Intervista a Alessandro Frangioni.
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Come sfruttare le opportunità del web per restare competitivi in pieno Covid-19, intervista a Alessandro Frangioni. Poche settimane fa si è tenuta l’ultima edizione del Web Marketing Festival, completamente online e con una novità assoluta: una sala dedicata esclusivamente alla Marketing Automation. A l e s s a n d r o F r angioni Ho avuto il piacere di condividere con Alessandro Frangioni la sala e il momento Q&A. Per me era il primo anno e ho parlato di “Marketing Automation: obiettivo lead generation e lead nurturing in ottica Inbound Marketing”, Alessandro è un veterano e uno dei formatori e degli speaker italiani più seguiti quando si parla di strategie di digital marketing. Questa intervista è dedicata a tutte le imprese italiane e non solo che anche in questa seconda ondata di Covid-19 si sentono perse e non sanno come risollevarsi. Questa intervista è dedicata a chi vuole capirci qualcosa in più di quali sono le opportunità del web e a chi vuole risposte concrete che, Alessandro grazie alla sua esperienza sul campo, può darci in modo chiaro ed efficace, come solo lui sa fare. Questa intervista è per chi non vuole più farsi condizionare da fattori come il Covid-19 ma vuole conoscere tutti gli strumenti per continuare a fare impresa anche in piena pandemia! Ciao Alessandro, sei reduce dal Web Marketing Festival dove nella sala della Marketing Automation hai trattato un tema molto importante per le nostre PMI e attività local: “Marketing Automation & Facebook Ads anche con low-budget”. Ci racconti come è andata e qual è il tuo pensiero su questo argomento? Ciao Ilaria e grazie per questa intervista. Sì poche settimane fa eravamo al Web Marketing Festival, in questa straordinaria edizione online ovviamente, dove rispetto alle altre volte ho voluto portare un argomento complementare al mondo dell’advertising che è quello della Marketing Automation. Tra l’altro è stato anche il primo anno per la sala Marketing Automation al Festival, che anche se online, è sempre carico di emozioni e adrenalina: è mancato il contatto con le persone, ma ci
rifaremo nelle prossime edizioni sicuramente. Parlando di Marketing Automation posso dire che negli ultimi 2 anni soprattutto sta aumentando la consapevolezza di questo incredibile “strumento”, anche da parte di piccole/medie aziende dove sicuramente i costi incidono molto e scoraggiano gli imprenditori. Mi ricordo che solo 4 anni fa in Italia si aggirava attorno al 2% l’uso della Marketing Automation nelle strategie digital: un abisso confrontando gli USA dove già il +60% delle strategie la prevede. Lavorando con clienti sia in Italia che in USA posso notare un approccio completamente diverso degli imprenditori al digital marketing. Quello che noto in Italia è la mancanza di pazienza, di tempo. Non facciamo in tempo a lanciare le campagne che già vorremo vedere dei risultati nei primi giorni. Certo è importante misurare tutto, ma l’advertising è anche investimento e branding. Siamo cresciuti con la regola di “non accettare caramelle dagli sconosciuti” giusto? Questo spiega tutto. Prima di acquistare qualcosa dobbiamo e vogliamo conoscere di più sul prodotto o i servizi che stiamo cercando: è proprio qui che la marketing automation da il suo prezioso contributo. Infatti è determinante per creare un rapporto nella fase di post-acquisition: clienti acquisiti, ex clienti, potenziali, interessati. Quando lavoro con clienti soprattutto fuori dall’Italia è per tutti fondamentale lavorare sul brand, qui invece spesso ci troviamo davanti alla necessità di dover piazzare qualcosa a qualsiasi costo. E già questo è un approccio sbagliato: magari concentriamo gli sforzi nel cercare insistentemente pubblici nuovi quando potremmo ottimizzare chi è già nel nostro funnel. L’importanza dietro a tutto questo potremmo riassumerlo in 2 termini: misurazione e audience. Per fare marketing automation si parte sempre dalla misurazione e quindi il tracciamento perfetto in grado di conoscere il comportamento e la customer journey di una persona. Da questi dati sempre più precisi ricaviamo le audience, ovvero i pubblici su cui creare poi una comunicazione più personale, più efficace. Un altro errore nella cattiva interpretazione della Marketing Automation è il pensare che esista un tool che fa tutto da solo o che sia banalmente un’attività di email marketing. Prima di tutto la MA è strategia, punto. E non va introdotto subito e al 100% ma in modo graduale e progressivo, partendo da una parte (magari solo sul servizio/prodotto di punta) e ottimizzandola sempre di più. Quello che è vero riguarda i costi: costa la strategia, costa la messa in opera e costano i tool. Però esistono un sacco di strumenti che permettono di iniziare anche con poche centinaia di euro al mese. Sono contento di vedere che anche in Italia stia crescendo il bisogno di questo. E mi fa piacere vederlo richiedere anche da attività piccole/medie, dove già partire da un’automation strutturata che prevede email, chatbot, personalization o social proof si può fare veramente a bassi costi. Certo più dati abbiamo e più le piattaforme incideranno nel pricing, ma fa parte del business. Scopri il nuovo numero: Simply the best È indubbio che quest’anno passerà alla storia come l’anno della pandemia. Così come indubbio che quest’anno ha portato malessere sociale, psichico ed economico. Ma dobbiamo sforzarci di cogliere un bagliore di luce anche in un anno così buio. Da anni segui le aziende offrendo strategie di digital marketing e non solo, come hai visto
cambiare il pensiero delle imprese e la loro attitudine digitale dopo il Covid-19? Questo Covid-19 di buono non ha lasciato niente, ovviamente. Ma almeno per quanto riguarda il mondo dell’advertising e del digital marketing ha sicuramente contribuito nel provarci anche a quelle attività local che magari usano i social o il sito giusto come biglietto da visita. Non lavoro con attività locali, però tutti abbiamo visto anche il ristorante sotto casa ingegnarsi e fare qualche piccola sponsorizzata sotto lockdown. Credo che qualcosa il Covid-19 abbia mosso, quello di cui non sono sicuro è se queste piccole aziende manterranno – anche a situazione normale – un minimo di advertising. Alcuni hanno aperto piccoli e-commerce, altri con WhatsApp e qualche chatbot si sono organizzati per gestire prenotazioni o richieste. Per non parlare di chi si è adoperato per spiegare come fare qualcosa direttamente da casa, come nel settore hair e beauty. Per fortuna l’advertising sta crescendo così come la necessità di avere una strategia: aumenta la competitività, aumentano i budget, aumenta il lavoro dietro alla creazione delle campagne e diventerà ancora più importante seguire in contatto e conosce l’azienda. Sicuramente può costare meno che trovare nuovi clienti! Ovviamente non vale in tutti i settori. Quello di cui ci stiamo rendendo conto è che ogni mese i costi per una strategia digital prevedono budget sempre più alti, per questo mi sento di dire che una fetta di aziende non potranno permettersi il digital al 100%. O meglio, più che non potranno permettersi bisogna vedere quanto sono disposti a crederci seriamente. A livello local non vedo molti problemi, essendo target ristretti la piccola attività potrà sempre far un buon lavoro. Ma chi vuole uscire dal proprio orticello deve necessariamente prevedere un budget ed essere costante se vuole raccogliere risultati. A volte molte aziende si lamentano dei costi del digital (non solo dei budget ma anche di operation come freelance o agenzie) e spesso sono delusi dai risultati. Poi analizzi nel dettaglio e vedi che manca la strategia, ciò che hanno fatto è stato fatto “di pancia” e soprattutto non si è monitorato niente. Servirebbe una formazione obbligatoria per tutti gli imprenditori o marketing manager sul digital: quello che spesso manca è la conoscenza. E nel digital non è ammessa ignoranza, perché questa si paga con costi e con danni all’immagine del brand. Ricollegandomi al discorso dei costi eccessivi del digital, dobbiamo considerare però che la stessa azienda – o meglio imprenditore – spende a fine anno per auto o orologi lussuosi e magari in assurdi banner in quotidiani locali pieni di banner con cifre spesso importanti. Forse è il momento di alzare un po’ la testa e svegliarsi, questo è il consiglio che mi sento di dare in tutta sincerità. Un piccolo aneddoto che mi diverti sempre. Un paio di anni fa ho organizzato un piccolo evento gratuito per aziende, giusto per dare un contributo nella mia città. L’obiettivo era far aprire gli occhi alle aziende sul digital. Abbiamo chiesto e ottenuto diversi appoggi, fra enti e istituzioni del posto, e poi siamo passati ai quotidiani locali. La loro risposta? “Un evento del genere può danneggiarci, se le aziende sanno queste cose smetteranno di investire direttamente da noi. Facebook e Google sono nostri competitors!” Incredibile no?! E posso affermare che avere un banner su un quotidiano locale (non nazionale) in alto sulla home arriva anche facilmente sopra gli 800€/mese.
Ripeto, il digital non ammette ignoranza. 3 consigli che daresti a un’impresa che oggi vuole iniziare a sfruttare le opportunità del web per restare competitiva? Punto 1 – Trovare un partner e non un fornitore: purtroppo il nostro è anche un settore pieno di improvvisati e le aziende che intendono aprirsi al digital giustamente cercano sempre la soluzione più economica. Come dargli torno. Però assicuriamoci di affidare il lavoro a chi ci propone un metodo e una strategia concreta, che dimostri affidabilità. Io punto spesso sul discorso del partner perché è questo che dovremmo essere: un partner e non semplici fornitori di un servizio. Tante volte ho consigliato di prendere il budget di alcune aziende e farci un viaggio perché inadeguato per il business, però troveranno sempre gli chi da una pacca sulla spalla e gli suggerisce di andare avanti. Un buon consulente dovrebbe seguire più attentamente l’azienda. Punto 2 – Avere pazienza: se parti oggi e sei nuovo sul digital non puoi pretendere di essere la scelta migliore. La storicità e la fiducia del brand si conquista nel tempo, nemmeno con un budget alto. Quindi armati di pazienza e sii costante con il piano strategico. Punto 3 – Punta sempre sulla qualità: meglio fare meno ma farlo meglio. Non devi necessariamente avere tutti i social o fare un blog se poi non li segui. Un blog non curato non è una bella immagine, lo stesso per una pagina social curata “a tempo perso”. Eppure basta poco per apparire – almeno – professionali: scegli immagini di qualità, mantieni una brand identity, tone of voice, distribuisci i contenuti con regolarità… Quest’ultimo punto spesso mi fa perfino arrabbiare: abbiamo smartphone incredibili, la possibilità di vedere tutto sui nostri competitors e poi? Pubblichiamo foto ogni volta con filtri diversi, font non in linea con il brand, grafiche ambigue, copy imbarazzanti… Cioè, basta un minimo di impegno per fare le cose, anche internamente, ma con professionalità. Cosa te ne fai di uno smartphone con 3 fotocamere 4k se non riesce a pubblicare 3 foto diritte e con lo stesso stile? La tua agenda è sempre fittissima, dove ti vedremo nei prossimi eventi dedicati al web marketing e non solo? Allora quest’anno è stato molto intenso, tantissimi eventi online. Sinceramente mi è mancato il contatto dal vivo con le persone. Per il 2021 al momento ho 3/4 di conferme di eventi dove ormai sono di casa ma i programmi sono tutti in definizione e vista la situazione è ancora presto per parlarne. Spero tanto di poterli fare online soprattutto perché significherebbe in primis di essere a conclusione di questa situazione. Però posso lasciarti in anteprima 3 spoiler: uscirà il libro su Mailchimp completamente rifatto proprio per le Automation, un nuovo libro sul Mindset per l’advertising e ho in testa anche un master intensivo su strategia, advertising e automation (non per principianti ma per addetti ai lavori). Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del
marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Visibilità online per PMI e professionisti: nasce StrumentiSEO, un servizio per ottimizzare il tuo sito. Contenuto sponsorizzato – Il futuro delle imprese, anche se sarebbe più corretto parlare di presente, è digitale. Non è un mistero che la digitalizzazione passi dalla presenza delle aziende sul web, dall’utilizzo di strumenti di marketing e comunicazione che permettano alle realtà di marcare il proprio territorio di competenza e “farsi notare”. L’epoca del passaparola è finita da tempo, ma la situazione, ad oggi, è ancora molto critica. Se la maggior parte delle piccole e medie aziende italiane, infatti, dispone di un sito internet, la percentuale di chi ha un sito aggiornato e con prestazioni performanti è tragicamente bassa (non si arriva al 20% del totale). È in questo contesto che nasce StrumentiSEO, un servizio online di professionisti dell’ottimizzazione delle pagine web per i motori di ricerca, pensato per le imprese più piccole e per i liberi professionisti. La partita sul web si vince sui motori di ricerca, per essere visibili e raggiungibili è fondamentale che le PMI, così come i professionisti, dispongano di un sito web ottimizzato. Le grandi aziende hanno nel proprio organico dei consulenti interni, oggi indispensabili, mentre le imprese più piccole, con disponibilità economiche ridotte, non possono permettersi una figura del genere. Tra chi la SEO non ha neppure idea di cosa sia, chi ne ignora l’effettiva importanza e chi ancora ha speso e spenderà in modo improprio (troppi) soldi per ottimizzare il sito web per ottenere maggiore visibilità, StrumentiSEO si pone come ponte di contatto, trait d’union in grado di soddisfare le esigenze di chiunque abbia bisogno di farsi notare sui motori di ricerca, acquisire clienti e far crescere il proprio brand. Come funziona StrumentiSEO La piattaforma mette a disposizione una prova gratuita di 7 giorni, durante la quale si potrà testare
il funzionamento del servizio e soprattutto la sua efficacia. Il funzionamento è intuitivo e spiegato passo passo. Tutto parte dall’analisi SEO del proprio sito. Chi vuole provare il servizio non deve fare altro che iscriversi gratuitamente e avviare la scansione completa delle pagine web. Il procedimento è piuttosto articolato e potrebbe richiedere fino a 24 ore per avere il risultato. Al termine dell’operazione, un professionista del team SEO invierà un report dettagliato, il frutto degli oltre 100 controlli differenti effettuati sul sito, all’interno del quale sono riportati con scrupolo tutti i problemi ed errori (ma anche ciò che funziona come dovrebbe) che necessitano di essere sistemati. A quel punto entra in gioco il punto di forza del servizio, ossia la possibilità di pianificare un appuntamento in videochiamata, chat o con una semplice chiamata con uno dei consulenti di StrumentiSEO per analizzare insieme i dati dell’audit. Sarà l’occasione di confrontarsi e valutare anche il piano di marketing che lo specialista preparerà appositamente per il cliente per indirizzarlo sulle best practice da mettere in atto per ottimizzare il proprio sito e avviare una campagna di marketing adeguata al proprio target e alle proprie possibilità. I punti di forza del servizio Il servizio è in fase di lancio a partire dalla metà di settembre, ma abbiamo avuto la possibilità di testare in anteprima l’efficacia del servizio. Ciò che colpisce è la completezza del report, e in particolar modo la chiarezza con cui sono spiegate le criticità di un sito web. Se altri servizi simili offrono un panorama comunque completo e analisi efficaci, il punto di forza consiste di sicuro nell’assistenza, compresa nel pacchetto membership, di un consulente SEO preparato. O meglio, di chi ha una vera passione per la SEO, a tal punto da averne fatto una professione. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Google inventa Grow My Store per supportare le PMI italiane Ripartire da zero, reinventarsi, ricominciare, pianificare e investire. Sì, ma come? C’è bisogno di un supporto concreto alle aziende nella fase post Coronavirus. In particolare, sono le PMI a chiedersi come affrontare gli strascichi della chiusura forzata o fortemente ridotta degli ultimi tempi. Tecnologia, meno male che esisti! Al di là del sostegno economico o di qualche esenzione statale, il vero aiuto viene dalla tecnologia. L’innovazione, la digitalizzazione e l’automazione sono le più incoraggiate via d’uscita, non solo da questa situazione, ma da un problema tipico del nostro Paese, la resistenza al cambiamento. Per troppo tempo i commercianti italiani si sono ostinati a vendere poco, ma affidandosi solo al marketing tradizionale. Non hanno mai pensato che con un app o un sito web avrebbero potuto spedire i loro articoli di nicchia ovunque nel mondo. Molti hanno pensato che postare una foto su Facebook avrebbe aumentato le loro vendite, non è successo e hanno rimosso l’account.
Scopri il nuovo numero > Reset Dopo aver parlato, a febbraio, dell’interconnessione in “Virale” ed esserci interrogati a marzo sulla situazione attuale in “Tutto andrò bene (?)”, oggi, con “Reset”, vogliamo parlare di soluzioni concrete. L’online ed il digitale saranno quantomai utili per offrire soluzioni e creare nuove opportunità. La parola d’ordine è cambiare Da una ricerca realizzata da Netcomm in collaborazione con Google, è per giunta emerso che le aziende con un proprio sito di e-commerce raggiungono un livello di soddisfazione nettamente superiore (53%) rispetto a quelle che adottano diversi modelli di vendita online (35%). Roberto Liscia, presidente di Netcomm ha peraltro precisato: «lo sviluppo di un proprio sito e-commerce è il modello di commercio digitale che genera maggiori vantaggi a lungo termine, nonostante richieda un intenso sforzo nella fase di settaggio iniziale. Per ottenere i migliori risultati è necessario acquisire le giuste competenze». È chiaro, digitalizzare un’attività non è semplice. Dentro un negozio online non ci sono solo le immagini degli articoli, c’è ingegno, strategia, analisi e monitoraggio costante dei risultati. E allora? Tutti i piccoli imprenditori dovrebbero diventare digital marketers o affidarsi a professionisti del settore? Niente affatto. Semplicemente tutti, nessuno escluso, hanno il dovere di guardarsi intorno, ora più che mai e cogliere le opportunità dell’online. Con Grow My Store è possibile costruire store online Per l’appunto, un’ottima opportunità che viene dal mondo digital l’ha ideata Google per aiutare tutte le PMI italiane, e si chiama Grow My Store. L’obiettivo è creare o migliorare la presenza online delle aziende e monitorare i feedback della clientela. Si tratta di una piattaforma gratuita e facilmente gestibile, proprio per venire incontro ai neofiti dell’ambito technology e facilitare il loro accesso a un mondo che è necessario conoscere. Tra i vantaggi, c’è la possibilità di accedere a un report rilasciato dalla piattaforma al termine dell’analisi del sito, che ne indica l’efficacia rispetto alle più importati metriche di confronto del settore. Grow My Store mette poi a disposizione dell’utente una lista di consigli e di approfondimenti per migliorare il proprio e-commerce, è un vero e proprio supporto concreto, con accesso facilitato, all’attività di marketing online. Per esempio, la piattaforma indica se nel sito sono elencati chiaramente prodotti e prezzi, se sono chiare le politiche di restituzione, se esiste un supporto di live chat e se il sito è fruibile sia da desktop che da mobile. Provare per credere: https://growmystore.thinkwithgoogle.com/intl/it_it.
Ricominciare per migliorare È proprio dalle difficoltà e dai momenti più bui che nascono le idee, le proposte e le innovazioni che portano alle rivoluzioni che cambiano radicalmente la nostra vita. All’inizio in maniera un po’ brusca, turbando le nostre abitudini, ma poi chissà che con questi cambiamenti non si scoprano rotte migliori e ricche di opportunità. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Growth Hacking e Inbound Marketing: il futuro delle imprese italiane è qui. Intervista ad Alessia Camera. L’ancora di salvezza delle aziende italiane si chiama internet e vede in due approcci, due facce della stessa medaglia, la sua massima espressione: Growth Hacking e Inbound Marketing. Entrati ormai nei nuovi anni ’20, è imprescindibile che le imprese che vogliano continuare a fare business, abbiano una strategia chiara su tutto quello che è il posizionamento online e sul come sfruttare le opportunità che il web offre. Lo scenario dei consumi in cui viviamo è profondamente mutato negli ultimi 20 anni e continua a farlo sempre più velocemente grazie alla tecnologia e all’innovazione che viene sviluppata ogni giorno. Restare fermi a guardare equivale a perdere quote di mercato che regaliamo direttamente ai nostri competitor senza possibilità di ritorno.
Il consumatore e il processo d’acquisto del 2020 L’esperienza è la chiave del successo di ogni impresa perché il consumatore di oggi è profondamente cambiato: ■ utenti sempre connessi, multi-schermo e multi-device ■ utenti attivi che utilizzano il Web in ogni fase del processo d’acquisto ■ utenti che vogliono essere protagonisti di un’esperienza a loro dedicata ■ utenti che rigettano comunicazioni di massa ma pretendono la personalizzazione del messaggio La creazione di valore della marca si realizza attraverso una total customer experience ossia un’esperienza totalizzante, nutrita da diversi touch points con il consumatore da cui derivano il vantaggio competitivo e la difendibilità del valore stesso. Con la diffusione dei canali digitali, le opportunità di contatto con il cliente sono cresciute esponenzialmente. Con il cambiamento e l’evoluzione del consumatore, abbiamo assistito all’inevitabile mutamento del percorso d’acquisto. L’emblema di questa rivoluzione è lo ZMOT, creato da Google e oggi usato da tutti i marketer per spiegare cosa è successo al consumatore. Infatti l’esperienza d’acquisto offline, prima del Web e prima dei social, si suddivideva in 3 fasi: ■ stimolo, ■ scaffale dove avveniva la scelta fra le diverse opzioni disponibili (first moment of truth) ■ esperienza del prodotto (second moment of truth). Con l’avvento della tecnologia e il successo di massa del Web e degli strumenti digitali, secondo Google esiste un ulteriore passaggio focale: lo Zero Moment of Truth, ZMOT. Si tratta del momento in cui il potenziale cliente costruisce le sue convinzioni e quello in cui il suo proprio personale processo d’acquisto inizia. È la possibilità, che ogni potenziale cliente ha, di cercare informazioni di ogni tipo (schede prodotto, recensioni, forum, blog dedicati, video tutorial e molto altro) online e di farsi una propria opinione sul prodotto o servizio, ancor prima di averlo visto dal vivo o provato. Inbound Marketing, metodologia e applicazione Lo scopo dell’Inbound Marketing è creare esperienze di valore che abbiano un impatto positivo sulle persone e sulle aziende, che siano assolutamente utili a raggiungere i loro obiettivi. Ma come si fa Inbound Marketing? 1. Attirando prospect e clienti sul vostro sito web e sul vostro blog attraverso contenuti pertinenti e utili. 2. Dando valore ai loro bisogni e alle loro esigenze, instaurando conversazioni 1 a 1 grazie agli strumenti di marketing come e-mail e chat. 3. Fidelizzandoli, continuando ad essere il loro consulente ed esperto, un punto di riferimento unico. Una strategia di Inbound Marketing prevede un piano a medio-lungo termine che individui sia le Buyer Persona di riferimento e quindi i clienti tipo ed ideali da voler attirare, coinvolgere e fidelizzare, sia il loro Buyer’s Journey ovvero il percorso d’acquisto che si divide in tre fasi (awareness-consideration-decision) e che deve guidare l’utente verso la conversione finale. Vanno
poi identificati gli obiettivi SMART (Specifici, Misurabili, Raggiungibili, Rilevanti e a Tempo) e definiti gli strumenti per raggiungerli. Leggi anche: ■ L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale). Intervista a Cristiano Carriero. ■ I nuovi anni ‘20: gli anni ruggenti dei social e della tecnologia Growth Hacking, definizione e sviluppo Il termine “Growth Hacking” viene coniato nel 2010 da Sean Ellis, consulente noto per aver risollevato le sorti di Dropbox, LogMeIn, EventBrite e Qualaroo. In una recente intervista rilasciata a Ryan Holiday, Sean Ellis ha definito il Growth Hacking come un processo per trovare le modalità più efficaci per far crescere un’azienda che comprende rapide sperimentazioni per trovare opportunità di crescita in momenti specifici. Mentre l’Inbound Marketing si occupa di creare una strategia a lungo termine, il Growth Hacking ci permette di strutturare un processo di rapide sperimentazioni per verificare quali strumenti inseriti nella strategia possano davvero essere performanti e scalabili. Per questo motivo devono essere considerati come complementari perché insieme riescono davvero a incrementare la crescita e a farlo sul lungo periodo. A l e s s i a C a m e r a , Growth Manager & Head of Digital, professionista e consulente di Marketing digitale Per capire ancora meglio lo scenario attuale e futuro e come le aziende debbano evolvere per continuare a sviluppare business, abbiamo intervistato Alessia Camera, Growth Manager & Head of Digital, professionista e consulente di Marketing digitale, che ha collaborato con 15+ startup, progetti tech, PMI e multinazionali a Londra e in Italia.
D. Buongiorno Alessia, sei approdata a Londra nel 2012 quando si era da poco iniziato a parlare di Growth Hacking, come hai vissuto l’inizio di questo pensiero rivoluzionario? R. Sono arrivata a Londra alla fine del 2012 quando la capitale inglese era molto diversa da oggi. Stavano arrivando gli entusiasti delle startup un po’ da tutta Europa, si ritrovavano i founder che avevano sviluppato app e idee a Helsinki legati all’ecosistema Nokia e Tallinn, per esempio i founder di Skype che poi hanno dato vita a Transferwise proprio allora e gli americani, che dopo gli anni d’oro delle dot.com decidevano di mettere un primo piede in Europa o di tornarci, e ovviamente sceglievano Londra. C’era moltissima energia e anche se nessuno sapeva davvero cosa significasse lavorare in una startup oppure che sviluppare strategie di marketing per startup si chiamasse Growth Hacking, era quello che ognuno di noi faceva nel proprio lavoro quotidiano. Ero partita dall’Italia con un contratto come social media manager per una startup che poi si è trasformato in digital marketing manager per un e-commerce di arredamento in chiave sostenibile, non vedendo l’ora di toccare con mano cosa significasse fare marketing quando il prodotto fisico era una conseguenza di un’esperienza digitale. Mi ricordo che ci trovavamo in quei 3 coworking a Londra (ora ce ne sono più di 50) e già nei primi mesi avevo scoperto che marketing non era solamente svolgere un insieme di attività con l’obiettivo di “farsi conoscere” come avevo studiato e visto in Italia. L’approccio delle startup era totalmente pratico, “scrappy” come si dice in gergo: qualsiasi attività doveva essere tracciata in modo da analizzare i dati e capire quali fossero le conseguenze in termini di business. Nessuno aveva grandi budget e nel 2012 i social media avevano ancora un po’ di potenzialità in termini di contenuto organico: ogni giorno testavamo nuove idee per capire quale fosse quella che poteva farci raggiungere le metriche e gli obiettivi che ci eravamo prefissati e non contava se per fare ciò dovevamo stare in ufficio fino alle 9 di sera, eravamo tutti motivati al risultato. In quel primo anno ho imparato le basi operative di quello che è ancora il mio modo di operare e il mio approccio: una palestra di vita personale e professionale incredibile, che non dimenticherò mai. D. Se dovessi spiegare a un neofita del marketing e del mondo digitale cosa vuol dire fare Growth Hacking e quali sono i suoi vantaggi? R. Il Growth Hacking è una metodologia, un approccio di marketing che si basa sul definire degli obiettivi e sperimentare delle attività in diversi canali digitali utilizzando un approccio numerico per definire se quegli obiettivi sono stati raggiunti. Mette da parte quello che è “il branding” per ragionare in ottica performance utilizzando un metodo sperimentale che ci spinge a pensare che solo i dati ci facciano capire quale è la via corretta. Come dicevo a un evento recentemente, il fatto di “avere esperienza” è spesso una trappola perché chi ha esperienza è “biased”, pensa infatti che una campagna su un canale non funzioni perché in passato non ha funzionato. Il Growth Hacking mette in discussione tutto ciò e ci costringe a pensare di avere ragione solo se abbiamo i dati dalla nostra parte. Si parte da un’ipotesi che viene continuamente ottimizzata in ottica di esperienza digitale e di marketing con un mercato di riferimento molto specifico. Oggi il digitale ci fornisce un’opportunità pazzesca, possiamo misurare quasi tutto, dalle performance ai processi aziendali, alla nostra attività e a quella dei nostri clienti online. Perché non sfruttarla, quindi e mettere da parte le nostre convinzioni, cercando di sviluppare un approccio basato su ipotesi che vengono continuamente validate e ottimizzate?
D. Come hai sfruttato il Growth Hacking nella tua esperienza in startup e nel progetto di lancio europeo che hai seguito per Playstation PS4? R. Dalla mia esperienza di 5 anni di lavoro come dipendente e consulente per startup posso dire che l’approccio non è molto diverso dalle PMI italiane: budget ristretti, necessità di avere un riscontro sulle metriche di business e poche risorse. Nelle startup il livello di difficoltà è maggiore poiché non ci sono dati storici e c’è necessità di andare molto veloci (la media europea di vita di una startup è 1- 3 anni) ma al di là di questo le esigenze sono molto simili, ecco perché credo che la metodologia di Growth Hacking possa essere utile anche se applicata dalle PMI italiane. Leggi anche: ■ Email marketing: ecco quali sono i trend più importanti per il 2020 ■ Anno 2020: la trasformazione digitale è cominciata e non è fantascienza. Nelle corporate invece la situazione è diversa e dipende molto dai progetti e dal team: abbiamo utilizzato un approccio di Growth Hacking per il lancio di PS4 perché avevamo obiettivi ambiziosi, potevamo testare i pre-ordini e poco tempo. Tuttavia i budget a 6 cifre che erano stati predisposti non erano un grande incentivo all’ottimizzazione, ecco perché sei molto più tranquillo nell’adottare un processo di Growth Hacking per lanciare un brand conosciuto da tutti: non c’è praticamente nessun rischio. Vai veloce, ottimizzi le attività se il tuo team è molto appassionato al proprio lavoro, com’è successo per il lancio di PS4, ma in realtà le grandi aziende hanno così tanto budget da spendere, che spesso lo spendono in attività poco profittevoli, senza che ciò rappresenti davvero nel breve termine. Bisogna prevedere il cambiamento e accorciare le distanze con i propri utenti, capendo quali sono le attività che portano valore a loro incentivando la relazione tra esperienza digitale e utenti, si impara a lavorare in un’ottica di lungo termine che non dipende solo dai budget che si spendono in pubblicità. Ed è proprio questa la potenza di un approccio di Growth Hacking! D. Torni spesso in Italia per la promozione dei tuoi libri dedicati all’argomento, che scenario pensi ci sia oggi nel nostro Paese e come si stanno muovendo marketer e aziende? R. Negli ultimi 7 anni ho visto che l’Italia sta crescendo e si sta creando sempre più consapevolezza verso i temi di startup e marketing digitale. Certo, non in modo estremamente veloce, ma sta arrivando quella famosa trasformazione digitale di cui tanto abbiamo sentito parlare in questi anni. Professionisti e aziende stanno capendo che non c’è più spazio per le definizioni ed è ora di agire, di tirarsi su le maniche e iniziare a capire dove e come applicare i concetti di Growth Hacking, di marketing e di innovazione che faranno davvero bene al Paese nei prossimi anni e che permetteranno all’Italia di tornare a essere considerata un asset nel panorama internazionale. È vero, sono un’inguaribile ottimista, ma io credo davvero che in Italia ci siano le competenze e l’approccio giusto perché ciò arrivi, siamo persone abituate “a fare” con una grande creatività e capacità di risolvere problemi (cosa che per esempio in UK non sono molto bravi a fare).
I l i b r i p u b b l i c a t i d a A l essia Camera editi da Hoepli: Startup marketing e Viral Marketing, quest’ultimo assieme a Michele Pagani Siamo tuttavia anche conservatori, poco bravi a cogliere la visione d’insieme delle cose e un pochino individualisti, ci aspetta una nuova trasformazione culturale spinta da una nuova ondata tecnologica: useremo la realtà aumentata, il 5G, l’Internet delle cose non solo nel nostro tempo libero ma sempre più in azienda. Ed ecco che sarà proprio nella capacità di applicare queste novità che potremo usare il Growth Hacking per capire come sperimentare e innovare non solamente in fabbrica, ma nel marketing e nella capacità di essere attrattivi per clienti e mercati internazionali. Le opportunità ci sono, dovremo “solo” essere capaci a coglierle, ed è forse nel rischiare che le nostre aziende non sono bravissime a fare, ma sono sicura che guidate e consigliate dalle persone giuste, ce la faremo. D. Qual è il consiglio che ti senti di dare ad una startup italiana che oggi vuole entrare nel mercato ed avere successo? R. Darei tre consigli che sono molto legati tra di loro: non innamoratevi dell’idea, ma testatela con il vostro mercato di riferimento, che non è esclusivamente quello italiano ma è anche quello estero, usando i dati per capire quale strada sia quella corretta da percorrere. Spesso chi si occupa di startup si focalizza sull’idea, con la paura che qualcuno gliela possa copiare. Nonostante siano anni che lo dico, mi trovo ancora a dover firmare degli accordi di non divulgazione (NDA) prima di fare un meeting per discutere dell’idea di un app o di una piattaforma di e-commerce. Colgo l’occasione per ribadire che nessuno vi ruba davvero l’idea, perché l’idea vale solo l’1% di un progetto imprenditoriale. Quello che davvero conta è come sviluppare quell’idea e soprattutto come ottimizzare quel prodotto digitale nel tempo, secondo i dati raccolti, le metriche di business e il
mercato di riferimento, che deve crescere velocemente. Ne approfitto anche per dire che è bello parlare di blockchain o di intelligenza artificiale, ci fa sembrare più interessanti al pubblico, ma non ci garantisce scorciatoie a lungo termine. La tecnologia è solo un abilitatore di un progetto, e spesso, nella fase iniziale è importante davvero testare la nostra idea con gli strumenti che abbiamo a disposizione, e pensare che se ciò funziona, allora possiamo integrare la tecnologia per crescere in modo esponenziale. Il focus deve sempre rimanere sulla relazione tra prodotto digitale e utenti, se ciò non avviene fin dalle prime fasi, beh, ottimizzate affinché questa relazione diventi un’abitudine o lasciate perdere, perché la situazione non potrà che peggiorare. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Innovation Manager: l’innovazione non bussa alla porta Siamo pronti a regalarci un futuro digitale? Ricordo ancora con il sorriso la mia prima macchina da scrivere. Una “Hermes Baby” arancio vivo che, fino a diversi anni fa e proprio in questi periodi dell’anno, con solerzia rispolveravo per avanzare le mie richieste natalizie. Ne ho scritte tante di lettere. Alcune richieste sono state soddisfatte, altre no. Come giusto che fosse, d’altronde. Sono passati un paio di decenni e quel fantastico strumento è ancora lì nel suo splendore d’annata.
Manca l’inchiostro, qualche lettera fa fatica ad alzarsi, alcuni tasti paiono incepparsi al solo toccarli. Cosa potrei scrivere oggi su quelle lettere a Babbo Natale? A metà strada tra i trenta e quarant’anni, ovviamente le richieste sarebbero davvero tante. Tuttavia, andando un po’ oltre i desiderata personali, mi piacerebbe soffermare su un aspetto che interessa molto da vicino chi fa impresa, chi si occupa di marketing e, in generale, tutti noi: oggi più che mai l’innovazione corre veloce e, come ricorda Luca Tomassini, non chiede permesso, condiziona la nostra quotidianità e ci pone delle sfide importanti. Coglierle è il regalo che ogni imprenditore, consulente o dirigente può farsi oggi. Abbiamo solo due strade in realtà. Lasciarci travolgere dal futuro digitale oppure contribuire alla sua realizzazione. E, devo dire la verità, la recente iniziativa messa in campo dal MISE, mi ha lasciato piacevolmente sorpreso: istituzionalizzare la figura del Manager dell’innovazione (Innovation Manager) attraverso voucher per le imprese con l’obiettivo di sostenere i processi di trasformazione tecnologica e digitale delle PMI e delle reti di impresa di tutto il territorio nazionale. Scopri il nuovo numero > Il Natale che verrà Al netto di alcuni limiti sostanziali (fondi vs iscritti), una gran bel regalo per le piccole e media imprese italiane che potranno avvalersi di figure manageriali in grado di sostenerle nell’implementare le tecnologie abilitanti previste dal Piano Nazionale Impresa 4.0, nonché nell’ ammodernare gli assetti gestionali e organizzativi dell’impresa, compreso l’accesso ai mercati finanziari e dei capitali. I Voucher per la consulenza in Innovazione rappresentano una gran bella opportunità di sviluppo per le PMI. Considerando i tempi e la dirompenza delle trasformazioni tecnologiche in atto, la speranza è davvero che le imprese possano e vogliano regalarsi questa opportunità di sviluppo: la capacità di reggere le nuove sfide del mercato dipendono in gran parte ora dalla capacità di leggere ed interpretare le coordinate del cambiamento, adeguando processi, strumenti e paradigmi. Ovviamente, l’iniziativa del MISE rappresenta ancora un piccolo passo che tuttavia indica una strada, una direzione. A ben vedere, il focus è anche molto centrato su aspetti molto tecnici e operativi: la consulenza, infatti, deve essere finalizzata a indirizzare e supportare i processi di innovazione, trasformazione tecnologica e digitale negli ambiti dei big data, quantum computing, cyber security, realtà virtuale, IoT, open innovation robotica, NPR, sistemi cyber fisici, interfaccia uomo macchina, programmi di digital marketing. Attualmente sono circa novemila i consulenti che a vario titolo sono entranti a far parte dell’albo del MISE e, come si evince dalla tabella, gran parte di questi è specializzato nei processi di digitalizzazione: la speranza è che ci possa essere spazio e tempo per tutti quegli aspetti legati alle capacità creative che da sempre distinguono i manager italiani e che da sempre rappresentano il collante necessario tra il saper essere e il saper fare.
I n n o v a t i o n M a n a g e r : vetrina degli ambiti di specializzazione. Fonte: MISE (www.mise.gov.it) Perché se è vero che il digitale è un insieme di nuovi strumenti, di nuove prassi e di nuovi approcci, è anche e soprattutto un nuovo modo di essere azienda. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
I vantaggi della digitalizzazione e il voucher per le aziende offerto dal MISE Oggi la tecnologia è un elemento che domina la nostra vita lavorativa e personale e oggetti e servizi ci vengono sempre più spesso offerti in forma digitalizzata. Inoltre nascono ogni giorno tool, software e app pensati per aiutarci nella quotidianità e la conseguenza immediata è che il termine digitalizzazione è oggi familiare a tutti, indipendentemente dall’età. Cosa significa davvero Digital Trasformation Con questo termine si è soliti indicare oggi un processo di cambiamento e trasformazione digitale che ha l’obiettivo di portare online non solo l’azienda ma tutti i processi di lavoro. Viviamo oggi in un contesto in cui mercati e aziende sono sempre più de-materializzati ed è quindi importante saper creare modelli di business e strategie di marketing adeguate dando vita a un dialogo costante con i clienti esistenti e potenziali. Nella mia esperienza da consulente digitale ho visto che cambiare strategie è una necessità ed è lo stesso cliente a chiederlo: a causa della trasformazione digitale grandi aziende del passato hanno vissuto momenti di grande crisi, basta pensare alla fine di Kodak, altre hanno sviluppato nuovi settori di business o creato apposite app. Ecco un interessante approfondimento sulla app economy. Digitalizzare le imprese è però un processo complesso e costoso con ricadute sensibili sull’attività e strategia aziendale che vanno misurate con appositi KPI. Le aree coinvolte sono essenzialmente tre: ■ Customer experience ■ Processi operativi ■ Modelli di business Tanti però i vantaggi della Digital Trasformation: servizi più semplici, processi più snelli e riduzione degli errori manuali, integrazione degli stakeholder e maggiore efficienza a costi sensibilmente inferiori rispetto alla gestione analogica delle stesse attività. Ricreare nelle grandi aziende una logica di collaborazione e condivisione non è certo semplice dato che la innovazione digitale coinvolge anche i processi organizzativi interni al sistema azienda. Non solo: bisogna ripensare prodotti e servizi, la loro promozione e comunicazione coniugando online e offline. Il voucher digitalizzazione: la proroga e come ottenerlo In data 3 agosto 2018 il MISE ha prorogato il termine per presentare le spese progettuali per interventi di digitalizzazione dei processi aziendali da parte delle aziende assegnatarie del voucher
digitalizzazione. In data 20 giugno era stato pubblicato l’elenco delle aziende assegnatarie e l’importo del voucher prenotato, ma come funziona il progetto? Il voucher consiste in un’agevolazione per le PMI dal valore non superiore ai 10.000 euro complessivi che si può utiizzare per acquisire servizi specialistici oppure hardware e software per il miglioramento tecnologico. Comprende anche l’acquisto di soluzioni ecommerce e la formazione interna in campo ICT. Il termine per l’ultimazione delle spese è stato prorogato dal MISE alla data de 14 marzo 2019, come si legge nel relativo comunicato: “Il termine per l’ultimazione delle spese connesse agli interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico delle imprese assegnatarie del Voucher di cui al decreto interministeriale 23 settembre 2014, indicato all’articolo 5, comma 1, lettera b), del decreto direttoriale 24 ottobre 2017 citato nelle premesse, come modificato dal decreto direttoriale 14 marzo 2018, è prorogato al 14 dicembre 2018. A seguito della proroga di cui al comma 1, fermo restando il termine iniziale per la presentazione delle richieste di erogazione del Voucher, fissato dal decreto direttoriale 29 marzo 2018 a partire dal 14 settembre 2018, il termine finale per la presentazione delle richieste di erogazione è prorogato al 14 marzo 2019”. Per accedere all’erogazione del voucher va fatta richiesta per via telematica e solo il rappresentante legale dell’impresa avrà accesso alla procedura. Pubblicato online l’elenco delle imprese e gli importi per le spese Qui sono disponibili ulteriori informazioni. Il MISE ha pubblicato online l’elenco delle imprese assegnatarie del voucher e l’importo per ognuna di esse a termine dei controlli amministrativi su tutte le domande prenotate. E per concludere un video sull’importanza della trasformazione tecnologica per le imprese. Marketing e strategia: il modello growth hacking. Intervista a Luca Barboni. Di questi tempi arriva per tutti quel momento in cui ci si chiede chi è e di cosa si occupa il growth hacker. Non è una figura mitologica e nemmeno un supereroe, anche se sembra compiere atti eroici aiutando le aziende a migliorare le performance di business. Ma come lo fa? Lo abbiamo chiesto a Luca Barboni, primo tra i growth hacker italiani.
L u c a B a r b o n i : g r o w t h hacker, autore de ” Growth hacking. Fai crescere la tua impresa online” e co-organizzatore del “Growth hacking day” Ormai si sente parlare di questa figura professionale molto richiesta dalle aziende: di cosa si occupa nello specifico e chi è il growth hacker? Il growth hacker è un project manager della crescita aziendale. È una persona che, una volta entrata in azienda, deve valorizzare sia quanto è stato fatto fino a quel momento, sia gestire le attività future: pianificare e mettere in chiaro delle strategie per migliorare la performance e quelle metriche – indicatori, dati – che corrispondono e scandiscono la crescita dell’azienda. Ovviamente, i fattori da tenere in considerazione sono molteplici e non si possono prevedere in quanto le variabili cambiano in base al tipo di progetto e a seconda delle fasi di vita dell’azienda stessa. A volte potrebbe significare aumentare il numero di utenti, altre volte le conversioni sulle pagine specifiche, altre volte il fatturato, quindi non è mai uguale: ogni business è unico. Il growth hacking è un modello che va calato e personalizzato in ogni diverso contesto. Quali sono le linee guida per applicare il modello del growth hacking in un processo aziendale? Bisogna pensare al growth hacking come una scatola vuota con delle regole che ne determinano l’utilizzo. I contenuti della scatola, i dati, dipendono dal singolo contesto di business e cambiano di volta in volta. Infatti, il GH si basa sui dati, per questo in assenza di dati si parla di scatola vuota e la scatola funziona solo se piena. Quando mi capita di tenere delle lezioni, durante i corsi di formazione spesso mi chiedono di fare delle esercitazioni pratiche e mi viene davvero difficile poterlo fare senza far lavorare i gruppi su business esistenti. È necessario lavorare su un vero progetto, avere accesso ai dati reali, analizzarne l’andamento, sviluppare delle attività, prevedere un
budget e investirlo. Senza un progetto concreto si può parlare solo del processo, quella parte che funge da linea guida trasversale da applicare di volta in volta. I cicli di sperimentazione, i test che vengono lanciati continuamente, sono sicuramente l’elemento in comune a tutti i casi. Il growth hacking viene associato alle startup per la loro natura scalabile e ripetibile. È possibile adottare il growth hacking anche in altre realtà aziendali? Ci sono delle differenze ma è possibile (basti pensare che sono riuscito ad applicarlo a Tinder!). Proprio perché il growth hacking è un processo, il suo potere risiede nella bravura del growth hacker di essere in grado di calarlo nel contesto aziendale. Più si è capaci di comprendere il contesto e più si diventa bravi nell’applicarlo a qualsiasi caso. È di fondamentale importanza capire cosa significa acquisition, activation, etc. in un determinato momento di vita dell’azienda per poter mettere in pratica una strategia di GH. Il fatto che sia molto più facile applicarlo al mondo delle startup è da ricondurre ad un unico motivo, secondo me, culturale. Nel senso che le startup sono educate di default a fare tantissimi esperimenti, a ricercare, ad ascoltare i loro clienti e a cercare di costruire qualcosa che si basi sui dati. Questo avviene per un semplice motivo: i dati sono il biglietto da visita delle startup quando si presentano agli investitori; se quei dati non mettono in evidenza un bel trend, diventa difficile ottenere gli investimenti sperati per restare in vita. Perciò, le startup sono già addestrate a ragionare in questi termini grazie al loro contesto particolare. Le PMI, invece, hanno un altro tipo di cultura: la cultura dell’imprenditore visionario, familiare e onnisciente. Le decisioni vengono prese in corso d’opera seguendo una linea vision-driven e non sulla base di vere prove che dimostrino, attraverso i dati, la reale fattibilità delle azioni con conseguente previsione dell’andamento, come invece accadrebbe con una strategia data-driven. Affinché il growth hacking possa far bene a una PMI è necessario assicurarsi che ci sia un allineamento su questi valori, su questa visione delle cose da parte dell’imprenditore o da chi prende le decisioni. Se vuoi un risultato che non hai mai avuto, smetti di fare le cose che hai sempre fatto Un altro aspetto riguarda il modello economico di sostenibilità che per le aziende tradizionali si basa sul fatturato, per le startup no. Le startup possono compensare l’assenza di fatturato per i primi anni grazie ai fondi di venture capital, possono permettersi una prima fase di “tuning” col mercato senza avere entrate. Quindi, dove per la startup ci saranno tanti dati da controllare (conversioni, utenti, in base al modello di business), per le PMI sarà sufficiente guadagnare: la metrica chiave è senza dubbio il fatturato; nelle startup potrebbe non esserlo in certi momenti. Ma viceversa è importante sapere che le PMI non possono scalare come le startup, non devono farlo necessariamente e spesso è l’imprenditore stesso che non vuole farlo. Avere un’azienda non significa necessariamente dover scalare a tutti i costi Per quanto riguarda il business, ci sono dei limiti e delle differenze tra il B2B e il B2C. Per quale dei due business si presta di più? Quali sono le possibilità maggiori di un B2B rispetto ad un B2C in ottica di growth hacking?
Il modello non ha preferenze di per sé. In base a dove lo si applica, ci si concentra su aspetti diversi, cambiano gli obiettivi e i kpi. Per esempio, nell’ambito B2C un elemento molto importante è abbassare il costo di acquisizione utente. Tantissime startup si basano sui fondi raccolti e, se hanno dei prodotti gratuiti (es. Facebook, Pokémon Go), spendono in azioni di marketing mirate all’acquisizione senza avere ritorni immediati (anche per anni). Si pensi che si sta offrendo un servizio gratuito che probabilmente prevede la raccolta di dati, immaginando di capitalizzare su quei dati a posteriori. Per anni, di fatto, si fa acquisizione, pagando per far “salire qualcuno a bordo” ma quel qualcuno non lascia niente. Nel B2C questo è un aspetto critico che si lega al tema della viralità, ovvero cercare di abbassare i costi di marketing incentivando referral, condivisioni, inviti, user generated content e così via. Invece nel B2B l’approccio è completamente diverso: investendo molto su un singolo lead, ci sarà sicuramente un ritorno economico importante. Quindi, se per un’app destinata a consumatori di ristoranti investire 100 euro per una persona che fa un ordine da 40 è follia, per un’azienda che vende ad altre aziende potrebbe non essere un problema perché da margini molto alti si potrebbero comunque ricavare cifre a più zeri. Inoltre, nell’ambito B2C le conversioni avvengono real time, cioè chiunque abbia uno smartphone potrebbe usufruire dei servizi offerti nell’immediato, mentre invece il ciclo di vita di un cliente B2B è tipicamente molto più lungo. Possono volerci anche mesi o anni per chiudere un contratto di fornitura. Quindi ci si concentra su altre aree, come ad esempio la lead generation. È sicuramente un processo molto più lento ma attraverso il quale si persegue molta più revenue per singolo cliente. Perciò possiamo dire che il modello del growth hacking è perfettamente applicabile, è solo necessario studiare il contesto per adattarlo: ogni singola fase del funnel (awareness, acquisition, activation, retention, revenue, referral) deve essere continuamente ottimizzata attraverso il lavoro del growth hacker che mette in campo le sue competenze, capendo come agire e quali metriche necessitano di un intervento rispetto ad un altro. Questo lavoro di direzione operativa sulla crescita avviene collaborando con chi si occupa della strategia aziendale che nella maggior parte dei casi corrisponde all’amministratore delegato. Cambia il focus, non cambia il modello Io personalmente lavoro molto di più con progetti B2B, andando oltre il pregiudizio che accomuna i più, i quali credono che la strategia di GH sia subordinata al fattore virale. Non è affatto così. Le differenza tra il marketer e il growth hacker: se ci sono, quali sono e in cosa consistono. Il marketer o il growth hacker spesso vengono visti come alternative ma di fatto non lo sono. Il growth hacker ha un ruolo di gestione dell’intero processo e mette in contatto i dipartimenti dell’azienda in modo che le diverse figure – marketer, designer, sviluppatori, ingegneri, etc – possano interagire e intervenire a seconda delle attività previste. È un leader, uno stratega, una figura trasversale, e ha un approccio olistico al business. Il marketer ha invece un ruolo ben preciso all’interno di uno specifico dipartimento. Il ruolo del growth hacker è quello di canalizzare al meglio le competenze utili alla strategia. Il marketer è l’esperto più verticale. Spesso un tecnico responsabile di uno o più
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