È il capitalismo digitale, baby

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È il capitalismo digitale, baby
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“Passaggio paradigmatico” è stato definito il capitalismo digitale dal colosso della consulenza
 McKinsey. Al World Economic Forum si è consultato il manuale di storia del capitalismo ed è stata
formulata l’ipotesi della “quarta rivoluzione industriale”. Non è mancato chi, a sprezzo del ridicolo,
ha parlato di un nuovo “Rinascimento” e addirittura di “Illuminismo”.

Ma soprattutto questa declinazione del digitale veicola una richiesta politica: un governo
trasparente, oggettivo, neutrale dell’innovazione capace di mettere ordine tra le individualità
scatenate in competizione. Il capitalismo digitale occupa questo spazio. Lo ha intuito Matteo Renzi
che sfotteva Susanna Camusso in una celebre gag a palazzo Chigi: il sindacato è fermo all’epoca del
gettone; il “rottamatore” incarnava l’epoca dell’Iphone. Dopo l’auto-rottamazione del fenomeno di
Pontassieve al referendum del 4 dicembre, si è iniziato a parlare di Emmanuel Macron in predicato
di diventare il nuovo presidente in Francia. Di lui hanno detto che vuole trasformare lo Stato in una
“start up”. Al momento fa rumore l’ascesa del Front National di Marine Le Pen con i suoi ballon
d’essai su Nato, Euro, Stato, Nazione, Popolo. Macron sembra essere destinato a vincere queste
È il capitalismo digitale, baby
elezioni perché si trova nella posizione di chi incarna lo “spirito repubblicano” e perché propone
un’uscita dalla crisi: il capitalismo digitale.

      Dispositivo Zuckerberg

L’idea di candidare Mark Zuckerberg alla Casa Bianca nel 2020 contro Donald Trump è nata dalla
convinzione che Facebook sia la promessa di un “capitalismo democratico”. Dopo l’Italia con Silvio
Berlusconi, l’elezione di Trump ha sdoganato a livello globale l’idea che un capitalista possa fare
politica meglio di un politico di professione, perché capace di incarnare il “popolo” e i suoi bisogni.
Se il palazzinaro xenofobo ha vinto, dunque, perché non anche Mr. Zuck? Il “popolo” farebbe il tifo
per l’uno o per l’altro. È il trionfo della rivoluzione passiva.

Per quanto assurda questa idea possa sembrare, al di là dell’effettiva volontà dell’interessato, la
bufala sulla candidatura di Zuckerberg ha ottenuto un risultato. Facebook è identificato con una
razionalità universale, usata in maniera fluida, cancella le mediazioni precedenti e si pone come
mediatore universale dei rapporti sociali e produttivi. Questa piattaforma può trasformare le
istituzioni in automazioni. Il dispositivo è già funzionante e rappresenta il punto di riferimento per
chi chiede allo Stato e al mercato trasparenza, zero burocrazia, disintermediazione, accesso e
uguaglianza.

      Panottico digitale

Il potere del dispositivo Zuckerberg deriva dall’alienazione della politica in un supporto tecnologico:
la piattaforma. Il fascino ipnotico della tecnologia digitale si innesta su precedenti mitologie e le
trasforma. Ad esempio, quella dell’imprenditore in politica, una mitologia fondata sul decisionismo di
un uomo solo al comando capace di governare lo Stato come un’azienda. La piattaforma non ha
bisogno di un decisore visibile, monarca “unto dal signore”. Il suo funzionamento è completamente
diverso: è la versione digitale e immateriale del panottico, la prigione progettata da Jeremy
Bentham.

L’architettura della prigione permetteva di vedere senza interruzione e di riconoscere
immediatamente i carcerati. La piattaforma permette di tracciare ogni dato prodotto dalle
singolarità interconnesse e di rendere visibili ogni azione e pensiero. La piattaforma è il guardiano
della prigione: vede, ma non è vista; è il soggetto della comunicazione, ma non comunica nulla di sé.
È un mediatore evanescente che assicura il funzionamento automatico del potere. Come il detenuto
che sa di essere osservato in ogni momento, ma non sa da chi e perché, anche il cittadino obbedisce
a un dispositivo che spersonalizza il potere e lo rende desiderabile perché rende funzionale ed
efficiente la vita.

Il dispositivo Zuckerberg trasforma questo potere in un’impresa che vende pubblicità sulla base dei
profili degli utenti. I suoi algoritmi anticipano i desideri sulla base delle preferenze espresse nelle
interazioni online. L’obiettivo è rimuovere l’esistenza del divenire, anticipare ogni evento della vita
in un sistema dove il soggetto ritrova sulla time-line ciò che vuole vedere e ciò che già conosce. La
sua libertà di creare qualcosa di nuovo non è riconosciuta se non sotto la forma del già visto.

La filter bubble di facebook è un’intrigante operazione di psicologia di massa: assicura che il mondo
sia a portata di mano ed è quello che vogliamo vedere; la vita è depurata da potenze o contraddizioni
inquietanti; il risultato delle interazioni è lo scontro tra opinioni inconciliabili che producono
immobilismo. L’unico soggetto che ha una visione completa del mondo è la piattaforma, o meglio il
suo proprietario. Ha il potere di bannare, correggere, sospendere. La piattaforma è il buon pastore
che guida il suo gregge di profili e governa la loro iper-realtà digitale.

Fuori dalle piattaforme digitali, tutto è condizionato dalle tecnologie della valutazione, della
classificazione, della certificazione della reputazione e della visibilità. Facebook ne fa occasione di
profitto. Le istituzioni ne fanno occasione di controllo e di governo.

      Populismo e algoritmi

Infrastruttura teoricamente senza padroni, depositaria della giustizia, la piattaforma incarna un’idea
di politica al di là delle parti e quella di un movimento che è oltre la destra e la sinistra, ovvero che
non è mai una parte in gioco, è sempre sopra le parti perché incarna il “popolo”. Fuori da questo
modello esiste solo il caos delle opinioni ingovernabili, a cominciare dagli stessi componenti del
movimento. La nuova politica si identifica con una piattaforma digitale perché trova il potere di
creare uno standard accettato da tutti. Oggi niente è più autorevole del responso elaborato
dall’oracolo tecnologico.

Napalm51, la sublime maschera inventata da Maurizio Crozza che impersona un troll di professione,
è il cittadino modello di questo sistema. Napalm51 è l’effetto degenerato di una richiesta inascoltata
di trasparenza e democrazia che si trasforma nel suo opposto: risentimento, complotto,
retropensiero fascista. L’altra faccia dell’homo democraticus, colui che parla di “valori” in nome del
popolo e condanna tutti coloro che non li applicano. L’unico vero amico e alleato dell’individuo
atomico totale è l’automazione totale attraverso una piattaforma digitale. In un mondo dove non
esiste la fiducia, solo una formula matematica garantisce la Verità, in nome della “scienza” e della
“tecnica”.

Questo è il cuore del populismo digitale del Movimento 5 Stelle che ha affidato alla “rete” la
promessa di trasparenza contro il potere della “casta” e la sua corruzione. Questa esigenza non
trova un candidato, un partito, una cultura all’altezza. L’ultima risorsa resta il Web 2.0 in quanto
tale. L’enfasi sulla partecipazione non è il contenuto della sua proposta politica, ma è funzionale a
convogliare intensità e relazioni umane su una piattaforma, realizzata ad hoc da una società privata,
che ambisce a ottenere i risultati del panoptico digitale. M5S candida alle elezioni il dispositivo
Zuckerberg, non un leader in particolare, a dire il vero molto limitato, anche a causa
dell’inadeguatezza del personale politico di questo movimento.

      Cinque piattaforme digitali

Nick Srnicek in Platform capitalism spiega le differenze tra le tag che contrassegnano l’esistenza del
capitalismo digitale. Oltre alla sharing economy, si parla di gig economy, on-demand economy, app
economy, economia dell’attenzione o economia della sorveglianza. Queste definizioni derivano da un
uso particolare dei supporti digitali, le piattaforme, che mettono in rapporto due o più persone, in
particolare nei settori della produzione di servizi, dell’e-commerce, dell’incontro tra domanda e
offerta di lavoro.

Esistono cinque piattaforme:

Piattaforme pubblicitarie (Google, Facebook) che estraggono informazioni dai loro utenti per
rivenderle i loro profili sotto forma di spazi per la pubblicità.
Piattaforme cloud: Amazon Web Services che creano hardware e software per i mercati dipendenti
dal digitale e li affittano alle imprese di ogni tipo e, in questo modo, creano un monopolio sulla
conoscenza.

Piattaforme industriali: General Electric o Siemens che costruiscono l’hardware e il software per
innovare l’organizzazione della produzione manifatturiera collegandola alla rete al fine di abbassare
i costi di produzione e trasformare i beni in servizi (la cosiddetta Industria 4.0).

Piattaforme dei prodotti: Spotify genera profitti a partire dall’uso di altre piattaforme che
trasformano una merce come la musica in un servizio e guadagnano attraverso la percentuale o la
quota di sottoscrizione versata per abbonarsi al suddetto servizio.

Piattaforme agili: Uber Airbnb, le food tech Deliveroo o Foodora che organizzano la forza lavoro
attraverso un algoritmo e mettono in collegamento clienti e attività commerciali traendo profitto
attraverso la riduzione dei costi del lavoro.

      Turchi e conigli

Il capitalismo digitale è popolato da presenze fantastiche. I lavoratori sono definiti taskers. Visto che
la definizione è l’opposto della retorica del personal branding, nascono curiose e spettrali proiezioni.
Amazon Mechanical Turk, il “Turco meccanico” di Amazon, è l’infausto e profetico sistema creato da
Jeff Bezos per gestire un mercato di cottimisti digitali che passano il tempo a allineare tag con
oggetti informatici in cambio di pochi centesimi. Definire un uomo o una donna “turco” è il
contrassegno della razzializzazione e dell’inferiorizzazione di una categoria di lavoratori.

Esiste la variante animalizzante. Una piattaforma come TaskRabbit che si occupa di lavori domestici
definisce “conigli” (“rabbits”) i suoi lavoratori che entrano ed escono dagli appartamenti senza farsi
vedere: sono conigli appunto.

Questa è l’economia dei lavoretti: gig economy. In inglese la parola gig ha un triplo significato:
esibizione, spettacolo e “lavoretto”. L’economia on demand, o app economy, esalta una sfera estetica
della performance (fisica, mentale, estetica) e la associa all’esecuzione di una mansione estranea al
lavoro salariato standard. Le analogie mitologiche, metafore animali, allusioni cibernetiche
coniugano l’attività ludica con quella dell’hobby, il passatempo. Si parla di playbour o, in maniera
più comprensiva, di gamebour e, ancora, di weisure (work+leisure). Insieme alla distinzione politica
tra padrone e dipendente (servo, subordinato) è saltata anche quella tra tempo di lavoro e tempo
libero, tra lavoro e non lavoro, tra occupazione e disoccupazione.

La forza lavoro non è scomparsa. Le è stato trovato un nome lontano dalla radice di opus, ergon,
work, travail o trabajo. Ma sempre, in effetti, si tratta di lavoro e forza lavoro. Il capitalismo di
piattaforma trasforma la forza lavoro in forza di vendita. Si vende se stessi, si vende il capitale
umano, ciò che si è o si cerca di apparire nella vita fuori e dentro il lavoro. La finzione di questa
soggettività è reale e non va disprezzata. Va compresa come un modo di essere alla luce di una
potenzialità che permane, anche se è dirottata verso la produzione di una realtà. Questo popolo di
agenti di commercio di se stessi è ovunque: guida un taxi Uber, recensisce un ristorante su
TripAdvisor, prenota una camera su Airbnb, mette un “mi piace” su facebook.

Sulle piattaforme il rapporto di lavoro sembra indistinguibile da un’interazione automatica. Mettere
“like” è come consegnare una pizza in bicicletta. Entrambe le attività sono guidate da un algoritmo,
ma non dallo stesso. L’uso è diverso. Sulle piattaforme questa differenza è camuffata. Il tempo e lo
sforzo necessario per eseguire una mansione, sia pure parcellizzata, ma inequivocabilmente
eterodiretta, sono scambiati con una comunicazione in occasione di un compleanno su Facebook. Il
lavoro non è un’attività salariata, ma un’elargizione liberale di tempo ricompensata pochi centesimi
al fine di elaborare un vantaggio competitivo per gli algoritmi.

La confusione tra soggettività e divisione del lavoro è sistematica. L’enfasi sull’eccellenza e sulla
singolarità di un individuo atomico totale coesiste con la trasformazione dell’individuo in un primate
tecnologico connesso a un’applicazione.

      C’è un giudice a Londra

Turkopticon ha iniziato a organizzare la lotta per i diritti dei turchi meccanici di Amazon, i fattorini
di Foodora a Torino hanno sostenuto per un istante che chi lavora in bicicletta non è un
“collaboratore”, ma un lavoratore. Sintomi che indicano un’altra realtà. Dietro gli schermi degli
smartphone esistono legioni di cottimisti digitali agli ordini di ingegneri e gate-keepers che
governano un’infrastruttura digitale mobile e flessibile. Questi sistemi si fondano sulla forza lavoro
dei suoi utenti o su quella dei cottimisti. Per loro solo paghe misere in cambio di iperattività: sulle
piattaforme, come nella vita quotidiana.

Le prime battaglie per il riconoscimento della forza lavoro sono iniziate. Nel 2016, in maniera non
casualmente sincronizzata anche in Europa i cosiddetti gig-workers hanno rotto il velo. Se i fattorini
di Foodora o di Deliveroo non pedalano, se gli autisti di Uber non guidano, se i turchi meccanici di
Amazon non taggano immagini porno o compilano codici Captcha, tutto si ferma. Certo, fuori dalla
porta ci sarà sempre chi sostituisce il tasker. Questa è la forza del sistema postfordista. Affermare
tuttavia questo principio è utile per definire ciò che è vivo e ciò che è morto in un sistema dove tutto
è ridotto a supporto organico per la tecnologia, anche la forza lavoro. Non di sole App vive
un’economia incarnata in soggetti senza nome che hanno iniziato a lottare per averne almeno uno.

È il ragionamento che ha fatto un giudice a Londra. Quello che ha riconosciuto che 40 mila autisti di
Uber UK sono “workers” e non “collaboratori”. Fanno un lavoro, non investono energie nel loro
tempo libero. Hanno diritto a un compenso e alle tutele, non alla celebrazione dei loro valori morali
in un’opera di volontariato. Nell’uberizzazione della vita il lavoro non cresce sugli alberi.

      Dentro Avatar, la forza lavoro

In Avatar, il film di James Cameron, un pupazzone blu animato da un uomo sceglie di allearsi con
entità umanoidi extraterrestri. La macchina potenzia l’umano, l’umano le attribuisce affetti e
intelligenza. Il riscontro è immediato: anche tra specie diverse, esiste la possibilità di combattere.

L’alleanza, e gli affetti che genera l’ibridazione tra macchina, cervello e forza lavoro, è una metafora
potente dell’uso divergente, e inaspettato, della tecnologia e dell’umano. Nel cuore del capitalismo
digitale c’è una forza lavoro, quella che Marx definiva una “personalità vivente” dotata di facoltà,
capacità o forza. L’umano al lavoro è ridotto a un algoritmo, o all’analogia con un animale, ma la
personalità vivente continua a guidare Avatar.

La fantascienza non racconta solo l’incubo dell’automazione totale e non sedimenta l’immaginario
per i capitalisti digitali che fanno politica in nome del popolo. Avatar è la storia di un’insurrezione
resa possibile da un tradimento della macchina algoritmica che guida l’esercito nemico e crea
un’alleanza tra soggetti impensabili che trovano un modo politico per difendere il loro pianeta e
organizzare una vita insieme.
Al modello del buon pastore – la piattaforma digitale che dirige l’interazione umana – subentra
l’autodeterminazione di Avatar. È alimentato dalla forza lavoro – la potenza della macchina è guidata
dal corpo e dall’intelligenza dell’uomo. Tutto dipende dall’uso, e dalla proprietà degli algoritmi, del
corpo, della mente. Non si tratta di negare la loro esistenza, ma di usarli come facoltà per esiti
imprevedibili. Una proprietà collettiva degli algoritmi, il loro uso volto alla produzione dell’umano
insieme alla macchina e alle altre forme di vita: questa è la possibilità sempre a portata di mano.
Esiste, è dentro di noi, nelle relazioni.

Se non attiviamo un convertitore etico-politico, non sapremo mai cosa può una vita. Dentro Avatar,
c’è sempre una forza lavoro.
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