sue sono solo affermazioni di facciata non
avendo alcuna possibilità di vittoria, ma solo affermazioni
mediatiche.

Per votare bisogna presentare documento d’identità e tessera
elettorale. Chi non è iscritto al Pd deve anche versare un contributo
minimo di 2 euro. Hanno l’obbligo di registrarsi on-line i ragazzi tra
i 16 e i 18 anni, gli studenti e i lavoratori fuori sede e coloro che
domenica non si troveranno nel loro Comune di residenza. Gli stranieri
possono votare se con permesso di soggiorno o richiesta di rinnovo,
esibendolo con la carta di identità. Possibile anche il voto on line,
a patto di essersi registrati prima. Per votare si potrà barrare il
nome della lista del candidato a segretario nazionale che si intende
sostenere.

Aperti gli ottomila gazebo, mentre la campagna si è chiusa con ironia.
“Ciao Matteo, che fine hai fatto? Non so se ti ricordi, ci sono le
primarie, anche se il Pd non le ha pubblicizzate per niente –
ironizza Andrea Orlando nell’ultimo giorno della campagna -. Dai,
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vieni a votare anche tu”. Si decide oggi il nuovo segretario dem con
un’assise organizzata in fretta e furia, che è andata avanti senza
sussulti. Le uniche polemiche sembrano destinate ad arrivare da
Napoli, dove la direzione nazionale del Partito Democratico ha deciso
di inviare come “osservatore speciale” il renziano Ernesto Carbone.
Più che osservare, godrà di potere assoluto sui seggi, compreso quello
di chiuderli immediatamente in presenza di eventuali irregolarità o
situazioni sospette.

Nell’ultimo mese vi sono stati pochi acuti, e pressochè nessun colpo
basso. Orlando ha provato ad animare le ultime ore prima del voto
 solo il Guardasigilli, aprendo alle elezioni anticipate: “Se dopo le
primarie si farà una nuova legge elettorale – rilancia dai microfoni
di Radio Radicale – si può anche non arrivare al 2018. Senza riforma,
si finisce a fare il governo con Berlusconi“. Tutto ciò non trova
d’accordo l’ex premier Renzi che gli replica: “È un’accusa che mi fa
un po’ ridere, la larga coalizione con Berlusconi l’hanno fata quelli
del No al referendum“.

E’ noto a tutti che sarà proprio Palazzo Chigi ad avvertire le
tensioni del giorno dopo. Infatti il premier Paolo Gentiloni si è
speso pubblicamente per Matteo Renzi. Una posizione chiara ed espressa
alla luce del sole come fa notare che Maria Elena Boschi : “Ha fatto
bene a non nascondere la sua vicinanza”. I problemi, in realtà, per la
durata del Governo in carica potrebbero arrivare proprio dal leader di
Rignano, che non ha rinunciato alla tentazione di elezioni
politiche nel 2017. Ma per adesso Renzi incita alla partecipazione.
“Sta accadendo una cosa semplice: vogliono togliervi le primarie –
sostiene l’ex-premier -. Dicono che se solo un milione andrà a votare,
sarà un flop. Ignorano che un milione di persone sono una forza
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strepitosa“. E proprio per agevolare l’affluenza, a Milano si potrà
votare anche in alcuni bar, pizzerie e gelaterie.

L’ex-premier ha già fissato appuntamento per lunedì 8 maggio a Milano,
mentre si sta lavorando su un altro con le rispettive mogli, che
 dovrebbe avvenire una decina di giorni dopo, in Toscana. Matteo Renzi
ci si è dedicato nelle settimane scorse, tra un impegno e l’altro di
campagna per le primarie. Augurandosi che saranno i primi incontri
internazionali da segretario rieletto del Pd: in particolare con l’ex
presidente americano Barack Obama, al suo primo tour in Europa dopo
l’uscita dalla Casa Bianca.

Renzi ha spiegato ad alcuni amici che quello dell’8 maggio “è un
incontro non ufficiale, ho piacere che Obama venga in Italia e vado
volentieri a Milano a salutarlo“, In questi mesi, racconta chi gli è
vicino, che i contatti con il predecessore di Trump, sono rimasti
aperti dopo che, da presidente del consiglio, era stato l’ultimo
ospite straniero alla Casa Bianca durante il mandato di Obama. Renzi
si presentò ad otobre dell’anno scorso accompagnato dalla moglie
Agnese e una parata di talenti italiani (dalla campionessa
paraolimpica di scherma Bebe Vio alla sindaca di Lampedusa Giusy
Nicolini, fresco premio per la pace Unesco, a Roberto Benigni);
trovando un accoglienza amichevole in Obama che lo accolse con un
largo sorriso e parole di sostegno per l’esito del referendum
costituzionale del 4 dicembre.
Obama dopo l’impegno milanese, resterà in Europa: il 25 maggio è in
programma a Berlino un incontro con la cancelliera tedesca Angela
Merkel , mentre il 26, in concomitanza con l’apertura del G7 a
Taormina, lui si recherà nella Scozia anti-Brexit. È prima di questi
appuntamenti, in una data ancora da designare con certezza – potrebbe
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essere venerdì 19 o martedì 23 – che si sta lavorando a un nuovo
incontro tra i due. Questa volta esteso alle mogli, perché Michelle
dovrebbe raggiungere il marito dagli Stati Uniti.

Oggi però Matteo Renzi,     l’ex segretario ricandidato cercherà di
vincere le primarie del Partito Democratico, proiettandosi ai primi
appuntamenti da “leader” riconfermato.

L’ultimo discorso di Barack Obama
da Presidente degli USA : “Si può
fare. Lo abbiamo fatto. Si può
fare”
di Barack Obama

L’inizio

“Sono arrivato a Chicago quando avevo poco più di vent’anni, e cercavo
di capire chi ero e cosa fare della mia vita. È stato in quartieri
poco distanti da qui che ho cominciato a lavorare con i gruppi
parrocchiali e a osservare il potere delle fede, e la silenziosa
dignità dei lavoratori di fronte alle difficoltà. È stato qui che ho
imparato che il cambiamento avviene solo quando le persone normali ne
sono coinvolte e si uniscono per ottenerlo. Dopo otto anni da
presidente, lo credo ancora. E non sono solo io.

È il cuore pulsante dell’idea americana, del nostro coraggioso
esperimento di autogoverno. È la convinzione che siamo stati tutti
creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, come
la vita, la libertà e la ricerca della felicità. È l’insistenza che
questi diritti, per quanto auto-evidenti, non si sono mai auto-
rispettati; che siamo noi, il popolo, attraverso lo strumento della
nostra democrazia, che possiamo formare un’unione sempre più perfetta.
[…] Sì, i nostri progressi sono stati squilibrati. Il lavoro della
democrazia è sempre stato duro, controverso e a volte sanguinoso. Per
ogni due passi avanti, spesso ci sembra di averne fatto uno indietro.
Ma il lungo corso dell’America è stato definito dal movimento in
avanti, dal costante allargamento del credo dei Padri Fondatori perché
abbracciasse tutti e non solo alcuni”

Se otto anni fa vi avessi detto

Se otto anni fa vi avessi detto che l’America avrebbe invertito la sua
grande recessione, rilanciato l’industria dell’auto e innescato il più
grande periodo di creazione di posti di lavoro della nostra storia… se
vi avessi detto che avremmo aperto un nuovo capitolo con il popolo
cubano, fermato il programma nucleare iraniano senza sparare un colpo,
e fatto fuori il regista dell’11 settembre… se vi avessi detto che
avremmo ottenuto il matrimonio egualitario, e il diritto alle cure
sanitarie per altri 20 milioni di nostri concittadini… avreste potuto
pensare che avevamo messo l’asticella troppo in alto. Ma questo è
quello che abbiamo fatto. Questo è quello che avete fatto. Voi siete
stati il cambiamento. Avete risposto alle speranze delle persone e,
grazie a voi, da quasi ogni punto di vista oggi l’America è migliore e
più forte di quando abbiamo cominciato.
Barack Obama si asciuga le lacrime durante il suo discorso di addio da
       presidente degli Stati Uniti – Chicago, 10 gennaio 2017

Non è ancora abbastanza

Pur con tutti i progressi che abbiamo fatto, sappiamo che non è ancora
abbastanza. La nostra economia non funziona né cresce abbastanza
quando pochi prosperano alle spese della nostra crescente classe
media. E le grandi disuguaglianze corrodono anche i nostri principi
democratici. Mentre l’uno per cento ammassava una ricchezza sempre più
grande, troppe famiglie nelle città e nelle campagne sono state
lasciate indietro – gli operai licenziati, la cameriera o l’infermiere
che non riescono a pagare le bollette – e oggi pensano che il sistema
funzioni contro di loro, che il governo sia al servizio dei potenti.
La ricetta per aumentare il cinismo e la polarizzazione politica.

Non ci sono modi veloci per correggere questa tendenza di lungo
periodo. Sono d’accordo che il commercio internazionale debba essere
equo e non solo libero. Ma la prossima ondata di licenziamenti non
verrà dall’estero. Verrà dal continuo progresso nell’automazione che
renderà obsoleti molti posti di lavoro. E quindi dobbiamo formare un
nuovo patto sociale, per garantire ai nostri figli l’istruzione di cui
hanno bisogno, per dare ai lavoratori il potere di unirsi in un
sindacato per chiedere paghe migliori, per aggiornare il nostro
welfare così che sia adatto al modo in cui viviamo, per aggiornare il
fisco così che sia le persone che le multinazionali che guadagneranno
di più dalla nuova economia non evitino i loro doveri verso il paese
che ha reso possibile il loro successo. Possiamo discutere sul come
raggiungere questi obiettivi. Ma non possiamo metterli in discussione.
Se non creiamo opportunità per tutti, la disaffezione e la divisione
che ha fermato i nostri progressi non farà altro che aggravarsi.

C’è una seconda minaccia per la nostra democrazia, vecchia quanto la
nostra nazione. Dopo la mia elezione qualcuno aveva parlato di una
America post-razziale. Questo punto di vista, per quanto ben
intenzionato, non è mai stato realistico. L’etnia è una forza potente
e spesso divisiva nella nostra società. Ho vissuto abbastanza da
sapere che le cose oggi vanno meglio di dieci, venti o trent’anni fa:
non si vede solo nelle statistiche ma nel comportamento dei giovani
americani di ogni orientamento politico. Ma non siamo ancora al punto
in cui abbiamo bisogno di arrivare. Tutti noi dobbiamo fare di più.
[…] Niente di tutto questo sarà facile. Per molti di noi è diventato
più comodo ritirarci nelle nostre bolle, che sia il nostro quartiere o
il nostro college o la nostra chiesa o i social network, circondati da
persone esattamente come noi con le nostre stesse idee politiche, e
non metterci mai in discussione. La frammentazione dei nuovi media –
un canale per ogni gusto – rende questo isolamento naturale, persino
inevitabile. E ci sentiamo così sicuri dentro le nostre bolle che
accettiamo solo informazioni compatibili con le nostre opinioni, vere
o false, invece che basare le nostre opinioni sui fatti.

                 Il discorso di Obama in tre minuti:

Una base comune di fatti

Questa è una terza minaccia per la nostra democrazia. La politica è
una battaglia di idee. In un dibattito sano, daremo priorità alla
discussione di certi obiettivi e dei diversi modi per raggiungerli. Ma
senza una base comune di fatti, senza la volontà di ammettere
l’esistenza di nuove informazioni, senza saper concedere che a volte
il tuo avversario ha dei buoni argomenti, e che la scienza e la
ragione sono importanti, continueremo a parlarci uno sull’altro,
rendendo impossibile trovare un terreno comune e fare compromessi.

Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione

La nostra democrazia è minacciata ogni volta che la diamo per
scontata. Tutti noi, a prescindere dal nostro partito, dovremmo darci
da fare per ricostruire le nostre istituzioni democratiche. Visto che
il nostro tasso di affluenza al voto è tra i più bassi tra le
democrazie avanzate, dovremmo rendere votare più facile e non più
difficile. Visto che la fiducia nelle nostre istituzioni è bassa,
dovremmo ridurre l’influenza corrosiva del denaro nella nostra
politica, e insistere sui principi di trasparenza ed etica. Visto che
il Congresso non funziona, dovremmo disegnare i nostri collegi in modo
da incoraggiare i politici a prendere decisioni di buon senso, e non
posizioni estremiste.

Tutto questo dipende dalla nostra partecipazione: da ognuno di noi che
accetta di avere delle responsabilità da cittadino, a prescindere
dalle sue idee e da chi sia al potere. La nostra Costituzione è un
regalo meraviglioso. Ma in realtà è solo una pergamena. Non ha potere
di per sé. Siamo noi, il popolo, che le diamo potere con la nostra
partecipazione e le nostre scelte. Col nostro difendere o no le nostre
libertà. Col nostro rispettare e far rispettare o no lo stato di
diritto. L’America non è fragile. Ma i grandi progressi che abbiamo
fatto nel nostro viaggio verso la libertà non sono scontati. Li
indeboliamo tutte le volte che permettiamo al dibattito politico di
diventare così velenoso che le brave persone decidono di non
impegnarsi in politica; così pervaso dal rancore che giudichiamo
malevoli gli americani con cui non siamo d’accordo. Li indeboliamo
tutte le volte che ci definiamo più americani di altri nostri
concittadini; tutte le volte che pensiamo che tutto sia corrotto
intorno a noi, e ne incolpiamo i leader politici senza prendere in
considerazione il nostro ruolo nell’eleggerli.

Sta a tutti noi essere guardiani preoccupati e gelosi della
democrazia; abbracciare con gioia questo compito per continuare a
migliorare la nostra grande nazione. Perché per tutte le nostre
differenze, condividiamo tutti lo stesso titolo: cittadini.

In fin dei conti, ce lo chiede la nostra democrazia. Non solo quando
c’è un’elezione, ma nell’arco di tutta una vita. Se siete stanchi di
discutere con degli sconosciuti su internet, cercate di parlare con
qualcuno di persona. Se qualcosa dovrebbe funzionare meglio,
allacciatevi le scarpe e datevi da fare. Se siete delusi dai vostri
rappresentanti, raccogliete le firme e candidatevi voi stessi. Fatevi
avanti, fatevi sotto. Perseverate. Qualche volta vincerete. Altre
volte perderete. Presumere che ci sia del buono nel prossimo può
essere un rischio, e ci saranno momenti in cui sarete molto delusi. Ma
per chi di voi sarà fortunato abbastanza da riuscire a fare qualcosa,
da vedere da vicino questo lavoro, lasciate che ve lo dica: può
ispirarvi e darvi energia. E più spesso di quanto pensiate la vostra
fiducia nell’America e negli americani sarà confermata. La mia lo è
stata di certo.
Barack, Michelle e Malia Obama dopo il discorso d’addio di Obama da
       presidente degli Stati Uniti – Chicago, 10 gennaio 2017

I ringraziamenti finali

Stasera sono qui alcune persone che erano con me nel 2004, nel 2008,
nel 2012, e forse anche voi ancora non credete a quello che abbiamo
fatto. Non siete i soli.

Michelle. Per gli ultimi venticinque anni sei stata non solo mia
moglie e la madre dei miei figli, ma la mia migliore amica. Hai
assunto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai reso tuo con grazia e
grinta e buon umore. Hai reso la Casa Bianca la casa di tutti. E oggi
una nuova generazione si pone obiettivi ambiziosi anche perché ha te
come modello. Mi hai reso orgoglioso. Hai reso orgoglioso tutto il
paese.

Malia and Sasha, sotto le più strane delle circostanze, siete
diventate due meravigliose giovani donne, intelligenti e bellissime,
ma soprattuto gentili e riflessive e piene di passioni. Avete
sopportato con facilità il peso di questi anni sotto i riflettori. Di
tutto quello che ho fatto nella vita, la cosa di cui sono più
orgoglioso è essere vostro padre.
Joe Biden, il ragazzino balbuziente di Scranton che è diventato il
figlio prediletto del Delaware. Sei stato la prima scelta che ho fatto
da candidato, e la migliore. Non solo perché sei stato un grande vice
presidente, ma perché in questo affare io ho guadagnato un fratello.
Vogliamo bene a te e a Jill come parte della nostra famiglia, e la
nostra amicizia è una delle più grandi gioie della nostra vita.

Al mio formidabile staff. Per otto anni – e per alcuni di voi, molti
di più – ho assorbito la vostra energia, e ho cercato di riflettere
quello che voi mi mostravate ogni giorno: cuore, carattere e
idealismo. Vi ho visti crescere, sposarvi, avere dei figli, e iniziare
incredibili nuovi viaggi solo vostri. Anche quando le cose si sono
fatte toste e frustranti, non avete mai lasciato che Washington si
prendesse le cose migliori di voi. L’unica cosa che mi rende più
orgoglioso di tutte le cose buone che abbiamo fatto insieme è il
pensiero di tutte le cose formidabili che farete da qui in poi.

E a tutti voi lì fuori, ogni organizzatore che ha cambiato città
durante una campagna elettorale per dare una mano, ogni volontario che
ha bussato porta a porta, ogni giovane che ha votato per la prima
volta, ogni americano che ha vissuto e respirato il duro lavoro del
cambiamento: siete stati i migliori sostenitori che chiunque potesse
sperare, e vi sarò grato per sempre. Perché sì, voi avete cambiato il
mondo.
La conclusione

Ecco perché stasera lascio questo palco più ottimista per il nostro
paese di quanto fossi quando abbiamo cominciato. Perché so che il
nostro lavoro non solo ha aiutato molti americani; ha ispirato molti
americani, soprattutto i più giovani, a credere che ognuno può fare la
differenza; a legarci a un destino più grande del nostro destino
individuale. Cari americani, servirvi è stato il più grande onore
della mia vita. Non ho intenzione di fermarmi: sarò accanto a voi, da
cittadino, per tutti i giorni che mi rimangono. Per adesso, che siate
giovani o giovani nel cuore, ho solo un’ultima richiesta per voi. La
stessa cosa di otto anni fa, quando vi chiesi di fidarvi di me. Vi
chiedo di crederci. Non nella mia abilità di cambiare le cose, ma
nella vostra.

Vi chiedo di tenere viva la fiducia nell’idea che ci hanno tramandato
i nostri Padri Fondatori: quell’idea che parlava agli schiavi e agli
abolizionisti, quello spirito che cantavano gli immigrati e gli
esploratori e chi marciava per ottenere giustizia; il credo di chi ha
piantato bandiere su campi di battaglia stranieri e sulla Luna; il
credo al centro di ogni americano la cui storia non è ancora stata
scritta.

Si può fare.
Lo abbiamo fatto.

Si può fare.

Donald Trump è il 45° presidente
Usa. L’America lo ha scelto ed
eletto
Dopo Barack Obama sarà Donald Trump il 45esimo presidente degli Stati
Uniti, il nuovo “inquilino” chiamato a sedersi nello studio ovale
della Casa Bianca, a capo della superpotenza americana. Hillary
Clinton alle due del mattino, quando nella suite dell’Hotel Peninsula
di Manhattan,      dove aspettava i risultati delle elezioni
presidenziali, ha capito la realtà. La prima donna alla Casa Bianca
non sarà lei. Ha telefonato all’avversario e non ha parlato ai suoi
sostenitori, lo farà più tardi (nelle ore del pomeriggio in Italia).
“Andate a casa, non avremo niente da dire stasera” ha detto a suo
posto John Podesta, il manager della sua campagna aggiungendo “Questa
è stata una lunga notte, dopo una lunga campagna. Quindi possiamo
aspettare ancora un po’, per garantire che tutti i voti vengano
contati. Siamo orgogliosi della strada che abbiamo percorso insieme, e
siamo orgogliosi di voi. Abbiamo fatto insieme un grande lavoro, e
ancora non lo abbiamo finito” .

Che i repubblicani dovessero conquistare la Casa Bianca, dopo otto
anni di governo democratico, era plausibile. E, in fondo, anche sano e
fisiologico. Che dovessero conquistarla con un candidato così poco
rappresentativo della loro storia e dei loro valori, questo è il lato
implausibile della faccenda. Il consenso di Donald Trump è stato
ottenuto soprattutto negli stati industriali, e la sua vittoria va
riconosciuta come fortemente radicata in questo scontento del mondo
del lavoro, del declino della classe media americana.

Non è irrilevante affermare con chiarezza queste cose in queste prime
ore della vittoria di Donald Trump. L’evento accaduto questa notte è
di proporzioni storiche. Il successo del Tycoon costituisce
l’esplosione del sistema dei partiti americani – quello democratico
che ha perso voti della sua tradizionale base sociale, e quello
repubblicano che sulla base del calcolo di interessi della sua
tradizionale base ha preso le distanze da Trump. Ed è significativo
che il nuovo presidente arrivi a Washington, nello studio ovale della
Casa Bianca, sostenuto da un voto che mette al centro proprio quel
mondo del lavoro che in questi anni è stato sottovalutato dai partiti
tradizionali , accantonato, se non incredibilmente abbandonato.

Se si guarda alla mappa elettorale americana, fa notare in queste ore
il celebre sito di analisi politica Fivethirtyeight, fondato da Nate
Silver, la lista degli stati dove Donald Trump ha vinto è
perfettamente sovrapponibile con quella identificata da David Autor
l’economista del Mit come la mappa degli stati dove maggiore è stato
l’impatto delle importazioni cinesi – impatto stimato nella perdita di
2 milioni di lavoro tra il 1999 e il 2011.

“Io non sono un politico. I politici parlano ma non agiscono. Io sono
il contrario” disse all’inizio della corsa presidenziale. Mai come
questa volta si può parlare di un “self made president”. Si è fatto da
sé come imprenditore di successo – dai borough del Queens alla Trump
Tower della Manhattan più glamour – tanto ricco quanto discusso. Si è
conquistato da solo la presidenza degli Stati Uniti, spazzando via
tutto e tutti: non aveva al suo fianco l’establishment del Partito
Repubblicano, mai così freddo con un suo candidato, tentato
addirittura di abbandonarlo nel corso della campagna.

Non ha mai avuto al suo fianco la stampa, ostile al punto di
demonizzarlo tanto in patria quanto all’estero. Non ha avuto il
sostegno delle cancellerie estere e degli operatori finanziari
internazionali, che salvo rare eccezioni hanno sostenuto la corsa di
Hillary Clinton. Ha fatto a meno della spinta dei vip americani,
attivissimi negli endorsement a favore dell’ex first lady per tutta la
durata della campagna elettorale e fino all’ultimo giorno. Non ha
potuto contare sul presidente uscente Barack Obama e anche questa si è
rivelata un’arma a suo favore, perché ormai gli Usa hanno voltato le
spalle all’esperienza democratica.
La vittoria di Trump fa letteralmente saltare il banco. Ha smentito le
previsioni dei sondaggisti, che lo hanno visto sempre indietro, pur
registrando una rimonta nelle ultime settimane, a dimostrazione ancora
una volta dell’incapacità dei sondaggi di leggere fino in fondo gli
umori della gente, negli Stati Uniti come altrove in passato. Ha
cancellato mesi di campagna attiva della stampa americana e
internazionale, mai così schierata in una corsa presidenziale e mai
così compatta a sostegno di Hillary Clinton: solo 2 testate
statunitense si sono schierate con il candidato repubblicano, contro
57 esplicitamente al fianco della candidata democratica, il numero di
endorsement più basso per un candidato nella storia americana. Anche
per la stampa sorge un interrogativo quasi esistenziale sulla capacità
di analisi del sentiment popolare, sulla lettura del malcontento delle
aree rurali, delle zone industriali, della working class sempre più
impoverita e ansiosa di cambiamento.

Il trionfo di The Donald è una sconfitta cocente per Hillary Clinton,
che si è rivelata un candidato debole e poco amato. Si dice negli Usa
che per vincere un candidato deve essere empatico, deve risultare
simpatico e vicino alla gente: questo non è mai riuscito a Hillary, ma
non è solo questo. Hillary è stata considerata come il vecchio, la
continuità, l’establishment, è stata considerata Clinton III,
esponente della Dynasty che ha già eletto due volte il marito Bill. La
sua sconfitta è anche e soprattutto il fallimento politico di Barack
Obama e della sua avventura politica nata sotto il segno del “change”.
Un cambiamento che diede la vittoria all’outsider del 2008, ma che
l’America profonda (e non solo) non ha visto nelle proprie tasche e
non immagina nel proprio futuro.

IL PRIMO DISCORSO
Già nel suo primo discorso
di ringraziamento, Trump ha usato i toni più morbidi della
conciliazione nazionale. Una sola sicurezza esiste però fin da ora. La
fuoriuscita del consenso dai partiti tradizionali è un fenomeno già in
corso nei vari paesi europei, compreso l’Italia, ma il voto americano
vi inserisce un segno in più: la vittoria di Donald Trump è la prima
affermazione di un movimento antisistema americano che porta un suo
leader al vertice. È un voto che istituzionalizza nel punto più alto
del sistema il rifiuto del sistema stesso.

“Per repubblicani e democratici è arrivato il tempo dell’unione – ha
detto Trump nel suo primo discorso dopo i risultati – La nostra non è
stata una campagna elettorale, ma un grande movimento“. Emozionato, è
salito con la famiglia al completo sul palco , accanto a lui sua
moglie Melania, la nuova “First Lady” vestita di bianco, e tutti i
figli. Come colonna sonora è stata scelta la musica di Independence
Day. “Prometto che sarò il presidente di tutti gli americani. Ve lo
prometto: i dimenticati di questo Paese, da oggi non lo saranno più“.

 “Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle
le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato
sodo e le dobbiamo una grande gratitudine” ha detto Trump. Il
vincitore delle elezioni presidenziali ha poi teso la mano ai
democratici (“è il momento di unirci e superare le divisioni”)
assicurando di voler “buoni rapporti con l’estero” e che “saremo
giusti con tutti i popoli e le nazioni”. Infine un passaggio
sull’economia: “Raddoppieremo la crescita e saremo l’economia più
forte al mondo“.

                                           Parla di un America da
curare, di infrastrutture da ricostruire, della creazione di migliaia
di posti di lavoro, di veterani di cui occuparsi. “Abbiamo un piano
economico incredibile: raddoppieremo la crescita e creeremo più forte
economia del mondo. Non c’è nessun sogno troppo grande, nessuna sfida
troppo grande che possa mettere in pericolo il nostro futuro. Dobbiamo
riprenderci il destino del nostro Paese. Dobbiamo avere sogni di
successo“. Sulla politica estera dice semplicemente “andremo d’accordo
con tutti, cercheremo il dialogo”.

                                           Raffica di ringraziamenti
anche per Rudolph Giuliani (ex sindaco di New York) ed altri
componenti della sua campagna elettorale.Poi quelli per i servizi
segreti, di sicurezza, le forze di polizia, insomma le parti della
“difesa” e delle forze armate americane. “Inizieremo subito a lavorare
per il popolo americano. Il mio lavoro vi renderà fieri di me ancora.
Adoro questo Paese, grazie a tutti!” . Poi ringrazia i suoi genitori
“due bravissime persone”, le sorelle, i fratelli, la moglie Melania,
il figlio, Ivanka e tutti gli altri componenti accanto a lui . “I love
you” ha concluso.

E stata una lunga difficile notte per i democratici americani. Dopo
poche macchie blu apparse sui contorni della mappa americana,
sin dalle prime ore dello spoglio elettorale, si è colorato tutto di
rosso repubblicano. Un pezzo dopo l’altro. Stato dopo Stato. L’Empire
State Building come un enorme schermo proiettava numeri che da
incredibili diventavano velocemente indiscutibili. Le persone per le
strade, dietro le transenne, davanti alle tv nelle case, incredule con
gli occhi sbarrati sui monitor dei propri smartphone. Blu, rosso, i
volti di Hillary Clinton e Donald Trump nelle spillette delle persone
che assistevano allo spoglio in diretta del loro futuro.

“È una notte meravigliosa. È una notte fantastica per l’America – ha
detto Curtis Ellis, alto consigliere di Trump quando già era chiara la
vittoria – È una notte grandiosa per tutta la gente del mondo“, e le
persone iniziavano a defluire dalle piazze. Dopo aver assistito a
un’estenuante campagna elettorale piena di veleni, polemiche e colpi
bassi, circa 220 milioni di aventi diritto sono stati chiamati prima a
scegliere, poi aspettare il nome del 45esimo presidente degli Stati
Uniti.

L’ONDA POPULISTA

Ora si discuterà di quanto era debole Hillary Clinton come candidata,
degli errori commessi durante la campagna elettorale, dell’impatto
della lettera con cui il direttore dell’Fbi Comey aveva annunciato di
aver riaperto l’inchiesta sulle mail private usate quando lei era
segretario di Stato. Tutto vero, ma la vittoria di Trump è stata
determinata da un vento più grande degli stessi Stati Uniti, che aveva
cominciato a soffiare con la Brexit in Gran Bretagna, e ora ha
raggiunto anche le coste degli Usa. Una rivoluzione populista, magari
venata anche di pulsioni razziste, che però con l’ingresso di Donald
Trump alla Casa Bianca diventa il fenomeno politico dominante
dell’Occidente.

Hillary Clinton ha vinto nel Vermont, Delaware, Illinois, Maryland,
Massachusetts, New Jersey, Rhode Island, District of Columbia, New
Mexico, ma fino allo Stato di New York, ha raccolto soltanto briciole.
Anche i sostenitori con il passare delle ore diventavano sempre più
cauti. “Comunque vada l’America resta una grande nazione. Domani
mattina sorgerà lo stesso il sole “ha detto Barack Obama. La stessa
Hillary ha twittato in anticipo un “qualsiasi cosa accada, grazie lo
stesso“. Poi sono arrivati i consensi della Virginia, California,
Oregon, Hawaii e Colorado. Ma non è bastato. Il Nevada o il Maine non
hanno fatto differenza e determinato alcunchè.

Il consenso per Donal Trump è diventato un’onda rossa. Si è
aggiudicato Oklahoma, Mississippi e Tennessee, Alabama e South
Carolina. Poco dopo Arkansas, Nebraska, South e North Dakota, Wyoming
e Texas. Il New York Times      a metà notte, per la prima volta ha
cambiato le proiezioni dandolo per vincente al 58 per cento.
Donald Trump è sempre stato avanti nella corsa
per la Casa Bianca mentre erano restati Michigan, New Hampshire e
Wisconsin a restare in bilico, ma fino ad aggiudicarsi i 279 grandi
elettori (i delegati che il 19 dicembre eleggeranno formalmente il
nuovo presidente americano), ben 9 in più dei necessari a conquistare
la presidenze, lasciandosi dietro Hillary a contare i suoi 218.

Un giornalista inviato del quotidiano francese Liberation, presente
nel cuore di una città tradizionalmente democratica, ha catturato le
parole di una ragazza, mentre parlava al telefono con la sorella: “È
una follia” il suo commento. Ed il cronista francese continua: “La
folla è muta non osa parlare” . Times square, New York, era avvolta
nel silenzio.

Trump ha trionfato nelle aree del Paese a forte presenza di elettori
bianchi, facendo molto meglio di Mitt Romney quando quattro anni fa
venne sconfitto da Barack Obama. Hillary Clinton non è riuscita ad
attirare i voti delle minoranze, cioè di quella parte dell’elettorato
che furono la chiave dei successi del presidente uscente, ha scritto
il Washington Post.
I   repubblicani     hanno
confermato il controllo della House of Representative, secondo
quanto previsto, anche se la maggioranza si è ridotta. Il Grand Old
Party avrebbe 235 seggi contro i 247 delle precedenti elezioni del
2014; i democratici che ne avevano 185 sarebbero saliti a quota 200. I
repubblicani hanno strappato ai democratici la Camera sin dal 2010.
Ancora in bilico il Senato, dove sono in ballo 35 seggi su 100.

MERCATI A PICCO

I mercati hanno reagito alla vittoria di Trump con un crollo
generalizzato, soprattutto perché lui rappresenta un’incognita. Il suo
programma economico infatti è rimasto vago, forse di proposito, a
parte la determinazione di tagliare tasse e regole. Sul piano
internazionale, poi, il tycoon ha messo in dubbio il futuro della Nato
e ha previsto che l’Unione Europea continuerà a disintegrarsi, dopo
l’uscita della Gran Bretagna. Tutto questo preoccupa la comunità
internazionale, ma lo ha reso ancora più popolare fra i suoi
sostenitori, stanchi come lui di vedere che “gli Stati Uniti non
vincono più“, e pagano per la difesa e gli interessi di tutti gli
altri.

Il trionfo temuto di Donald Trump è stata una zampata sull’economia
mondiale. Il pesos messicano , cioè la moneta del Paese, costante
obiettivo degli attacchi di Trump, dalle accuse ai migranti bollati
come criminali e al progetto di costruire un muro lungo il confine) ha
perso il 5%. La Borsa di Tokyo, innervosita dall’andamento del voto,
ha visto l’indice Nikkey, a metà seduta, cedere il 2,2% a quota
16.788,90. Il Giappone e i mercati asiatici temono molto la vittoria
di Trump che tra i suoi obiettivi ha l’abolizione del trattato di
libero scambio Ttp (Trans Pacific Partenership) firmato nel 2015 tra
gli Usa e 12 Stati del pacifico. Tristezza e anche qualche lacrima tra
i supporter di Hillary Clinton al quartier generale democratico a New
York.
LA RIVOLUZIONE DEL LINGUAGGIO

L’ultima chiave della vittoria di Trump è stata certamente nel
linguaggio, diretto e anche offensivo. La sfida alla “correttezza
politica“, che per i suoi sostenitori è solo ipocrisia, usata per
mascherare le politiche che li danneggiano. Gli hanno perdonato tutto,
incluse le registrazioni in cui diceva di poter prendere le donne come
voleva, confermando che se fosse sceso nella Fifth Avenue e avesse
sparato a qualcuno, non avrebbe persone neppure un voto. Ieri sera
infatti tutti quei voti gli hanno consegnato la Casa Bianca,
incoronandolo come “leader” di una rivoluzione piena di incognite per
alcuni, e speranze di riscatto per altri.

“Un onore, una serata eccezionale, un periodo eccezionale”. Così
Donald Trump ha concluso il suo discorso dopo la vittoria nelle
elezioni presidenziali Usa. Il magnate newyorkese ha poi voluto
ringraziare tutti, citando Mike Pence, che era il candidato
repubblicano alla vicepresidenza. Al termine dell’intervento i
sostenitori hanno intonato “Usa, Usa”. Trump ha poi baciato tutta la
famiglia e i suoi accanto a lui. Ecco le immagini trasmesse in diretta
da SkyTg24.

Il nuovo presidente americano ha festeggiato a New York. Per la prima
volta in oltre 70 anni, la metropoli americana ha ospitato per
l'”Election Day” il candidato repubblicano e quello democratico dopo
una battaglia elettorale e sui media durata quasi due anni. Alla Casa
Bianca va Donald Trump ed una cosa è certa: il nuovo presidente non
deve ringraziare nessuno. Con il Congresso americano       in mano al
Partito Pepubblicano avrà mano libera per influire profondamente sugli
Stati Uniti d’America, anche se si troverà di fronte un Paese lacerato
e in una profonda crisi sociale che, se non saprà ricucire, rischia di
diventare dirompente. L’8 novembre 2016 è quindi definitivamente una
data che può stravolgere la storia.

Gli Stati Uniti hanno avuto un presidente nero, e prima o poi avranno
anche un presidente donna. Non sarà Hillary Clinton, però. Quella che
sembrava la predestinata, ma passerà invece alla storia solo per la
più bruciante sconfitta politica degli Stati Uniti.
I Gufi e la comunicazione nella
politica di oggi
di Gianluca Comin *

Ho seguito con molto interesse la diatriba andata in scena sulle
pagine de Il Fatto Quotidiano tra Antonio Padellaro e Filippo Sensi,
il portavoce del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Al centro del
contendere l’autorevolezza della comunicazione istituzionale del primo
ministro. È uno spunto interessante per analizzare in che direzione
sta andando la comunicazione politica degli ultimi anni. Il gufo
utilizzato dal premier nelle slide della conferenza di fine anno
simboleggia indubbiamente il disfattismo nostrano. Quel gruppo di
persone che non crede nel cambiamento perché «finora non è successo
niente» e pertanto non pensa né spera che possa avvenire.

nella foto Filippo Sensi portavoce di Matteo
Renzi

AVERE UN NEMICO IN POLITICA È UTILE. L’utilizzo di un nemico, vero o
inventato, è una pratica piuttosto comune nella dialettica politica
degli ultimi cinquant’anni. Fa sentire i cittadini parte di un gruppo,
sicuri di stare dal lato “giusto” della barricata, e delinea
nettamente il perimetro del messaggio pronunciato da un leader.
Tuttavia, come ha cercato di spiegare Filippo Sensi, i codici
comunicativi dei leader politici stanno cambiando radicalmente. Non
bisogna stupirsi che un premier giovane, che si è sempre presentato
come alfiere del cambio generazionale, si faccia portatore di
innovazioni comunicative che possono spiazzare un pubblico di
giornalisti e politici abituato a codici più tradizionali.
Basti pensare al presidente degli Stati Uniti Barack Obama. L’abbiamo
visto di recente sgommare su una corvette del 1963 accanto al
conduttore televisivo Jerry Seinfield, per il programma televisivo
Comedians in cars getting coffee.
Ma non è la prima volta che Obama si lascia andare a simpatiche gag.
Il popolarissimo sito Buzzfeed lo ha convinto a girare un video virale
dal titolo Things everybody does, but doesn’t talk about, in cui
faceva smorfie davanti allo specchio e si fotografava con un selfie
stick. O ancora la cancelliera Angela Merkel, che di certo non manca
di un forte lato istituzionale, mentre beve una pinta di birra ai
festival folk di paese. Non ultimo Vladimir Putin, che più volte ha
mostrato il suo lato “privato”, attraverso servizi fotografici in
palestra, a pesca o assieme ai suoi cani.

Tuttavia il leader politico è in grado di distinguere nettamente i
vari contesti in cui si trova e non compiere errori: negli incontri
ufficiali lo stile deve essere chiaramente istituzionale e rigoroso.
Tornando all’esempio di Obama, è proprio la sua capacità di essere sé
stesso con naturalezza (dal pranzo al McDonald’s al ricevimento a
Buckingham Palace) che rende il suo comportamento in pubblico più
credibile e genuino.

nella foto Antonio Padellaro

ORA SI PARLA AGLI ELETTORI, NON AI GIORNALISTI. Il premier Matteo
Renzi può essere a volte criticato per la sua tendenza a forzare un
po’ la mano di fronte a un pubblico, come quello italiano, che non è
pronto a vederlo con un cono gelato in mano e subito dopo in divisa
davanti ai soldati in Libano. Rimproverargli però l’incapacità di
gestire le diverse tipologie di comunicazione è esagerato.
Al centro dello scontro Padellaro-Sensi c’è una tendenza della
comunicazione politica che fa ormai la differenza: la scelta
dell’interlocutore. Matteo Renzi, come Berlusconi prima di lui, non
parla in via preferenziale ai giornalisti o agli addetti ai lavori, ma
agli elettori. È questa forse un’ulteriore forma di disintermediazione
operata dal leader del Partito democratico, che ha impatti sia sul
linguaggio sia sul modus operandi di chi fa politica. Anche negli
scontri pubblici più celebri, come quello con i sindacati, è chiaro
che il vero destinatario dei suoi discorsi è sempre stato il
cittadino-elettore, non qualche autorevole editorialista.
Il gufo, senza per forza giustificare l’aggressività retorica di
Renzi, potrebbe essere interpretato come il simbolo dell’altro da sé:
il “diverso” perché portatore di una visione antitetica delle cose,
più scettico sulla possibilità di intervenire nel contesto che ci
circonda.
Da qui gli attacchi, non solo di Padellaro, a un linguaggio
considerato troppo diretto e poco istituzionale: parlare in modo
semplice e senza filtri (senza per forza scivolare nel semplicismo)
evita sicuramente le secche del “politichese”, ma toglie al
giornalista il (legittimo) potere di interpretazione della notizia e
di decrittazione del linguaggio politico.

L’OBIETTIVO È RESTARE A GALLA NEL FLUSSO DI NOTIZIE. A che pro
dedicare il caffè mattutino alla lettura di pensosi editoriali, quando
basta scorrere le agenzie (o la timeline di Twitter!) per venire a
conoscenza delle decisioni del premier? Forse è proprio questo il
senso della polemica tra un cronista di razza come Padellaro e un ex
giornalista quale Sensi. In realtà, a ben guardare, la sterzata
comunicativa del leader Renzi è dovuta soprattutto a un contesto in
vorticosa evoluzione, segnato da eventi che, a mio avviso, hanno
imposto al ‘Rottamatore’ un cambio di paradigma: penso all’impetuosa
discesa in campo di Beppe Grillo e al successo del suo movimento,
all’esigenza di rilanciare il centrosinistra umiliato dalla “non-
vittoria” del 2013 e alla diffusione a macchia d’olio dei social
network, con cui è necessario fare i conti.

Restare a galla nel flusso quotidiano di notizie e identificare
strategie che permettano ai leader di partito di non essere travolti
dal mare del web è un obiettivo che richiede (anche) l’adozione di un
linguaggio incisivo e diretto, a tratti aggressivo o canzonatorio.
L’essenziale è trovare sempre il giusto equilibrio tra compostezza
istituzionale e dirompenza verbale.

* tratto dal quotidiano online Lettera43

E’ Sergio Mattarella il nuovo
Presidente della Repubblica
di Marco Ginanneschi

Standing ovation a ripetizione e tanti applausi dopo la quarta
votazione a Camere congiunte per Sergio Mattarella , che ha supera il
quorum, ricevendo 665 voti e diventa il dodicesimo presidente della
Repubblica italiana. “Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle
difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E’ sufficiente
questo“, le sue prime parole da capo dello Stato (video). Ieri Matteo
Renzi aveva auspicato “la più ampia convergenza” sul nome del giudice
costituzionale ed ex ministro della Difesa e oggi su Twitter gli ha
subito augurato “buon lavoro“.

Il neo presidente, si è limitato ad una breve dichiarazione dopo la
proclamazione dei risultati: “Il pensiero – ha detto Mattarella – va
soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri
concittadini. È sufficiente questo“. Poi nel pomeriggio, a sorpresa,
la significativa visita alle Fosse Ardeatine e il messaggio: “L’Europa
sia unita contro chi vuole trascinarci in una nuova stagione di
terrore“.

L’Italia ha quindi un nuovo capo dello Stato e presto
la barriera presidenziale tornerà a sventolare sul torrino del
Quirinale, assieme al tricolore e alla bandiera europea: il giuramento
nell’aula di Montecitorio è fissato per martedì alle 10.
Mattarella arriva sul Colle presidenziale portando con sè una lunga
esperienza istituzionale: è stato parlamentare, più volte ministro
della Repubblica ed anche giudice della Corte Costituzionale (per
nomina parlamentare avvenuta nel 2011) carica che ha ricoperto sino ad
oggi.

Immediato l’augurio di buon lavoro inviato via Twitter dal premier
Matteo Renzi, “regista” della strategia che ha portato al
Quirinale, Mattarella: “Buon lavoro, Presidente Mattarella! Viva
l’Italia“. Numerosi gli esponenti di governo che senza aspettare
l’esito definitivo dello spoglio hanno fatto altrettanto.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ed attuale capo dello Stato
reggente dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano, si è affidato al
social network Facebook: “Una grandissima gioia e il piccolo rammarico
di non aver potuto aggiungere il mio voto alle 665 schede sulle quali
è stato scritto il suo nome“.

Auguri e felicitazioni sono arrivate a Mattarella, da diversi leader
internazionali, da Barack Obama a François Hollande, ed anche da Papa
Francesco. “Mi è gradito rivolgerle – ha scritto il Papa a Mattarella
– deferenti espressioni augurali per la sua elezione alla suprema
magistratura dello Stato italiano e, mentre auspico che ella possa
esercitare il suo alto compito specialmente al servizio dell’unità e
della concordia del Paese, invoco sulla sua persona la costante
assistenza divina per una illuminata azione di promozione del bene
comune nel solco degli autentici valori umani e spirituali del popolo
italiano. Con questi voti – ha concluse Papa Francesco rivolgendosi al
neo Presidente – invio a lei e all’intera Nazione la benedizione
apostolica”.

Qualche minuto prima del Papa, appena il nome di Mattarella ha
superato il quorum dei 505 voti necessari per l’elezione, è arrivato
dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana il messaggio di
auguri per il neo presidente della Repubblica. “L’elezione del Capo
dello Stato – scrive la Cei – rappresenta uno dei momenti più
importanti della vita democratica, perché garantisce un riferimento di
unità per il popolo e per la Nazione. Nel salutare rispettosamente e
con viva soddisfazione l’elezione di Sergio Mattarella, nel quale il
parlamento ha riscontrato le necessarie caratteristiche di ‘dignità
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