15 MAGGIO - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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15 MAGGIO
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   15 MAGGIO 2019

                               LA SICILIA
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POLITICA                                                                                                             15/5/2019

Pareri lumaca pagheranno i burocrati
L’Ars approva l’ennesima legge sulla semplificazione amministrativa
«Questa sì che è una legge importate e rivoluzionaria», ha esclamato il governatore Nello Musumeci, dopo che in meno di
un’ora la sonnolenta Assemblea regionale ha approvato il ddl sulla semplificazione amministrativa. Non c’è stato governo
regionale, da Cuffaro a Lombardo e Crocetta, che non abbia varato una norma per oliare la macchina burocratica che tutto
blocca. Ad oggi nessuno ci è riuscito, mancando le sanzioni e perfino l’individuazione chiara di un responsabile al quale
chiedere conto. Adesso ci prova Musumeci, e la norma parte proprio dalla scelta chiara di chi è responsabile della pratica.
La Regione con questa legge di fatto darà una maggiore responsabilità ai dirigenti, che dovranno individuare un «responsabile
dei procedimenti amministrativi e avocare a sé la pratica in caso di inerzia». Una norma che potrebbe aprire la porta, in caso di
richieste di risarcimento danni da parte di privati, alla possibilità per la Regione di potersi rivalere sui propri dipendenti. Solo
per fare un esempio: nel 2019 sono stati approvati 40 milioni di euro di debiti fuori bilancio solo per risarcire le aziende che
hanno presentato domande per investimenti senza ricevere alcuna risposta, né sì né no. Ma ad oggi ha pagato la Regione, senza
che alcun funzionario o dirigente abbia ricevuto qualche sanzione.
La legge prevede inoltre per una serie di casi il silenzio assenso e i vari uffici dovranno dare risposte entro 90 giorni se chiamati
in una conferenza dei servizi. Ma ci sono altre novità: tutti gli enti siciliani, Comuni e Province inclusi, saranno tenuti a
pubblicare, nella sezione trasparenza dei propri siti istituzionali, i dati del personale assunto dai loro fornitori, cioè le aziende
che forniscono beni o erogano servizi pubblici. L’articolo è stato proposto dal Movimento 5 Stelle: si spera così di evitare
clientele e parentopoli.
Le sovrintendenze e il dipartimento Ambiente potranno inoltre chiedere un intervento della giunta in caso di via libera a dei
progetti in conferenza dei servizi contro il loro parere: ma solo se il loro parere non è vincolante. A questo punto la giunta può
confermare il via libera al progetto o negarlo. In una prima versione quest’ultimo articolo dava invece potere alla giunta di
rivedere le decisioni di sovrintendenti e dirigenti dell’Ambiente: in commissione, su proposta di Pd e 5 stelle, e dopo il pressing
degli ambientalisti, la norma è stata rivista e capovolta.
Passa in aula un emendamento del Pd a firma di Giuseppe Lupo con parere favorevole di commissione e governo che stabilisce
che il responsabile del procedimento amministrativo debba essere in possesso di titoli specifici in relazione agli atti di
competenza: insomma, un agronomo non può valutare procedimenti in materia energetica, ad esempio. L’unico momento di
tensione in aula c’è stato quando il governo, con l’assessore all’Economia Gaetano Armao, ha provato a far passare un
emendamentoche prevedeva poteri speciali della Regione anche contro i Comuni inadempienti nel rilascio di pareri.
— a. fras.
La sede dell’Assemblea regionale siciliana. A sinistra il governatore Nello Musumeci

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ATTUALITA                                                                                                            15/5/2019

I RIMBORSI DELLA SANITà

Viaggi della speranza, via alle ispezioni
L’assessore Razza minaccia di non pagare l’Emilia- Romagna il Veneto e la Lombardia "
Verificheremo a campione cosa accade"
di Giusi Spica Una piccola casa di cura di Abano Terme, specializzata in cure termali, è diventata meta privilegiata di centinaia
di pazienti siciliani: ben 378 in un anno. Per ciascuno la Regione siciliana ha sborsato tra 5 e 6 mila euro di rimborsi. Meglio ha
fatto la casa di cura Dottor Peder, a Peschiera del Garda, che ha ospitato 575 siciliani per un totale di 2 milioni e mezzo di euro.
L’ospedale Don Calabria, a Verona, ne ha curati 481 per 1,6 milioni di euro. E questi sono solo alcuni esempi: anche altre
strutture convenzionate del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Lombardia hanno presentato un conto salato per le cure dei
siciliani oltre lo Stretto. Ecco perché l’assessore alla Salute Ruggero Razza ha deciso di inviare gli ispettori nelle altre regioni.
Vuole capire cosa c’è dietro gli esodi di massa che hanno come meta le case di cura del Nord. «Nessuno — spiega l’assessore
— è mai andato a controllare se ciò che è scritto sia vero o meno. Da ora in poi verificheremo a campione cosa accade».
L’assessore ha preso carta e penna e ha scritto al presidente della Conferenza Stato-Regioni che non approverà il saldo di
riparto della mobilità passiva del 2017, se prima non si chiariranno questi aspetti. Non solo: ha annunciato agli assessori alla
Salute delle altre Regioni che presto riceveranno la visita degli ispettori siciliani. « Voglio capire se il meccanismo è fondato
sula libera scelta del paziente o se queste cliniche vengono a prelevare fisicamente il paziente. Mi hanno segnalato che in alcuni
casi vengono proposti pacchetti promozionali per il soggiorno dei familiari e transfert», dice Razza.
Funziona così: gli specialisti delle cliniche del Nord, una o due volte al mese, scendono in Sicilia per eseguire visite a
pagamento e reclutare pazienti. Tutto regolare, se con le dovute autorizzazioni. Ma a insospettire gli uffici di piazza Ziino sono
state richieste di rimborso da parte di pazienti per spese sanitarie fuori regione. Fra queste anche richieste di rimborso per visite
effettuate in alberghi di Roma o altre città italiane da un oncologo americano, Philip Salem, direttore della clinica privata
Oncology Centre a Houston, in Texas. L’assessorato ha chiesto al ministero alla Salute se il medico fosse autorizzato a visitare
in Italia. La risposta è stata negativa, e la Regione ha mandato le carte in Procura. Sul web è facile trovare agenzie di servizi
sanitari che propongono visite con l’oncologo texano al costo di 500 euro.
Al di là dei singoli casi, i viaggi della speranza costano alla Regione oltre 200 milioni l’anno. Secondo gli ultimi dati del 2016,
un ricovero su dieci avviene fuori (in Lombardia la media è di uno su venti). Un siciliano su quattro fa altrove la chemioterapia,
uno su tre con problemi vertebrali si fa curare oltre lo Stretto e quasi uno su due con problemi all’orecchio va via. L’assessore
Razza ha chiesto in anteprima i dati relativi al 2017 per capire se questi strani esodi verso le case di cura del Nord sono
continuati. « Esiste un’intesa che dice che ciascuna regione ha diritto di andare a verificare i contenuti dei rapporti sulla
mobilità, anche azionando meccanismi ispettivi», argomenta Razza. « La Conferenza Stato- Regioni — continua — approva
una tabella, ma la Calabria ha scoperto che nelle ultime quattro tabelle erano stati caricati anche comuni della Puglia e della
Campania, con un danno di 40 milioni di euro l’anno » . Ora anche la Sicilia vuole vederci chiaro.
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Il Capitano volante
Gianluca Di Feo

Nei tour che lo tengono lontano dal ministero, Salvini usa spesso gli aerei della Polizia: bimotori chiamati “le Ferrari dei cieli”.
“Repubblica” ha ricostruito una ventina di questi decolli top secret, che sono leciti perché unisce sempre ai comizi un evento
ufficiale.
Ma tutto finisce a carico dello Stato
ROMA — Sembra avere il dono dell’ubiquità: sagre, comizi o eventi ufficiali, lui appare nello stesso giorno in posti
lontanissimi. Rapido e invisibile, attraversa la Penisola come un lampo per totalizzare il record di 211 manifestazioni elettorali
in quattro mesi, lasciando deserto l’ufficio del Viminale. Un vero mistero. Perché Matteo Salvini non usa quasi mai gli aerei di
Stato, sottoposti al rigido protocollo di Palazzo Chigi e resi pubblici sul web. E allora come fa?
La chiave del segreto del Capitano Volante è nel giubbotto da pilota che indossa pure in Parlamento: sul petto c’è la sagoma di
un bimotore della Polizia. Si tratta di uno splendido Piaggio P-180, chiamato “la Ferrari dei cieli”, con arredi di lusso e sette
poltrone in pelle. La Polizia possiede tre di questi turboelica vip, che toccano i 750 chilometri orari e atterrano su piste minori,
grazie ai quali il ministro può arrivare ovunque. Per bruciare le tappe, poi, ci sono gli elicotteri, sempre della Polizia.
Prendiamo lo scorso venerdì. Alle 6.55 il P-180 matricola PS-16 decolla da Ciampino ed in 49 minuti arriva a Reggio Calabria.
Poi un Agusta lo trasporta a Platì per una cerimonia antimafia. Quindi riparte con l’aereo alle 12.12 per Lamezia Terme e da lì
in elicottero fino a Catanzaro, dove c’è un comizio elettorale. Alle 16.34 si vola a Napoli, per un incontro-show in prefettura
sull’arresto dei camorristi che hanno ferito la piccola Noemi. E due ore dopo l’ultimo viaggio, fino a Linate, perché l’indomani
lo aspetta l’adunata degli alpini. Il velivolo della Polizia si alza da Capodichino alle 19.22: venti minuti dopo c’è un jet Alitalia
per la stessa destinazione, che sarebbe costato molto meno. Ma formalmente questa missione su e giù per l’Italia è lecita,
perché viene ancorata a un impegno istituzionale – la cerimonia antimafia di Platì – incastonato in una processione di eventi
propagandistici. Così lo Stato si fa carico sia degli spostamenti del leader di partito che di quelli del ministro, ruoli sempre più
confusi e sempre più opachi.
Capire quante volte Salvini abbia impiegato la squadriglia del Viminale è quasi impossibile. Repubblica ha individuato una
ventina di trasferimenti alati grazie a Flightradar24, il sito che monitora il traffico aereo civile e soltanto in parte quello dei
velivoli statali. Qualche esempio? Il 25 aprile un Piaggio ha portato il ministro da Ciampino a Palermo, con spostamento in
elicottero a Corleone per la sua contro-festa della Liberazione. Poi il Capitano ha proseguito il giro con due giorni di comizi in
vista del voto siciliano. O il misto di commemorazioni, summit e ondate di selfie del 18 gennaio, con tre decolli per andare a
Rigopiano, quindi nel Napoletano e infine rientrare nella Capitale. D’altronde l’anno era cominciato il 4 gennaio con un celere
Milano-Pescara, abbinando un rapido vertice sulla sicurezza all’apertura della campagna elettorale abruzzese. Ogni tanto però
anche gli esperti piloti della Polizia sono in difficoltà. Il 18 dicembre lo scalo di Parma viene chiuso per nebbia: il bimotore gira
invano sulla città, poi fa rotta su Bologna obbligando Salvini a modificare il programma. Il 27 dicembre un altro tour de force:
l’aereo parte da Roma e va a prenderlo a Milano, quindi Rimini, per raggiungere la prefettura di Pesaro con bagno di folla in

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piazza. Poi da Rimini a Catania: conferenza sul terremoto nei paesi dell’Etna e passeggiata nel centro. Un selfie con l’arancino
e si torna a Roma.
Da buon milanese, Salvini detesta i ritardi. Sabato 15 settembre le cronache segnalano un problema del bimotore subito prima
del decollo. Viene mobilitato un Agusta Aw-139 che lo sostituisce fino a Fano, nelle Marche, dove c’è la festa regionale della
Lega. Una volta risolto il guasto, però, il P-180 va comunque ad Ancona. Come mai? La mattina dopo accompagna il ministro
a Linate: nel pomeriggio è atteso da Barbara D’Urso a
Domenica Live e poi cena ad Arcore con Silvio Berlusconi.
La frenesia alata del vicepremier è inarrestabile e si impossessa pure dei velivoli dei Vigili del fuoco. Il 15 ottobre, reduce da
sei comizi altoatesini e una convention a Monza, è dovuto correre a Palazzo Chigi. E si è fatto dare un altro aereo – sempre un
P-180 – dai Vigili, che dipendono dal suo dicastero. Sì, tutte le forze dell’ordine – persino la Forestale – possiedono le “Ferrari
dei cieli”: ne sono state acquistate una trentina per sostenere l’industria ligure, senza che si sapesse bene cosa farne. Nello
spreco volante della stagione berlusconiana erano destinati alle comode trasferte dei politici. Poi dai tempi di Mario Monti la
sobrietà ha sbarrato le porte degli hangar. Con la sola eccezione di Salvini.
Difficile stabilire il costo per i contribuenti delle sue trasvolate. Sul mercato privato il P-180 viene noleggiato per 4-5mila euro
l’ora ma nel caso della flotta statale la spesa è circa la metà: il conto per i viaggi di venerdì scorso sarebbe quindi di circa 10
mila euro. Bisogna precisare che Salvini, per soddisfare la sua maratona continua, usa anche jet di linea e treni. Rispetto agli
altri ministri, però, è l’unico ad avere una squadriglia praticamente ai suoi ordini. Può sfruttarla forzando le regole e
agganciando litanie di eventi di partito a un singolo appuntamento istituzionale. E non risponderne, perché non esiste maniera
di sapere quanti mezzi della Polizia siano al suo servizio. Una condizione, anche questa, che assomiglia molto a un abuso di
potere.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
SALVATORE LAPORTA/KONTROLAB /LIGHTROCKET/GETTY IMAGES Il giubbotto
Matteo Salvini con il giubbotto dei piloti della Polizia: sul petto il simbolo dell’aereo che usa nei suoi spostamenti
Uno dei tre Piaggio P-180 della Polizia: aereo usato spesso da Salvini nelle trasferte italiane. Un biturbina che tocca i 750
chilometri orari e può atterrare su piste minori: a bordo sette poltroncine e interni in pelle

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Minniti: “Per governare non basta una
telefonata”
Fabio Tonacci

ROMA — Marco Minniti arrivava al Viminale ogni giorno alle 8.30.
Salutava il segretario, leggeva il mattinale con i fatti accaduti nella notte, e poi cominciava la sua giornata di «molestatore
seriale». La definizione è sua. «Sulla scrivania avevo un telefono digitale, mi bastava un clic sul monitor per telefonare ai capi
dipartimento, al capo della polizia, ai vertici dei servizi segreti. Li chiamavo in ogni momento, più volte... sì, ero un molestatore
seriale.
Ma un ministro dell’Interno deve fare così, altrimenti non riesce a realizzare scelte strategiche per la sicurezza pubblica. Non
serve a niente farsi raccontare al telefono ciò che succede in Italia, se poi ti disinteressi e non sai incidere».
Basterebbe questo per posizionare Minniti nell’emisfero opposto a quello di Matteo Salvini, il quale sta dimostrando di avere
una concezione tutta sua dell’incarico. Riassumibile in un paio di numeri riportati ieri su questo giornale: nei primi cinque mesi
del 2019 Salvini è stato al Viminale 17 giorni effettivi, mattina e pomeriggio, ma ha partecipato a 211 eventi pubblici in giro
per l’Italia.
Comizi elettorali, feste della Lega, appuntamenti di partito.
Salvini sostiene di poter assolvere il suo mandato anche senza stare al Viminale, delegando il suo capo di gabinetto.
«Il capo di gabinetto è un prefetto, quindi un pari grado dei cinque capi dipartimento in cui è articolato il dicastero. Serve
l’autorità politica per assumersi la responsabilità delle decisioni. Il ministro dell’Interno lavora bene quando non fa notizia. E
non è un caso che la Democrazia Cristiana, nella sua lunghissima stagione di governo, evitasse di scegliere, per quest’incarico,
i propri capicorrente o i leader di altri partiti»
Cosa si rischia, se il ministro è troppo assente?
«Che ogni dipartimento si comporti come una realtà a sé, senza un indirizzo e una strategia comune. La presenza del ministro al
Viminale è cruciale, poi, nelle emergenze di ordine pubblico, ad esempio durante manifestazioni ad alto rischio. Io rimanevo
per ore a fissare i monitor nella sala operativa, per controllare ciò che stava accadendo. In tempo reale interloquivo con il Capo
della polizia. Solo in questo modo si riesce a graduare la risposta delle forze impegnate sul terreno, garantendo la libertà di
espressione e prevenendo ogni forma di violenza».
Salvini pare più interessato ad aumentare il consenso personale.
«La campagna elettorale permanente in cui questo governo ha gettato il Paese rischia di produrre pericolose tensioni nel
sistema democratico. Il ministero dell’Interno è terzo per antonomasia, deve garantire i diritti di tutti, anche di chi non l’ha
votato o non la pensa come lui. Il suo compito non è fare comizi, ma assicurare che altri possano farli».
Sarà capitato anche a lei di farli, durante il suo mandato. O no?
«Nei miei 16 mesi al Viminale mai ho fatto comizi in piazza, solo iniziative al chiuso. C’è una bella differenza».
E sarebbe?
«Il comizio è la massima espressione di un punto di vista unilaterale.
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Sollecita dichiarazioni a effetto. Una parola sbagliata detta su un palco da un leader politico che è anche ministro dell’Interno,
dunque depositario di poteri straordinari e terminale di informazioni riservate, può apparire come una minaccia».
Il ministro Salvini per spostarsi utilizza gli aerei e gli elicotteri della Polizia anche quando la trasferta non è solo di tipo
istituzionale.
«Beh, evidentemente vedendolo in divisa l’hanno scambiato per uno di loro...».
Anche lei, però, li usava.
«Le volte si contano sulle dita di due mani. Mi sono sforzato di usare quei velivoli solo per finalità strettamente istituzionali,
che si concludevano in arco ristretto di tempo».
Durante alcuni eventi pubblici di Salvini, la polizia ha fatto rimuovere striscioni di contestazione. È normale?
«L’unica cosa che non si può e non si deve fare è mettere ‘magliette’ alle forze di polizia. Sono un patrimonio dell’Italia».
Quando finivano le sue giornate di lavoro?
«Vorrei dire alle 20.30, l’orario in cui di solito uscivo dal Viminale . Ma il telefono non smette di squillare, e i fatti continuano
ad accadere. In realtà, la giornata di un ministro dell’Interno non finisce mai».
Quando ero io all’Interno avevo rapporti costanti con i capi dipartimento, della polizia e dei servizi: ero un molestatore seriale
fg
Il politico Marco Minniti, 62 anni. Ministro dell’Interno dal 2016 al 2018

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POLITICA                                                                                                            15/5/2019

Il piano del governo per spartirsi i vertici
dei servizi segreti
Lega e M5S vogliono mettere le mani su sei poltrone chiave Tra i pretendenti Mancini, l’uomo degli
ultimi scandali Sismi

Carlo Bonini

Come fosse una Rai qualsiasi e non il tabernacolo della sicurezza nazionale, Palazzo Chigi piomba, annunciandone
l’occupazione, sull’assetto di vertice dell’intero sistema della nostra Intelligence — Dipartimento delle Informazioni per la
Sicurezza (Dis), Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna (Aise) e Agenzia Informazioni Sicurezza Interna (Aisi) — intimando
con un atto che non ha precedenti nella storia repubblicana che quattro vicedirettori (due al Dis, uno all’Aise, uno all’Aisi)
rassegnino “volontariamente” le proprie dimissioni. Di fatto, un azzeramento completo, esclusi i direttori (due dei quali già
nominati da questo Governo), dell’intero quadro di vertice dei nostri Servizi. Necessario a portare a sei le poltrone “libere” (le 4
dei “dimissionati” oltre a quella tuttora vacante all’Aise dopo la nomina di Luciano Carta al vertice dell’Agenzia, e a quella di
Vincenzo Delle Femmine, vicedirettore dell’Aisi in pensione da giugno) da dividersi tra gli azionisti di Governo in ragione
delle rispettive quote di maggioranza e da consegnare ad altrettanti “uomini nuovi” che abbiano fatto voto di osservanza
“giallo-verde”. Tra i quali — lo vedremo — una vecchia conoscenza. Marco Mancini, già arrestato e indagato dalla Procura di
Milano perché protagonista di alcuni dei momenti chiave della stagione più opaca della storia recente dei Servizi, quella del
Sismi di Nicolò Pollari. Quella della “doppia obbedienza” (alla Politica, prima che alla Costituzione), del rapimento ed
extraordinary rendition di Abu Omar, del sequestro Sgrena e della morte di Nicola Calipari, dell’affaire Telecom e dei dossier
illegali su magistrati, giornalisti, uomini politici cucinati da una “struttura” che, era il 2006, operava in un appartamento coperto
in via Nazionale 230, a Roma.
Raccontano fonti parlamentari e confermano qualificate fonti vicine al Governo che l’idea della “purga”, o dell’“all-in” se si
preferisce, si sia manifestata nella seconda metà di aprile, quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte la comunica per
vie brevi ai due direttori di Aisi, Mario Parente, e Aise, Luciano Carta, e al compiacente neodirettore del Dis, Gennaro
Vecchione, un generale della Finanza legato a Conte da amicizie familiari (le rispettive mogli) e da lui paracadutato al vertice
dei Servizi ancorché completamente digiuno di qualsiasi cultura di intelligence. Il Premier Conte spiega ai tre direttori di Aisi,
Aise e Dis che il “vincolo della fiducia” del Governo deve far premio su qualsiasi altra considerazione. Che questo vale non
solo per loro, i direttori, ma anche per i vicedirettori, non fosse altro perché questo consentirà a Lega e 5 Stelle di tenere un
piede negli apparati anche quando e se la stagione politica dovesse cambiare. Che, insomma, in una logica di spoils system
selvaggio, l’Intelligence non faccia eccezione. Chi non è di nuova osservanza politica deve fare le valigie. E volontariamente.
Perché il Governo — formalmente — non ha alcun appunto da sollevare a chi intende rimuovere che non sia quello della
fedeltà politica, che però non può evidentemente esplicitare.
Nella lista dei non più graditi ci sono dunque i due vicedirettori del Dis nominati dal governo Gentiloni nel dicembre 2017. Due
fior di professionisti che rispondono al nome di Carmine Masiello, generale dell’esercito con un passato di comando in teatri
internazionali (Kurdistan, Somalia, Bosnia, Libano, Afghanistan) e Roberto Baldoni, docente di ingegneria informatica e
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responsabile della Cyber security del Paese. E, con loro, il vicedirettore di Aisi, Valerio Blengini, una vita trascorsa nel Servizio
interno, e il vicedirettore dell’Aise Giuseppe Caputo, uomo entrato nell’Agenzia nel 1998 (quando ancora si chiamava Sismi) e
che, con la direzione di Alberto Manenti, era stato il capo di gabinetto incaricato di ripulirla dalle tossine e i veleni in cui era
stata lasciata da Nicolò Pollari.
L’ukase di Conte non è tuttavia farina del suo sacco. I due uomini che, da mesi, lavorano alla presa del Palazzo dell’Intelligence
sono il ministro dell’Interno Matteo Salvini e il Cinque Stelle Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa. Un giovane
salernitano un po’ “intruppone”, questo Tofalo, che, nella passata legislatura, ha seduto nel Copasir (il Comitato di controllo sui
Servizi) inciampando in una disavventura giudiziaria che gli sarebbe potuta costare la ghirba (si infila con una improbabile
coppia napoletana in un’opaca serie di incontri in Medio Oriente pensando di fare lo 007 e invece facendo da foglia di fico a
due trafficanti di armi), ma che, nel momento del bisogno, è stato abilmente raccolto e coltivato da Marco Mancini. L’uomo
nero dell’ex Sismi, mai rassegnato a una carriera di seconda fila nel Dis (dove oggi si occupa di forniture), si accredita,
attraverso Tofalo (i due vengono visti più di una volta a cena insieme nella zona di Corso Vittorio Emanuele) con i 5 Stelle e,
quando l’Italia si fa giallo-verde, si offre anche a Matteo Salvini, il padrone della nuova maggioranza in cerca di nuove
“fedeltà” all’interno degli apparati.
Marco Mancini vuole per sé una vicedirezione nei Servizi (l’Aise in primis) ma, soprattutto, sussurrando all’orecchio di Tofalo
e Salvini, diventa il consigliori di questo nuovo Grande Gioco. Che è appena cominciato, di cui è tutt’altro che scritto l’esito,
ma che offre un ennesimo lacerto della posta in gioco nella battaglia per il Potere e di quello che ne è uno dei gangli decisivi.
La nostra Intelligence e la merce che tratta: le notizie riservate, il motore dei rapporti di forza, l’ossessione del Palazzo della
Politica.
Per la prima volta si cerca di “dimissionare” i vicedirettori dell’intelligence che non sono allineati con Palazzo Chigi
Caso Sgrena L’allora dirigente del Sismi Marco Mancini(a destra) nel marzo 2005 al rientro in Italia con Giuliana Sgrena, dopo
la liberazione della giornalista in Iraq

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POLITICA                                                                                                            15/5/2019

Sale lo spread, lite nel governo Giorgetti:
“Così non si va avanti”
Salvini sfida l’Europa: “Si può sforare il 3%”. Il differenziale tra Bund e Btp schizza in alto per poi
chiudere a 280. Di Maio: sparate irresponsabili. E il sottosegretario leghista non esclude il voto

Roberto Rho

MILANO — Sarà che in campagna elettorale è più conveniente distinguersi, sarà per la crescente litigiosità tra i due
vicepremier, sarà per la nuova, temeraria aspirazione al moderatismo del leader dei Cinque Stelle, fatto sta che Matteo Salvini e
Luigi Di Maio riescono a litigare anche sullo spread. Vale a dire su ciò che fin qui avevano considerato come una bizzarra
fissazione da economisti ostinati. E il livello della tensione tra i due alleati di governo sale al punto che il prudente Giancarlo
Giorgetti, sottosegretario leghista a Palazzo Chigi, ammette di essere «esausto» per questa guerra quotidiana a colpi di tweet e
dichiarazioni a mezzo stampa tra i due leader e per la prima volta evoca pubblicamente il rischio della rottura: «Se la litigiosità
resta a questi livelli anche oltre il 26 maggio non si può andare avanti».E non esclude neanche elezioni a settembre: «Non ho
mai paura quando il popolo si esprime».
I fatti: all’ora di pranzo le agenzie di stampa battono le parole di Salvini da Verona, all’inaugurazione della nuova sede di Cdp:
«Se serve infrangere i limiti del 3% nel rapporto deficit-Pil o del 130-140% del debito pubblico, noi tiriamo dritti. Fino a che la
disoccupazione non sarà dimezzata, fino a che non arriveremo al 5% spenderemo tutto quello che dovremo spendere. E se
qualcuno a Bruxelles si lamenta ce ne faremo una ragione». Sembra di sentir parlare gli “economisti” della Lega Borghi e
Bagnai, e invece a enunciare l’indifferenza sprezzante rispetto ai vincoli imposti dall’Europa è il ministro dell’Interno Salvini,
l’uomo più influente dell’Esecutivo.
Meno di un’ora perché i mercati digeriscano l’enormità delle affermazioni di Salvini e lo spread, che a metà mattinata
viaggiava intorno a quota 275, s’impenna fino a 284, per poi assestarsi, a fine pomeriggio, a 280 punti, con un rendimento del
Btp decennale al 2,72%. Erano oltre tre mesi che il differenziale tra il bond italiano e quello tedesco non saliva a queste quote,
dopo la discesa dalle vette dei 325 punti raggiunti in autunno, nel pieno delle tensioni sulla legge di Stabilità. Con i riflessi un
po’ più lenti rispetto a quelli dei mercati finanziari, in serata arriva l’altro vicepremier Di Maio. E le sue parole danno corpo
all’ennesimo scontro frontale: «Prima di spararle sul rapporto debito-Pil mettiamoci a tagliare tutto quello che non è stato
tagliato in questi anni di spese inutili e di grande evasione – dice il capo dei 5S – Le imprese, il tessuto produttivo che permette
di creare lavoro, chiedono stabilità. Ed è irresponsabile far aumentare lo spread come sta accadendo in queste ore».
Sembra un’anticipazione di quello che accadrà all’inizio dell’estate, quando verosimilmente l’Europa chiederà conto all’Italia
degli sforamenti degli obiettivi dichiarati nella legge di bilancio e poi corretti nel Def primaverile. E ancor più in autunno,
quando il governo, se sarà ancora in piedi, dovrà affrontare il tema di dove reperire la quarantina di miliardi necessari per
scongiurare l’aumento dell’Iva e costruire il budget per il 2020. È evidente che con l o spread vicino a 300 i margini si
restringono. Ma i due «tardo adolescenti », come li chiama Matteo Renzi, litigano. «Se continuano così – commenta il
segretario del Pd Nicola Zingaretti – non avranno i soldi per pagare la scuola e la sanità».
Ellekappa
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CRONACA                                                                                                              15/5/2019

Divorzio, cambia tutto per perdere
l’assegno basterà una convivenza
Alla Camera primo sì alla legge: addio al criterio del tenore di vita Il giudice potrà prevedere che il
mantenimento sia a tempo determinato

Cristina Nadotti

Roma — Nessun voto contrario alla Camera per la proposta di legge sull’assegno di divorzio presentata dalla deputata Pd
Alessia Morani. Il nuovo testo licenziato da Montecitorio con 386 voti favorevoli e 19 astensioni, e che dovrà ora passare al
Senato, introduce due novità principali, perché l’assegno sarà slegato dal tenore di vita e potrà essere concesso anche soltanto
per un periodo di tempo determinato, novità che fa parlare di un “assegno a tempo”.
Le modifiche all’articolo 5 della legge in materia di divorzio 898/1970 prevedono che, nel valutare se concedere l’assegno
dovuto al coniuge in caso di divorzio, il giudice dovrà calcolarne l’ammontare non soltanto in base al reddito del richiedente.
Ai fini della concessione e della cifra conteranno infatti la situazione patrimoniale complessiva, la durata del matrimonio, l’età
e la salute del richiedente, il contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio di
ognuno o di quello comune. Conteranno inoltre il patrimonio e il reddito netto di entrambi, il fatto che uno dei coniugi abbia un
reddito ridotto anche in considerazione di studi interrotti o non fatti perché si è dedicato ai doveri coniugali o alla cura dei figli
comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti. L’assegno non sarà più dovuto in caso di nuovo
matrimonio, di convivenza o di unione civile e il giudice potrà predeterminarne la durata, valutando ad esempio una ridotta
capacità di sostentarsi dovuta a ragioni contingenti o superabili.
La proposta di legge Morani arriva dopo diversi pronunciamenti della Cassazione a proposito del calcolo dell’assegno di
divorzio sulla base del tenore di vita. Il caso più noto era stato quello dell’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, quando,
nel maggio del 2017, i giudici avevano respinto il ricorso dell’ex moglie del ministro, che reclamava l’assegno di
mantenimento. Altre sentenze della Cassazione avevano in seguito indicato sempre più chiaramente che la valutazione
dell’assegno non potesse prescindere da ciò che i coniugi avevano fatto, insieme, nel corso dell’unione, sia dal punto di vista
economico, sia nella cura della famiglia.
Alessandro Simeone, avvocato del comitato scientifico de “Il familiarista”, solleva dubbi che la proposta di legge migliori
quanto già indicato dalla Cassazione. «Il testo lascia grande discrezionalità ai giudici — osserva — che hanno ampio spazio di
manovra nel valutare i parametri. L’originaria proposta della deputata Morani è stata ampiamente rimaneggiata e non mi
stupirebbe se al Senato ci fossero ulteriori modifiche». Per il familiarista «la riforma proposta rischia di far venire meno quella
chiarezza che, invece, sarebbe necessaria tutte le volte che si interviene sulla famiglia. Nel 1987, proprio la legge sul divorzio
era stata modificata per limitare la discrezionalità del giudice e la Cassazione nelle ultime sentenze aveva dato elementi
chiarissimi. Oggi si rischia di tornare indietro, per cui, magari, la stessa situazione a Roma sarà trattata diversamente da come
lo p otrebbe essere a Milano».
Il caso di scuola Vittorio Grilli e l’ex moglie Lisa Caryl Lowenstein: si erano sposati nel 1993

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ECONOMIA                                                                                                               15/5/2019

Il dibattito sul Fisco

L’ultima versione: sgravi solo sugli aumenti in
busta paga
La Lega ora propone un prelievo del 5% al posto dell’Irpef esteso a scatti di anzianità, passaggi di
livello e Tfr

— r.p.

ROMA — «Ci pagano per dire dei "sì", no per dire dei "no"», si scalda Matteo Salvini concludendo il suo comizio a San
Bonifacio (Verona) e alludendo alla flat tax. Giura che non aumenterà l’Iva («Dovranno passare sul mio corpo») e che non ci
sarà un patrimoniale, promette che si impegnerà per portare al 100 per cento la detraibilità delle auto aziendali oggi al 40 per
cento (operazione che costerebbe tuttavia circa 1,5 miliardi in tre anni).
Il leader leghista rilancia, in piena campagna elettorale, il tema delle tasse a partire dalla discussa flat tax, la "tassa piatta" dove
tutti dovrebbero avere la stessa aliquota. L’ultima versione del progetto leghista è nota e ridimensiona i progetti precedenti più
radicali e costosi incentrati su una aliquota al 15 per cento per tutti i contribuenti. La nuova imposta sui redditi familiari, stando
alle dichiarazioni delle ultime settimane, dovrebbe essere in due stadi: il primo stadio, che partirebbe dal 2020, con aliquota del
15 per cento fino a 50 mila euro e poi riprendere con le vecchie cinque aliquote Irpef progressive più in alto. Un progetto
complesso e comunque costoso, circa 13-15 miliardi, che non piace negli ambienti internazionali, a cominciare dal Fmi, e che
naturalmente favorirebbe chi guadagna di più sebbene sotto i 50 mila euro.
Così mentre Salvini rilancia, fonti della Lega ieri sera hanno fatto trapelare un nuovo progetto di flat tax meno costoso, ma non
meno problematico. L’idea è quella di introdurre una tassazione sostitutiva dell’Irpef, cioè una flat tax, del 5 per cento sugli
aumenti salariali, sugli scatti di anzianità e sui passaggi di livello e qualifica. Sostanzialmente ogni aumento in busta paga,
invece di essere sottoposto alle normali cinque aliquote Irpef (che vanno dal 23 al 43 per cento) subirebbe una mini imposta del
5 per cento. La nuova tassazione rivolta a tutti gli aumenti salariali, se dovesse diventare legge si affiancherebbe alla attuale e
già in vigore tassazione del 10 per cento, sostitutiva dell’Irpef, dei cosiddetti salari di produttività frutto di accordi aziendali.
Inoltre verrebbe abbattuta, nel progetto coltivato dalla Lega per il prossimo anno, anche la tassazione del Tfr, cioè la
liquidazione, che scenderebbe dall’attuale aliquota minima del 23 per cento al 5 per cento.
Il costo sarebbe più contenuto di quello previsto per una flat tax rivolta a tutti e sull’intero reddito, ma la sperequazione
resterebbe. «Sarebbe un regalo ai lavoratori dipendenti con redditi più alti che hanno incrementi salariali maggiori, ma anche ai
manager che potrebbero trovare conveniente trasformare i bonus azionari con tassazione più alta in semplici aumenti di
stipendio con tasse più basse», commenta Marco Leonardi, economista del Pd. È ovvio infatti che tassare al 5 per cento
aumenti di stipendio per le fasce basse di salario comporterebbe un beneficio assai contenuto mentre sarebbe più elevato per i
mega stipendi che verrebbero sottratti all’Irpef progressiva.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Al vertice dell’Agenzia Antonino Maggiore è direttore dell’Agenzia delle Entrate

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