Confini, mobilità e migrazioni - a cura di Lorenzo Navone una cartografia dello spazio europeo - Institut d'ethnologie

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a cura di Lorenzo Navone

confini, mobilità
e migrazioni
una cartografia dello spazio europeo
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Scienze della Formazione-DISFOR

2020, Agenzia X

Progetto grafico
Antonio Boni

Immagine di copertina
Calais, ottobre 2016. Migranti ai bordi dell’autostrada
foto di Lorenzo Navone

Contatti
Agenzia X, via Giuseppe Ripamonti 13, 20136 Milano
tel. 02/89401966
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Digital Team, Fano (PU)

ISBN 978-88-31268-05-9

XBook è un marchio congiunto di Agenzia X e Mim Edizioni srl,
distribuito da Mim Edizioni tramite Messaggerie Libri

Hanno lavorato a questo libro...
Marco Philopat – direzione editoriale
Paoletta “Nevrosi” Mezza – coordinamento editoriale
Introduzione                                              7
Moltiplicare la frontiera
Lorenzo Navone

Terra nullius                                             15
Claudia Moatti

European Border regime                                    33
Un’intervista a Étienne Balibar
A cura di Lorenzo Navone e Federico Rahola

Aerei, aeroporti ed espulsioni                           49
Le infrastrutture aeree come strumento di deportazione
William Walters

Organizzazioni non governative e gestione
delle migrazioni in Tunisia ed Egitto     81
Paolo Cuttitta

Intorno all’hotspot                                      101
Spazialità e temporalità di un dispositivo confinario
Jacopo Anderlini

La quotidianità dei migranti sudanesi
nella Giungla di Calais                                  127
Uno sguardo etnografico
Geremia Cometti e Jean-Baptiste Eczet

Sul confine interno                                      153
Pratiche informali di solidarietà ai migranti
tra l’Italia e la Francia
Luca Giliberti e Luca Queirolo Palmas

Da un lato e dall’altro di Melilla                       181
Esperienze di attesa alla frontiera ispano-marocchina
Carolina Kobelinsky e Anaïk Pian
Confinamento e segregazione scolastica
dei migranti italo-magrebini in Francia 195
Lorenzo Navone e Simona Tersigni

La Rotta balcanica vista dal capolinea
di Trieste                                         221
Fabrizio Foschini

Contro-rilevamenti e lotte
ai confini marittimi dell’EUropa                   245
Charles Heller, Lorenzo Pezzani e Maurice Stierl

Biografie autori                                   265
La quotidianità dei
migranti sudanesi
nella Giungla di Calais
Uno sguardo etnografico

Geremia Cometti e Jean-Baptiste Eczet

Per mesi la Giungla di Calais è stata al centro dell’attenzione
dei media e della politica francese, allorché si trattava di com-
mentare quel fenomeno abbastanza recente noto come “crisi
migratoria”.1 La Giungla ne era certamente l’espressione più
visibile: costituita da pallet e teloni di nylon, era qualcosa co-
struito su un appezzamento di terreno, e lì vivevano diverse
migliaia di migranti. La maggior parte dei media la chiamava
“bidonville” (per sottolineare l’insalubrità di questa proto-
città), oppure “accampamento” (per sottolineare il carattere
transitorio e umanitario della situazione), mentre il comune di
Calais, il presidente della Repubblica e il ministro dell’Interno
la chiamavano “landa” (per sostenere che si trattava di un
terrain vague, teoricamente disabitato). Il termine “giungla”

    1
      Crisi migratoria è il termine spesso utilizzato per indicare il fenomeno che
ha visto a partire dal 2011 un vasto movimento di persone prevalentemente
dal Medio Oriente e dall’Africa orientale verso l’Europa.

                                                                             127
è stato invece usato dalle varie organizzazioni e collettivi che
fornivano assistenza ai migranti e da alcuni media. A volte, la
“G” era maiuscola, per indicare un territorio in qualche modo
unico; altre, la parola Giungla era posta tra virgolette, per ri-
durre l’imbarazzo generato dall’uso di un termine fortemente
connotato, almeno in francese. Essendo per noi la questione
etimologica di minore interesse,2 useremo il termine Giungla,
un nome non nuovo per descrivere una situazione che in parte
è una novità. In effetti, in questa regione settentrionale della
Francia, una tale concentrazione di persone provenienti da così
tanti paesi diversi in quelli che sembravano campi, baraccopoli
o addirittura villaggi, era un fatto piuttosto inedito che nessuna
categoria urbana, architettonica o umanitaria era davvero in
grado di cogliere.3
    La natura composita della Giungla ci porta a offrire una
descrizione di diversi punti di vista, esperienze e situazioni
sociali. Una considerazione preliminare è tuttavia necessaria:
la Giungla si è rivelata un luogo paradossalmente molto più
vivibile e strutturato, tanto per noi quanto per gli stessi migranti
incontrati, che un semplice, effimero e insopportabile caos.
Lungi dal trovarci in un semplice campo informale, siamo stati
testimoni della capacità di adattamento e di resilienza messa in
atto da quella “proposta urbana” che è stata la Giungla. Altre
considerazioni sono più o meno connesse alla precedente. In-
nanzitutto, questo luogo di passaggio si basava su una singolare

    2
       L’uso del termine “giungla” pare derivare dal persiano jangal (che significa
appunto “foresta”) usato dai rifugiati iraniani e afghani che avevano costruito
i loro primi rifugi in aree boschive. Va notato che il termine inglese jungle (da
cui forse deriva, vista la storia coloniale britannica, lo stesso termine jangal)
ha una connotazione meno peggiorativa che in francese.
     3
       Questa ricerca nasce come proposta da parte del Perou (Pôle d’exploration
des ressources urbaines) ai due autori per partecipare per alcuni mesi a una
ricerca finanziata dall’agenzia interministeriale PUCA (Plan Urbanisme
Construction Architecture). Ringraziamo Sébastien Thiery et Antoine Hennion
per le discussioni e i suggerimenti.

128
forma di socialità, che combinava un’alta densità di interazioni
ma poche basi personali per sostenerle. Questa Giungla, e il
percorso attraverso il quale essa si è costituita, rendono parti-
colarmente complesso la costruzione della sua legittimità per
un migrante, la cui presenza lì poggiava sul diritto di fuga e
sulla soddisfazione di bisogni di base. I migranti nella Giungla,
peraltro, vivevano situazioni altamente contraddittorie, emerse
in maniera particolarmente chiara durante lo smantellamento
della metà meridionale: ogni scelta strategica comportava dei
paradossi per cui, di fronte alle case che stavano per essere
distrutte, è diventato possibile rimpiangere ciò che si odiava,
secondo un comportamento all’apparenza contraddittorio.
    Nella nostra ricerca abbiamo sostanzialmente seguito dei
membri della comunità sudanese (provenienti dal Darfour,
dall’Alta Nubia e dal Sudan meridionale), tra febbraio e luglio
2016. Tuttavia, abbiamo qualche motivo di credere che le nostre
considerazioni possano applicarsi in generale ai migranti che
sono passati attraverso la Giungla. In effetti, anche se siamo
stati attenti all’origine culturale delle persone che abbiamo
incontrato – che, va precisato, erano migranti giunti in Europa
solo da pochi mesi – le nostre osservazioni tendono a dimostrare
che non vi era quasi altra scelta per i migranti se non quella di
lasciare da parte decenni di abitudini, di relazioni ed esperienze
culturalmente localizzate per poter sopportare un’esperienza in
gran parte determinata da condizioni di vita imposte e da ostacoli
continui da superare. In altre parole, bisogna rinunciare a molto
di sé. Si trattava di una vita a sovranità limitata, perché in gran
parte stereotipata da vincoli comuni e da un comune obiettivo
migratorio, semplice e non molto contraddittorio: raggiungere
l’Inghilterra.4 Ed è per questa ragione che concentrarsi su una
singola storia di vita non sarebbe stato efficace per cogliere
    4
      Usiamo il termine Inghilterra perché traduciamo il termine usato, England.
Tuttavia, i migranti si riferivano più spesso al Regno Unito nel suo complesso.
Va inoltre osservato che, pur essendo questo l’obiettivo comune, molti di loro

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il senso della vita nella Giungla (si veda, in tal senso, Eczet e
Cometti 2017).

Una Giungla troppo urbana

L’origine della Giungla risiede in primo luogo e soprattutto
nella volontà comunale e statale di espellere i migranti dalla
città di Calais, e in particolare dagli squat, lasciando che si
accampassero in una brughiera. Calais è, infatti, una tappa
delicata per i migranti che vogliono recarsi in Inghilterra. A
causa del costante rafforzamento della sorveglianza del tunnel
sotto la Manica, e poiché il confine anglo-francese si trova sul
lato francese, la regione diventa un vicolo cieco per i migranti.
Dopo il campo di Sangatte,5 e come un certo numero di campi
piuttosto discreti sparpagliati lungo la costa, la Giungla ha fatto
emergere il fenomeno di un flusso migratorio che solitamente è
nascosto negli interstizi urbani, e lo ha interrotto bruscamente.
La portata della Giungla è lievitata al pari di questo flusso,
che è cresciuto in termini di dimensioni, varietà di costruzioni
e convergenza di cittadini europei (dalle ONG a No Border,
fino ai ricercatori di scienze sociali). L’obiettivo di cancellare
completamente la Giungla dalla mappa (definito dalle autorità
“smantellamento della Giungla”) è stato annunciato contem-
poraneamente al progetto di un parco di divertimenti chiamato
Heroic Land, pianificato poco più a sud con una grande quantità
di sussidi statali.
    Pur essendo formata da tende, pallet e teloni, e considerata
come un fenomeno effimero destinato a essere smantellato,
la Giungla non ha impedito, paradossalmente, alle autorità

non lo hanno reso un obiettivo imprescindibile, e si sono mostrati aperti a
rimanere Francia o in un altro paese.
    5
      A Sangatte si trovava un campo per migranti gestito dalla Croce Rossa,
sovrappopolato e chiuso nel 2002 dall’allora ministro dell’Interno Sarkozy.

130
Furgoni delle forze dell’ordine stazionati davanti all’entrata della zona sud
della Giungla • foto di Geremia Cometti

pubbliche di costruirne una controparte in muratura: nel gennaio
2016 è stato allestito un “centro di accoglienza temporanea”,
composto di prefabbricati metallici poggiati su fondamenta di
cemento, nonché da strade asfaltate che hanno gradualmente
coperto i sentieri sabbiosi. Per i sudanesi che abbiamo incontrato,
la costruzione di una strada sul “sentiero delle dune”, ai margini
della Giungla, aveva al limite migliorato la qualità delle partite
di calcio che lì si giocavano. In effetti, la paura instillata dal di-
scorso mediatico e istituzionale in chiave securitaria e l’estetica
concentrazionaria di questo centro di accoglienza temporaneo
hanno rapidamente lasciato il posto alla strana impressione di
camminare in un villaggio pieno di attività. Tuttavia, al nostro

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arrivo queste attività non proliferavano, sostanzialmente perché
un’interminabile colonna di blindati della polizia antisommossa
(i cosiddetti CRS,6 costituiti da De Gaulle nel 1944) stazionava
all’ingresso.
    I CRS dunque, con la loro presenza, testimoniavano della
pericolosità di un luogo, talmente fuori controllo da necessi-
tare un intero plotone per garantirne la sicurezza. Pensavamo
di entrare in un campo profughi come se ne vedono nei paesi
confinanti con il Sudan, ma no. Oppure, in uno scannatoio, una
sorta di Chinatown vecchia maniera, ma nemmeno. Dopo un
paio di giri nella Giungla per capire meglio lo spazio, ci siamo
quasi vergognati di poterne apprezzare l’atmosfera, un’atmosfera
da villaggio, con ristoranti, negozi di alimenti, un hammam,
una chiesa, moschee e discoteche. Non era raro incontrare
visitatori europei di ogni tipo che dopo alcuni scambi lodava-
no quell’“ottimo ristorantino afghano all’angolo della strada”.
Del resto, ci è parso di vedere e incontrare un certo numero di
persone che considerano un viaggio nella Giungla una sorta di
escursione turistica, una forma di dark tourism (Lennon e Fooley
2000) che consiste nelle visite in luoghi di disastri e di morte, o,
per esempio, nella visita delle favelas di Rio de Janeiro in 4x4,
come fosse un safari in Kenya, dove i turisti si abbeverano alla
fonte dell’esotico che si trova nella miseria umana.
    Mentre cercavamo un tè caldo, spinti dal freddo del nord
a febbraio, un uomo che pensavamo sudanese ci ha suggerito
di entrare in un cortile situato tra tre capanne e una cucina
all’aperto. Sotto la tenda, cinque persone ci salutarono, libera-
rono due sedie, prepararono un tè e ci proposero una partita a
domino. Nei primi due giorni trascorsi con loro nessuno ci ha
mai chiesto chi fossimo o perché ci trovassimo lì. Sicuramente
contava la cultura dell’ospitalità del Darfur, che lascia all’ospite

    6
      Compagnies Républicaines de Sécurité : corpo della polizia francese che
grossomodo corrisponde ai reparti antisommossa.

132
la libertà di parlare di ciò che vuole, senza costrizioni. Ma vi
era in gioco anche una forma di aiuto reciproco tra persone di
passaggio, il che significava che i nostri ospiti, essi stessi persone
di passaggio, non traevano molto vantaggio dalla conoscenza
del passato degli uni e degli altri, poiché era una presenza
orientata al nord e al futuro. K., un ragazzo di 17 anni, già si
vedeva in Inghilterra. Ci ha detto che stava studiando francese
in una scuola nella Giungla e ci ha chiesto: “Dove abitate?”.
Noi rispondemmo che eravamo di Parigi e, rivolgendo lui la
stessa la domanda, rispose: “Vivo in Inghilterra”.
    I sudanesi costituivano forse il gruppo più consistente tra la
popolazione della Giungla. La maggior parte di loro proveniva
dal Darfur, anche se in realtà il termine Darfur non indica nulla
di preciso. Come mostrato da Gérard Prunier (2005), bisogna
conoscere cinque secoli di storia per capire quel conflitto, che
è apparso sulla scena mediatica occidentale all’inizio degli anni
duemila ed è ormai quasi dimenticato in Europa. Una regione
dove si sono succeduti vari regni musulmani, colonizzatori arabi
e rivolte locali, una regione dove si incontrano contadini seden-
tari e pastori nomadi, capi tribù e organizzazioni segmentali,
una regione dove vivono popolazioni arabe, nere arabizzate,
nere non arabizzate, ognuna composta di varianti culturali. In
breve, il Darfur è cosmopolita come l’Europa e ha una storia
densa come quella dei regni occidentali.
    La storia che i migranti ci raccontano è quella più recente.
M. dice che suo padre è stato ucciso nel Darfur. Senza risor-
se familiari, si è recato in Libano per inviare denaro alla sua
famiglia. A Beirut lavorava diciotto ore al giorno come cuoco
in due ristoranti allo stesso tempo. Ma la capitale libanese era
troppo costosa per lui e doveva lottare per riuscire a inviare 100
dollari al mese in Sudan. Per questo motivo vi tornò nel 2015,
sperando di continuare a lavorare. Appena tornato, le autorità
lo sequestrarono per recuperare il denaro con cui era tornato
a casa, e che avrebbe dovuto nascondere. Qualche tortura più

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tardi (ha raccontato a lungo come si strappano le unghie con
le pinze, illustrando le sue parole con gesti precisi e mostrando
le cicatrici), ha assunto la decisione di andare in Egitto, poi in
Italia, poi in Francia, poi nella Giungla. Questo avvenne cin-
que mesi prima del nostro incontro. L’Inghilterra pare essere
la destinazione giusta perché parla già inglese, ma l’attitudine
al lavoro può essere utile anche per imparare un’altra lingua,
dice. Vivere in Francia o in Italia andava bene, purché gli fosse
permesso di lavorare.
    A. racconta del suo arrivo in Francia con mezzi più strani
rispetto ai tradizionali passeur, che solcano il Mediterraneo in
barca. È fuggito dal sud Sudan attraverso l’Uganda, dove passò
tre mesi, il tempo di mettere a punto il suo piano: attendere
l’arrivo di un aereo dell’ONG “Save the children”, che porta
materiale per i bambini; infilarsi nelle scatole vuote; volare in
Europa. Ha imitato la posizione fetale mentre raccontava come
si era infilato in quella scatola, con un’espressione che rimanda
al benessere che si prova quando ci si arriccia in qualcosa di
molto morbido, come un aereo che salva i bambini, per esempio.
    Rispetto a questo passato doloroso, la Giungla sembrava
essere un luogo di riposo, almeno sulla scala del percorso mi-
gratorio, come testimoniato da S.:

   Mi piace la Giungla. Be’... Mi piace la gente della Giungla, non
   il posto in sé. Qui è come in Sudan. Ho degli amici. Mi piace
   stare con loro. Ecco perché resto qui e non da solo in una strada
   di Parigi. A volte, la sera, vado al Pirate Pub per bere qualche
   birra. Bevo alcolici. So che non va bene per l’Islam, ma va be’.
   A volte ci fermiamo qui, c’è una tenda vicino alle nostre case e
   andiamo a divertirci. Abbiamo amici qui e mi piace.

   Le giornate passavano nell’alternanza tra attività domesti-
che, costruzioni logistiche (una capanna, una cucina, un riparo
ecc.), ricerca di cibo, prodotti sanitari e abbigliamento, e lunghi

134
momenti di attesa, piuttosto conviviali. Alcuni partivano per
qualche giorno (spesso per Parigi), per poi tornare. Altri si
sono trasferiti, altri ancora sono andati in Inghilterra. Pochi
sono coloro la cui situazione è stata definita legalmente e sono
tornati nella Giungla per salutare gli amici, come A., che viveva
da una signora di Calais e che aveva appena iniziato a parlare
francese. In occasione di ogni nostra visita, siamo sempre stati
accolti in nuove baracche, attorno a tavolate sempre diverse,
spesso per cenare lautamente o per digiunare, come avviene
durante il Ramadan, in attesa del futuro. Tuttavia, in occasione
di ogni nostra partenza, ci dicevano che quella sarebbe stata
l’ultima volta in cui ci vedevamo lì e che presto saremmo stati
invitati da loro in Inghilterra.
    Questa “Giungla informale” era in realtà una proposta
urbana originale,7 in cui prevalevano naturalmente i problemi
di insicurezza e insalubrità relativi a qualsiasi insieme abitati-
vo di estrema densità, ma la cui atmosfera, coerenza urbana,
struttura abitativa e servizi sociali costituivano un quartiere a
sé stante. Una città nuova era nata dopo essere stata scacciata
dalla città ufficiale.

Una quotidianità effimera

A causa degli scoppi di violenza che scandivano la vita quoti-
diana delle Giungla, alcuni osservatori l’hanno descritta come
un luogo dove regnava l’anarchia, e dove bande comunitarie
vivevano guidate dai loro bisogni e si organizzavano articolan-
do dei rapporti di forza. Le comunità erano spesso definite da
questi osservatori secondo un criterio nazionale: siriani, afghani,
sudanesi, sudanesi, eritrei, etiopi ecc. Queste persone erano
concepite come incarnazioni dei loro luoghi di origine, che

   7
       Si veda il sito: https://reinventercalais.org

                                                               135
conferivano alla Giungla un’aura cosmopolita, crocevia delle
disgrazie del mondo. Senza legge né religione, se non quella di
voler raggiungere a ogni costo una “terra promessa”.
    Altri rimanevano sorpresi dalla Giungla, che in realtà vede-
vano come un quartiere, con i suoi ristoranti, negozi, discoteche,
luoghi di culto, strade, case, che ha spinto molte persone curiose
a un turismo morboso. Era possibile per loro intravvedere in
questa città un’efficace forma di autogestione, il profilo di una
società che appariva come un fungo che cresceva su una bru-
ghiera un tempo deserta.
    Queste due interpretazioni non rendono conto della com-
plessità dell’organizzazione della Giungla. Innanzitutto perché se
fosse stata una società, sarebbe stata molto strana: nella Giungla
di Calais vivevano solo uomini adulti e pochi adolescenti. Non vi
erano bambini e solo pochi anziani. Donne e bambini restavano
in disparte, in un centro di accoglienza adiacente alla Giungla,
il centro Jules Ferry. Cinquemila persone di venti nazionalità
diverse (provenienti principalmente dal Medio Oriente e dall’A-
frica orientale), riunite in uno spazio di frontiera, tra due paesi
che non sono in guerra, da cui nessuno scappa, è una situazio-
ne senza precedenti. Inoltre, una tale società sarebbe stata un
perfetto esempio di globalizzazione e difficile da delimitare: la
Giungla dipendeva dai flussi internazionali per l’approvvigio-
namento alimentare e di manodopera, dalle infrastrutture locali
per l’approvvigionamento idrico, dalle agenzie umanitarie per il
controllo sanitario, dalla polizia per la sicurezza, dai giornalisti
per la comunicazione e dalla città di Calais per i centri econo-
mici e sociali. Ma soprattutto, ci è parso che il dinamismo che
continuava a riconfigurare le relazioni impedisse di applicare un
modello coerente alla Giungla. Da un lato, sebbene reti mafiose
operassero nella giungla (come i passeurs), questa non era soggetta
a forti rapporti di potere tra comunità, salvo alcune eccezioni (per
esempio nel caso della fornitura di gas). Dall’altro, nessuna ONG
né referente di “comunità” (come scuole, luoghi di culto o altre)

136
Panoramica della Giungla • foto di Jean-Baptiste Eczet

ha mai sostenuto di costituire un quadro di riferimento per la vita
sociale oltre le sue specifiche competenze. La distribuzione e la
segmentazione delle attività era tale che nessuna singola struttura
o istituzione poteva garantire da sola la sostenibilità economica
della Giungla e, nel migliore dei casi, esse erano responsabili solo
di una funzione sociale. Né la warehouse, un enorme capannone
pieno di materiali (vestiti e altro), né la “scuola della Giungla” o
la chiesa etiope hanno contribuito singolarmente a organizzare
in modo sostenibile la vita dei migranti.
    In generale, nessuna organizzazione poteva imporsi o di-
spiegarsi in modo egemonico a causa della natura effimera di
questa vita e delle reti che l’hanno costituita. Questo risulta-
va piuttosto chiaro, sotto diversi punti di vista. Uno dei più

                                                                137
significativi è stato certamente il tempo di permanenza dei
migranti nella Giungla e le riconfigurazioni permanenti delle
loro associazioni. Nell’esempio che segue, possiamo prendere
coscienza della natura effimera di un gruppo che condivide
una residenza, costituita da un piccolo cortile e da una cucina
attorno alla quale si accedeva a tre camere da letto. In questo
piccolo gruppo, che inizialmente ritenevamo più coeso di quanto
non lo fosse in realtà, la riconfigurazione rapida era la norma.
Ognuno dei nostri viaggi nella Giungla era inframezzato da
periodi di dieci-venti giorni, durante i quali abbiamo registrato
le seguenti situazioni, da febbraio ad aprile 2016:

   1. S. e M. condividono un alloggio. Sembrano essere ottimi
      amici. F. e H. vivono di fronte, nell’altra capanna, e sono
      più discreti. O. e A. vivono nella terza capanna di questo
      piccolo complesso. Y. è un vicino di casa ed è abituato a
      trascorrere spesso del tempo qui, sotto la tenda con gli
      altri. Anche R. risiede nella porta accanto, sembra sempre
      impegnato, ma appena può gioca a calcio con noi.
   2. La zona sud sta per essere demolita. S. e A. non ci sono
      più. Hanno ancora i loro letti nelle rispettive capanne,
      ma stanno cercando di partire per l’Inghilterra dalle piaz-
      zole autostradali più a sud. O. non c’è più, è impossibile
      sapere dove si trovi, non sappiamo nemmeno se altri lo
      sappiano. M. passa tutto il tempo nel suo laboratorio di
      riparazione di biciclette. F. probabilmente andrà al centro
      di accoglienza temporanea. Non avremo mai più notizie
      di H. Y. è partito, si è già stabilito nella zona nord. R.
      passa ancora di qui per giocare a calcio con noi.
   3. La zona nord è rimasta ormai l’unica abitabile. Non riu-
      sciamo più a trovare nessuno nonostante le nostre richieste
      e le nostre ricerche. Non c’è modo di sapere dove siano
      finiti tutti, né se torneranno. Alla fine incontriamo R. con
      il quale, ancora una volta, giocheremo a calcio.

138
4. Incontriamo M. nella sua nuova casa. Nelle ultime set-
      timane è stato all’ospedale di Calais per ricevere alcune
      cure. S., O. e A. sono ancora assenti dalla Giungla. Non
      torneranno, non ne hanno intenzione. Sono tra Parigi e le
      piazzole autostradali, in attesa di trovare il momento giusto
      per andare in Inghilterra. Incontriamo F. nella Giungla,
      sembra non voglia più parlare con noi. Gli altri affermano
      di non avere più rapporti con lui. Nessuna notizia da Y.,
      ma pare che non sia lontano. C’è sempre R. con il quale
      compensiamo la nostra mancata comunicazione – noi non
      parliamo arabo, lui non parla inglese – giocando a calcio.
   5. M. ci informa che S. e O. hanno raggiunto l’Inghilterra
      e ora sono in Scozia. A. è introvabile, nessuna notizia,
      su WhatsApp non risponde più. M. e Y. condividono
      una capanna nella zona nord. Pare che F. abbia preso un
      autobus, alla fine, ma non sappiamo con quale destina-
      zione. R. pare stare bene nella Giungla: lo incontriamo
      la sera del giorno successivo, dopo aver passato la notte
      nella Giungla.

    Se nemmeno le reti interpersonali funzionavano molto, cosa
teneva insieme la situazione? Questo è il problema di questa
vita intensa, improvvisata e in continua riconfigurazione. Anche
i referenti comunitari si sono mostrati di scarsa utilità. Pren-
diamo l’esempio degli sceicchi, referenti religiosi di età adulta,
che possono essere mobilitati per mediare nei conflitti. Due di
essi gravitavano intorno ai sudanesi che avevamo conosciuto.
Ora, tutti sapevano che la loro autorità non era riconosciuta e
che la loro funzione lì non era operativa. Perché? Perché forse
il giorno dopo sarebbero andati in Inghilterra, come tutti del
resto! E perché non ha senso delegare un’autorità a qualcuno
che domani potrebbe non essere più lì e che, in ogni caso, non
vuole essere qui oggi. Partire al più presto era un desiderio
espresso da tutti ma, soprattutto, una era condizione condivisa

                                                               139
e reciprocamente nota. Questa condizione non ha consentito
non solo la costituzione di un’autorità e il suo rispetto, ma ha
fatto sì che non ci si conoscesse più di tanto.
    In effetti, chi si conosceva davvero? Abbiamo stimato che
il tempo medio che un migrante ha trascorso nella Giungla è
stato di circa sei mesi. Il flusso era continuo, sia delle partenze
sia degli arrivi. Con una sola eccezione, i migranti che abbia-
mo conosciuto non si erano mai incontrati prima di arrivare a
Calais. In ciascuno dei complessi di capanne, in cui potevano
essere ospitate da cinque a dieci persone, nessuno era arrivato
lo stesso giorno.
    Mentre accompagnavamo S. al punto di distribuzione per
cercare delle scarpe, incontrammo un altro sudanese con cui
si scambiarono qualche parola molto calda, quasi fossero stati
vecchi amici. La discussione è durata poco più di un minuto
ed entrambi ripartirono senza fissare un appuntamento né
scambiarsi i numeri di telefono. S. ci informò che avevano at-
traversato insieme il Mediterraneo, uno di fianco all’altro, sulla
stessa barca per diversi giorni. La condivisione della nazionalità
e di un’esperienza così dura e marcante non ha portato a nien-
te di più che un forte abbraccio. Così, le stesse informazioni
sui rispettivi passati sono piuttosto incoerenti e inaffidabili.
Abbiamo chiesto ad A. dove fossero la moglie e la figlia di M.:
“Sono in Scozia”. Abbiamo posto la stessa domanda a O. in
presenza di M. e O. ha risposto: “In Darfur”. Seguì una breve
discussione tra M. e O., e O. si corresse: “No, sono in Scozia.
Sai, non lo sapevo nemmeno io”. In seguito, M. ci ha mostrato
delle immagini di loro in una città che sembrava più simile alla
nostra idea di Scozia che non al Sudan.
    Se queste informazioni sono poco chiare e non verificabili,
ciò non significa che siano false. Ma nella Giungla, queste sono
solo indicazioni di scarsa utilità. Per esempio, un uomo sposato
con figli non è percepito come più legittimato nella sua volontà
di emigrare. La vita quotidiana qui è vissuta in un’uguaglianza

140
di fatto, senza moglie e figli. Pertanto, queste informazioni
non implicano una particolare motivazione né una traiettoria
specifica nello stereotipo migratorio comune.
    Ciò che si dice della vita precedente è di scarsa importanza,
e per questo si usa una lingua veicolare. La varietà culturale che
costituisce il Sudan comporta l’uso di decine di lingue. L’arabo
è la lingua comune e serve come lingua veicolare, ma per la
maggior parte dei sudanesi presenti nella Giungla, l’arabo non
costituiva la lingua materna. Tuttavia, i nomi personali sono legati
alla lingua e spesso non sono molto traducibili, a causa del loro
contenuto semantico o della loro pronuncia. Di conseguenza, il
fatto stesso di nominare le persone può essere problematico. I
nomi sono quindi tradotti in arabo, il che è tanto più sorpren-
dente per i cristiani del Sudan meridionale. Quando arrivavamo
nella Giungla in cerca di una persona, era impossibile trovarla.
O usavamo i nomi originali, ma nessuno li conosceva, oppure
usavamo i nomi arabi, ma questi si riferivano a troppe persone,
in reti di persone che del resto si conoscevano troppo poco per
essere davvero di aiuto. A meno di non incontrare qualcuno di
veramente vicino alla persona che si cercava, e che conoscesse
anche noi (in altre parole, a meno di non avere avuto un forte
effetto contestuale), era molto difficile trovare qualcuno che
non si trovasse lì dove si stava cercando.
    Nella Giungla, un migrante non può davvero definirsi
sulla base della sua vita precedente, perché le origini non
condivise, i punti di riferimento più elementari della vita
quotidiana ormai assenti e le scarse implicazioni di questa o
quell’informazione rendono del tutto obsoleto mobilitare il
proprio passato e, di conseguenza, il proprio status. In questo
luogo effimero, ognuno veniva con le proprie competenze
e qualità, ma le informazioni circa la propria vita, che di
solito contribuiscono a una migliore conoscenza dell’altro,
qui venivano obliterate da una condizione comune. In altre
parole, la varietà e l’unicità di una persona dovevano essere

                                                                141
ricostruite continuamente, perché erano quotidianamente tra-
volte dall’obiettivo comune e dalla vita quotidiana stereotipata
di migrante nella Giungla. Ma a questa “riduzione del sé”, che
avrebbe potuto limitare al minimo le relazioni tra le persone,
si opponeva la necessità di unire le forze, per le costruzioni e
per l’approvvigionamento alimentare; la prossimità generata
da queste condizioni di vita consentiva poi di coordinarsi per
il superamento dell’ultima frontiera. Tutto questo, insieme alla
necessità di non restare isolati, ha indotto le persone a entrare
in interazioni durature e a condividere una grande intimità
con persone che non si conoscevano prima e che forse non si
sarebbero mai più riviste dopo. Per resistere a questa tensione
tra vivere delle difficoltà e condividere un’intimità con delle
persone che non si erano scelte, ci è parso che la soluzione
adottata dai migranti fosse quella di “fare come se”. La vita
dei migranti nella Giungla li costringeva ad agire e a stare
con persone con cui si aveva anche poco in comune, se non
il fatto di provenire dallo stesso luogo e il fatto di non poter
più essere veramente quello che si era stati fino ad allora.
Era dunque necessario attribuirsi un ruolo, o anche solo un
atteggiamento. Non potendo ricorrere a uno status sociale
né a una comune e forte struttura organizzativa sociale, è
stato grazie alle abitudini relazionali individuali, cioè grazie
a competenze che potevano essere mobilitate in modo abba-
stanza “economico”, che i migranti hanno creato quello che
alcuni osservatori consideravano un campo arcaico in terra
europea e altri, più entusiasti, un villaggio dal tocco esotico.
Si trattava piuttosto di una città, come ne conosciamo molte,
in cui tuttavia era imposta una coabitazione forzata in uno
spazio ridotto a persone senza necessariamente forti legami
tra loro, in termini di categorie sociali, nazionalità e lingua.
    Questa città, senza catasto e con una così breve storia alle
spalle, non costituiva nemmeno un assemblaggio di culture
differenti, che avrebbe portato a un distretto sudanese, a uno

142
siriano ecc. Ci sembra che l’assenza di interesse e di coinvolgi-
mento istituzionale per la vita della Giungla (per esempio, non è
stata istituita una vera e propria delegazione presso un’autorità
di rappresentanti dei migranti) vada di pari passo con questa
situazione. Perché bisogna vivere in un collettivo più o meno
organizzato quando si ignora praticamente tutto dell’altro, e
quando ognuno può partire da un momento all’altro.
    Tutti questi luoghi, moschee sciite e sunnite, chiese, ristoranti,
negozi e discoteche, più o meno tutti simboli di identità e di
culture diverse, riuscivano facilmente a coesistere in una densità
abitativa incredibile. Sciiti e sunniti potevano pregare insieme,
tutti si rispettavano, o almeno si tolleravano a vicenda, perché
ognuno doveva rinunciare a una parte di sé e contribuire ad ali-
mentare una società che non era altro che una rappresentazione.
Per quanto riguarda i sudanesi, è stato davvero sorprendente
vedere giocare insieme a domino persone appartenenti, da un
punto di vista categoriale, a gruppi etnici che in Sudan sono in
competizione, dove ognuno avrebbe potuto rappresentare uno
dei campi in conflitto a livello geopolitico. Come affermato da
Michel Agier (2013: 114):

   Le persone si sono installate, ecco l’idea di base. Questo princi-
   pio comporta due conseguenze: in primo luogo, si sviluppa un
   collettivo e, in secondo luogo, una certa comunità può nascere
   intorno al collettivo. [...] Si tratta di una forma di assembra-
   mento e di insediamento umano cui è difficile assegnare un
   nome: non è un villaggio, non è nemmeno una “comunità”,
   nel senso che rinvia a un’identità “profonda” o originale, come
   si intende nella lingua identitaria, ma piuttosto una comunità
   temporanea.

    L’emergere di una comunità compatta è spesso la conseguenza
di una situazione di violenza. Ci troviamo quindi di fronte a una
logica segmentale di formazione di unità rilevanti, dove ogni
gruppo trova la sua giustificazione in opposizione a un altro

                                                                    143
gruppo, entrambi pertinenti in questo contesto e sorti forse
solo in funzione di esso.8

Scelte impossibili

Nel febbraio 2016, la decisione di demolire la zona sud era
presa, si trattava ormai di giorni. Il giudice responsabile del caso
aveva solo vietato la distruzione dei “luoghi di vita”, espressione
ambigua che di fatto escludeva le abitazioni. Bisognava lasciare
solo i luoghi di culto e le scuole. L’atmosfera nella Giungla era
tesa, i limiti della zona meridionale erano già stati erosi dalla
demolizione, e le case erano state spostate nella zona setten-
trionale. I nostri piccoli gruppi di conoscenti, impegnati nelle
loro attività quotidiane, spesso le interrompevano per parlarne.
Anche se le loro capanne stavano per essere distrutte, nessuno
di loro sembrava deciso sul da farsi: andare al campo dei con-
tainer? Andare nella zona nord? Andare in un’altra Giungla?
Andare a Parigi in uno squat? Provare il tutto e per tutto per
andare in Inghilterra? Si avvertiva un senso di rassegnazione
e di paralisi, come se, finché esistevano le capanne, nessuna
decisione poteva essere presa. Come se la decisione e la scelta
potessero avvenire solo dopo l’espulsione, quando ormai non
si ha più scelta.
    Due donne e un uomo, francesi e piuttosto giovani, tra i 25 e i
30 anni, si sono avvicinati alle capanne in cui stavamo. Andavano
in giro (erano in “missione di assistenza”, nel loro gergo) per
fornire informazioni. L’associazione per la quale questi giovani
lavoravano, riconosciuta di pubblica utilità, si chiama La Vie
Active. La loro missione ufficiale è quella di prendersi cura e
sostenere le persone disabili nella regione Pas-de-Calais. In un

   8
     Si vedano in tale senso alcuni classici, come Favret-Saada (1966) e
Evans-Pritchard (1968).

144
Il “Centro d’accoglienza provvisorio”, costruito nel bel mezzo della
Giungla • foto di Jean-Baptiste Eczet

misto di inglese e francese cercavano di spiegare: “L’area meri-
dionale deve essere evacuata, perché le case saranno distrutte;
avete due opzioni: o andate al campo dei container, dove potete
richiedere asilo qui o in Inghilterra, oppure prendete un autobus
(in partenza ogni mattina) per una città, il cui nome vi verrà
fornito alla partenza, per raggiungere un centro di accoglienza
per richiedenti asilo; potrete presentare domanda di asilo lì,
con il vantaggio di farlo in un’amministrazione meno saturata;
fate come preferite; dipende da voi, non siete obbligati a fare
nulla, ma dovete scegliere”.
    “Toh”, disse il giovane uomo in francese, “questo ha una ferita
alla gamba”. Dopo una richiesta di spiegazioni sull’infortunio

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a F., che mal celava il suo dolore, il giovane gli suggerì di rag-
giungere un container. Lì sarebbe stato curato. “Deve essere
stato picchiato con una spranga per avere la tibia in queste
condizioni, deve essere stato aggredito”, aggiunse in francese
ai suoi colleghi. Tutti ci avevano detto che era stato investito da
un’auto in Italia. Il piccolo gruppo di volontari si spostò verso
le altre capanne per fornire le stesse informazioni.
    I pochi sudanesi presenti non avevano compreso appieno
le informazioni e la posta in gioco. Ci chiesero di ripetere, so-
prattutto perché eravamo intervenuti in francese per chiedere
chiarimenti sulla questione delle destinazioni degli autobus.
Dopo la discussione, siamo arrivati a una conclusione:

   La zona sud deve essere evacuata, e le case saranno distrutte;
   ci sono due possibilità:
   1) andare al campo di container dove è possibile presentare
   domanda di asilo. Il vantaggio è che lì c’è caldo. L’inconve-
   niente è che non si sceglie con chi si condividono le camerate
   da dodici letti, che non si può cucinare, che non si possono
   ricevere ospiti e, soprattutto, che ci si registra e si accede al
   campo passando il palmo della mano su un lettore;
   2) prendere un autobus per una città, il cui nome sarà comu-
   nicato alla partenza, per entrare in un centro di accoglienza
   per richiedenti asilo;

   In entrambi i casi è necessario registrarsi e, di conseguenza
   prima o poi, entrare nel sistema degli Accordi di Dublino,
   che prevedono la richiesta di asilo e di documenti nel primo
   paese in cui si è entrati/registrati; il rischio è di essere espulsi
   e rimandati a casa o al confine; è una scelta volontaria.

    I rappresentanti dell’associazione avevano posto grande enfasi
sul carattere volontario della scelta. Non sembravano riflettere
sul fatto che questa libertà di scegliere se accettare l’una o l’al-
tra procedura implicava l’entrata in un regime di non scelta,

146
di non scelta della procedura amministrativa e, addirittura, di
non scelta della città di destinazione dell’autobus.
    Ma soprattutto, fornire un proprio dato biometrico, anche
se si trattava del palmo della mano e non delle impronte digitali,
anche se rimaneva in teoria riservato e non sarebbe stato fornito
alle autorità, era la cosa che più preoccupava migranti, perché
avrebbe consentito la loro tracciabilità. Un solo foglio, toccato
con la punta delle dita, avrebbe potuto bloccarli. Mentre queste
riflessioni ancora risuonavano, una coppia si avvicinò. Niente
gilet fluorescente, si trattava di un uomo discreto accompagnato
da un altro più rude, che si rivolgeva ai sudanesi in arabo. Non
sappiamo a quale istituzione appartenessero. Avevano sentito
pronunciare le nostre ultime frasi, noi che avevamo cercato
di essere fattuali nelle dichiarazioni e nella restituzione delle
informazioni, senza necessariamente sostenere che la soluzione
proposta da La Vie Active fosse negativa. Una precauzione suf-
ficiente per apparire, ai loro occhi, sospetti. E siccome l’uomo
più rude pensava che questa opzione fosse pessima, e voleva
combattere per i migranti, è passato dall’arabo all’inglese:

   “Don’t leave your house! It is your home! They cannot destroy
   your house if you stay inside! OK? Now it is time to be cleaver!
   Don’t be stupid” aggiunse, battendo il dito indice sulla testa,
   per indicare il luogo del pensiero. “Don’t listen what people
   say! They want to put you in jail! You are not things but human
   beings. So stay in your house, don’t leave it!”.

    Ripeté queste parole più e più volte, come un insegnante di
scuola che impartisce una lezione a un somaro, in modo infan-
tilizzante. E questa era la più forte contraddizione in questa
situazione, la compresenza indissolubile di un’ingiunzione e del
libero arbitrio: l’uomo più rude voleva che i migranti fossero
liberi di poter restare nelle loro capanne. Lo voleva talmente,
da impartire loro un ordine. L’ordine era di restare dentro, di

                                                                  147
non abbandonarle mai, altrimenti sarebbero stati stupidi, loro
che parlavano solo di andare in Inghilterra. Per quanto riguar-
da i tre giovani, hanno continuato a invocare il libero arbitrio,
quello di farsi rinchiudere in un container o in una procedura
amministrativa. “Hope to see you at the camp” dicevano uno,
“we’ll save the jungle!” rispondeva l’altro, e i migranti non
sapevamo più cosa fare, perché ogni scelta e ogni libertà che si
poteva sperimentare comportava un prezzo da pagare.
   Solo due o tre furono i commenti scambiati dalla decina di
sudanesi che avevano assistito al passaggio dei due gruppi, ed
era piuttosto evidente che i secondi seguivano i primi passo
a passo per contraddirli. Anche se si trattava in ogni caso di
scelte di vita che potevano avere enormi ripercussioni, tutto si è
interruppe quando S. propose una partita a domino, un modo
per sperimentare un gioco di scelta e di strategia, ma senza il
peso di una scelta vitale.

Collere di nostalgia

Il diritto di fuga all’origine di un progetto migratorio volontario
può generare convivenze difficili o un sentimento di precarietà,
come abbiamo potuto notare nel marzo successivo, quando la
demolizione dell’area meridionale della Giungla era ormai in
pieno svolgimento. Alcuni scontri avevano segnato il lavoro
degli operai incaricati della demolizione, ma probabilmente
meno del previsto. Tuttavia, i giorni passavano stranamente, e
incendi scoppiavano nelle case che erano state abbandonate.
Spesso i reparti antisommossa circondavano le capanne fumanti,
anche se queste avrebbero dovuto essere demolite di lì a poco.
Ancora più confusa per noi osservatori era l’ansia di alcuni
membri di ONG europee, che erano venuti per aiutare i migranti
e avevano anche portato dei trapani elettrici per smontare le
capanne che loro stessi avevano cercato di preservare con la

148
Case bruciate durante lo smantellamento della zona sud, marzo 2016 •
foto di Jean-Baptiste Eczet

lotta. In realtà, non facevano altro che anticipare il peggio,
per prevenirlo: si trattava come di impedire ai migranti di
distruggere le loro stesse capanne, e di lanciarne i resti contro
le pareti delle altre capanne. A ogni incendio, cui seguivano le
demolizioni improvvisate, una troupe televisiva si avvicinava
per osservare, senza commentare troppo, questa distruzione
anticipata rispetto all’orario ufficiale. Su BFM TV, l’allora
prefetto della regione Nord-Pas-de-Calais, Fabienne Buccio,
sosteneva essere “una tradizione della popolazione migrante
distruggere il proprio habitat prima di partire”. La reazione
delle associazioni presenti nella Giungla fu proporzionale alla
pigrizia intellettuale del prefetto.

                                                                 149
Ma se tutti i migranti hanno trovato ingiusto, o per lo meno
scorretto, vedere la propria abitazione temporanea distrutta,
perché allora distruggerla da soli? Perché la distruzione da
parte delle vittime stesse della distruzione? Perché la rabbia, se
di questo si trattava, non era rivolta verso i distruttori, o verso
chi promuoveva la demolizione della Giungla, intensificando
gli scontri? Perché non hanno seguito i consigli dell’uomo più
rude, rimanere barricati nelle capanne?
    Descrivere questo momento è difficile, perché gli osservatori
erano numerosi, ma gli incendi erano estemporanei e molto
brevi, e nel frattempo i migranti si disperdevano ovunque. In
generale, l’atmosfera che si respirava era un misto di eccitazione
e tristezza. L’espressione della rabbia, in compenso, era limitata
a coloro che colpivano con bastoni le case o lanciavano pietre
contro di esse. Gli altri rimanevano spettatori a distanza, senza
dare l’impressione di godersi lo spettacolo. Non si trattava di
un’espressione di rabbia mal indirizzata, ovvero verso le capanne
dei migranti anziché verso i reparti mobili. Non era una forma
di rabbia catartica, espressione di un eccesso, che portava ad
attaccare questo spazio in via di demolizione. In effetti, questo
complesso abitativo non è mai stato particolarmente apprezzato
dai migranti, tanto che non erano così dispiaciuti da impedirne
la sua demolizione: non va dimenticato che la maggior parte
dei migranti ha criticato la Giungla e le sue condizioni di vita
e che il loro obiettivo non era quello di rimanervi.
    La rabbia manifestata da alcuni contro queste baracche
di legno e teloni, come la tristezza dei testimoni a distanza,
era probabilmente dovuta a una forma di riflessività che tutti
provano quando si accorgono che il senso di ingiustizia e la
tristezza sono sentimenti odiosi se applicati a qualche pallet.
Questa devastazione nasceva da un sentimento contraddittorio,
dovuto alla rabbia per aver perso qualcosa di cui in fondo ci
si era sempre lamentati. Era la sensazione di “sentirsi ridotti
a rimpiangere una baracca di merda”. In generale, i migranti

150
avevano sempre criticato la Giungla e le sue condizioni di vita,
ma era pur sempre la vita che loro avevano costruito in attesa
del passo successivo. Ecco perché, una volta terminata la demo-
lizione della zona sud, alcuni bruciavano o spaccavano questo
oggetto ambiguo, il cui rimorso è iniquo. La vera tristezza non
nasceva dal vedere distrutta la propria abitazione temporanea.
Nasceva dal fatto che provare un rammarico per questa demo-
lizione era segno della più grande privazione.

Conclusioni

Vite stereotipate, socialità dalle fondamenta deboli nonostante
la stretta convivenza, scarsa considerazione della vita prece-
dente a causa del livellamento delle condizioni di esistenza,
ecco gli aspetti della vita dei migranti che hanno partecipato
all’esperienza della Giungla di Calais. A questa “riduzione”
dell’esistenza delle persone corrisponde in maniera simmetrica
una “riduzione” di cui i media, ma anche i ricercatori, sono la
causa: queste persone sono qualificate come “migranti” dal
passaggio in forma nominale di un participio presente, cioè a
causa dell’essenzializzazione di un processo. Tuttavia, essi sono
in migrazione solo da pochi mesi, e il termine “migranti”, in
quanto categoria socio-politica, non corrisponde alle categorie
specifiche delle persone (Canut 2016). Nella Giungla, i nostri
interlocutori non hanno mai usato quel termine per riferirsi a
se stessi. Prima della migrazione che li ha portati a Calais, era-
no contadini, padri, dipendenti di ONG, guide turistiche ecc.
Riduzione asimmetrica delle persone, quindi, che non sembra
nemmeno così sbalorditiva perché la vita nella Giungla è ca-
ratterizzata da una routine opprimente e da un’accumulazione
di vincoli, cioè da un’esistenza pragmatica basata su una vita a
sovranità limitata.
    Così, le persone che avevano intrapreso un percorso

                                                              151
migratorio, di cui la Giungla di Calais era una tappa, vivevano
un concatenamento di esperienze definite dalla convergenza di
più elementi: una situazione sociale considerata insopportabile,
la conseguente volontà di movimento e una serie di ostacoli
costituiti da leggi, polizie, traversate ecc. A questo proposito,
vale la pena ricordare che questi migranti, come quelli che
abbiamo seguito per alcuni mesi, sono coprodotti dallo stesso
meccanismo volto a prevenirne e impedirne la migrazione.

Riferimenti bibliografici

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Canut Cécile (2016). Migrants et réfugiés: quand dire, c’est faire la
   politique migratoire (www.vacarme.org/article2901.html).
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   faire le portrait d’un migrant?, “Terrain”, Portraits (http://terrain.
   revues.org/16129).
Evans-Pritchard Edward E. (1968). Les Nuer. Description des modes
   de vie et des institutions politiques d’un peuple nilote, Gallimard,
   Paris [ed. or. 1937].
Favret-Saada Jeanne (1966). La segmentarité au Maghreb, “L’Homme”,
   6 (2), pp. 105-111.
Lennon John J. e Fooley Malcom (2000). Dark tourism: The attraction
   of death and disaster, Londres, Continuum.
Prunier Gérard (2005). Le Darfour. Un génocide ambigu, Paris, La
   Table Ronde.

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