Diritti dell'uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

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Alessandro Maurini
Diritti dell’uomo, diritti umani. Tra la storia dei
diritti e i diritti senza storia
(doi: 10.4479/86329)

Storia del pensiero politico (ISSN 2279-9818)
Fascicolo 1, gennaio-aprile 2017

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Diritti dell’uomo, diritti umani
Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

Alessandro Maurini

Rights of man, human rights: the history of rights and the rights without history
The historians of the Enlightenment have been underlining the historical foundation
of contemporary human rights, their individual, political, universal, unalienable, inde-
feasible value, linking them to the rights of man of the Enlightenment. Instead, a recent
revisionist historiography rejects their historical foundation, giving contemporary hu-
man rights a moral, anti-political, religious, national (of post-colonial states) value,
with no historical roots, rejecting the existence of a history of human rights and avoid-
ing its fundamental teachings. The debate is complex, because the historical-political
problem is absolutely linked to the problem of lexis, and at the same time compelling,
because the political dimension of the historical problem is more than ever evident.
Keywords: rights of man, human rights, history of human rights, Enlightenment

1. «Diritti dell’uomo» o «diritti umani»? Solo in superficie la questio-
ne è lessicale. In profondità, si nasconde un problema storico-politico
di dimensioni rilevanti, che per la verità sta sempre più emergendo in
tutta la sua forza d’urto nella recente letteratura sull’argomento.
     Il problema lessicale pare perlopiù coincidere con la volontà che
il linguaggio politico contemporaneo rispecchi conquiste così fonda-
mentali da segnare una netta discontinuità con il linguaggio politico
moderno. Infatti, parlare di diritti dell’uomo implica inevitabilmente
il richiamo a quella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen
(1789) che sicuramente segna uno dei momenti più gloriosi nella storia
dei diritti, ma il cui ambiguo termine uomo permise, nel momento del-
la declinazione di quei diritti in diritti politici1, di escludere dalla citta-

    1
      L. Hunt, Revolutionary Rights, in P. Slotte, M. Halme-Tuomisaari (eds.), Revisit-
ing the Origins of Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, p. 107.

Alessandro Maurini, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Culture, politica e società,
Lungo Dora Siena 100/A, 10153 Torino, alessandro.maurini@unito.it.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017, 115-128            ISSN 2279-9818 © Società editrice il Mulino
Alessandro Maurini

dinanza intere categorie sociali – donne, neri, schiavi, non proprietari
le più macroscopiche.
    Enorme il dibattito che si potrebbe aprire sul tema. Perché, nel
contesto del movimento emancipatorio illuminista che da una parte
all’altra dell’Atlantico diffuse nel discorso pubblico il linguaggio dei
diritti dell’uomo fino a tradurlo in termini giuridici nella Declaration of
Indipendence (1776) e nella Déclaration des droits de l’homme et du ci-
toyen, la parola uomo senza dubbio faceva riferimento «al genere uma-
no, non al sesso maschile»2. Inoltre, di quel movimento, la Déclaration
des droits de la femme et de la citoyenne (1791) di Olympe de Gouges
e la Société des amis des Noirs (1788) di Brissot e Clavière costitui-
vano senza alcun dubbio due preziosi fiori all’occhiello3. Infine, per
evitare ogni ambiguità, nella sua Esquisse (1794), di fatto il manifesto
programmatico di quel movimento, Condorcet non a caso adottò la
formula, appunto meno ambigua, di «espèce humaine»4.
    Si potrebbe, si diceva. Ma nonostante sia perlopiù evidente che,
solo per prendere l’esempio più noto, la Court Européenne des droits
de l’homme non sia un’istituzione internazionale per la tutela dei di-
ritti dei maschi bianchi, liberi e proprietari, bensì chiaramente di tutti
gli esseri umani5 – anche dal punto di vista giuridico, d’altronde, par-
rebbe evidente e valido fare riferimento normativo alla polisemia del
termine uomo6 – l’abolizione della schiavitù, l’uguaglianza nei diritti
politici e i diritti di genere sono state conquiste così faticose, gloriose
e fondamentali da rendere insindacabilmente necessario che nel lin-
guaggio politico contemporaneo, a scanso di equivoci, si adotti la for-
mula diritti umani 7.

      2
       Ibidem.
      3
       Da leggere ancora oggi per mettere in seria discussione le accuse di sessismo e di
razzismo mosse all’Illuminismo da un «contro-Illuminismo» presente in molta bibliogra-
fia e letteratura contemporanea.
     4
       Condorcet, Esquisse d’un Tableau Historique des Progrès de l’Esprit Humain, Paris,
Vrin, 1970, p. 39 e sgg.
     5
       Anche senza che l’area anglosassone la traducesse necessariamente, come ha fatto,
European Court of Human Rights, anziché, come avrebbe voluto una traduzione più let-
terale, European Court of the Rights of Man.
     6
       J.-L. Egger, «Diritti dell’uomo» e «diritti umani»: sinonimia pacifica?, in «Leges», 3
(2014), pp. 503-509, in particolare pp. 505-506.
     7
       Tra queste, soprattutto i diritti di genere, per «il pari trattamento linguistico di
uomo e donna» (ivi, p. 503). Cfr. A. Fraser, Becoming Human: The Origins and Develop-
ment of Women’s Human Rights, in «Human Rights Quarterly», 21 (1999), n. 4, pp. 853-
906 e S. Bahar, Human Rights are Women’s Right: Amnest International and the Family,
in B.G. Smith (ed.), Global Feminism since 1945, London, Penguin, 2000, pp. 265-289.

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Diritti dell‘uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

   Ma solo di questo si tratta? Vale a dire, per diritti umani si intendo-
no oggi i diritti dell’uomo del movimento illuminista, semplicemente
con la dovuta e voluta inclusione delle fondamentali conquiste di cui
sopra? In altri termini, diritti umani è la versione lessicale di diritti
dell’uomo nel trapasso dal linguaggio politico moderno a quello con-
temporaneo? È qui che si apre un enorme problema storico-politico.
Perché nella storiografia contemporanea emergono posizioni assai di-
vergenti. Per analizzarle occorre, anche se brevemente, partire dall’i-
nizio, cioè dall’ingresso tardivo degli storici sul tema dei diritti umani.

2. «Prima degli anni Quaranta del Novecento, il termine “diritti uma-
ni” raramente venne usato»8, per poi di fatto esplodere nelle agende
politiche e nelle organizzazioni internazionali degli anni successivi.
Ebbene, solo dagli anni Novanta, e per giunta su invito di quelle or-
ganizzazioni, alcuni storici cominciano una riflessione sul rapporto tra
storia e diritti umani9.
    Sono poi senza dubbio gli storici dell’Illuminismo a occupare la
scena. Molto in breve, Lynn Hunt definisce l’Illuminismo come il mo-
vimento «che ha inventato i diritti umani»10. Jonathan Israel, nei suoi
studi sull’Illuminismo radicale, contestato e democratico11, riconosce
nell’Illuminismo l’origine culturale della democrazia moderna, e, in
particolare, nei suoi rights of man «il fondamento vero e proprio della
modernità»12 – e quindi degli human rights, che infatti compaiono nel
sottotitolo dell’ultimo di quegli studi (Philosophy, Revolution, and Hu-
man Rights). Vincenzo Ferrone, dopo aver spezzato definitivamente il
nesso storiografico tra Illuminismo e Rivoluzione francese, altrettanto
definitivamente afferma che «la soluzione dell’enigma dell’Illuminismo
sta per larga parte racchiusa nella scoperta e nella sua appassionata lot-
ta a favore dei diritti dell’uomo»13. Cioè, in altre parole, definisce l’Il-
luminismo come «un laboratorio della modernità» caratterizzato dalla
     8
        K. Cmiel, The Recent History of Human Rights, in «The American Historical Re-
view», 1 (2004), vol. 109, p. 117.
     9
       Tra gli altri, Patrick Collinson, Carlo Ginzburg, Emmanuel Le Roy Ladurie, Robert
Darnton, Elizabeth Fox-Genovese e Ian Kershaw (K. Cmiel, op. cit., pp. 118-119).
     10
        L. Hunt, Inventing Human Rights. A History, New York, W.W. Norton, 2007.
     11
        J. Israel, Radical Enlightenment, Oxford, Oxford University Press, 2001; Id., Con-
tested Enlightenment, Oxford, Oxford University Press, 2006; Id., Democratic Enlighten-
ment, Oxford, Oxford University Press, 2011.
     12
        J. Israel, Democratic Enlightenment, cit., p. 33.
     13
        V. Ferrone, Storia dei diritti dell’uomo, Roma-Bari, Laterza, 2014, p. VII.

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«messa in scena» di quei diritti in ogni angolo d’Europa – dalla scuola
giusnaturalista napoletana di Gaetano Filangieri e Francesco Mario
Pagano ai Commentaries on the Law of England di William Blacksto-
ne, dalle formule politiche dei Rousseau, dei Diderot, dei Mercier, dei
Voltaire, dei Condorcet ai giovani aufklarer Schiller, Herder e Goe-
the14. Una messa in scena, quella, tradotta in termini giuridici dal co-
stituzionalismo illuminista di Thomas Paine e di Gaetano Filangieri,
di Condorcet e di Francesco Mario Pagano, in opposizione allo Stato
assoluto, all’Antico regime, al principio di nazionalità15.
    Insomma, in un’estrema sintesi che non restituisce minimamente,
fra l’altro, le profonde diversità d’analisi e di metodo, dalla fine degli
anni Novanta gli storici dell’Illuminismo elaborano la tesi storiografica
che identifica quella dei diritti dell’uomo e per i diritti dell’uomo come
la vera rivoluzione del Settecento16. Una tesi che, a sua volta, identifica
questa rivoluzione dei diritti come un laboratorio politico della con-
temporaneità. I diritti dell’uomo propugnati dagli Illuministi appaio-
no come il punto di non ritorno nella storia dei diritti, in così netta
discontinuità con tutte le teorie del diritto precedenti e in così netta
continuità con i diritti umani contemporanei17. In altre parole, ricol-
legando il problema storico-politico a quello lessicale nel loro inestri-
cabile intreccio, alla netta discontinuità lessicale dovuta e voluta per
le inclusioni delle fondamentali conquiste di quasi due secoli e mezzo
di storia corrisponde (e deve corrispondere) una netta continuità, per
così dire, valoriale. Quali questi valori? Ancora ricalcando l’Esquisse
di Condorcet, e ancora in estrema sintesi: naturale inerenza alla natu-
ra umana, individualità, universalità, inalienabilità e imprescrittibilità.
Infine, loro caratteristica indubbiamente peculiare, la politicità: la po-
liticizzazione dei diritti, cioè la loro traduzione in termini giuridici e
costituzionali, consente di impugnarli come armi politiche contro le
degenerazioni della sovranità illimitata18.

     14
        Ivi, pp. 359 e sgg.. Per il resto, cfr. Id., I diritti dell’uomo tra utopia e storia. Perché
può essere utile riflettere sulla storia dei diritti dell’uomo?, in «Questione Giustizia», 1
(2015), n. 1, p. 35.
     15
        Ivi, p. 34, con riferimento a Id., La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti
dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2007.
     16
        L. Hunt, Revolutionary Rights, cit., p. 106.
     17
        Cfr. V. Ferrone, Enlightenment and the Rights of Man; Building the Political Lan-
guage of Modernity, paper for New History of Human Rights Workshop, University Cen-
ter for Human Values, Princeton University, April 25th, 2015, p. 4.
     18
        «1) Devono essere naturalmente inerenti agli esseri umani in quanto tali; 2) devono
essere uguali per tutti gli individui, senza alcun tipo di distinzione di nascita, di ceto, di

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Diritti dell‘uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

3. Dal 2010, la tesi storiografica di Samuel Moyn sembra smentire
radicalmente quella degli storici dell’Illuminismo, negando sistemati-
camente anche la continuità valoriale tra i diritti dell’uomo e i diritti
umani. In altri termini, Moyn sostiene che la netta discontinuità non
sia soltanto lessicale – i diritti dell’uomo erano in realtà i diritti degli
«uomini bianchi» e avevano «principalmente a che fare con la tutela
della proprietà»19 – ma soprattutto valoriale, cioè risieda nei valori che
caratterizzano (e devono caratterizzare) i diritti umani contemporanei.
A suo avviso, infatti, la politicizzazione ha messo quei diritti dell’uo-
mo «in connessione interna con la sovranità» per la costruzione dello
«stato-nazione»: il loro valore politico è stato impugnato dentro, per
e attraverso lo stato-nazione, e non al di sopra, al di là, contro, per
controllare lo stato-nazione. La sovranità dello stato-nazione è stato
l’unico luogo dei diritti dell’uomo e, di fatto, «il grande lascito della Ri-
voluzione francese al mondo politico»20. Dunque, nonostante sia inne-
gabile il ruolo dell’Illuminismo nella diffusione della presa di coscien-
za dei diritti fondamentali e nella trasformazione del linguaggio di quei
diritti da filosofico e morale a politico, giuridico e costituzionale (come
gli storici dell’Illuminismo hanno evidenziato), l’Europa, identificando
nello stato-nazione il mezzo e il luogo di quei diritti, non è mai stata
la civiltà dei diritti, non ha mai ristretto l’attività dello stato con una
corte giuridica esterna e superiore alla sovranità nazionale per la tutela
dei diritti21. È stata al contrario, secondo Moyn, la civiltà dell’apolo-
gia dello stato-nazione e del trionfo delle nuove forme di Antico regi-
me, come la monarchia, il dispotismo, il bonapartismo, l’imperialismo
espansionistico, l’autoritarismo, il fascismo. A ben vedere, anche dopo
l’età dei totalitarismi, nel mondo bipolare della Guerra fredda, «furo-
no gli americani a proteggere l’Europa dai Sovietici, evitando all’Eu-
ropa di cadere nelle sue tendenze più violente». Fino, sostanzialmente,

nazionalità, di religione, di genere, di colore della pelle; 3) devono essere universali, cioè
validi ovunque in ogni angolo del mondo; 4) occorre, infine, che essi siano considerati
inalienabili e imprescrittibili di fronte a ogni forma di istituzione politica e religiosa» (V.
Ferrone, I diritti dell’uomo tra utopia e storia, cit., p. 34).
    19
       S. Moyn, On the Origins of Human Rights, October 19, 2015, http://www.eutopia-
magazinearchive.eu/en/samuel-moyn.html.
    20
       S. Moyn, Theses on the Philosophy of Human Rights History, paper for New History
of Human Rights Workshop, University Center for Human Values, Princeton University,
April 25th, 2015, p. 4. A sostegno della sua tesi, Moyn cita l’articolo terzo della Déclara-
tion, «il principio della sovranità risiede essenzialmente nella Nazione» (Id., On the Ori-
gins of Human Rights, cit.), sottolineando come anche Kant «non vide rimedio per la loro
[dei diritti umani] violazione al di fuori della nazione», intuendo il colonialismo (ibidem).
    21
       Ibidem.

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all’odierna crisi sui rifugiati, nient’altro che l’ultimo degli episodi sim-
bolo di un «passato buio» che dimostrano l’ascrivibilità dell’Europa a
quella civiltà dell’apologia dello stato-nazione di cui sopra22.
    I diritti umani, invece, nella prospettiva di Moyn, sono qualcosa
di essenzialmente diverso, anzi per quasi tutti i versi opposto ai diritti
dell’uomo. Sono «limiti esterni alla sovranità», specialmente a quella
degli stati-nazione post-coloniali; sono tutele esterne alla sovranità na-
zionale per il «monitoraggio» di altre sovranità nazionali; non «fonda-
no o ridefiniscono la cittadinanza nazionale» come i diritti dell’uomo,
ma sono «titoli politici di base per aiutare i cittadini degli stati poco
funzionanti della periferia europea»23. In altre parole, «la continuità
spiega poco, e la discontinuità è più interessante»24: insomma, se i di-
ritti dell’uomo avevano valore politico, i diritti umani hanno invece
valore anti-politico. Hanno quel valore morale intrinseco al desiderio
da cui sono nati di «trascendere la politica», di rappresentare quel
«power of the powerless» senza trasformarsi nel «power of the power-
ful» che annullerebbe la trascendenza della morale nei confronti della
politica: rappresentano «i limiti minimi alla politica responsabile, non
una nuova forma di massima politica»25. Inoltre, eliminato il loro fon-
damento storico, possiedono un fondamento filosofico che da quando
essi sono nati soltanto la Cristianità, da Pio XII a Jacques Maritain, ha
saputo definire26.
    In conclusione, è inutile «spendere del tempo» andando a cerca-
re nella storia i «precursori» dei diritti umani, le loro radici: la netta
discontinuità lessicale ma soprattutto valoriale rendono i diritti uma-
ni, profondamente ed essenzialmente, nella natura e nel fondamento,
nella funzione e nell’ambizione, un’altra cosa rispetto ai diritti dell’uo-
mo27. Al punto che «la storia dei diritti umani è un ambito che credo
non debba nemmeno esistere»28. I diritti umani non hanno una storia.
Costituiscono, piuttosto, «l’ultima utopia»: non è un caso che abbia-
no sempre più attirato l’attenzione dell’agenda politica internazionale
nemmeno tanto dal 10 dicembre 1948 con la proclamazione della Uni-

       Ibidem.
      22

       S. Moyn, Theses on the Philosophy of Human Rights History, cit., p. 5.
      23
    24
       Ivi, p. 7.
    25
       S. Moyn, The Last Utopia, Harvard, Harvard University Press, 2010, p. 227.
    26
       Cfr. S. Moyn, Christian Human Rights, Philadelphia, University of Pennsylvania
Press, 2015.
    27
       S. Moyn, On the Origins of Human Rights, cit.
    28
       S. Moyn, Theses on the Philosophy of Human Rights History, cit., p. 1.

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versal Declaration of Human Rights da parte dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite29, ma piuttosto in coincidenza con il declino pri-
ma e la fine poi dell’utopia socialista – a cui va aggiunto il fallimento
dell’utopia di riforma democratica del liberalismo e del capitalismo30.
I diritti senza storia, dunque, delineano la sfida del futuro: la realizza-
zione di un’utopia morale che per essere realizzata non può rimanere
solo morale – una sfida così cruciale da ridefinire perfino il concetto di
utopia, anzi di utopismo31.

4. Agli storici dell’Illuminismo andrà il compito di ribadire lo sciogli-
mento del nodo tra Illuminismo e Rivoluzione francese che ha carat-
terizzato un’intera epoca storiografica, e che la tesi di Moyn sembra
negare, nonché quello di discutere l’appartenenza esclusiva allo stato-
nazione dei diritti dell’uomo. Insisteranno sia sul fatto che quei diritti
siano de l’homme prima e insieme che du citoyen, e dunque sull’univer-
salismo di quei diritti, sia sul fatto che dietro la nazione degli illuministi,
su cui Moyn pare fondare la sua tesi32, ci sia una straordinaria evoluzio-
ne dei concetti di nazione e patria che proprio alle soglie della Déclara-
tion maturò l’innovativa definizione basata sulla comunanza delle stesse
leggi, della stessa costituzione, degli stessi diritti – insistendo dunque
sul cosmopolitismo illuminista, già perfettamente intuito dal Voltaire
di ubi libertas, ibi patria. Dunque, in definitiva, la discussione andrà
verosimilmente a vertere sul «progetto illuministico dei diritti dell’uo-
mo, la sua invenzione e difesa a oltranza dell’individuo contro lo Stato
assoluto e l’Antico regime e poi contro il principio di nazionalità»33.
    Agli storici dell’età contemporanea andrà il compito di discutere la
lettura, contenuta nella tesi di Moyn, degli autoritarismi dell’Ottocen-
to e del Novecento nei termini di «nuove forme di Antico regime»34.
Soprattutto bonapartismo e fascismo, infatti, sembrano in realtà voler-
si radicalmente contrapporre all’idea di Restaurazione, proclamandosi
    29
       Sull’evidenza, invece, del richiamo della Universal Declaration of Human Rights alla
Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen nei principi, nella forma e nella sostanza,
nonché nei termini – tenendo ovviamente conto della transizione dal linguaggio politico
moderno a quello contemporaneo – si dirà poco più avanti.
    30
       La tesi viene illustrata da Moyn anche con un grafico dimostrativo (S. Moyn, Theses
on the Philosophy of Human Rights History, cit., p. 10).
    31
       S. Moyn, The Last Utopia, cit., p. 227.
    32
       Cfr. nota n. 20.
    33
       V. Ferrone, I diritti dell’uomo tra utopia e storia, cit., p. 34.
    34
       S. Moyn, On the Origins of Human Rights, cit.

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senza mezzi termini come rivoluzionari. Inoltre, la stessa intenzione
del nazismo di dichiarare come un compito del Terzo Reich quello di
«cancellare il 1789 dalla storia» sembra costringere a una profonda
riflessione storiografica sul tema35.
    Per gli storici del pensiero e del lessico politico sembra invece piut-
tosto prevalere la necessità di riflettere sul problema storico posto da
un rivolgimento valoriale celato sotto il dovuto e voluto cambiamento
lessicale, nonché sulle sue implicazioni e sulle sue dimensioni politiche.
    La riflessione non può non partire dallo scioglimento, da parte della
tesi storiografica di Moyn, del nodo che lega i diritti dell’Illuminismo e
della Déclaration del tardo Settecento da quelli del secondo dopoguer-
ra. Le fonti parlano, al contrario, di un legame strettissimo. Un legame
non soltanto linguistico (come si è già evinto dal richiamo emblemati-
co contenuto nel nome della Court Européenne des droits de l’homme
fondata nel 1959 dai Paesi firmatari della Convention européenne des
droits de l’Homme), ma soprattutto contenutistico. Infatti, che nella
Universal Declaration of Human Rights confluiscano i fondamenti del-
la Déclaration, e anzi in alcuni punti essa addirittura la ricalchi, a par-
tire dal primo articolo in cui viene sottolineata per nascita la libertà e
l’uguaglianza nei diritti, non pare esserci neanche il minimo dubbio36.
Peraltro, fattore nient’affatto secondario per quel che qui ci riguarda,
nella Universal Declaration confluiscono i fondamenti della Déclaration
dichiaratamente privi del riferimento alla nazione presente nell’art. 3
del documento del 178937 – l’articolo utilizzato da Moyn per sostenere

     35
        H. Göring, cit. in J. Chapoutot, Controllare e distruggere, Torino, Einaudi, 2015,
p. 159.
     36
        Déclaration, art. 1: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti»;
Universal Declaration, art. 1: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e
diritti». Si noti anche, sempre nello stesso articolo della Universal Declaration, il richiamo
alla fratellanza («Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli
altri in spirito di fratellanza»): è lo stesso concetto illuminista la cui assenza dalle costitu-
zioni successive alla Déclaration, con particolare riferimento al Code Civil di Napoleone
del 1804, segna emblematicamente e di fatto la fine del costituzionalismo illuminista e
l’inizio del cono d’ombra in cui precipiterà fino, appunto, alla Universal Declaration. Si
noti anche, a questo proposito, soprattutto i richiami della Universal Declaration alla De-
claration of Indipendence («with certain unalienable Rights, that among these are Life…»)
e alla Déclaration («Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza…») sul diritto
alla vita, alla libertà e alla sicurezza («Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed
alla sicurezza della propria persona»), dove è assente, rispetto alla Déclaration, proprio
il diritto alla proprietà, che aveva reso il Code Civil «individualista e patrimonialista» (S.
Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 181).
     37
        Universal Declaration, art. 2: «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le
libertà enunciate nellapresente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di
razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di

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Diritti dell‘uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

la validità dei diritti dell’uomo esclusivamente all’interno dello stato-
nazione38. Una Universal Declaration, quella del 1948, che a sua volta
sarà indissolubilmente legata a molte conquiste giuridiche successive,
su tutte la Dichiarazione dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea,
proclamata a Nizza nel 2000 e parte integrante della Costituzione Eu-
ropea del 2004 – avente valore legale vincolante dal Trattato di Lisbo-
na del 2009. Lo spirito degli autori di questa Dichiarazione, nelle loro
stesse parole, è quello di guardare alla Déclaration, «quale che sia la
portata che si vuole attribuire a questi due termini [uomo e cittadino]»
– e quindi al di là, per quanto qui ci interessa, dell’esclusività o meno
dei diritti all’interno dello stato-nazione, quell’esclusività che secondo
Moyn ha definito i diritti dell’uomo – come «a una civilizzazione o
secolarizzazione o laicizzazione di diritti ritenuti naturali grazie all’in-
tervento di quello strumento squisitamente artificiale che è appunto il
diritto»39. È vero che lo spirito della Dichiarazione è quello di guardare
al costituzionalismo del secondo dopoguerra non certamente soltan-
to come a «una semplice ripresa delle antiche tematiche, quasi che
si dovesse chiudere la lunga e tragica parentesi delle dittature e della
guerra, con una sorta di heri dicebamus che rimetteva al centro dell’at-
tenzione solo la coppia forte nella Dichiarazione dei diritti dell’89 e
nelle dichiarazioni dei diritti degli Stati americani – il nascere di tutti
come liberi e uguali»40: questa prospettiva impedirebbe di evidenzia-
re le importanti novità del costituzionalismo del dopoguerra, su tutte
quella del principio di dignità41. Ma è altrettanto indubbio che libertà
e uguaglianza, riassunte nell’égaliberté alla base del costituzionalismo
contemporaneo42, ricostruiscano il «legame spezzato» con il costitu-
zionalismo illuminista43.
    La tesi di Moyn, infatti, per sciogliere l’evidente nodo tra il costitu-
zionalismo illuminista e quello contemporaneo, nega che i diritti uma-

origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distin-
zione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del
paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad am-
ministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità».
     38
        Cfr. nota n. 20.
     39
        S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 180.
     40
        Ivi, p. 183.
     41
        Ivi, pp. 183-199.
     42
         Cfr. E. Balibar, La proposotion de l’égaliberté, Paris, Presses Universitaires de
France, 2010. Cfr. anche la declinazione della libertà e dell’uguaglianza a cui sono dedi-
cati i capi 2 e 3 della Dichiarazione dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.
     43
        S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 184.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017                                                                   123
Alessandro Maurini

ni nascano con la Universal Declaration del 1948. Sostiene che trovino
le radici negli Stati Uniti d’America degli anni Settanta: nella filosofia
politica di John Rawls e Ronald Dworkin, nell’amministrazione delle
presidenze democratiche e conservatrici di Jimmy Carter e Ronald Re-
agan, nell’incremento nella diffusione di organizzazioni internazionali
come lo Human Rights Committee e Amnesty International, nonché
soprattutto nella nascita di nuove organizzazioni internazionali come
lo Helsinki Watch – che diventerà lo Human Rights Watch44. Da qui
la tesi che l’ascesa dell’utopia dei diritti umani corrisponda al declino,
che poi la condurrà alla fine, dell’utopia socialista, unita a quella del
fallimento del riformismo democratico del capitalismo.
     Si potrebbe entrare nel merito della tesi storiografica, come fa la
critica neo-marxista. Essa, in sintesi, denuncia la sostituzione dell’uto-
pia socialista con quella dei diritti umani come la maschera dietro cui
il neoliberalismo intende nascondere i fallimenti di riforma in senso
democratico del capitalismo per sancire il trionfo dell’ineguaglianza
economica45. Una critica, questa, senza dubbio radicale e acuta – tanto
da far ammettere allo stesso Moyn che effettivamente «i diritti umani
riguardano l’uguaglianza di status ma non quella distributiva»46, e che
il tema chiave da affrontare deve diventare il rapporto tra diritti umani
e (dis)uguaglianza –, ma che finisce inevitabilmente con l’essere in-
globata all’interno della tesi storiografica, senza metterla in questione
nella sua portata storico-politica47.
     Una portata, questa, che pare evidentemente tendere ad ascrivere in
modo esclusivo agli Stati Uniti d’America la paternità dei diritti umani
che oggi dominano incontrastati nell’agenda politica internazionale,
negandola invece a una storia perlopiù europea, indicata esplicitamen-
te come cattiva maestra, nella lotta per gli odierni diritti umani (perlo-
più, si diceva, perché a ben vedere il costituzionalismo illuminista deve
molto, per non dire tutto, al mondo americano della Declaration of
Indipendence, che per la scuola giusnaturalistica napoletana costituiva
il modello di riferimento in maniera assai maggiore rispetto alla Décla-
ration francese48). In ogni caso, la negazione della paternità europea

      Cfr. S. Moyn, The Last Utopia, cit., pp. 214-217, 134, 138, 172-174.
      44

      Cfr. Id., Theses on the Philosophy of Human Rights History, cit., pp. 7-8.
      45

      Ivi, p. 9.
      46
   47
      Ivi, pp. 9-10.
   48
      Cfr. V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in
Gaetano Filangieri, cit., pp. 23-48.

124                                               STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017
Diritti dell‘uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

dei diritti umani coincide qui in modo chiaro ed esplicito con un revi-
sionismo della storia dei diritti che va di fatto a coincidere, attraverso
lo scioglimento del nesso che lega i diritti dell’uomo del Settecento e
gli odierni diritti umani, con un suo drastico ridimensionamento per
il problema politico attuale, nonché conseguentemente con una di-
chiarata negazione della stessa storia dei diritti49. È inevitabile che ciò
comporti una riflessione sull’uso e sull’abuso della storia, e più in ge-
nerale un ripensamento della storia e della sua funzione. Riflessione e
ripensamento a cui Moyn dedica in effetti molto spazio, e che sarebbe
meritevole di un’attenta analisi50, perché va senza dubbio a costituire
il motivo dei suoi attacchi alla ricerca del fondamento dei diritti nella
storia51. Attacchi, questi, che di conseguenza portano inevitabilmente
dritto verso un altro fondamento dei diritti umani, che non può più
evidentemente essere storico come sostenuto dalla storiografia sull’Il-
luminismo52. Un fondamento che Moyn individua nel cristianesimo,
definendo di fatto i diritti umani come Christian human rights53.
    La negazione della storia dei diritti a cui conduce il revisionismo sto-
riografico di Moyn ha enormi implicazioni storico-politiche, perché ine-
vitabilmente la sua tesi non può che ignorare le lezioni di quella storia.
    Si pensi alla lezione di Hannah Arendt sulla pericolosità della non-
politicizzazione e non-costituzionalizzazione dei diritti umani, peral-
tro necessaria ma non sufficiente54: non farne «una questione politica
pratica» e lasciarli nell’astrattezza li farebbe divenire la cenerentola del
pensiero politico del Ventesimo e Ventunesimo secolo, così come i
diritti dell’uomo «solennemente proclamati dalle rivoluzioni francese
e americana» lo sono stati per il pensiero politico del XIX e del XX
secolo55. E si pensi alla lezione di Rodotà sull’unico rimedio possibile
alla dispersione delle dichiarazioni dei diritti da parte dell’Occidente
tra l’Illuminismo e l’età contemporanea:

   Il codice di questa impresa ha un nome, e si chiama politica. I diritti sono deboli
quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e

   49
       Cfr. nota n. 28.
   50
       Cfr. soprattutto D.M. McMahon, S. Moyn (eds.), Rethinking Modern European
Intellectual History, Oxford, Oxford University Press, 2014.
    51
       S. Moyn, On the Origins of Human Rights, cit.
    52
       Cfr. V. Ferrone, Storia dei diritti dell’uomo, cit., pp. VIII, 7.
    53
       Il riferimento è a S. Moyn, Christian Human Rights, cit..
    54
       H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Torino, Einaudi, 2009, p. 406.
    55
       Ivi, pp. 405-406.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017                                                                 125
Alessandro Maurini

così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malin-
conico passo d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona.
E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la
sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti56.

    Una lezione, questa sulla forza della politicità, della politicizzazione e
della politica dei diritti come conditio sine qua non per poterli impugna-
re e rivendicare – senza dubbio il chiaro messaggio della straordinaria
proposta politica e costituzionale dell’Illuminismo –, completamente
ignorata da una tesi, quella di Moyn, che rivendica l’anti-politicità a fon-
damento del valore morale dei diritti umani.
    Tale tesi, inoltre, ridimensionando e/o negando la storia dei diritti
umani ignora anche un’altra fondamentale lezione di quella storia: la
distinzione tra diritto individuale da una parte e diritto delle comuni-
tà, delle nazioni, dei popoli dall’altra. La mancanza di tale distinzione
ha condotto nella storia alla «identificazione dei diritti umani coi diritti
dei popoli», trasformandoli in «diritti nazionali»57. E quindi, di fatto,
al nazionalismo, all’imperialismo, al razzismo e all’antisemitismo triste-
mente noti alla storia europea del XIX e del XX secolo e giustamente
evidenziati da Moyn. Il quale, però, a causa della medesima mancan-
za di distinzione, individua le cause di questi ismi nei diritti dell’uomo,
il cui valore individuale viene disperso perché vengono considerati un
tutt’uno coi diritti dei popoli e coi diritti nazionali che hanno dominato
l’Ottocento e la prima metà del Novecento. La mancanza di tale distin-
zione ignora l’elemento chiave della storia contemporanea dei diritti. Si
pensi alla Universal Declaration che vuole dichiaratamente ricostruire il
legame spezzato col costituzionalismo illuminista58 e restituire ai diritti
umani il valore dell’individualità caratterizzante i diritti dell’uomo59. E si
pensi soprattutto alla lezione di Norberto Bobbio, la cui dottrina del di-
ritto «presuppone una concezione individualistica della società e quindi

       S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 104.
      56

       H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 404, 322, 406.
      57

       «Spezzato» durante un Ottocento e un Novecento in cui, fino appunto alla Univer-
      58

sal Declaration, i diritti dell’uomo paiono essere precipitati in un cono d’ombra storico
e storiografico: non è un caso l’esigenza della storiografia dell’Illuminismo di analizzare
questo gap, per cui cfr. soprattutto D. Edelstein, Mind the Gap: Between the Early Mo-
dern and Modern Histories of Human Rights, paper for New History of Human Rights
Workshop, University Center for Human Values, Princeton University, April 25th, 2015.
    59
       Il riferimento è in particolare agli articoli 12-17, in cui vengono stabiliti i diritti dell’in-
dividuo in rapporto a quelli della comunità, un’attenzione inscritta nella storia dei diritti dal
Platone delle Leggi fino a Hannah Arendt, passando naturalmente attraverso l’Illuminismo.

126                                                       STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017
Diritti dell‘uomo, diritti umani. Tra la storia dei diritti e i diritti senza storia

dello stato, continuamente contrastata dalla ben più solida e antica con-
cezione organica, secondo cui la società è un tutto e il tutto è al di sopra
delle parti»60. Se la democrazia liberale non può che fondarsi sul primato
dell’individuo, il riconoscimento generalizzato dei diritti non può che
riferirsi ai diritti degli individui: l’individuo deve essere il portatore dei
diritti fondamentali, l’individuo concreto in quanto tale e non in quanto
parte di concetti astratti quali quelli di comunità o di popolo.

5. Dunque, i diritti umani sono quelli con valore individuale, politico, uni-
versale, inalienabile, imprescrittibile nel senso dei diritti dell’uomo illumi-
nistici, oppure quelli con valore morale, anti-politico, religioso, nazionale
(degli stati-nazione post-coloniali poco funzionanti, di cui i diritti umani
rappresentano i limiti esterni alla loro sovranità)? La dimensione politica
della questione storica assomiglia molto a una battaglia per l’egemonia dei
valori che devono rappresentare i diritti umani, e appare tanto complessa
quanto urgente in un’epoca in cui in nome di essi gran parte dei paesi e
delle organizzazioni internazionali determinano la propria agenda politica
– si pensi soltanto all’importanza di capire in nome di cosa si decide un
intervento armato quando lo si fa, appunto, in nome dei diritti umani.
    La complessità della questione è senza dubbio storica, e obbliga
a ripartire dall’Enlightenment Rights Talk61. Ma non è per niente da
sottovalutare quella lessicale, nell’inestricabile intreccio di cui si di-
ceva: entrambe le alternative, infatti, portano (e vogliono e devono
portare) lo stesso nome di diritti umani – distinguere i primi come
diritti dell’uomo implica immediatamente, per le motivazioni illustrate,
inevitabili accuse discriminatorie di sessismo, quando non di razzismo,
ma comunque di anacronismo (accusa ancor più grave, ovviamente,
se è uno storico a subirla). Nello stesso tempo, però, non può essere
soltanto una questione lessicale, di per sé facilmente risolvibile con
formulazioni quali ad esempio quella di individual human rights62: si
deve affrontare il problema storico che essa sottende, e non lo si può
fare ignorando l’Enlightenment Rights Talk.

   60
       N. Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, Einaudi, 2009, p. 435.
   61
       L’espressione è di D. Edelstein, Enlightenment Rights Talk, in «Journal of Modern
History», 3 (2014), n. 86, pp. 530-565.
    62
       S.-L. Hoffmann, Human Rights and History, in «Past and Present», 232 (2016), pp.
279-310, passim.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017                                                                 127
Alessandro Maurini

    L’urgenza della questione è incombente: è evidente il rischio, da cui
già Bobbio metteva profeticamente in guardia ben prima che gli storici
subentrassero nel dibattitto63, che i diritti umani, cioè il protagonista
assoluto delle agende politiche nazionali e internazionali, diventino, di
fatto, un’ideologia. Un rischio, questo, che è in pratica già una tenden-
za, stando al ruolo sempre più centrale che lo human rights idealism sta
assumendo nel più recente dibattito64. Una tendenza da invertire, per
evitare che i diritti umani diventino un’etichetta, una bandiera inat-
taccabile – d’altronde, «chi è che oggi si oppone ai diritti umani?»65
– dietro cui non esistono valori ben definiti. E per evitare che i paesi e
le organizzazioni internazionali li definiscano a proprio piacimento a
seconda delle occasioni per giustificare le loro decisioni.

     63
        «Nonostante gli innumerevoli tentativi di analisi definitoria, il linguaggio dei diritti
resta molto ambiguo, poco rigoroso e spesso usato retoricamente» (N. Bobbio, L’età dei
diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. XX).
     64
        S.-L. Hoffmann, Human Rights and History, cit.; L. Hunt, The long and the short of
the History of Human Rights, in «Past and Present», 233 (2016), pp. 323-331; S. Moyn,
The End of Human Rights History, in «Past and Present», 233 (2016), pp. 307-322.
     65
        S.-L. Hoffmann, Human Rights and History, cit., p. 279.

128                                                   STORIA DEL PENSIERO POLITICO 1/2017
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‘The Character of Contemporary History’:
Human Rights History and Early
Modern Violence
GLENN MITOMA
University of Connecticut

Abstract
This essay considers the significance of this special issue of History for modern histori-
ans of human rights with regard to three aspects of that history. First, there has been a
division between those who seek to chronicle the history of human rights movements
and those who focus on the history of human rights violations. The essays in this
volume present a view of the early modern British empire that seems defined by the
absence of human rights movements and a ubiquity of human rights violations. Second,
modern historians of human rights have pursued two approaches: deploying a standard
definition of human rights as a ‘plumb line’ by which past movements and violations are
assessed, or mapping the genealogy of ‘human rights’ as an empty signifier whose
content is indeterminate. This edited collection approaches the violence of the period
with genealogical care. Nevertheless, these contributions are also marked by a concern
with the conceptual categorization of different forms of violence, which while less bound
to a specific legal code, are perhaps normative across period and geography. Third, this
special issue illuminates, but does not resolve, the tension between historicism and
universality that characterizes the history of human rights. Each of the authors, by
engaging with the assumptions and preoccupations of the human rights field, presents
evidence that for both themselves and their subjects there is often an aspiration to
conceptual and moral standards by which local circumstances and contingencies might
be judged.

T       his special issue of History and the essays that comprise it mark
        an important development in the field of human rights history.
        By conscientiously engaging with the definitions, preoccupations
and, to some extent, methods of this decidedly modern field, these
specialists in the early modern British imperial world have opened up
new lines of inquiry not only for those working on the far side of the
late eighteenth century, but also for historians of human rights who
have been working to conceptualize the scope and nature of their field.
For those scholars who have primarily focused on the emergence of the
discourses, structures and practices of human rights over the past 250
years, these essays extend our understanding of the roots of human
rights ideas, challenge our assumptions about the applicability of those
© 2014 The Author. History © 2014 The Historical Association and John Wiley & Sons Ltd
550   HUMAN RIGHTS HISTORY AND EARLY MODERN VIOLENCE

ideas, and offer an opportunity to rethink what histories of human
rights, especially those that aspire to longue durée, propose to explain.
   The essays in this volume deal with a period outside the central eras
of concern for most histories of human rights. Conventionally, the
critical junctures in the historiography remain decidedly modern. The
late eighteenth and early nineteenth centuries, we are told, saw
the ‘invention’ of a robust human rights discourse and, with the revo-
lutions in America, France and Latin America, the instantiation of
rights in new national structures.1 I have written of the critical turning
point of the mid-twentieth century, when the catastrophes of two world
wars and the founding of the United Nations set the stage for the
re-emergence of human rights ideals, this time embedded in interna-
tional organization and law.2 Still others have insisted that human rights
only emerged as a real force in the 1970s, when violence in the Third
World and a new Cold War détente opened up a space for a pragmatic,
transnational politics of conscience.3 Each of these moments has been,
and continues to be, subject to close historical scrutiny, engendering no
small amount of debate – as has been particularly evident in the case of
Samuel Moyn’s recent book, The Last Utopia: Human Rights in History.
At first glance, these essays on the politics, uses and culture of violence
in the sixteenth- and seventeenth-century British/English empire seem to
pertain to a different set of scholarly questions from those addressed by
most human rights histories. But a closer consideration reveals that this
particular collection of essays illuminates some of the central thematic
questions that have gone relatively unaddressed in the young historiog-
raphy of human rights, and with this prompting could lead to more
innovative, purposeful and broadly relevant studies of human rights for
all periods.
   In particular, when read by historians of human rights, these essays
engage with three often overlooked aspects of that history. First, within
the field of human rights history, there has been a division between
those who seek to chronicle the history of human rights movements and
those who focus on the history of human rights violations.4 Exemplified
by the work of Paul Gordon Lauren on the one hand and Ben Kiernan
on the other, these two fields of scholarship are hardly unconnected, but
emphasizing one over the other yields decidedly distinct understandings

1
  Lynn Hunt, Inventing Human Rights: A History (New York, 2008); Jeffrey N. Wasserstrom,
Lynn Hunt and Marilyn B. Young (eds), Human Rights and Revolutions (Lanham, MD, 2000).
2
  Glenn Mitoma, Human Rights and the Negotiation of American Power (Philadelphia, PA, 2013);
Elizabeth Borgwardt, A New Deal for the World: America’s Vision for Human Rights (Cambridge,
MA, 2005); Jan Herman Burgers, ‘The road to San Francisco: the revival of the human rights idea
in the twentieth century’, Human Rights Quarterly, 14 (1992), pp. 447–77.
3
  Daniel C. Thomas, The Helsinki Effect: International Norms, Human Rights, and the Demise of
Communism (Princeton, NJ, 2001); Samuel Moyn, The Last Utopia: Human Rights in History
(Cambridge, MA, 2010).
4
  Eleni Coundouriotis makes a similar distinction, emphasizing in particular the rubric of ‘crimes
against humanity’ for reading human rights back into history. See Eleni Coundouriotis, ‘Congo
cases: the stories of human rights history’, Humanity, 3 (2012), pp. 133–4.

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GLENN MITOMA        551

of what human rights are. For those who focus on movements, human
rights are a utopian vision of justice and the history is one that connects
activists and ‘visionaries’ across time and space as they struggle to
protect and promote human dignity.5 For those who focus on viola-
tions, human rights are about pervasive threats to basic survival and
minimally decent treatment, and the history is one that attempts to
make sense of the recourse to atrocity and abuse in human history.6 The
essays in this volume present a view of the early modern British empire
that seems defined by the absence of human rights movements and a
ubiquity of human rights violations.
   Second, in both of these fields of inquiry – movements and violations
– historians have pursued two main approaches. On the one hand,
scholars have deployed a standard definition of human rights – usually
as embodied by a legal or official document like the 1948 Universal
Declaration of Human Rights (UDHR) – as a ‘plumb line’ or ‘lens’ by
which past movements and violations are assessed.7 On the other hand,
other historians have sought to map the genealogy of ‘human rights’ as
an empty signifier whose content (i.e. what specific rights are considered
human rights) and significance (i.e. what kind of politics do human
rights lend themselves to) is indeterminate.8 Once again, Kiernan’s
monumental Blood and Soil stands as the most significant embodiment
of the former, as he self-consciously projects the definition of genocide
contained in the 1948 Convention for the Prevention and Punishment of
the Crime of Genocide back into early eras. As to the latter, Lynn
Hunt’s Inventing Human Rights: A History typifies the genealogical
approach. There, Hunt describes the way in which a cultural apprecia-
tion for the suffering of others – in the form of the eighteenth-century
epistolary novel – set the perceptual and cognitive basis for the emer-
gence of human rights campaigns against torture and religious persecu-
tion, while also recognizing what such a version of human rights did not
entail (i.e. a commitment to racial or gender equality).
   This collection was conceived in part as a test of Kiernan’s method
and approaches the violence of the period with genealogical care. Nev-
ertheless, the aspiration of all of the contributors, including the editor,
is to participate in a conversation with the human rights field and,
as such, their contributions are marked by a concern not only with

5
  Paul Gordon Lauren, The Evolution of International Human Rights: Visions Seen, 3rd edn.
(Philadelphia, PA, 2011).
6
  Ben Kiernan, Blood and Soil: A World History of Genocide and Extermination from Sparta to
Darfur (New Haven, CT, 2007).
7
  The term ‘plumb line’ comes from Eric Foner, The Story of American Freedom (New York,
1998); ‘human rights lens’ from Paul Gordon Lauren, ‘A human rights lens on U.S. history: human
rights at home and human rights abroad’, in Cynthia Soohoo, Catherine Albisa and Martha F.
Davis (eds), Bringing Human Rights Home: A History of Human Rights in the United States
(Philadelphia, PA, 2009), pp. 7–39.
8
  Bonny Ibhawoh, Imperialism and Human Rights: Colonial Discourses of Rights and Liberties in
African History (Albany, NY, 2007); Daniel J. Whelan, Indivisible Human Rights: A History
(Philadelphia, PA, 2010).

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552   HUMAN RIGHTS HISTORY AND EARLY MODERN VIOLENCE

interpreting violence within the historical context of the early modern
world, but also with the conceptual categorization of different forms of
violence – in Kane’s terms, ‘ordinary’ versus ‘extraordinary’ violence –
which while less bound to a specific legal code, are perhaps normative
across period and geography.
   Third, this special issue on violence and human rights in the early
modern world illuminates, but does not resolve, the tension between
historicism and universality that characterizes the history of human
rights. If the original workshop that inspired this collection was titled
‘Historicizing Human Rights’, it was because the organizers believed
that the tendency, particularly among those applying a human rights
lens to history, has been to de-historicize in favor of an agenda of
universalization. As Brendan Kane puts it in his introduction, ‘the
narrative they [i.e. universalizing historians of human rights] trace seems
predetermined and their efforts . . . are in danger of producing little
more than new vocabulary for established teleologies’. Here and in
other critiques of the histories of human rights, the opposition is made
between historicism on the one side, with its scrupulous regard for
interpreting events and ideas by reference to the historical context in
which they were embedded, and universality on the other, with its
aspiration to making the case that human rights constitutes a
transhistorical frame for both understanding and judging actions and
events.
   Unsurprisingly, none of these essays have suggested that either
‘human rights’ as a positive aspiration or ‘genocide’ as a negative crime
were categories used by people in the sixteenth and seventeenth centu-
ries to make sense of their world. And yet, each of these authors, by
engaging with the assumptions and preoccupations of the human rights
field, present evidence that for both themselves and their subjects there
is often an aspiration to conceptual and moral standards by which local
circumstances and contingencies might be judged. Here, even beyond
the pale of the history of human rights proper, these essays suggest that
historicity does not need to opposed universality, but can rather func-
tion as a method for understanding universalization as a process.

                                                  I
As contributions to the history of human rights, the essays in this
special issue describe practices of state violence and, as such, chronicle
the history of human rights violations.9 These contributions reflect the

9
  Exactly the same concerns catalyse the resurgence of human rights politics in the 1970s, particu-
larly with regard to the right-wing military dictatorships in Latin America and the socialist people’s
republics of eastern Europe. In all of these cases, the limits of any given state’s prerogative in the
use of the more brutal and terrifying forms of coercion were at issue. See, for example, Ann Marie
Clark, Diplomacy of Conscience: Amnesty International and the Changing Human Rights Norms
(Princeton, NJ, 2001); Rita Arditti, Searching for Life: The Grandmothers of the Plaza de Mayo and

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