Il decreto sicurezza-bis. Le misure del governo in materia di immigrazione - FOCUS - Senatori PD

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Il decreto sicurezza-bis. Le misure del governo in materia di immigrazione - FOCUS - Senatori PD
Ufficio Affari Giuridici

Il decreto sicurezza-bis.
Le misure del governo in
materia di immigrazione
FOCUS

30 luglio 2019
n. 20
Ufficio Affari Giuridici

a cura di Davide Antonio Ambroselli

_________________________________

Ufficio Affari Giuridici
Presidenza Gruppo Partito Democratico
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Piazza Sant'Eustachio, 00186 Roma

Capo Ufficio: Simona Genovese
Segreteria: 06.6706.5130
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   1. IL NUOVO DECRETO SICUREZZA. L'ITER PARLAMENTARE ..........................................................................2
   2. LA MANCANZA DEI PRESUPPOSTI DI NECESSITÀ E DI URGENZA...............................................................................3
   3. IL DIVIETO DI INGRESSO DELLE NAVI E I POTERI DEL MINISTRO DELL'INTERNO. LA NUOVA PROCEDURA DI "CHIUSURA
   DEI PORTI"......................................................................................................................................................4
   3.1. IL CASO SEA WATCH. IL GIP DI AGRIGENTO RIDUCE LA PORTATA APPLICATIVA DEL DIVIETO.....................................5
   4. LE ALTRE MISURE DEL DECRETO SICUREZZA-BIS. LA RESPONSABILITÀ DEL COMANDANTE.........................................10
   5. IL DECRETO SICUREZZA-I. LE MISURE GIÀ ADOTTATE DAL GOVERNO PER L'IMMIGRAZIONE.....................................11
   6. LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL DECRETO SICUREZZA-I...............................................................17
   ALLEGATO - IMMIGRAZIONE IRREGOLARE E DECRETI SICUREZZA. I PRIMI DATI..........................................................18

1. IL NUOVO DECRETO SICUREZZA. L'ITER PARLAMENTARE
          Il 15 giugno 2019 è entrato in vigore il decreto legge n. 53/2019, noto come “decreto Sicurezza-bis”
in ragione della sua ideale continuità con il decreto legge n. 113/2018 (conv. con modif. in legge n. 132/2018),
pure recante misure in materia di immigrazione e sicurezza pubblica, a sua volta noto come “decreto
Sicurezza”. Il testo è ora all’esame del Senato dopo essere stato approvato, con modificazioni, dalla Camera
il 25 luglio scorso.
          Il pacchetto di misure si inserisce in un più ampio corpo di norme, inaugurato con il primo decreto
Sicurezza, riguardanti le funzioni e i poteri del Ministro dell'Interno in materia di ordine pubblico e sicurezza,
lotta al terrorismo e alle mafie e contrasto all'immigrazione.
          Le novità introdotte dal decreto sicurezza-bis sono riconducibili a tre pilastri, corrispondenti ai capi
in cui è suddiviso il decreto:
          -      contrasto all’immigrazione illegale, ordine e sicurezza pubblica (capo I);
          -      potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza
                 (capo II);
          -      contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive (capo III).

Prima di procedere all’illustrazione dei rispettivi contenuti, si richiamano brevemente i presupposti - di fatto
e di diritto - individuati dal Governo a sostegno dell’intervento legislativo con decretazione d'urgenza.

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2. LA MANCANZA DEI PRESUPPOSTI DI NECESSITÀ E DI URGENZA
         In linea con quanto previsto dall’art. 15 della legge n. 400 del 1988, il preambolo del decreto illustra
i presupposti giustificativi dell’intervento normativo, esplicitando cioè le ragioni di straordinaria necessità e
urgenza che legittimano, ai sensi dell’art. 77 Cost., la deroga al principio del monopolio parlamentare della
funzione legislativa.
         Vengono anzitutto indicate ragioni attinenti alle politiche migratorie, con riferimento alle necessità
di "contrastare prassi elusive della normativa internazionale e delle disposizioni in materia di ordine e
sicurezza pubblica, attribuite dall’ordinamento vigente al Ministro dell’Interno”; “rafforzare il
coordinamento investigativo in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina”; “potenziare
l’efficacia delle disposizioni in materia di rimpatri”. In secondo luogo, si evidenzia la necessità di “interventi
per l’eliminazione dell’arretrato relativo all’esecuzione di provvedimenti di condanna penale divenuti
definitivi”. Ancora, si adducono ragioni attinenti al rafforzamento delle misure volte a garantire il “regolare
e pacifico svolgimento di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ”; ad assicurare I “livelli di
sicurezza necessari per lo svolgimento dell’Universiade di Napoli 2019”; a contrastare “fenomeni di
violenza in occasione di manifestazioni sportive”.
         A prescindere dal merito delle scelte politiche effettuate dal Governo, il provvedimento presenta
manifesti profili di criticità.
         Analogamente a quanto è stato osservato rispetto decreto n. 113/2018, anche l'intervento in esame
risulta ispirato da finalità tra loro eterogenee, tenute insieme soltanto da generici riferimenti all’ordine
pubblico ed alla sicurezza pubblica, che proprio per la loro intrinseca vaghezza non soddisfano i requisiti di
specificità ed omogeneità stabiliti dalla legge per la decretazione d’urgenza (art. 15, comma 3 della legge n.
400 del 1998). Sebbene tale previsione, possedendo lo stesso rango del decreto legge, non possa costituirne
parametro di legittimità in senso stretto, nondimeno la Corte Costituzionale ha posto in evidenza la sua
rilevanza nell’ambito del sindacato sui presupposti fattuali di straordinaria necessità ed urgenza ex art. 77
Cost.: la sussistenza di questi ultimi, infatti, deve essere verificata rispetto alla ratio unitaria del decreto legge,
ossia alla luce della sua proiezione finalistica a fronteggiare situazioni la cui ricorrenza soltanto giustifica
l’eccezionale potere governativo di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione del Parlamento
(sent. C. cost. n. 22/2012).
         Appare oggettivamente difficile sostenere che, rispetto alle menzionate generiche finalità di tutela
della sicurezza e dell’ordine pubblico, il Governo si trovasse nella necessità di adottare misure talmente
urgenti da risultare incompatibili con il normale svolgimento dell'iter legislativo parlamentare. Lo
confermano, anzitutto (e paradossalmente), le stesse parole pronunciate dal Ministro dell’Interno

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proponente, il quale, in sede di conferenza stampa immediatamente successiva al Consiglio dei Ministri che
ha approvato il decreto, ha evidenziato che, sulla base dei dati in possesso al Viminale, si registra attualmente
un’importante riduzione degli sbarchi di stranieri irregolari, delle richieste di asilo politico, e delle presenze
nei centri per l’immigrazione sul territorio. Lo confermano, inoltre, i dati dello stesso Ministero dell’Interno
sulla diminuzione dei reati che normalmente destano allarme sociale (quali furti, rapine e omicidi); dati che
allineano il nostro paese alle statistiche dei Paesi europei comunemente ritenuti sicuri (v. ALLEGATO).
           Il decreto in esame appare dunque adottato in un contesto nel quale non si ravvisano gli indici
fattuali di quel deficit di “sicurezza” e di “ordine pubblico” che il preambolo individua quale ratio
giustificatrice dell’intervento, e che soli potrebbero giustificare la posticipazione dell’intervento parlamentare
alla fase della conversione in legge. Senza contare il rischio – già concretizzatosi nel caso del decreto n.
113/2018 – che il ruolo del Parlamento, in tal caso specialmente del Senato, si riduca a un mero voto di fiducia,
con il risultato ultimo di azzerare completamente il dibattito politico attorno ad interventi normativi
destinati ad incidere profondamente sui diritti fondamentali.
           Alla luce di quanto osservato, in conclusione, appare prospettabile una questione di legittimità
costituzionale del decreto in esame per violazione dei requisiti di legittimità della decretazione d’urgenza
fissati dall’art. 77 Cost.; e ciò anche a prescindere dall’eventuale tempestiva conversione in legge, atteso
che su quest’ultima si trasferirebbe l’illegittimità del decreto, sub specie, di vizio in procedendo (sent. C. cost.
n. 171/2007).1

3. IL DIVIETO DI INGRESSO DELLE NAVI E I POTERI DEL MINISTRO DELL'INTERNO. LA
NUOVA PROCEDURA DI "CHIUSURA DEI PORTI"

           Il testo all'esame del Senato, dopo il passaggio con modifiche alla Camera, è stato da subito oggetto
di attenzione in seguito alle molteplici implicazioni collegate al caso Sea Watch (vedi infra), che ha visto un
duro scontro tra le posizioni del Ministro dell'interno e dalla magistratura in merito alla portata applicativa
di alcune disposizioni del decreto-sicurezza-bis, nell'ottica di un inquadramento della nuova normativa
coerente con l'impianto ordinamentale interno ed internazionale.
           Nello specifico, la nuova disciplina, tramite la modifica dell'art. 11 del decreto legislativo n. 286 del
1998 (TU immigrazione), prevede che il Ministro dell'Interno – con provvedimento da adottare di concerto

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    S. Zurulia, Decreto sicurezza-bis: Novità e profili critici, in Diritto penale contemporaneo.it

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con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, informato il Presidente del
Consiglio – possa limitare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale nei seguenti casi:

       per motivi di ordine e sicurezza pubblica;

Si ricorda che la nozione di “sicurezza” è richiamata più volte nella prima parte della Carta costituzionale
(art. 13, libertà personale, art. 16, libertà di circolazione, art. 17 libertà di riunione). A sua volta, nell’ambito
delle materie di competenza legislativa esclusiva statale, l’endiadi “ordine pubblico e sicurezza” è oggetto
dell’art. 117, secondo comma, lett. h) Cost. declinato dalla Corte costituzionale come “materia che attiene
alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quale «complesso dei beni giuridici
fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge la civile convivenza nella comunità
nazionale»” (ex multis sentenze n. 118 del 2013, n. 35 del 2011, n. 129 del 2009 e n. 108 del 2017). E’ inoltre
materia di competenza legislativa esclusiva statale la “sicurezza dello Stato” (art. 117, secondo comma, lett.
d) Cost.) ed è richiamata dagli articoli 120 e 126 della Costituzione in materia, rispettivamente, di potere
sostitutivo dello Stato e di scioglimento del Consiglio regionale e rimozione del Presidente della giunta.

       quando si concretizzino le condizioni relative alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti
        previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare di Montego Bay la quale
        considera come “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato” costiero il
        passaggio di una nave straniera se, nel mare territoriale, la nave è impegnata, tra le altre, in un’attività
        di carico o scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali,
        fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero.

        L’adozione del provvedimento previsto dalla disposizione in commento è consentito “nell’esercizio
 delle funzioni di coordinamento previste dall’articolo 11, comma 1-bis, del testo unico immigrazione e nel
 rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”.

        3.1. IL CASO SEA WATCH. IL GIP DI AGRIGENTO RIDUCE LA PORTATA APPLICATIVA DEL DIVIETO
        La Sea Watch 3 è stata la prima nave destinataria del provvedimento di divieto di ingresso, transito
e sosta nelle acque territoriali italiane, in conformità a quanto previsto dal decreto Sicurezza bis.
        Ciò nonostante, com’è noto, il capitano della nave ha violato tale interdizione, con la motivazione di
portare al sicuro le persone a bordo, in condizioni precarie ormai da molti giorni.

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          Sulla base dell'art. 1 del decreto Sicurezza-bis le navi che svolgono operazioni di salvataggio di
stranieri irregolari divengono automaticamente colpevoli del reato di traffico di migranti, di cui all’art. 12
del Testo unico sull’immigrazione: ciò in base all’assunto che il salvataggio sia in realtà una fase del
preventivato e intenzionale trasporto di tali persone per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale.
Secondo la nuova disciplina, che configura una sorta di presunzione di colpevolezza a carico delle navi che
raccolgono naufraghi, il loro passaggio in acque italiane diviene in via automatica “non inoffensivo”, ai sensi
dell’art. 19, comma 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o comunque tale
da mettere a rischio “ordine e sicurezza pubblica”: pertanto, in applicazione del decreto richiamato, esso può
essere vietato dal Ministro dell’Interno. Chi contravvenga al divieto rischia una sanzione amministrativa
(fino a 1 milione di euro) il sequestro (e la confisca) della nave in caso di reiterazione, oltre a un’eventuale
sanzione penale.

          Preliminarmente bisogna ribadire, che l'applicazione della nuova disciplina introdotta dal decreto
Sicurezza bis, quale fonte ordinaria dell'ordinamento, non può che essere subordinata al rispetto di quelli che
la Carta costituzionale chiama “obblighi internazionali dell’Italia”: tale espressione ricomprende tutti gli
obblighi assunti dall’Italia in virtù dell’adesione a trattati internazionali, inclusa l’appartenenza all’Unione
europea e, più in generale, la conformità alla normativa internazionale ed ai relativi princìpi generali (art. 10
Cost.).

          L'art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Montego Bay),
stabilisce che ogni Stato "ha il dovere di (a) prestare assistenza a qualsiasi persona trovata in mare che rischi
di perdersi; (b) procedere il più velocemente possibile al salvataggio delle persone in difficoltà, se informato
del loro bisogno di assistenza (…)". Analoghi obblighi sono precisati nella Convenzione internazionale per la
sicurezza della vita in mare (SOLAS) e nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare
(SAR). Quest’ultima, in particolare, con riguardo alle attività di ricerca e soccorso, afferma che “i soggetti
interessati devono assicurarsi che l'assistenza sia fornita a qualsiasi persona in difficoltà in mare, e ciò a
prescindere dalla nazionalità o dallo status di tale persona o dalle circostanze in cui la stessa si trova”; e che
le operazioni di soccorso e assistenza dei naufraghi si concludono solo con il loro sbarco in un porto sicuro.
Quanto esposto rende palese che la tutela della vita umana – richiamata anche all’art. 6 della Convenzione
internazionale sui diritti civili e politici - prevale su qualunque tipo di regolamentazione o di decisione politica
o amministrativa tesa a qualsivoglia obiettivo diverso. Come rilevato dall’ONU, ciò trova anche conferma nel
          Protocollo contro il traffico di migranti via terra, via mare e via aria (art. 19), nonché nelle clausole di
riserva del Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini
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(art. 14), entrambi a integrazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata
transnazionale: "Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e
responsabilità degli Stati e dei singoli soggetti ai sensi del diritto internazionale, compresi il diritto
internazionale umanitario e la legislazione internazionale sui diritti umani (…)".

        Pertanto, l’obbligo di soccorso in mare previsto da convenzioni internazionali, deriva da una fonte di
rango costituzionale (art. 117 Cost.) e non può essere abrogato, derogato o compresso da una legge
ordinaria.

        Ogni Stato costiero - ai sensi della Convenzione Unclos – deve predisporre un servizio adeguato ed
efficace di ricerca e soccorso, collaborando a questo fine con gli Stati adiacenti. Tale obbligo di collaborazione
è specificato in altri Trattati internazionali: la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare
(Solas) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar). Al riguardo, le zone di ricerca
e salvataggio (Sar) sono ripartite d’intesa tra gli Stati interessati; l’autorità di uno Stato costiero competente
sulla zona di intervento, che abbia avuto notizia di persone in pericolo di vita nella zona di mare Sar di propria
pertinenza, deve intervenire immediatamente ed è tenuta a fornire al più presto la disponibilità di un posto
di sicurezza per lo sbarco.
        Il luogo sicuro, place of safety, non è sempre il porto più vicino. Infatti, le operazioni di salvataggio
non si esauriscono con le prime cure mediche o con il soddisfacimento di altri bisogni immediati: un posto
sicuro deve pure garantire la sicurezza effettiva delle persone, in termini di protezione dei loro diritti
fondamentali, nel rispetto del principio di non respingimento. Allo scopo di completare gli obblighi in tema
di soccorso in mare, gli Stati membri dell’Organizzazione Marittima Internazionale (International Maritime
Organization, IMO) hanno adottato emendamenti alle citate Convenzioni, i quali – tra l’altro - impongono agli
Stati stessi di cooperare affinché i comandanti delle navi siano quanto prima sollevati dagli obblighi di
assistenza alle persone tratte in salvo (con una minima ulteriore deviazione rispetto alla rotta prevista) e
queste ultime vengano portate al sicuro.
        Fermo restando, infatti, l’obbligo di soccorrere i naufraghi e l’indicazione di un posto sicuro da parte
dell’autorità Sar competente nella porzione di mare ove viene effettuato il loro salvataggio, il problema si
pone nei casi - come quello della Sea Watch 3 - in cui l’autorità Sar sia quella libica e il porto da essa indicato,
quello di Tripoli, che non può ritenersi place of safety, poiché lì le persone potrebbero subire una violazione
dei loro diritti fondamentali.
        In questi casi, le disposizioni sopra richiamate prevedono un obbligo generalizzato per i Paesi
firmatari di cooperare con il comandante della nave per sollevarlo dall’assistenza delle persone a bordo.
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Ciò nonostante, potrebbe verificarsi che i Paesi interessati non siano disponibili allo sbarco e quindi che la
nave resti priva di indicazioni per l’approdo. Paradossalmente, essa potrebbe stazionare all’infinito in alto
mare. Ma, com’è ovvio, con persone in stato di fragilità a bordo, ciò è un assurdo.

        Pertanto, non potendosi osservare le indicazioni dell’autorità Sar competente per i motivi spiegati e
in assenza di criteri cogenti sull’individuazione di un preciso Stato obbligato a fornire un porto sicuro in casi
come questo, nonché in mancanza di quella cooperazione verso il comandante della nave cui i Paesi sarebbero
comunque tenuti, il comandante stesso – ove lasciato solo - resta l’unico attore a dover trovare il modo
affinché i naufraghi siano portati al riparo. Per svolgere questo compito, egli è titolare di una discrezionalità
ampia, che deve esercitare considerando la situazione in cui si trova e, quindi, ogni elemento che in concreto
può assumere rilevanza, come risulta – tra l’altro - dalle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in
mare (Ris. MSC.167-78 del 2004), secondo cui «Lo sbarco in un luogo sicuro dovrebbe tenere conto delle
circostanze particolari del caso».

        Nel caso Sea Watch, escluso l’approdo a Tripoli – unico porto indicatole dall’autorità Sar libica
competente, dove lo sbarco sarebbe stato non “sicuro”, e quindi non lecito – la comandante non avrebbe
potuto considerare sicuro neanche il porto di Tunisi: «La Tunisia pur essendo più sicura della Libia, non
garantisce alcuno status di protezione legale», non avendo adottato una legge sull’asilo. Anche l'ipotesi Malta
risultava svantaggiosa, sia per il gran numero di migranti già presenti, sia perché avrebbe comportato un
periodo di viaggio maggiore rispetto alle coste italiane. Malta, oltre a non aver sottoscritto i citati
emendamenti alle Convenzioni, ha una percentuale di immigrati molto più alta sia dell’Italia che di altri
rispetto alla popolazione totale, e anche per questo ha declinato in passato la richiesta di accogliere migranti.
Non restava quindi che il porto di Lampedusa, porto raggiungibile tenendo i naufraghi sulla nave il minor
tempo possibile.
Dunque – data l’esclusione di altri Paesi vicini, per le ragioni dette, e la necessità di portare in breve le persone
sulla terra ferma, come previsto dalle regole internazionali – la Comandante Rackete, in assenza della
collaborazione che le era dovuta e nell’esercizio della discrezionalità che le era demandata, ha reputato di
disporre lo sbarco dei migranti. E, pertanto, nel bilanciamento tra il rispetto del divieto del Ministro
dell’Interno – il quale a propria volta non rispettava il più volte richiamato obbligo di cooperazione teso a
sollevarla da responsabilità ulteriori rispetto all’immediato soccorso – e la necessità di portare i migranti in
un porto sicuro, la Comandante ha ritenuto che quest’ultimo fosse l’interesse prevalente, nel rispetto del
valore primario della vita dei naufraghi.

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        La correttezza di questa scelta è stata riconosciuta dal GIP di Agrigento, investito della causa
cautelare del procedimento penale nei confronti di Carola Rackete, comandante della motonave Sea Watch
3, indagata per i reati di resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.) e resistenza a
pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), in relazione alle condotte tenute nella notte del 29 giugno durante l’ingresso
nel porto di Lampedusa con a bordo i naufraghi tratti in salvo durante l’operazione di soccorso del 12 giugno
al largo delle coste libiche.

        La decisione del GIP di Agrigento (Trib. Agrigento, ord. 2 luglio 2019, giud. Vella) ha infatti
confermato che le norme del decreto Sicurezza bis, su cui il Ministro dell’Interno ha fondato la chiusura
delle acque alla Sea Watch 3, non sono applicabili alle azioni di salvataggio.
La scelta del Comandante della Sea Watch di attraccare a Lampedusa non è stata "strumentale, ma
obbligatoria", dato che i porti libici e tunisini non possono considerarsi sicuri; il reato di resistenza a pubblico
ufficiale è stato giustificato da una "scriminante" legata all'avere agito in "adempimento di un dovere", salvare
vite umane in mare.        Il GIP ha così escluso la rilevanza penale delle condotte dell’indagata ed ha
pertanto rigettato sia la richiesta di convalida del provvedimento di arresto eseguito dalla Guardia di Finanza
di Lampedusa, sia la richiesta del PM di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora in provincia
di Agrigento. Con riferimento al reato di cui all’art. 1100 cod. nav., l’ordinanza ha fatto propria l’opzione
ermeneutica della Corte Costituzionale (sent. Corte Cost. n. 35 del 2000), secondo la quale le unità navali
della GdF sono considerate “navi da guerra” soltanto «quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero
in porti esteri ove non vi sia un’autorità consolare»: circostanze queste non sussistenti nel caso di specie,
atteso che la nave della GdF stava operando in acque territoriali. Quanto al reato di cui all’art. 337 c.p., il GIP
ha ravvisato gli estremi della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso di naufraghi
(art. 51 c.p.), alla luce del quadro complessivo delle rilevanti fonti di diritto nazionale e internazionale
(dettagliatamente ricostruito nell’ordinanza: v. pp. 2-5), che - ha evidenziato il GIP - coprono non soltanto la
fase della presa a bordo dei naufraghi, ma anche quella successiva della loro conduzione fino ad un porto
sicuro. A quest'ultimo proposito, l'ordinanza ha precisato altresì che gli obblighi gravanti sul capitano non
possono venire meno né per effetto delle direttive ministeriali in materia di "porti chiusi", né in conseguenza
del divieto di ingresso adottato il 15 giugno nei confronti della Sea Watch 3 ai sensi del c.d. decreto
sicurezza-bis, trattandosi in entrambi i casi di atti destinati a retrocedere, secondo il criterio gerarchico,
a fronte al diverso dettato di cui alle fonti ordinarie e sovranazionali regolanti la materia2.

2
 https://www.linkiesta.it/it/article/2019/07/03/sea-watch-carola-rackete-innocente-salvini-colpevole-ecco-
perche/42746/
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4. LE ALTRE MISURE DEL DECRETO SICUREZZA-BIS. LA RESPONSABILITÀ DEL
COMANDANTE

         L’articolo 2 del decreto Sicurezza-bis, modificato nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati,
integra l’articolo 12 del testo unico immigrazione, introducendo una sanzione amministrativa pecuniaria per
la violazione, da parte del comandante di una nave, del divieto di ingresso, transito o sosta nel mare
territoriale disposto con provvedimento adottato ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge.

         La sanzione consiste nel pagamento di una somma da 150 mila a 1 milione di euro (l’importo della
sanzione è stato oggetto di modifica nel corso dell’esame presso la Camera: nel testo originario del decreto
la sanzione era da 10 mila a 50 mila euro) e si applica la sanzione accessoria della confisca dell’imbarcazione.
Sono fatte salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato. E' quindi applicabile l’art. 650 del codice
penale (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità) che prevede l’arresto fino a 3 mesi o l’ammenda fino
a 206 euro per chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragioni, ad
esempio, di sicurezza pubblica o ordine pubblico, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato3. La
sanzione amministrativa è nei confronti del responsabile dell’illecito, che è il comandante della nave, mentre
armatore -e proprietario del mezzo, come previsto dall’art. 6 della legge n. 689 del 1981, dovranno
procedere al pagamento solo se non vi provvede il comandante (potendosi poi rivalere nei confronti
dell’autore della violazione).

         Le somme derivanti dall’applicazione delle sanzioni amministrative nonché quelle derivanti dalla
vendita delle navi o di parti di esse, confluiscano in un apposito fondo da istituire nello stato di previsione del
Ministero dell’Interno per essere utilizzate, su richiesta delle amministrazioni interessate, quale concorso agli
oneri di custodia e gestione delle navi assegnate o delle spese di distruzione.

3
  Sul punto le Corti di Cassazione ed Europea dei diritti convergono sulla convinzione che la sanzione amministrativa,
quando sia particolarmente afflittiva, come nel caso di specie, assuma una natura sostanzialmente penale (cfr. da
ultimo, Cass., Sez. V, sentenza 16 luglio 2018, n. 45829). Se tali conclusioni sono corrette – ossia se le sanzioni previste
dall’art. 2 del decreto (RECTIUS, dal nuovo comma 6-bis dell’art. 12 T.U. imm.) hanno natura penale al pari di quelle
previste dall’art. 12 commi 1, 3-BIS e 3-TER – ne deriva che, a fronte del medesimo fatto storico (l’ingresso, il transito o
la permanenza nelle acque territoriali, considerato non inoffensivo in ragione della presenza di stranieri irregolari), non
appena il procedimento per l’applicazione di una di tali sanzioni sarà divenuto definitivo, l’inizio o la prosecuzione
dell’altro saranno incompatibili con il divieto di bis in idem.

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5. IL DECRETO SICUREZZA-I. LE MISURE GIÀ ADOTTATE DAL GOVERNO PER
L'IMMIGRAZIONE
    Il decreto-legge n. 113/2018 (conv. con modif. in legge n. 132/2018) si articola in tre Titoli (cui si aggiunge
un quarto, recante disposizioni finanziarie e finali) in materia rispettivamente di:
         immigrazione;
         sicurezza pubblica;
         organizzazione dell'amministrazione civile del Ministero dell'interno e dell'Agenzia nazionale per i
          beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata.

          L'articolo 1 prevede l'abrogazione dell'istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari,
previsto dal Testo unico in materia di immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998, articolo 5, comma
6). La corrispettiva tutela sostanziale si prevede permanga per alcune fattispecie di permessi di soggiorno
"speciali". A questi fini, nell'abrogare l'istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la nuova
disciplina ha riordinato le fattispecie eccezionali di temporanea tutela dello straniero per esigenze di
carattere umanitario, enumerandole e tipizzandole, e infine disposto in materia di controversie relative al
rilascio di tali permessi speciali.
          All'esito dell'intervento di riordino, i permessi speciali restano ammessi solo per alcuni particolari
motivi:
         per cure mediche;
         per motivi di protezione sociale ossia per le vittime di violenza o di grave sfruttamento con concreti
          pericoli per l'incolumità dello straniero (ai sensi dell'articolo 18 del Testo unico);
         per le vittime di violenza domestica - in presenza dunque di accertate situazioni di violenza o abuso
          e allorché emerga un concreto ed attuale pericolo per l'incolumità dello straniero, intendendosi per
          violenza domestica uno o più atti gravi ovvero non episodici di violenza fisica, sessuale, psicologica o
          economica, che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate,
          attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva,
          indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza
          con la vittima (ai sensi dell'articolo 18-bis del Testo unico);
         per situazioni di contingente ed eccezionale calamità, la quale non consenta allo straniero il rientro
          e la permanenza nel Paese di provenienza in condizioni di sicurezza (ai sensi del novello articolo 20-
          bis del Testo unico);

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       in casi di particolare sfruttamento del lavoratore straniero, il quale abbia presentato denuncia e
        cooperi nel procedimento penale instaurato contro il datore di lavoro (ai sensi dell'articolo 22,
        comma 12-quater del Testo unico);
       per atti di particolare valore civile (ai sensi del novello articolo 42- bis del Testo unico);
       per i casi di non accoglimento della domanda di protezione internazionale e al contempo di non
        sottoponibilità dello straniero ad espulsione e respingimento verso uno Stato in cui egli possa essere
        oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni
        politiche, di condizioni personali o sociali (ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro
        Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione) o ancora, verso un Stato per cui si abbiano
        fondati motivi di ritenere che egli rischi di esservi sottoposto a tortura (anche alla luce di violazioni
        sistematiche e gravi di diritti umani) (ai sensi del novellato articolo 32, comma 3 del decreto
        legislativo n. 25 del 2008).

        Viene quindi introdotta una nuova fattispecie di divieto di espulsione. Secondo il previgente articolo
19, comma 2 del Testo unico dell'immigrazione, l'espulsione non è consentita (salvo ricorrano motivi di ordine
pubblico o di sicurezza dello Stato) nei confronti degli stranieri: a) minorenni (salvo il diritto a seguire il
genitore o l'affidatario espulsi); b) in possesso della carta di soggiorno; c) conviventi con parenti entro il
secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana; d) donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi
alla nascita del figlio cui provvedono. A tali casi la novella aggiunge quello degli stranieri che versino in
condizioni di salute di "particolare" gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da
determinare un "rilevante" pregiudizio alla loro salute, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza.
        Le modifiche introdotte dal Senato in sede di conversione hanno attenuato la disposizione
originaria là dove essa faceva riferimento ad una "eccezionale" gravità delle condizioni di salute, tali da
determinare un "irreparabile" pregiudizio alla salute. Per questi malati gravi si prevede che il questore rilasci
un permesso di soggiorno per cure mediche.

        La disposizione del decreto-legislativo n. 25 che viene incisa (introdottavi dal decreto-legge n. 13 del
2017: suo articolo 6, comma 1, lettera g)) ha previsto che le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione
dei provvedimenti di revoca o cessazione della protezione internazionale siano decise dall'autorità
giudiziaria con il rito camerale, di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile (in luogo del
rito sommario di cognizione da parte del tribunale distrettuale in composizione monocratica, com'era fino
ad allora).

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Le caratteristiche essenziali del procedimento camerale di cui agli articoli 737 ss. del codice di procedura
civile possono essere così riassunte: il procedimento si attiva in genere con "ricorso" dell'interessato (art.
737 c.p.c.), si svolge in genere senza seguire forme rituali, non richiede espressamente la forma del
contraddittorio (l'art. 738, 3° comma, c.p.c. prevede solo l'eventualità che il giudice assuma informazioni) e
termina con l'adozione di un decreto (art. 737 c.p.c.) − anche immediatamente esecutivo (art. 741, 2°
comma, c.p.c.) − suscettibile in genere (ma con talune eccezioni) di revoca o modifica da parte dello stesso
giudice che lo ha emesso (art. 742 c.p.c.).

        Il decreto sicurezza-I ha inoltre prolungato da 90 a 180 giorni il periodo massimo di trattenimento
dello straniero all'interno dei Centri di permanenza per i rimpatri.
        Allo stesso tempo ha autorizzato il governo a ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione
del bando di gara (art. 63 del codice dei contratti pubblici) al fine di assicurare una tempestiva messa a punto
dei Centri medesimi. Le modifiche introdotte dal Senato hanno imposto la vigilanza dell'Autorità nazionale
anticorruzione nella procedura negoziata per lavori di costruzione, completamento, adeguamento ovvero
ristrutturazione dei Centri di permanenza per i rimpatri.

        I Centri di identificazione ed espulsione (Cie) hanno assunto la denominazione di Centri di
permanenza per i rimpatri (Cpr) per effetto della disposizione di cui all'art. 19, comma 1, del decreto-legge
n. 13 del 2017. In essi sono trasferiti gli stranieri che: si trovano in una posizione irregolare; all'esito delle
attività di screening sanitario, pre-identificazione, nonché delle attività investigative, decidono di non
presentare domanda di protezione internazionale; si rifiutano di essere foto-segnalati.

        Nei centri di permanenza per i rimpatri gli stranieri sono trattenuti, per il tempo strettamente
necessario, gli stranieri per i quali non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione a causa di ostacoli
quali la necessità di prestare soccorso dello straniero, di effettuare accertamenti sulla sua nazionalità e
identità, di acquisire i documenti per il viaggio e di reperire un idoneo vettore (art. 14, comma 1, del testo
unico sull'immigrazione). Si tratta del cd. "trattenimento pre-espulsivo".

Sul punto si ricorda come secondo la Corte Costituzionale, il trattenimento dello straniero presso i centri di
permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale e, come tale, non può
essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione (sentt. 105/2001 e 222/2004). Il

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provvedimento di trattenimento risulta, pertanto, legittimo solo in presenza dei casi indicati dalla legge e
subordinatamente al controllo da parte del giudice della convalida.

DOMANDA DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
        Il "decreto sicurezza I" prevede che possano essere trattenuti per un massimo di 30 giorni ai fini della
valutazione della domanda e dei documenti da esaminare. Precedentemente l'art. 6 del decreto legislativo
n. 142 del 2015 vietava di poter trattenere il richiedente al solo fine di esaminare la domanda. Superati i 30
giorni, qualora non sia stato possibile pervenire alla determinazione ovvero alla verifica dell’identità o della
cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale, per un periodo massimo di 180 giorni è
previsto che questo sia trasferito nei Centri di permanenza per i rimpatri di cui all’art. 14 del testo unico
sull'immigrazione, in conformità alle disposizioni relative alla proroga del trattenimento nei medesimi Centri
di cui al presente decreto. (articolo 14, comma 5). È prevista la sospensione della domanda nei casi in cui il
richiedente si allontani senza giustificato motivo dalle strutture di accoglienza ovvero si sottragga alla misura
del trattamento nei punti di crisi di cui all'art. 10-ter ovvero nei centri di permanenza per i rimpatri. Sulla base
di un emendamento approvato al Senato si è previsto che nei punti di crisi tra i luoghi in cui il garante
nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale possa condurre la verifica del
rispetto degli adempimenti connessi ai diritti dello straniero.

MODALITÀ DI ESPULSIONE
        Si prevede che nei casi in cui non sia possibile il trasferimento presso i centri di permanenza per i
rimpatri ubicati nel circondario del tribunale competente, nei casi di attesa dell'espulsione, lo straniero su
richiesta del questore il giudice possa autorizzare la permanenza temporanea in strutture diverse e idonne
nella disponibilità dell'autorità di pubblica sicurezza. Questo fino al procedimento di convalida. Con un
emendamento senato si è previsto che i locali suddetti debbono garantire condizioni di trattamento che
assicurino il rispetto della dignità della persona.

RESPINGIMENTO DELLO STRANIERO DISPOSTO DAL QUESTORE
        Tale provvedimento è comunicato entro 48 ore dal questore al giudice di pace per la convalida con
le garanzie processuali, compreso il gratuito patrocinio per la diesa dello straniero destinato del
provvedimento. Questo gli viene comunicato in lingua da lui conosciuta. Il divieto di reingresso opera da 3 a
5 anni, salvo autorizzazione del ministro dell'interno. In casi di reingresso, anche fuori dai casi di flagranza si
applica il rito direttissimo con pena da 1 a 5 anni.

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AMPLIAMENTO DEI REATI CHE COMPORTANO IL DIVIETO E LA REVOCA DELLA PROTEZIONE
        Le cause di diniego dello status di rifugiato (art. 12, D.Lgs. 251/2007) sono molteplici e, in parte
coincidono con le cause di esclusione dello status di beneficiario di protezione sussidiaria (art. 16, D.Lgs.
251/2007).

Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciute dopo l'istruttoria svolta dalle Commissioni
territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. All’esito dell’esame, la Commissione
competente può riconoscere lo status di rifugiato oppure negarlo e riconoscere all’interessato lo status di
protezione sussidiaria, ovvero escludere anche la protezione sussidiaria (v. anche il “procedimento
immediato” previsto dall’art. 10).
Nello specifico, il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per
motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si
trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole
avvalersi della protezione di tale Paese. Può trattarsi anche di un apolide che si trova fuori dal territorio nel
quale aveva precedentemente la dimora abituale e, per le stesse ragioni, non può o non vuole farvi ritorno.
È invece ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere
riconosciuto rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese
di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora
abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno.

In primo luogo, lo status di rifugiato è negato quando, a seguito della valutazione individuale:
       non vengono individuati i presupposti necessari per il suo riconoscimento, ossia gli atti di
        persecuzione gravi e personali compiuti nei suoi confronti, riconducibili a forme di discriminazione
        come definiti dalla convezione di Ginevra (motivi di razza, religione, nazionalità ecc.);
       esistono motivi di cessazione dello status di rifugiato (ad esempio se l’interessato si è ristabilito
        volontariamente nel Paese che ha lasciato a causa di persecuzione);
       lo straniero è escluso perché già fruisce della protezione o dell’assistenza di un’organizzazione o di
        un’istituzione delle Nazioni Unite che non sia l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, o
        perché ha commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o contro l'umanità, o che abbia
        commesso al di fuori del territorio italiano, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un
        reato grave.

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       sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero costituisca un pericolo per la sicurezza dello
        Stato.

        Infine, costituisce sia causa ostativa alla concessione dello status di rifugiato, sia causa di esclusione
dello status di protezione internazionale, la condanna con sentenza definitiva per i reati di grave allarme
sociale previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (tra cui associazione di
tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di droga e al contrabbando di tabacchi, terrorismo, strage,
omicidio, rapina aggravata).
        La disposizione in esame incide su quest’ultima ipotesi, individuando ulteriori reati quali causa di
diniego di concessione dello status di rifugiato (art. 12, D.Lgs. 251/2007) e di esclusione della protezione
sussidiaria (art. 16, D.Lgs. 251/2007). Le nuove cause ostative sono costituite dalle condanne per i seguenti
delitti previsti dal codice penale:

       resistenza a pubblico ufficiale (art. 336);
       lesioni personali gravi (art. 583);
       mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis);
       lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione
        di manifestazioni sportive (art. 583-quater);
       furto aggravato dal porto di armi o narcotici (artt. 624 e 625, primo comma, n. 3);
       furto in abitazione (artt. 624-bis)4.

        Si prevede quindi che con decreto del Ministro degli affari esteri, questo possa definire un elenco di
Paesi di origine sicuri, al fine di accelerare la procedura di esame delle domande di protezione internazionale
delle persone che provengono da uno di questi Paesi. Inoltre, vengono ampliate le cause di manifesta
infondatezza delle medesime domande, comprendendovi, tra le altre, anche la provenienza da un Paese di
origine sicuro, qualora il richiedente non dimostri la sussistenza dei gravi motivi per ritenere quel Paese come
"non sicuro", in relazione alla sua situazione particolare personale.

4
  Nella versione originale la disposizione prevedeva che, per costituire causa di esclusione, il furto dovesse essere
aggravato dal porto di armi o narcotici (art. 625, primo comma, n. 3) c.p.). Nel corso dell’esame da parte del Senato è
stato eliminato il riferimento all’aggravante.

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         Viene quindi rivisto il procedimento innanzi alla commissione territoriale per il riconoscimento della
protezione internazionale inserendo una procedura “accelerata” di esame in determinate ipotesi come i casi
in cui lo straniero sia già sottoposto a procedimento penale per uno dei reati riconosciuti di particolare gravità
dall'ordinamento, ovvero sia stato condannato anche con sentenza non definitiva di condanna, per i suddetti
reati.

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Allegato - IMMIGRAZIONE IRREGOLARE E DECRETI SICUREZZA. I PRIMI
DATI

        A nove mesi dall'entrata in vigore del primo decreto sicurezza, è possibile fare un primo bilancio degli
effetti concretamente prodotti dalle politiche di contrasto all'immigrazione imposte dal Ministro
dell'interno Salvini.
        Declinate in chiave esclusivamente securitaria in nome dell'allarme sociale nei confronti di una
supposta "invasione" di migranti dalle coste, le nuove norme del decreto sicurezza non solo non hanno
influito sul flusso degli sbarchi - già abbattuto dalle politiche del Ministro Minniti fino a livelli ben lontani
dall'emergenza - ma hanno semmai finito per aumentare la circolazione di stranieri irregolari sul territorio
nazionale, con effetto del tutto paradossale per un provvedimento che avrebbe dovuto aumentare la
sicurezza della popolazione.
        A confermarlo, sia pure indirettamente, sono gli stessi dati trimestrali diffusi dal Viminale.
        Sulla base dei dati raccolti al 31 marzo 2019 e raffrontati con lo stesso periodo 2018, il Ministero
dell'interno ha ufficialmente comunicato che le presenze di stranieri all'interno delle strutture di
accoglienza sono diminuite in un anno del 31,87%: dalle 170mila al giorno, rilevate al 13 maggio 2018, alle
115.894 conteggiate al 13 maggio 2019, con cali record in Sicilia (-42,6%) e in Lombardia (-33,5%). Quello che
il Viminale omette di dire è che i circa 55mila migranti che non si trovano più nei centri pubblici di
accoglienza non sono stati rimpatriati, né espulsi. Semplicemente sono stati rilasciati e messi in condizione
di circolare per le città senza alcun mezzo legale di sostentamento, in una condizione degradante e lesiva
della dignità umana, che non può che accrescere la loro propensione al crimine.

        In questo senso il decreto sicurezza, lungi dal concorrere all'ordine pubblico e alla sicurezza della
popolazione residente, anche grazie alla riduzione per 400 milioni di euro dei costi per l'accoglienza, ha
creato le condizioni per accrescere la percezione di insicurezza dei cittadini, con ciò alimentando
quell'allarme sociale invocato dal governo come unica giustificazione del suo intervento.
        In particolare, la soppressione della protezione umanitaria rischia di creare molti irregolari in più. Se
infatti non saranno rinnovati i permessi di soggiorno umanitari concessi nel 2016 e nel 2017, gli irregolari
potrebbero aumentare di oltre 30 mila unità, secondo una simulazione dell'ISPI.
        Infatti, quando un governo riduce il livello di protezione riservato ai richiedenti asilo, pur non essendo
capace di aumentare i rimpatri verso i paesi di origine, l'unico effetto che ci si può attendere è un aumento

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degli stranieri senza permesso di soggiorno presenti sul territorio. Ed è ciò che succederà in Italia nei
prossimi due anni, secondo le stime dell'ISPI.

            La tabella mostra come Il numero di stranieri irregolari in Italia sia andato diminuendo tra 2010 e
2013, ma l’aumento degli arrivi via mare e dei dinieghi di protezione internazionale ha invertito il trend tra il
2013 e oggi. L’ISPI stima che, al 1° gennaio 2018, gli stranieri irregolarmente presenti in Italia erano circa
530.000.
            Nel cd scenario base, il numero degli irregolari aumenterebbe ancora, raggiungendo la cifra di
600.000 entro fine 2020. Ma l’eliminazione della protezione umanitaria lo farebbe salire ulteriormente, fino
a 670.000 unità. Un aumento assoluto di stranieri irregolari che equivale a un +26% in soli due anni in termini
relativi.

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