16 GIUGNO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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UFFICIO STAMPA

16 GIUGNO 2018
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16 GIUGNO 2018
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA

                                LA SICILIA
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Le storie
L’odissea di chi cerca il lavoro

Il centralinista, l’operaio, il contabile “ In fila a
50 anni per una nuova vita”
CLAUDIO REALE

In fila, a chiedere un aiuto per tornare a lavorare, ci sono il cinquantenne che non ha mai scritto un curriculum in vita
sua, la madre preoccupata per il figlio, il centralinista distrutto dalla crisi dei call center. Ma anche il contabile rimasto
senza un posto dopo un paio di decenni in azienda o il tecnico di cantiere specializzato nella revisione dei progetti e
improvvisamente disoccupato, nella Sicilia disperata che nel primo trimestre del 2018 ha toccato il suo picco di persone
in cerca di un contratto: sono le storie raccolte dalle Agenzie per il lavoro, i soggetti privati ai quali al momento è
delegato il compito di far ritrovare un posto a chi l’ha perso o non l’ha mai avuto.
Perché in attesa della riforma dei Centri per l’impiego promessa dal governo giallo-verde, chi cerca un contratto deve
affidarsi a queste agenzie, che di fatto hanno raccolto il testimone dai vecchi Uffici di collocamento: in queste strutture
– a volte gestite dai sindacati, in altri casi da aziende come le agenzie di lavoro interinale, in altri ancora da ex centri di
formazione professionale riconvertiti dopo la crisi del sistema – i disoccupati vengono aiutati a compilare i curriculum e
le lettere di presentazione, fanno colloqui pedagogici per essere aiutati a individuare le competenze su cui puntare e
ricevono, di fatto, un’assistenza psicologica per superare la crisi.
Nella gran parte dei casi, infatti, le storie che arrivano nelle Agenzie per il lavoro sono vicende di disperazione.
L’Inas-Cisl, ad esempio, le raccoglie nel suo sportello palermitano di via Villa Heloise, una traversa di via Libertà:
«Spesso – racconta Giorgio Sanzone, che lo gestisce – arrivano cinquantenni o addirittura sessantenni disperati, anche
in lacrime, perché per loro, soprattutto se si ritrovano di punto in bianco senza lavoro, ottenere un altro contratto è
particolarmente difficile». Come uno degli ultimi casi raccolti da Sanzone, in realtà un genere molto frequente fra gli
ultracinquantenni improvvisamente disoccupati: «Non aveva mai scritto un curriculum né una lettera di presentazione,
non sapeva da dove cominciare».
Anche perché, in molti casi, chi si rivolge alle Agenzie per il lavoro non ha grandi qualifiche: «Ad esempio – dice
Andrea Gattuso, che gestisce lo sportello della Nidil-Cgil in via Meli, alla Vucciria, e i due centri distaccati aperti due
volte alla settimana in via Zappa, allo Zen, e in corso dei Mille, a Brancaccio – spesso capita che si presentino qui
persone appena uscite dal carcere. Si rivolgono allo Stato per avere qualcosa. Lo Stato, però, non può sempre aiutarli.
Noi proviamo intanto a fornire loro assistenza psicologica».
Non ci sono solo casi-limite, però. Alcune crisi hanno costretto dirigenti con profili più alti a cercare un lavoro a pochi
anni dalla pensione: «Succede nel commercio e nell’edilizia – prosegue Sanzone – ma soprattutto nel mondo della
telefonia. Sono specializzati, ma a volte non trovano nulla». A volte l’ostacolo è la disponibilità a spostarsi: «In questo
momento – spiega Roberta Caldarone, che lavora all’agenzia Barbara della fondazione Consulenti per il lavoro di via
Duca della Verdura – si cercano autisti di mezzi pubblici in Veneto. La difficoltà da superare è duplice: bisogna avere la
patente specifica e la disponibilità a trasferirsi. Spesso per chi ha una famiglia è complicato cambiare città».
C’è anche chi non sa di avere competenze da sfruttare: in una delle centinaia di agenzie, ad esempio, poche settimane
fa si è presentato un operaio edile di 45 anni che insisteva per proseguire nel suo campo. In realtà, per conto proprio,
aveva studiato arti marziali. Adesso lavora in un’azienda di sicurezza privata. Perché a volte il lavoro si può trovare. Ma
nella Sicilia che sprofonda nella sua crisi più nera la strada è lunga e spesso senza sponde.
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POLITICA                                                                                                         16/6/2018

Il retroscena

Partecipate e rifiuti Musumeci assediato dagli
alleati
claudio reale

Si dimette il cda di Riscossione. Il presidente ammette “Le spa non vanno” Scontro sui grillini
L’assedio arriva dall’interno. Ed esplode su rifiuti e partecipate. Nella maggioranza in stallo, incapace di far andare
avanti all’Ars il “collegato”, la legge che contiene le norme economiche stralciate dalla Finanziaria, la tensione arriva a
fior di pelle sulle nomine nelle aziende pubbliche e sull’emergenza immondizia: pochi minuti dopo la fine di una giunta in
cui il governatore Nello Musumeci prende atto dell’addio del cda di Riscossione Sicilia, che getta la spugna di fronte a
un contenzioso da centinaia di milioni di euro, il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè va all’attacco sull’ipotesi di
convergenza con i grillini sull’emergenza spazzatura per puntualizzare che «la maggioranza di Musumeci è di
centrodestra. Se l’intenzione del presidente fosse quella di aggiungere nuove forze alla coalizione, sarebbe necessario
che prima si confrontasse con la sua maggioranza ».
Il nodo più difficile da sciogliere, però, è quello delle partecipate. Alla vigilia delle elezioni politiche, quando si è esaurito
il tempo per lo spoils system, Musumeci ha nominato i nuovi vertici degli enti e delle aziende pubbliche con una
soluzione-tampone, scegliendo capi di gabinetto e segretari particolari della sua giunta e rinviando la vera decisione
all’indomani delle amministrative, cioè adesso: così, già a partire da giovedì sera, la questione è stata affrontata in una
serie di “incontri bilaterali” con gli assessori – ad esempio il titolare delle Infrastrutture Marco Falcone – e poi ieri
mattina è stata di fatto uno degli argomenti informali della giunta. « La vera discussione – assicurano due assessori –
comincerà la settimana prossima ».
Così, ieri, Musumeci ha iniziato a preparare il terreno. « In Sicilia – ha scritto su Facebook commentando le dimissioni
dell’ex generale Domenico Achille, dell’ex procuratore di Catania Michelangelo Patanè e della commercialista Graziella
Germano da Riscossione – sono numerose le società vigilate che sopravvivono in spregio alle più elementari regole di
buona amministrazione ». In giunta, e negli uffici, si fa l’elenco: dall’Ast in ritardo coi bilanci e con una mega-
scopertura in banca all’Airgest costantemente in perdita, dalla Società interporti in affanno alla sofferenza dell’Eas, fino
ad arrivare alle difficoltà di Sicilia digitale ( l’ex Sicilia e-Servizi) e Sas.
Il caso- rifiuti, così, diventa un pretesto per avviare lo scontro. Perché Musumeci in difficoltà, adesso, cerca sponde
nell’opposizione che governa a Roma: una mossa che se da un lato incontra l’ostilità del forzista Miccichè ( « Forza
Italia può aprire a tutte le forze politiche, tranne ai Cinquestelle » , dice senza giri di parole) provoca invece un’apertura
da Falcone, anch’egli forzista. «Il Movimento 5 Stelle – osserva l’assessore alle Infrastrutture – ha una responsabilità
di governo nazionale, è chiaro che chi governa a Roma deve farsi carico del problema quanto noi». Così, nel primo
pomeriggio, arriva anche una non chiusura dai grillini: «Se Musumeci davvero vuole una mano – ribatte il deputato
Cinquestelle Giampiero Trizzino – venga a dirlo nelle sede istituzionali, che sia l’Ars o la commissione Ambiente».
Prove tecniche di dialogo. Per una maggioranza che da sola non riesce più a uscire dal guado.
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Il governatore Nello Musumeci
POLITICA                                                                                                     16/6/2018

Il personaggio

Ultima tegola sull’assessore paperone la lite con
l’ex moglie finisce al Csm
Esposto della consorte di Armao contro la nuova compagna, magistrata e deputata di Fi. Una carriera tra maxi parcelle
e polemiche
Un altro guaio, per l’avvocato Gaetano Armao. Inseguito, sin da quando ha deciso di affiancare l’impegno politico alla
florida attività di avvocato, da scandali e scandaletti, veri o presunti. Sempre da prima pagina, però. E sempre con
questioni economiche sullo sfondo. Lui, d’altronde, è l’assessore all’Economia. Lo è oggi come lo era durante il
governo Lombardo. L’ultimo caso che riguarda Armao è finito sul tavolo del Csm. Per via di un esposto dell’ex moglie,
Carmela Transirico, che accusa la nuova compagna del vicepresidente della Regione, ovvero la magistrata e deputata
forzista Giusi Bartolozzi, « di aver aiutato l’uomo a blindare e mettere al sicuro soldi che dovrebbe dare alla sua
precedente famiglia » . Nel lungo documento c’è anche la vicenda, anticipata da Repubblica, del pignoramento
dell’indennità di Armao da parte proprio della compagna, allo scopo di rendere non aggredibili dall’ex consorte i
compensi da assessore: questo scrive Transirico. Al di là dei fatti personali, coperti da una privacy che giustamente le
parti in causa difendono ( in presenza anche di una figlia minorenne della coppia separata), c’è una evidente questione
di trasparenza e di etica pubblica che torna in ballo.
Questione che torna ciclicamente a volteggiare sull’amministrativista con la passione per l’abbigliamento e le scarpe
inglesi, gran frequentatore di salotti influenti e lobby finanziarie, già orgoglioso console in Sicilia del piccolo Stato del
Belize e soprattutto indomito cacciatore di consulenze e incarichi professionali ( nel 2006 il « Foglio » ne enumerò 27).
Nel 2009, quando approdò per la prima volta nel governo regionale, Armao fu accusato d’aver continuato a
patrocinare, direttamente o attraverso il suo studio, vecchie cause contro quella stessa Regione della cui giunta faceva
ora parte. O di avere un non secondario conflitto d’interessi, dovendo occuparsi di termovalorizzatori pur avendo
curato gli interessi della Falck, la società che in parte doveva realizzarli: « Ho un credito da due milioni con la Falck?
Non ricordo, devo chiedere alla ragioneria del mio studio » , disse.
La sua carriera all’ombra di Lombardo - contornata da mitiche iniziative come l’istituzione dei “commendatori e
Cavalieri di Sicilia” insigniti da Palazzo d’Orleans e non dal Quirinale - terminò nel 2012, con la fine di quell’esperienza
di governo. Armao ha continuato l’attività di avvocato, florida e apprezzata: oggi, nella lista dei politici più ricchi
dell’isola (relativa ai redditi del 2017) il vicario di Musumeci è al primo posto: 346 mila euro dichiarati. La folgorazione
da parte di Berlusconi l’avrebbe potuto portare anche sulla poltrona di governatore: si è dovuto “accontentare”, si fa
per dire, del ruolo di vice, con un posto nella lista di Forza Italia per le Politiche, però, per la compagna Giusi
Bartolozzi. E questa relazione è finita al centro dell’ultimo scandalo, quello del presunto patto fra l’assessore e la
parlamentare per “blindare” i beni di Armao e sottrarli così ai diritti dell’ex moglie. « Chi è impossibilitato a censurare la
mia azione politica ed amministrativa - si difende l’avvocato - punta solo a screditarmi come persona, pur essendo noto
a tutti che facendo politica ci straperdo, ma lo faccio credendo nei miei ideali. Regolarmente, ogni volta che mi
impegno per la mia terra, cercano di fermarmi » . Ma chi lo ferma, Armao: «Non ci riusciranno neanche stavolta.
Perché io lotto per la Sicilia ».
– e.la.
POLITICA                                                                                                      16/6/2018

Verso i ballottaggi

Pd-centrodestra, intesa a Messina
Nella città dello Stretto accordo vicino tra Navarra e Forza Italia di Genovese per
appoggiare Bramanti Ma il segretario regionale, Fausto Raciti, sconfessa il patto: “Sono
contrario, così screditiamo il partito”

emanuele lauria

L’accordo, fra i big messinesi del centrodestra e del centrosinistra, è praticamente cosa fatta. Malgrado la resistenza
dei vertici regionali del Pd, che stanno tentando in extremis di farlo saltare. A Messina la lista che fa capo all’ex rettore
Pietro Navarra, deputato nazionale dei dem, e quella di Sicilia Futura, il cui leader è l’ex capogruppo all’Ars Giuseppe
Picciolo, sono pronte ad apparentarsi con Dino Bramanti, il candidato della coalizione di Nello Musumeci alla Regione.
Un patto trasversale che viene motivato da ragioni prettamente tecniche. In questo modo, in caso di vittoria di
Bramanti, le due liste del centrosinistra guadagnerebbero complessivamente 4 consiglieri comunali, lo stesso bottino
che, senza apparentamenti, conquisterebbero con il successo dell’avversario Cateno De Luca. «Con un accordo solo
tecnico lasceremmo liberi i nostri elettori di scegliere uno dei due candidati al ballottaggio senza essere influenzati
dall’effetto che questa scelta avrebbe sul consiglio comunale», ragiona uno dei principali sponsor del patto in cantiere.
Ma è chiaro che un’intesa di questa portata ha un’eco che va oltre i confini della città. E sta già scatenando proteste e
polemiche.
Anche se il Pd formalmente resterebbe fuori dall’apparentamento, il patto metterebbe sullo stesso fronte Pietro
Navarra, l’uomo forte del partito democratico a Messina, e Francantonio Genovese, ex deputato e ras di Forza Italia
che con il figlio Luigi ( eletto all’Ars) hanno organizzato due liste a sostegno di Bramanti. Il riproporsi di un asse di cui
già si parlò in occasione delle scorse Politiche. Non solo: qualificate fonti messinesi parlano di un incontro, nei giorni
scorsi, fra Navarra e Nello Musumeci, che potrebbe preludere a nuove e impreviste convergenze anche alla Regione,
proprio nei giorni in cui il governatore è sotto tiro per il feeling coi M5S sui rifiuti e con la Lega sull’immigrazione.
Fausto Raciti, segretario regionale del Pd, non la manda a dire: «L’accordo non coinvolgerebbe il nostro simbolo
direttamente, ma comunque un nostro autorevole deputato. Io sono fermamente contrario. Anche perché – dice Raciti
– minerebbe la credibilità dell’operazione politica costruita con la candidatura di Antonio Saitta (l’avvocato sostenuto
dal centrosinistra al primo turno, ndr)». Ma il patto trasversale, malgrado la perplessità di altri esponenti del
centrosinistra messinese, va avanti: domani la scadenza per la presentazione degli eventuali apparentamenti.
Il Pd, ufficiale e non, resta fuori dalle intese negli altri due capoluoghi interessati dai ballottaggi del 24 giugno. A Ragusa
i dem e il centrodestra non si apparentano con Peppe Cassì, il candidato civico che al primo turno ha avuto l’appoggio
di Fdi e che sfiderà al ballottaggio il grillino Antonio Tringali. Ciò non esclude, ovviamente, una confluenza non formale
su uno dei due concorrenti. E a Siracusa non si compone la frattura nei dem: Francesco Italia, il candidato sostenuto
dall’ex sindaco Giancarlo Garozzo, continuerà a correre senza il supporto ufficiale dei dem che al primo turno hanno
puntato su Fabio Moschella, rimasto fuori dai giochi. Anche se Moschella non ha mancato di fare un endorsement per
Italia. In realtà, fuori da accordi scritti, a Siracusa il Pd si spacca ulteriormente: la lista che fa capo all’ex
sottosegretario Dc Gino Foti, che al primo turno aveva sostenuto Moschella, ha bocciato l’ipotesi-Italia, virando verso
Paolo Ezechia Reale, il candidato del centrodestra.
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CRONACA                                                                                                  16/6/2018

L’’inchiesta

Montante, la lista dei prestanome
Gli inquirenti stanno decifrando gli appunti che l’industriale aveva nascosto la notte
dell’arresto a Milano

SALVO PALAZZOLO

L’ultimo segreto di cui ha provato a sbarazzarsi in tutta fretta è una lista di nomi e società. La notte dell’arresto,
Antonello Montante, l’ex responsabile Legalità di Confindustria, ha avuto davvero un gran da fare mentre i poliziotti
della squadra mobile di Caltanissetta bussavano alla porta del suo appartamento milanese. Un gran da fare per
distruggere 24 pen drive — e sembra ci sia riuscito, perché fino ad oggi gli esperti nominati dalla procura non sono
riusciti a recuperare i file — ma anche per lanciare dalla finestra due sacchetti della spazzatura pieni di carte. Quel
prezioso archivio è rimasto per giorni fra due tubi dell’acqua, dentro a un pozzo luce: lo ha ritrovato la signora del
primo piano, qualche giorno fa mentre faceva alcuni lavori nel suo appartamento. E ha subito chiamato la squadra
mobile nissena, che ha inviato i colleghi di Milano a sequestrare i documenti.
I nomi segnati negli appunti che Montante voleva far sparire potrebbero essere i prestanome a cui magistrati e
investigatori danno la caccia da mesi. Quelli che avrebbero gestito i fondi neri dell’ex numero uno di Sicindustria,
magari per finanziare alcune campagne elettorali siciliane, questo ipotizzano il procuratore aggiunto Gabriele Paci, i
sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso. L’ex presidente della Regione Rosario Crocetta è indagato per
associazione a delinquere finalizzata alla corruzione.
I nomi dell’ultima lista potrebbero anche dire molto su un’altra lista misteriosa recuperata in una pen-drive sequestrata
alcuni mesi fa dalla polizia a casa di un collaboratore di Montante, Vincenzo Mistretta. Un’altra pen-drive cancellata,
sembra essere una fissazione per gli indagati di questo caso. Mistretta annotava con cura su un foglio Exel le uscite “
extra contabili” della società “ Msa”, i soldi che non dovevano figurare da nessuna parte. Fra il 2004 e il 2011, sono
stati consegnati cinquantamila euro in più tranche a un misterioso “Signor P”. Sessantamila, invece, «consegnati al
signor Antonello Montante » . Altri cinquantamila euro della Msa sono finiti « in operazioni estranee al core business
aziendale », hanno rilevato i consulenti della procura di Caltanissetta. La “Msa”, che ha sede a Cuneo, si occupa della
realizzazione di ammortizzatori, il cuore dell’impero imprenditoriale di Montante. Adesso, dall’ultimo archivio ritrovato
saltano fuori i nomi di altre società. Un tassello importante per ricostruire il “sistema Montante”.
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Antonello Montante, l’ex capo di Sicindustria in carcere con l’accusa di associazione a delinquere
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   16 GIUGNO 2018

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Le tangenti per lo stadio

L’opa del costruttore sul governo M5S-Lega “
Al Carroccio 200mila”
Roma, l’inchiesta punta sui nuovi fondi destinati al partito di Salvini E spuntano 50mila euro
di finanziamento lecito per Sala a Milano

marco mensurati fabio tonacci maria elena vincenzi,

roma
L’opa del palazzinaro di Roma sul governo “ del cambiamento” entra nella sua fase cruciale il 4 aprile scorso. Un mese
esatto dopo l’esito del voto che consegna l’Italia a Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Luca Parnasi sa che se vuole
riscuotere il dividendo dei suoi “ investimenti” in campagna elettorale — come vedremo, al centro di un nuovo filone
d’inchiesta — deve muoversi in fretta. Prima che i giochi siano fatti. In quei giorni già si parla di un possibile Contratto
di governo, i 5 Stelle guardano, o fingono di guardare, a sinistra, la Lega fatica a smarcarsi da Berlusconi. Parnasi,
stando alle carte dell’indagine, ha foraggiato tutti, dal Pd a Fratelli d’Italia. Ma su Lega e M5S ha puntato la posta più
alta. Le « erogazioni macro», come le definisce lui.
Bisignani a 5 Stelle
Al 4 aprile, dunque, tutte le ipotesi si stanno incagliando sul nome di chi dovrà occupare la poltrona di Palazzo Chigi.
Parnasi spinge per l’abbraccio giallo-verde. Ha studiato una soluzione, la spiega all’uomo che, nei suoi piani, di quel
governo dovrà essere “ il prossimo Gianni Letta”: Luca Lanzalone, il consulente inviato dallo stato maggiore dei 5 Stelle
a commissariare la sindaca Raggi per l’affare del nuovo Stadio della Roma. Colui che si vanta di parlare «tre volte al
giorno » con Di Maio. Parnasi e Lanzalone sono al bar, su una terrazza romana. Il palazzinaro insiste, gli vuole
presentare il suo mentore Luigi Bisignani, faccendiere finito nelle più importanti inchieste giudiziarie degli ultimi
decenni. Lanzalone è perplesso: «È un soggetto curioso, e Di Maio mi controlla » . Ma Parnasi spinge ( « Mi ha tenuto
in braccio quando sono nato») e alla fine Lanzalone cede. I tre si danno un appuntamento.
Le “dritte” sul Contratto
« Poi — annotano i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma — Parnasi dice che stamattina ha incontrato tale
Giancarlo ( Giorgetti, ndr) in aeroporto e che gli avrebbe detto che il Contratto di governo va firmato subito, perché
loro sono di Varese mentre lui ( Di Maio) è di Pomigliano d’Arco » . La battuta di Giorgetti scatena l’ilarità di
Lanzalone. Anche il costruttore ride, ma in mente ha un piano che, 89 giorni dopo il voto, diventerà realtà. « Come
premier propone una persona terza, super partes. Dice che bisogna stabilire le regole precise dell’alleanza, e dice a
Lanzalone di fare riferimento a Giorgetti».
Parnasi sussurra alla politica e fa sogni di cemento: stadi e mall da costruire a Roma e a Milano ( dove ha finanziato
con 50mila euro, regolarmente registrati, anche la campagna del sindaco Pd Giuseppe Sala). Prima però deve nascere il
governo, di cui ha già “ scelto” la sua lista dei ministri: « Spadafora, Fioramonti, Fraccaro, Bonafede e forse Laura
Castelli».
“Alfonso mi piazza al ministero” Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro ce la faranno. Gli altri tre diventeranno
sottosegretari. Bonafede e Fraccaro, gli amici che hanno imposto Lanzalone al Campidoglio. A Contratto siglato, anche
il “ mr Wolf” di Parnasi ritiene di avere crediti da riscuotere. La sera del 2 giugno, a governo fresco di nomina, chiama
al telefono l’avvocato Luciano Costantini, uno dei partner del suo studio. Li ascoltano i carabinieri di Roma, che
prendono nota. «Luca dice di aver detto a Luigi (Di Maio, ndr) di essere interessato alla nomina a commissario in
qualche amministrazione straordinaria, piuttosto che alla Cassa Depositi e Prestiti, così avrebbe delle relazioni con
persone importanti. E aggiunge di aver chiesto un incarico anche per Luciano. Parlano di eventuali altri incarichi e dei
relativi rischi » . Lanzalone gli racconta che durante la cerimonia del 2 giugno, la festa della Repubblica, qualcuno gli ha
presentato Giuseppe Conte «dal quale una volta insediato avrà bisogno di una firma sui fanghi ». Cosa siano questi
fanghi, per cui è richiesta la firma del nuovo presidente del Consiglio, non è specificato. Né si capisce dal resto della
conversazione. Quel che è chiaro, invece, è che pure Costantini pretende un accesso privilegiato al dicastero del neo
ministro della Giustizia. «Luciano afferma che Alfonso ( Bonafede, ndr) gli ha detto che vorrebbe portarlo ovunque e
aspetterà che gli indichi la posizione che vuole assumere. Luciano gli ha chiesto cosa serve ed Alfonso gli ha risposto
che non ha ancora capito come funziona il ministero ».
L’indagine sui soldi alla Lega
L’opa di Parnasi sul governo giallo- verde, funzionale ai suoi progetti immobiliari, è quasi fatta. Lanzalone lo coprirà
con i vertici del Movimento. E non ha bisogno di garanzia con la Lega. Per quella basta Matteo Salvini ( « un fratello »
) e i 250 mila euro che ha versato all’associazione leghista “ PiùVoci” tramite la società Pentapigna nel 2015. A cui si
aggiungono i più recenti « cento e cento per la Lega » , di cui parla lo scorso febbraio al suo collaboratore Gianluca
Talone. Sono pronti a essere bonificati. Ma c’è un problema tecnico. « Ne mettiamo cento sul giornale e cento sulla
radio » , propone Gianluca Talone, il contabile. «Ma alle tre di notte su Radio Padania, manco per il cazzo», risponde
Parnasi che vuole qualcosa di più plausibile per giustificare il finanziamento. Una prudenza opportuna, visto che, ora, è
proprio su quei soldi che punta l’indagine.
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LAPRESSE
POLITICA                                                                                                    16/6/2018

Le reazioni nel Movimento

Rivolta 5S su nomine e statuto E Fico lancia
l’allarme Rai
L’appello del presidente della Camera: “Banco di prova. Prevalga il merito, non la politica”

giovanna vitale,

roma
Chi ha portato e promosso l’avvocato Luca Lanzalone all’interno del M5S? A nome di chi tesseva rapporti e trattava
nomine per i cda delle grandi aziende di Stato? Chi gli ha consentito di sedersi a cena con il costruttore Parnasi e il
leghista Giorgetti prima della formazione del governo gialloverde? Sono gli interrogativi che da 48 ore scuotono
l’universo grillino. Sempre più spiazzato dall’arrendevolezza di Luigi Di Maio: «Un tempo le persone che hanno fatto
entrare questo soggetto e l’hanno accreditato sarebbero saltate subito », sospira una parlamentare di rango. A
disorientare è soprattutto una serie di scelte strategiche dalla lista dei sottosegretari a quella dei gruppi direttivi - che
hanno scatenato le prime avvisaglie di una rivolta mai vista prima. Esplosa con fragore alla riunione dei deputati
convocata l’altro ieri sera a Montecitorio. «Ormai viene tutto stabilito al chiuso di una stanza, senza badare né alla
competenza né al merito, in base a criteri di pura fedeltà o di chi fa la voce più grossa per ottenere posti», l’attacco in
contumacia rivolto al capo politico e al suo cerchio magico. «È ora di cambiare lo Statuto, specie se è vero che a
scriverlo è stato Lanzalone: abbiamo buttato a mare i principi della democrazia interna, dato un potere immenso a
pochissime persone ed escluso il resto del Movimento da qualsiasi scelta», la richiesta del campano Luigi Gallo. «E
azzeriamo pure i capigruppo delle commissioni», la subordinata avanzata da vari peones: «Erano stati designati in fretta
e furia quando venne incaricato Cottarelli, servivano per rispondere alla nascita di un eventuale governo tecnico. Ora a
Palazzo Chigi ci siamo noi, ci vuole una valutazione più attenta degli incarichi e delle persone che li ricoprono».
Concetti che riecheggiano «nell’appello vigoroso a tutto l’arco parlamentare» lanciato ieri dal presidente della Camera
Roberto Fico. «Occorre un salto culturale, è necessario rifiutare la logica dell’appartenenza per premiare
esclusivamente merito, competenze, capacità di visione del servizio pubblico», scrive su Fb la terza carica dello Stato.
Parla di Rai, l’ex leader degli ortodossi: dell’imminente rinnovo del cda che spetta alla politica eleggere (due componenti
dalla Camera; due dal Senato; altri tre, tra cui l’ad, dal governo), ma non è difficile intravedere un messaggio anche per
il suo Movimento. «Il modo in cui la politica si comporterà rispetto a questo percorso sarà il primo banco di prova della
legislatura», avverte Fico ammonendo: «La politica ne resti fuori, dia finalmente un segnale forte di cambiamento».
Un po’ quel che invocano, sul fronte interno, i numerosi malpancisti 5S: tornare ai fondamentali, ai principi di
trasparenza e merito ormai perduti. È bastato che il capogruppo Francesco D’Uva presentasse ai deputati riuniti in
assemblea i nomi del nuovo direttivo e chiedesse di approvarli con un battimani, per far scoppiare la protesta. «Ma che
metodo è questo? », è subito insorto Sebastiano Cubeddu, «voi decidete e noi dobbiamo solo applaudire a comando? »
. Come un tappo che salta. «Io parlo a nome dei colleghi di prima legislatura», irrompe un altro peone, «ci dite sempre
che siamo tutti uguali, ma la verità è che quelli al secondo mandato hanno fatto la corsa alle poltrone di sottogoverno e
sono stati premiati a prescindere dalle competenze». Perché «a parole siete bravi, ma non vi siete mai posti davvero il
problema di capire quali sono le nostre reali capacità e competenze » s’infervora Giuseppe D’Ippolito, « siamo 300
parlamentari e manco ci conoscete per nome. Sostenere il contrario è una presa in giro » . Un malumore fortissimo che
nei capannelli si trasforma in una minaccia: «Questo governo i nostri voti se li dovrà conquistare volta per volta».
Sempre più all’angolo, stretto tra il movimentismo di Salvini e l’insirrezione dei suoi, Di Maio prova a reagire. Convoca
al ministero tutti i viceministri e i sottosegretari 5S e ordina: giro di vite sulle autoblu e ricognizione delle risorse per
finanziare il reddito di cittadinanza. «Dobbiamo dare subito un segnale sui nostri temi», dice chiaro. Altrimenti si rischia
di brutto.
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POLITICA                                                                                                      16/6/2018

Il pacchetto lavoro

Stop al cottimo per i rider tornano le causali nei
contratti a tempo
valentina conte,

Le mosse del ministro Di Maio per smontare il Jobs Act, i sindacati approvano con cautela, per le imprese, invece, si
tratta di un passo indietro
roma
Il pacchetto lavoro del neo ministro Di Maio non piace alle imprese, vecchie e nuove. Ma riceve un primo scontato
placet sindacale, sebbene con alcuni distinguo. Per ora i tecnici del ministero procedono spediti. Si punta a ripristinare
la causale nei contratti a tempo determinato ( tre tipi) e a ridurne i rinnovi da 5 a 4. E a considerare i lavoratori 4.0 della
gig economy - come i ciclofattorini - dipendenti a tutti gli effetti. Abolendo così il cottimo.
Entro fine giugno - quando il decreto Dignità arriverà in Consiglio dei ministri - il Jobs Act potrebbe dunque cambiare
volto. Conserverebbe l’abolizione dell’articolo 18. Ma perderebbe di fatto la liberalizzazione della contrattazione a
termine sancita dal decreto Poletti nel 2014, primo atto della riforma Renzi. E dovrebbe accogliere, primo Paese al
mondo, l’equiparazione dei rider ai lavoratori subordinati, con tutte le tutele del caso: malattia, ferie, maternità, notturni,
permessi, straordinari, sindacalizzazione. Oltre a un salario minimo orario - dove già non previsto dal contratto
nazionale - e alla rivisitazione dell’algoritmo che determina la “ reputation” del fattorino, perché non sia solo la velocità
di consegna a premiarne la valutazione.
La prossima settimana il ministro e vicepremier Luigi Di Maio incontrerà per la terza volta i rider di Bologna, Milano e
Roma. E il tavolo si aprirà alle aziende del settore, non proprio entusiaste delle nuove soluzioni. Tutte chiedono una
normativa nazionale. Ma Foodora auspica un intervento « sostenibile » che « non soffochi un settore in crescita».
Ricorda che il 38% dei suoi fattorini sono studenti. E chiede che i contratti rientrino nella cornice delle
«collaborazioni», i soli a garantire « la flessibilità necessaria » . Deliveroo non commenta. Si limita però a ribadire che i
rider sono « lavoratori autonomi » . Nel 2017 il colosso britannico - 70 dipendenti stabili a Milano - ha pagato 2 mila
ciclofattorini con contratti di prestazione occasionale ( il 10% è a partita Iva). Difficile pensare una conversione in
massa in contratti stabili.
Il ripristino della causale - nella triplice opzione: per esigenze tecniche, organizzative o sostitutive - spaventa invece le
imprese. Lino Stoppani, vicepresidente di Confcommercio e presidente Fipe ( pubblici esercizi, un milione di occupati,
300 mila imprese) parla di «passo indietro, dopo l’abolizione dei voucher, proprio quando c’è più bisogno di flessibilità
». Anche Maurizio Casasco, presidente di Confapi, piccola e media industria ( 83 mila aziende, quasi un milione di
lavoratori) dice che « un mercato del lavoro ingessato non serve a nessuno, piuttosto bisogna puntare a ridurre il cuneo
fiscale». Bernardo Quaranta, vicepresidente di Unindustria Lazio con delega al Lavoro, ripete che reintrodurre le causali
« non conviene alle imprese e neanche ai lavoratori » . Perché «riproporrà le incertezze interpretative del passato » . E
dunque i contenziosi giudiziari che scoraggiano nuove assunzioni. E perché il secondo rischio è « l’impennata dei
contratti atipici, delle false partite Iva, delle collaborazioni » . Quaranta ricorda poi che il 12,5% di contratti a tempo sul
totale è una percentuale del tutto « in linea con gli altri paesi europei».
Anche Guglielmo Loy ( Uil) si mostra prudente: « Sarebbe più efficace far costare di più il contratto a tempo, una sorta
di “ indennità precarietà”». Anche perché «il 61% dei lavoratori a termine si rioccupa entro un anno: studiamo bene
queste transizioni » . Tania Scacchetti ( Cgil) ritrova nelle soluzioni del governo vecchie proposte del suo sindacato: «
Siamo a 2,9 milioni di contratti a termine nel primo trimestre. C’è tanto lavoro povero che merita una tutela » .
Possibilista pure Luigi Sbarra ( Cisl), ma a patto che « si continuino a incentivare le assunzioni stabili » . Altrimenti,
anche il decreto Dignità rischia alla fine di essere « solo un altro intervento spot».
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FABRIZIO CORRADETTI/ LAPRESSE/ LAPRESSE
ECONOMIA                                                                                                       16/6/2018

Per difetto di giurisdizione

Derivati, ex vertici del Tesoro assolti dalla Corte
dei Conti
ANDREA GRECO,

MILANO
C’è stata «perdita ingente di denaro pubblico ( oltre 3 miliardi, ndr), per operazioni risultate non convenienti » . Ma non
c’è stata « scelta amministrativa illegittima, irragionevole o irrazionale » , tale da consentire alla Corte dei Conti di
sindacare sul danno provocato a fine 2011 con la chiusura anticipata di derivati sul debito sovrano concessa dal Tesoro
a Morgan Stanley.
Con queste motivazioni i magistrati dei conti pubblici hanno respinto le tesi della procura interna e sancito il « difetto di
giurisdizione » mandando assolti quattro imputati di spicco. Oltre alla banca Usa, erano chiamati in causa gli ex ministri
del Tesoro Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, e i massimi dirigenti Maria Cannata (ex responsabile del debito
pubblico) e Vincenzo La Via, (ex dg), con richiesta di risarcimento in solido da 3,9 miliardi di euro.
L’univocità dei toni fa cantare le difese: « Siamo lieti ma per nulla sorpresi per questa sentenza, esemplare e di
assoluzione piena dichiara Giuseppe Iannaccone, legale di Cannata -. I dirigenti pubblici hanno operato nel rispetto della
legge e nei limiti delle funzioni, pertanto le loro scelte non sono censurabili davanti a un giudice » . Forse c’è anche un
pezzo di “ ragion di Stato”, come emerso nelle arringhe dei legali del Tesoro, per cui una condanna avrebbe portato « la
devastazione del mercato e l’istantanea perdita di fiducia degli investitori nella Repubblica italiana ». L’accusa, invece,
per ora rimugina sulle carte e studia come fare ricorso in secondo grado o al tribunale civile ( ma in passato quelli di
Trani e di Roma hanno archiviato denunce relative alla vicenda).
Il procuratore Massimiliano Minerva ha contestato “negligenza” e “ imperizia” dei vertici Mef nel gestire i rapporti con
la controparte; specie per aver accettato nel contratto una clausola di uscita anticipata (Ate), poi esercitata dalla banca.
Come molti derivati pubblici ce n’è ancora per 126 miliardi di euro, con potenziali perdite per decine oltre quelle
prodotte da anni anche quello serviva a coprire i costi delle emissioni di titoli di Stato in caso di rialzo dei tassi: solo che
dalla crisi 2008 in poi i tassi andarono a zero e i derivati fecero bagni di sangue. Quanto a Morgan Stanley, chiese a fine
2011 che l’Italia chiudesse il contratto, e il governo Monti accettò di farlo, con versamento di 3,1 miliardi cash in un
momento di grave crisi per l’economia del paese.
Le 96 pagine della sentenza smontano le principali tesi accusatorie. Che Morgan Stanley avesse un « rapporto di
servizio » con il Tesoro, che è tra i presupposti della giurisdizione della Corte ( la fattispecie di cui si parla è invece
quella della « responsabilità civile » ). Che “ imperizia” e “ negligenza” da parte dei dirigenti del Mef fossero
rintracciabile ex ante: « La valutazione costi-benefici legata a molteplici e dubbie variabili in quella fase di incertezza è
senz’altro stata effettuata nell’ambito di una discrezionalità che, stante la normativa vigente e la situazione di fatto, non
può ritenersi arbitrariamente esercitata » ; salvo voler travalicare la divisione dei poteri statuali. Che derivati con
clausole Ate ( « una prassi comune e diffusa») od opzioni speculative ( le swaption) per il Tesoro fossero novità:
essendo state introdotte nel 1997 da un decreto del ministro Carlo Azeglio Ciampi, e nel 2011 dal dg Mario Draghi.
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