Amigos brasileiros, cuidados com a cloroquina. Bolsonaro esta mentindo!
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Amigos brasileiros, cuidados com a cloroquina. Bolsonaro esta mentindo! A Sociedade Brasileira de Imunologia (SBI) emitiu uma parecer sobre uso de cloroquina para o tratamento de pacientes com covid-19. O documento ressalta que até o momento não existe terapia comprovadamente efetiva para o tratamento do coronavírus e que esse medicamento em questão, tem efeitos colaterais que podem levar a morte de pacientes. Ignorando as evidências científicas, o presidente Jair Bolsonaro faz campanha intensiva do medicamento. A cloroquina ou hidroxicloroquina são algumas das estratégias terapêuticas que têm sido testadas para tratar a doença. Mas o documento da SBI ressalta que, mesmo que o remédio tenha eficácia comprovada em outras enfermidades, como malária e doenças reumáticas, os fármacos apresentam descrição de efeitos adversos como inflamações da retina ocular, perda de consciência, convulsão, prolongamento QT (que se relaciona com alteração da frequência cardíaca) e toxidade cardíaca, sendo exigido contínuo monitoramento médico dos indivíduos em uso da cloroquina ou hidroxicloroquina. Em estudo recente com 1.438 pacientes com covid-19, que estavam em 25 hospitais diferentes, foram avaliados quatro tratamentos: hidroxicloroquina e azitromicina, hidroxicloroquina, azitromicina e sem uso desses fármacos. Os pacientes que receberam “hidroxicloroquina e azitromicina apresentaram uma maior incidência de falência cardíaca quando comparado com o grupo sem tratamento”, demonstrou o estudo.
Segundo os cientistas, não houve nenhuma “melhora significativa quanto à mortalidade quando foram avaliados os grupos de pacientes que receberem hidroxicloroquina, azitromicina ou ambos os fármacos em associação em comparação com o grupo sem tratamento”. Em outro estudo, foram avaliados 1.376 pacientes com coronavírus. Nesse estudo os pacientes foram avaliados quanto a necessidade de intubação orotraqueal e óbito com duas frentes: com ou sem tratamento com hidroxicloroquina. “Esse estudo mostrou que a introdução do tratamento com hidroxicloroquina não foi associada com a diminuição ou aumento do risco de intubação ou óbito quando comparado com os pacientes que não receberam esse fármaco” aponta a Sociedade Brasileira de Imunologia. A maioria dos pacientes dos estudos acima mencionados, já estavam em estado grave quando receberam esses fármacos. Por isso, recentemente, foram avaliados pacientes com covid-19 em estado moderado. Nesse estudo foram avaliados 150 pacientes em duas frentes: com ou sem tratamento com hidroxicloroquina. O resultado foi que não houve diferença quanto à evolução dos pacientes que usaram ou não esse fármaco, porém foram observados vários efeitos colaterais. Um outro estudo com 90 pacientes com covid-19, observou que os indivíduos em uso da hidroxicloroquina tiveram um risco aumentado de apresentar problemas cardíacos. Em outro estudo foi observado que pacientes graves com covid-19, não devem ser submetidos a utilização de alta dose de cloroquina como tratamento único ou em associação com azitromicina ou oseltamivir, devido a segurança farmacológica
relacionada aos problemas cardíacos e a letalidade. “Baseados nas evidências atuais que avaliaram a utilização da hidroxicloroquina para a terapêutica da COVID-19, a Sociedade Brasileira de Imunologia conclui que ainda é precoce a recomendação de uso deste medicamento na COVID-19, visto que diferentes estudos mostram não haver benefícios para os pacientes que utilizaram hidroxicloroquina”, afirmou a SBI. Os especialistas ressaltam que o medicamento contém efeitos “adversos graves que devem ser levados em consideração”. “Desta forma, a SBI fortemente recomenda que sejam aguardados os resultados dos estudos randomizados multicêntricos em andamento, incluindo o estudo coordenado pela OMS [Organização Mundial da Saúde], para obter uma melhor conclusão quanto à real eficácia da hidroxicloroquina e suas associações para o tratamento da COVID-19”. A entidade ressalta ainda que, “até que tenhamos vacinas efetivas e melhores possibilidades terapêuticas comprovadas para o tratamento dessa doença, o isolamento social para conter a disseminação do SARS-CoV-2 ainda é a melhor alternativa nesse momento. Dados colhidos em vários países do mundo mostram que esta é a única medida efetiva para desacelerar as curvas de crescimento dessa infecção”. da CONGRESSOEMFOCO
Le squallide speculazioni finanziarie sul vaccino e le cure contro il coronavirus Pump’n’dump. Ovvero, gonfia le valutazioni di un titolo con notizie più o meno reali e poi vendi, quando il prezzo è andato alle stelle. Roba da Jurassic Park della speculazione, materiale buono per il copione di Wall Street e le battute da festival del cinismo di Gordon Gekko. Eppure, nel mondo della finanza algoritmica e ad alta frequenza, certe pratiche paiono ancora funzionare. E la cosa grave è che il sospetto riguardo questa strategia non proprio ortodossa si sta addensando attorno a un qualcosa che il mondo attende con ansia e speranza: il vaccino contro il Covid-19. Al centro della disputa la Moderna, azienda bio-farmaceutica che ha monopolizzato la giornata record di inizio settimana alla Borsa Usa, piazzando un netto più 19% rispetto all’ultima chiusura della scorsa settimana a 80 dollari per azione. Il motivo? Ospite di Cnbc, il Ceo dell’azienda, Stephane Bancel, ha dichiarato che il loro vaccino sperimentale, mRNA-1273, ha offerto ottimi riscontri nella fase sperimentale pre- clinica. Bingo! Questo nonostante, in realtà, i test si siano basati unicamente su due sperimentazioni a basso dosaggio su soli 8 pazienti e che l’unico riscontro reale sia stata la non dannosità per la salute. Poco importa, un mondo attanagliato dalla pandemia amplifica tutto. Wall Street, poi, lo decuplica.
C’è però un problema, come mostra il grafico: nelle contrattazioni after-hours il titolo è sceso in area 77 dollari. Il motivo? Con tempismo degno di un centometrista, il management di Moderna appena chiuse le contrattazioni ha annunciato un’offerta pubblica di titoli per 1,25 miliardi di dollari di controvalore in un range fra i 75 e i 77,50 dollari per azione. Bloomberg Morgan Stanley è stata deliziata nell’offrirsi subito come sole book running manager dell’operazione. Insomma, agli occhi dei traders più scafati l’intera mossa è sembrata poco più che un’operazione da piazzista per collocare sul mercato titoli a un +15-20% rispetto all’ultima chiusura.
Forse, è una vendita azionaria promozionale. E non basta. Perché non solo Stephane Bancel appare come un attivissimo venditore di titoli della sua azienda, stando ai movimenti delle ultime settimane ma questa schermata mostra come anche il top holder di Moderna, la Flagship Pioneering Inc. stia vendendo parecchio. Bloomberg Decisamente parecchio. Guarda caso, Bancel sarebbe il controllore anche di quell’azienda. E non basta ancora. Perché istanti dopo l’annuncio di Moderna, l’intero comparto bio-farmaceutico Usa ne ha seguito
l’esempio, annunciando offerte pubbliche di titoli: la Kristal Biotech, la Clovis, la Bellerophon, la Novavax e la Hexo, quest’ultima poco lesta nel cogliere il timingdell’operazione e costretta ad annunciare soltanto il collocamento nel futuro prossimo, senza nemmeno indicare una forchetta di prezzo. Sarà vera gloria medico-scientifica in nome della salute pubblica e della lotta al “grande male” o solo un’operazione di bassa speculazione sul breve? Soltanto il tempo offrirà una risposta ai sospetti, per ora questo grafico mostra come il recente precedente del Rendesivir della Gilead, farmaco le cui proprietà anti-virali furono magnificate dal dottor Fauci in persona, spedendo il titolo alle stelle, non deponga a favore dell’iscrizione del 18 maggio come grande giorno per il progresso medico. Bloomberg/Zerohedge
Infine, la perla. Come riportato dall’edizione Usa di Business Insider, il neo- designato capo della task force nazionale per la lotta contro il coronavirus, dottor Moceaf Slaoui, non solo era il direttore di Moderna, ruolo abbandonato per poter accedere alla carica offertagli da Donald Trump ma continua a detenere 10 milioni di dollari in stock option dell’azienda, la quale sta ovviamente beneficiando anche di finanziamento federale per la ricerca. Insomma, un potenziale – e abbastanza eclatante – caso di conflitto di interessi. Cui vanno ora a unirsi i sospetti di pump’n’dump da parte di Moderna, alla faccia del lockdown, dei cittadini in terapia intensiva e delle migliaia di vittime. Al netto della caccia alle streghe contro Bill Gates o dei complottismi da quattro soldi, una cosa appare sempre più chiara con il passare dei giorni: non solo la ricerca del vaccino anti-Covid è un business miliardario ma rischia di tramutarsi in una gara senza esclusione di colpi, un rollerball finanziario-scientifico per gente dotata di pochi scrupoli. Ma molto pelo sullo stomaco. Mauro Bottarelli per BUSINES INSIDER
Bolsonaro vuole nominare ministro della salute un nemico delle donne che cura i pedofili mandandoli a prostitute In predicato di essere nominato nuovo Ministro della Salute del Brasile, lo youtuber e medico, psichiatra, Ítalo Marsili ha associato l’istituzione del voto femminile alla crisi dei meccanismi di governo delle nazioni. “Nella democrazia greca, che è stata l’unica al mondo che ha funzionato, non era previsto che le donne votassero. Quando il voto è divenuto universale, cioè le donne, tutti hanno potuto votare, non solo le persone responsabili, quelle più capaci, c’è stata una grande crisi nella governance degli stati. Perché è ovvio, è molto facile convincere le donne a votare, basta semplicemente sedurle ”, ha detto Marsili. “Ora che le donne hanno il diritto di voto, la campagna pubblicitaria elettorale è molto facile da realizzare. Basta fare una campagna seduttiva. È così che vinci un’elezione. La metà delle persone che votano sono donne”. Ma, secondo Marsili, a vincere non saranno i migliori, ma magari solo qualche tipo belloccio e senza competenze. ” Oggi come oggi un Churchill non sarebbe mai eletto. Le donne
non voterebbero mai per un uomo come lui. Per loro conta l’apparenza. “. Semplicemente penoso e anche ignorante. Churchill venne eletto anche dalle donne che allora già votavano. Ma il personaggio in questione è capace di ben altro. Italo Marsili la pensa come Bolsonaro sul coronavirus. Ritiene, come il suo mentore, che il distanziamento sociale sia solo una delle tante misure possibili, la cui efficacia non è dimostrata. Tanto vale sperimentare altre soluzioni. Tanto è normale che la gente, e soprattutto gli anziani, muoiano. Marsili è campione di “creatività” in campo medico. Si vanta, infatti, di aver curato un suo paziente pedofilo scegliendo per lui giovani prostitute dalla faccia e dal corpo infantile, ma maggiori d’età, per abituarlo ad andare, pian piano, con donne normali…. Povero Brasile! Lettera di una maestra alla Ministra dell’Istruzione: il suo voto è zero! Cara Ministra le racconto una storia semplice semplice.
Il 16 maggio lei ha deciso di fregarsene delle voci molteplici e unite che si sono alzate dal mondo della scuola e non solo e ha stabilito che si sarebbero dati anche quest’anno i voti in tutte le discipline fin dalla prima elementare. Una mamma di un mio alunno ieri mi manda un vocale, il secondo nelle ultime settimane: “Maestra scusi sono io, volevo dirle che i tablet non sono ancora arrivati, tra poco scuola finita. Mi scusi maestra”. Ho deglutito e ho fatto scendere la rabbia. Ecco, avrei voluto che ci fosse la sua voce tranquillizzante a rispondere a quel vocale, a farfugliare una qualche giustificazione, a spiegarle come mai il 18 maggio suo figlio non ha ancora gli strumenti per “fare scuola”. Nella mia classe ci sono venti famiglie, tre di queste sono ancora senza rete e senza strumento. Non sono le sole ma, ad alcune, ci ha pensato un servizio socio-educativo prestando dei tablet. Ho chiesto un po’ alle mie colleghe e più o meno la situazione è la stessa, i tablet mancano agli ultimi, negli ultimi ci sono anche i bambini con 104, chissà se sa di cosa stiamo parlando! A volte sono i bambini a mandarmi vocali: “Maestra, oggi non posso collegarmi, la mamma va a lavorare e io non ho il telefono”, allora facciamo acrobazie per poter tenere i bambini dentro, cerchiamo di adeguarci tutti, insegnanti e famiglie facendo sforzi enormi, ma non so se ovunque sia così.
Lei, cara Ministra, parla di una scuola seria che dà i voti in ogni disciplina, come se questo fosse fare scuola, come se la relazione fosse l’ultimo anello della catena quando è il primo. Lei mi deve dire che voti do a questi bambini. Come docente, quella che lei elogia ma che non ascolta, mi sento umiliata da lei e dal suo ministero e sento di non poter tacere. Sento che per queste famiglie qualcuno deve parlare. Sento che il mio compito imprescindibile di garantire il diritto allo studio a tutti, si è frantumato dentro ai suoi decreti. Sento che se non posso essere la maestra di tutti, io ho fallito il mio compito. È frustante, glielo garantisco. È frustante rispondere a queste madri. È frustante trovare una giustificazione del perché la scuola non ha fornito ancora una strumento. È frustante pensare che tra meno di un mese sia tutto finito e questi bambini non abbiano ancora l’accesso giusto, però, avranno un voto in pagella, così possiamo dire che la nostra è un’istruzione seria. No, cara ministra, la nostra scuola è classista, dentro alla didattica a distanza ancora di più. Dentro ai voti tocca il suo apice, perché lo sappiamo che l’impegno è qualcosa di strettamente collegato alla vita che i bambini hanno alle spalle. La scuola è una casa, dovrebbe esserlo, in cui tutti hanno un posto, in cui le differenze sociali ed economiche rimangono fuori dalla porta, in cui uno vale uno. In cui i bambini possono sentirsi bambini nel rispetto delle differenze ma nell’uguale attenzione e riconoscimento.
Ad oggi, 19 maggio 2020 non è così. Cara ministra, belle parole le sue: non lasceremo indietro nessuno. Quante bugie. La verità è che mi fa vergognare della scuola, cara ministra. Mi fa vergognare perché io non so rispondere a quelle madri che mi chiedono come mai i loro figli non possono fare scuola. La didattica a distanza non funziona se lascia indietro gli invisibili. Invisibili grazie al nostro sistema. E se noi raccontiamo un’altra storia siamo solo dicenti collusi. Ho il dovere di essere la maestra di tutti i miei bambini e non sono stata messa nelle condizioni di farlo. Questo per me è un grande dolore. Dovrebbe ricevere lei un voto in pagella, cara ministra, di certo non avrebbe la sufficienza. Questa sarebbe l’unica cosa seria della faccenda. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG ) La distanza dalla didattica
by LUDOVICA Garattini, direttore Istituto Mario Negri: c’è il rischio che facciano pagare all’Italia 50 miliardi per il vaccino “Quando arriveremo ad avere un vaccino i costi potrebbero essere molto molto elevati e allora bisognerà farsi trovare pronti e agire per tempo”. Lo spiega Silvio Garattini, decano dei farmacologi italiani e fondatore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, in un’intervista al ‘Messaggero’.
“Una dose potrebbe costare fino a mille euro e solo per l’Italia servirebbero almeno 50 miliardi per poterlo fare a tutti, una cifra insostenibile. Quindi bisogna lavorare a una strategia e sarebbe bene farlo con altri Paesi”. Per Garattini “dobbiamo stare attenti a cosa succede dal punto di vista del prezzo, tenendo conto che, tra l’altro, molti di questi che stanno sviluppando vaccini hanno già ricevuto sovvenzioni pubbliche e da fondazioni private”. “Il nazionalismo è un secondo grosso problema come si capisce dalla dichiarazione del dg di Sanofi: metto a disposizione il vaccino solo per gli Stati Uniti, dove lo hanno già prenotato, ma anche perché lì i farmaci costano molto di più che in qualsiasi altro Paese. Pensiamo – dice il farmacologo – a chi ha meno risorse o ai Paesi in cui non è stato sviluppato il vaccino, avrebbero meno possibilità di averne a disposizione. E allora occorre agire per tempo. I governi devono lavorare fin da adesso con i Paesi in cui si sta sviluppando un vaccino per sapere qual è il percorso da seguire e accordarsi per produrlo in più sedi, perché serviranno miliardi di dosi. Se necessario si potrà ricorrere anche alle disposizioni che esistono nelle contrattazioni internazionali che possono imporre una licenza obbligatoria, se necessario, affinché tutti i Paesi abbiano a disposizione il vaccino”. Secondo Garattini “il vaccino dev’essere un bene comune. La licenza obbligatoria è una strada efficace che negli anni scorsi si è già percorsa, per esempio in India, per il Sofosbuvir, il farmaco anti epatite C, che era disponibile a prezzi eccessivi. Ci sono le modalità per ottenere i risultati, l’importante però è pensarci prima. Quando arriverà il vaccino sarà già tardi e per i governi sarà molto più difficile contrattare”. Le agenzie regolatorie, come la nostra Aifa, possono avere un ruolo? “In questa partita – replica – l’onere spetta alla politica, ai governi. Certamente ci sono
interazioni già in atto tra le agenzie, ma non sono in grado di risolvere questi problemi né spetta loro farlo”. “L’Europa ha l’occasione di fare qualcosa di unico se vuole che tutti i suoi Paesi abbiano il vaccino. Innanzitutto può suggerire una serie di sedi in cui si può produrre e allacciare rapporti con Stati e aziende perché ci possa essere il trasferimento della produzione dove necessario. La salute è sempre stata fuori dalle aree di collaborazione fra i Paesi dell’Unione, la pandemia potrebbe finalmente far scattare l’ora della solidarietà sanitaria. Vanno create alleanze per attivare un meccanismo solidale. L’Europa si faccia capofila per un’equità di accesso ai vaccini. Ma, ripeto, va fatto ora, non fra sei mesi”. Sul tema dei vaccini interviene su Facebook Nicola Zingaretti. “Una sfida decisiva” scrive il governatore del Lazio e segretario del Pd, “un vaccino dovrà essere un bene comune, accessibile a tutti, fabbricato e realizzato in Italia e in quanto tale tutelato”. In modo che “tutti i cittadini abbiano la possibilità di vaccinarsi”. da HUFFPOST Plasma, clorochina, Avigan:
l’assurda e infondata guerra social sulle cure per il coronavirus Fate presto! Questa terapia funziona davvero! Negli ultimi due mesi, come parlamentari, abbiamo ricevuto tantissime sollecitazioni da parte di chi riteneva di aver trovato sui social la “terapia miracolosa”, affinché fosse applicata a tutti e, soprattutto, prima possibile. Da scienziati, abbiamo invitato sempre alla prudenza, perché sappiamo bene che ogni terapia comporta inevitabilmente benefici ma anche rischi di effetti collaterali. Inoltre, solo una valutazione attenta e rigorosa, tale da dimostrare che la bilancia penda dalla parte dei benefici, può consentire che una terapia sia autorizzata in modo definitivo. La condivisione di articoli prima della revisione tra pari (processo che ne garantisce, anche se non in modo assoluto, l’affidabilità) è divenuta una pratica comune, con tutti i vantaggi e le criticità del caso. Se allo scoppio della pandemia la scienza si è messa a correre, i social hanno raggiunto la velocità della luce. Rivediamo un attimo al rallentatore quello che è successo nelle ultime settimane. Il miracolo (?) dal Sol levante La prima terapia a guadagnare una certa rilevanza sui social è stata quella con l’Avigan. Un ragazzo in vacanza in Giappone ha pubblicato un video, poi divenuto virale, nel quale affermava che la gente era tranquillamente in strada in
un quartiere di Tokyo grazie a questa “medicina miracolosa”. In realtà si è scoperto che il farmaco, potenzialmente teratogeno, causa cioè di anomalie o alterazioni nell’embrione, non poteva essere venduto liberamente al pubblico ma era controllato direttamente dal governo giapponese, il quale doveva autorizzarne l’uso. Quindi erano totalmente prive di fondamento le voci di una sua distribuzione ed efficacia di massa. Una consacrazione prematura Poi, è stato il turno dell’idrossiclorochina, un vecchio farmaco antimalarico, che Donald Trump e altri politici americani hanno prematuramente esaltato. La sua fama è derivata anche dalla super-sponsorizzazione di un ricercatore francese molto noto, Didier Raoult, che ha pubblicato anche un articolo interessante ma relativo a pochi pazienti. Sono stati avviati diversi trial clinici in modo affrettato. In alcuni casi però, si è osservato un aumento della mortalità maggiore in seguito a trattamento con idrossiclorochina per la nota cardiotossicità del farmaco, a fronte di deboli effetti benefici. Non ci resta che attendere Un farmaco antivirale non è stato spinto da clamore mediatico ma da dati scientifici più consistenti è il Remdesivir, che ha mostrato dei risultati incoraggianti in uno studio ampio (oltre mille pazienti): il periodo sintomatico per la malattia è passato da 15 a 11 giorni, e la mortalità da 11,6% a 8%.
Sono questi risultati sufficienti per dire che Avigan e idrossiclorochina non funzionano e Remdesivir invece funziona un poco? Non ancora, perché ci sono troppi fattori che devono essere valutati, come ad esempio lo stadio della malattia a cui sono somministrati. Quindi, paradossalmente la partita potrebbe essere ancora in parte aperta, ma sicuramente sarà solo l’esito dei diversi studi clinici autorizzati a darci una risposta definitiva. L’unica certezza è che potremmo trovarci di fronte afarmaci utili sì, ma in ogni caso non miracolosi. Soluzioni via Whatsapp Dopo gli antivirali, è arrivato il momento dell’eparina, pubblicizzata tramite un messaggio “virale” via Whatsapp, perché scioglieva i trombi venosi che si osservavano in maggiore formazione in seguito alla malattia Covid-19 e nei soggetti più gravi. Anche in questo caso, sebbene l’eparina fosse già utilizzata in molti protocolli terapeutici anti- Covid-19, solo una sperimentazione accurata su pazienti con caratteristiche omogenee potrà darci certezze maggiori. La via (problematica) del plasma In fondo alla lista c’è la terapia con il plasma (parte del sangue priva di cellule) prelevato dai soggetti guariti dall’infezione, il cosiddetto “plasma iperimmune”, che risale addirittura al premio Nobel 1901 Emil Adolf von Behring. Purtroppo, a fronte di dati iniziali incoraggianti che andavano però valutati con cautela, sui social si è ancora una volta scatenato il caos. C’è chi l’ha proposta addirittura comeun’alternativa ai vaccini (“I vaccini fatteli tu, io mi curo con il plasma” è il grido di battaglia) senza capire che in realtà plasma e vaccini si basano esattamente sullo stesso
principio e cioè utilizzo di anticorpi che combattono il virus. Con una differenza: gli anticorpi della plasma-terapia sono di un’altra persona e hanno un’efficacia limitata nel tempo, mentre il vaccino fa produrre i propri anticorpi con un effetto più duraturo. La plasma-terapia è interessante, ma sono necessari studi clinici randomizzati (anche questi appena autorizzati) per poterne confermare l’efficacia perché, ricordiamolo, anch’essa ha delle problematiche: – il plasma dei guariti è ricco di anticorpi solo per un breve periodo dopo la guarigione; – per ottenere il plasma serve una procedura complessa tramite una macchina che “centrifuga” il sangue, trattiene la parte liquida (il plasma appunto) e restituisce al donatore la parte cellulare (globuli bianchi, rossi, piastrine); – con un donatore si possono curare al massimo due pazienti; – infine, la trasfusione di plasma reca con sé tutti i rischi delle trasfusioni, come le possibili infezioni. Dati ancora incerti Ma quanto funziona il plasma? Come già ampiamente discusso, uno dei problemi principali delle terapie contro il coronavirus è che la maggior parte delle persone (anche quelle ospedalizzate) guarisce, e non è semplice valutare se questo
sia avvenuto proprio grazie alla terapia. Lunedì scorso sono stati resi noti dei dati sull’utilizzo della plasma-terapia effettuata negli ospedali di Mantova e di Pavia. Su 46 pazienti trattati con plasma la mortalità è stata del 6%, mentre, negli stessi ospedali la mortalità precedentemente variava dal 13 al 20%, con un valore medio del 15%. Questo significherebbe che anziché 7 pazienti in quel campione ristretto ne sono morti solo 3, ma è chiaro che ci sia una forte incertezza su questi numeri che possono essere chiarite solo studiando un numero di pazienti maggiore. Curiamo (anche) l’infodemia Quello che purtroppo non siamo ancora riusciti a curare è la velocità con cui le fake news si diffondono sui social e come influenzino l’opinione pubblica, a volte addirittura riprese e amplificate dai media tradizionali. È la cosiddetta infodemia, che il dizionario Treccani definisce come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Quando c’è di mezzo la salute, questo rappresenta un atteggiamento particolarmente irresponsabile, perché spingendo affinché si scommetta tutto sulla cura sbagliata si rischia non solo di non aiutare nessuno, ma anche di ritardare la scoperta di una terapia davvero utile e potenzialmente risolutiva. Marco Bella con la collaborazione di Angela Ianaro per IL FATTO QUOTIDIANO
Una proposta dall’Africa: ripensiamo il mondo. Mettiamo al centro le sue donne e i suoi uomini. “È arrivato il momento di agire”. Ne sono convinti, oggi più che mai, movimenti cittadini e intellettuali africani che, mentre il mondo è alle prese con la “fase due” della pandemia di covid-19, stanno cercando di trasformare la crisi in opportunità, proponendo un’utopia panafricana che spinga a ripensare profondamente il continente. E forse l’intera umanità. A lanciare l’idea di un necessario cambiamento di paradigma nel contratto sociale è una lettera rivolta ai leader africani che, pubblicata online, nelle ultime settimane sta facendo il giro del mondo. Sottoscritta da più di cento intellettuali africani, è stata ripresa inizialmente da alcuni mezzi d’informazione francofoni e anglofoni, poi ampiamente commentata e condivisa sui social network di tutto il continente. “Non ci saremmo mai aspettati tanto interesse e partecipazione”, confessa Ndongo Samba Sylla, economista senegalese della Fondazione Rosa Luxemburg di Dakar che, insieme alla docente di relazioni internazionali della Wits university di Johannesburg Amy Niang e al professore di diritto pubblico dell’Università Paris Nanterres Lionel Zevounou, è autore del documento. Fin dalle prime battute la lettera è molto chiara: “È una questione seria. Non si tratta di porre rimedio all’ennesima crisi umanitaria ‘africana’, ma
di contenere gli effetti di un virus che sta scuotendo l’ordine mondiale mettendo in discussione le basi della convivenza sociale. La pandemia di nuovo coronavirus sta mettendo а nudo quello che le classi medie e ricche delle principali megalopoli del continente hanno fatto finora finta di non vedere”. Tra i firmatari ci sono importanti intellettuali (primo fra tutti il nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986), politici (come l’ex ministro della cultura senegalese Makhily Gassama), professori universitari, scrittori, filosofi e artisti. Un’élite culturale che cerca di uscire dalla torre d’avorio incarnando gli ideali della giovane, dinamica e, come ama ripetere Ndongo Samba Sylla, “radicale” società civile africana, una fonte d’ispirazione sempre più forte anche per il resto del mondo. “Per evitare che la crisi, non solo sanitaria, legata alla pandemia di covid-19 degeneri chiediamo ai nostri politici di agire con compassione, intelligenza e tatto in questa situazione straordinaria con cui tutto il mondo si sta confrontando”, sostiene Sylla, parafrasando la lettera. “Per fare ciò, però, dobbiamo ristrutturare i nostri sistemi politici dalle fondamenta”. Rimettere al centro l’essere umano “L’Africa deve svegliarsi e riprendere in mano il proprio destino, alla luce delle enormi risorse materiali e umane di cui dispone. Le diverse forme di resilienza e creatività messe in campo in questi giorni da tanti giovani scienziati e ricercatori africani sono la prova delle enormi potenzialità del nostro continente”. Se le conseguenze sanitarie (per ora contenute) dell’epidemia sono le più evidenti, le sue ripercussioni in termini di sicurezza e socioeconomici sembrano preoccupare di più gli intellettuali africani, a cui contrappongono una visione marcatamente anticapitalista,
antineoliberalista e antineocoloniale. “Bisogna rimettere al centro il valore di ogni essere umano, a prescindere dall’identità o dall’appartenenza, dalla logica del profitto, del dominio e della monopolizzazione del potere”, continua il documento. Mentre i paesi occidentali sono alle prese con il rilancio dell’economia e con la graduale abolizione delle misure di contenimento dei cittadini dopo un isolamento durato più di due mesi, i dirigenti delle ex colonie africane sembrano seguire pedissequamente l’esempio europeo. “Fin dall’inizio della pandemia i nostri politici si sono limitati a copiare le misure prese dai governi occidentali senza tener conto delle specifiche realtà dei nostri paesi”, sostiene Ndongo Samba Sylla, autore di L’arma segreta della Francia in Africa. Una storia del franco Cfa (Fazi 2019). In Senegal, come nel resto dell’Africa occidentale francofona, il governo ha atteso il primo discorso pubblico del presidente francese Emmanuel Macron per annunciare misure contro il virus molto simili, tra cui il distanziamento sociale, la chiusura delle frontiere e lo stop parziale delle attività produttive. La realtà africana, però, è differente e, secondo i firmatari della lettera, le sue specificità andrebbero prese in considerazione per trovare soluzioni “endogene” alla pandemia. Innanzitutto bisognerebbe tener conto della centralità del settore informale – secondo la Banca mondiale, impiega più dell’85 per cento della forza lavoro africana – che rende insostenibili le forme di quarantena “all’occidentale”.
La sanificazione di una strada a Dakar, Senegal, 1 aprile 2020. (John Wessels, Afp) Il Senegal invece sta seguendo il modello tracciato dalla Francia – per esempio sulla riapertura delle scuole e sulla ripresa in blocco delle attività economiche – senza tener conto dei casi di “trasmissione comunitaria” che, impossibili da tracciare, sembrano crescere pericolosamente nelle zone rurali dove vive la maggioranza della popolazione africana. In un contesto simile i rischi di vanificare gli sforzi fatti finora appaiono elevati. La lettera critica il sistema geopolitico contemporaneo che rende i paesi in via di sviluppo schiavi degli aiuti umanitari e delle logiche del mercato globale. Senza contare che, secondo l’analisi di molti economisti africani come Sylla, per tendere verso una rapida e sostanziale ripresa economica ci vogliono soluzioni basate su uno stato forte, che possa garantire la liquidità necessaria per la ripresa. “Non potendo
monetizzare il deficit, gli stati africani saranno costretti ad aumentare il debito pubblico, peggiorando la situazione di forte indebitamento (per esempio verso la Cina, ndr) che è già insostenibile”. I leader africani sembrano essere consapevoli dei rischi di tenuta strutturale dei loro paesi, già fragili. Non sono mancati, perciò, i proclami di un cambio di passo, come quello auspicato a inizio marzo dal presidente senegalese Macky Sall in un commento pubblicato sul quotidiano Le Soleil dal titolo “L’Africa e il mondo di fronte al covid-19: il punto di vista di un africano”: “È necessario un nuovo ordine mondiale che rimetta l’essere umano e l’umanità al centro delle relazioni internazionali: l’agricoltura, le fonti di energia rinnovabili, le infrastrutture, la formazione e la salute”. “Si tratta di pura retorica, afroliberalismo truccato da panafricanismo”, ribatte Sylla, lamentando il perpetuarsi del nepotismo e della corruzione in seno ai governi africani. Il recente scandalo in Senegal sulla presunta malversazione di fondi pubblici nella distribuzione di aiuti alimentari per il nuovo coronavirus da parte del ministro dello sviluppo comunitario e dell’equità sociale e territoriale Mansour Faye, cognato del presidente, non è che il più recente esempio di quanto denunciano da anni i movimenti sociali panafricani come Afrikki Mwinda. Esprimere il dissenso Negli ultimi mesi l’emergenza causata dal covid-19 è stata usata come giustificazione per numerosi gravi casi di violenze della polizia da Dakar a Città del Capo, che sono state denunciate dalle vittime su Facebook e Twitter. Con il divieto di assembramenti pubblici anche il diritto a manifestare pacificamente il dissenso è venuto meno, immolato sull’altare
della salute pubblica. In momenti come questo i movimenti antagonisti, in Africa come nel resto del mondo, sono chiamati a reinventarsi attraverso nuove forme di attivismo. “Alla luce del contesto attuale le derive autoritarie che abbiamo tristemente constatato soprattutto nei primi giorni dell’isolamento potrebbero avere effetti controproducenti, come causare rivolte di massa, che porterebbero con sé gravi rischi di diffusione dei contagi”, sostiene Ndongo Samba Sylla. È il caso dell’acceso dibattito sulla chiusura delle moschee durante il mese di Ramadan che, in Senegal come in molti paesi a maggioranza musulmana, contrappone le influenti élite religiose ai governi intenzionati a far rispettare il distanziamento sociale anche nei luoghi di culto. Quello che il virus sembra aver messo in evidenza è la distanza incolmabile tra le élite al potere e i cittadini, trattati come sudditi di pseudodemocrazie finalizzate allo spoglio delle risorse naturali da parte di multinazionali e gruppi finanziari. Anche su questo punto il manifesto degli intellettuali è chiaro: “L’Africa deve riconquistare la libertà intellettuale e la capacità di creare senza le quali non è possibile rivendicare una sovranità. Deve smettere di subappaltare le nostre prerogative, riconnettersi con le realtà locali, abbandonare l’imitazione sterile, adattare la scienza, la tecnologia e i programmi di ricerca ai nostri contesti storici e sociali, ripensare le istituzioni in funzione delle peculiarità che ci accomunano e di ciò che possediamo, considerare nuove forme di governo inclusive e di sviluppo endogeno, per creare valore in Africa e ridurre la nostra dipendenza sistemica”. “Per esempio, la malaria ha ucciso e continua a uccidere più del covid-19 in Africa, ma non c’è ancora stata una risposta
continentale a questo problema. Come cittadini non possiamo più accettare il lassismo e l’inadeguatezza dei nostri leader, che quando hanno problemi di salute vanno a farsi curare all’estero”, conclude caustico Sylla. L’ora di agire, (non solo) in Africa, sembra ormai arrivata. Andrea De Giorgio per INTERNAZIONALE Segnalazioni, a cura di Sergio Falcone Le lavoratrici tessili del Bangladesh contro i grandi marchi della moda ( e dello sfruttamento ) A Gazipur, nella periferia industriale di Dhaka in Bangladesh, le lavoratrici di due fabbriche di abbigliamento protestano da giorni contro la decisione di pagar loro solo il 60 per cento del salario di aprile. Altre operaie, di altre aziende, protestano perché i salari comunque non sono arrivati, e neppure quelli di marzo. Da almeno un mese la periferia industriale di Dhaka è percorsa da proteste, sit-in improvvisati davanti a fabbriche dai
cancelli chiusi. Migliaia di lavoratori e soprattutto lavoratrici: mascherine sul viso, cartelli scritti a mano. Molte hanno arretrati di diversi mesi. Altre si sono viste comunicare il licenziamento con un messaggio sul telefonino. Sono operaie dell’abbigliamento, industria che fa l’83 per cento dell’export del loro paese, un fatturato di circa 40 miliardi di dollari nel 2019: ma ora non ricevono i salari. Ecco un risvolto forse poco evidente della pandemia di coronavirus. Quando in Europa o negli Usa i negozi di abbigliamento hanno chiuso, per rispettare il “distanziamento sociale”, milioni di lavoratori sono rimasti senza salario in paesi lontani e a basso reddito: come il Bangladesh, secondo esportatore mondiale di abbigliamento dopo la Cina. Però, mentre i paesi occidentali si preparano a spendere centinaia di miliardi per sostenere le imprese e i lavoratori di casa propria, non ci sono “ammortizzatori sociali” per chi ha perso il reddito in questa industria globalizzata. “Non abbiamo i soldi e neppure diritto a un sussidio. Cosa mangeremo?”, diceva una giovane donna, Alyea, al microfono di un cronista. “Mio marito guidava un motorisciò, ma da quando c’è il lockdown non guadagna più nulla. Ora la fabbrica ha chiuso, come sfameremo i nostri figli”, si chiedeva Sheuli, una sua collega. Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh ha constatato che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito. A collegare i negozi chiusi in Europa alle lavoratrici senza salario in Bangladesh è la global supply chain, il meccanismo della “filiera globale”. I proprietari dei marchi di abbigliamento non producono nulla: fanno cucire i propri modelli a fabbricanti sparsi dal sub-continente indiano
all’Indonesia. Una decina di paesi dell’Asia meridionale e sud-orientale producono oltre il 60 per cento degli abiti venduti in Europa, Giappone e Stati uniti (il resto è prodotto nell’est europeo, Turchia, Nord Africa, o in Centro America per il mercato americano). Il Workers Rights Consortium, organizzazione internazionale per il monitoraggio dei diritti del lavoro, stima che questa industria occupi almeno 50 milioni di persone in tutto il mondo. Sit-in di operaie dell’abbigliamento a Dhaka, aprile 2020 Si tratta di una relazione commerciale, in cui il marchio occidentale è il “compratore”, e chi produce gli abiti è il “fornitore”. Nel mezzo ci sono numerosi passaggi, spesso poco trasparenti. Il proprietario del marchio piazza la sua ordinazione per lo più attraverso intermediari; tra i fornitori si aggiudica la commessa chi offre il prezzo più basso. Se i tempi incalzano, il fornitore principale subappalta parte del lavoro a produttori più piccoli. Questo
sistema garantisce ai marchi dell’abbigliamento flessibilità, costi bassi, e anche la possibilità di ignorare in che condizioni sono cuciti quegli abiti – come risultò evidente in modo drammatico sette anni fa, quando a Dhaka crollò un edificio industriale uccidendo 1.500 persone. La crisi provocata dal Covid 19 però ha ingrippato la filiera. “Le marche internazionali che importano dal Bangladesh hanno cancellato le ordinazioni. E gli imprenditori locali dicono che poiché non sono stati pagati, non possono pagare i lavoratori”, osserva Kalpona Akter, la più nota leader sindacale del paese (operaia dell’abbigliamento da quando aveva 15 anni, oggi dirige il Bangladesh Center for Workers Solidarity). In altre parole: crollate le vendite di abbigliamento, le aziende occidentali hanno cercato di contenere il danno scaricandolo sui “fornitori”, i quali spesso non hanno margini. In Bangladesh l’Associazione nazionale dei produttori e esportatori di abbigliamento (Bgmea, che conta circa 4.000 imprese associate con oltre 4 milioni di dipendenti) afferma che da marzo a tutto aprile ordinazioni per 3,5 miliardi di dollari sono state cancellate causa il coronavirus. Lo stesso un po’ ovunque: la Federazione internazionale delle manifatture tessili (Itmf) a fine aprile stimava che le ordinazioni globali sono diminuite del 41 per cento. Molti compratori hanno rifiutato di prendere (e pagare) ordinazioni già fatte, perfino già pronte alla consegna, invocando clausole di force majeure. I contratti di solito non contemplano l’emergenza sanitaria come “forza maggiore”, ma “pochi produttori possono permettersi di fare causa a clienti da cui sperano di ricevere ordinazioni in futuro”, osserva il Workers Rights Consortium (“Who will bail out the workers that
make our clothes?”, marzo 2020 ). Dove le ordinazioni non sono cancellate, le grandi marche chiedono di rinegoziare: “In India, Bangladesh e Sri Lanka abbiamo notizia che chiedono ai fornitori sconti fino al 30 per cento”, osserva la Asia Floor Wage Alliance (Afwa), rete di organizzazioni sociali e di lavoratori fondata nel 2007 per unire le forze nei paesi produttori in una comune battaglia per salari decenti e per la libertà di associazione sindacale. Le vittime “collaterali” sono i lavoratori. La rete Afwa segnala frequenti casi di salari non pagati, o pagati con grande ritardo; a volte invece del salario vengono offerti prestiti da restituire quando riapriranno le fabbriche, con o senza interessi. Alcuni paesi (India, Bangladesh, Sri Lanka, Cambogia) hanno annunciato aiuti per le imprese dell’abbigliamento, ma le garanzie per i lavoratori, quando ci sono, “sono solo per i dipendenti a tempo pieno, non per le lavoratrici con contratti temporanei”. In molti casi i lavoratori devono accettare sospensioni dal lavoro non pagate. Molti perdono il lavoro. In Sri Lanka il 30 per cento delle operaie dell’abbigliamento è stato licenziato; anche in Indonesia e Cambogia si segnalano licenziamenti massicci, segnala la Asia Floor Wage Alliance (“The emperor has no clothes: garment supply chain in the time of pandemic”, aprile 2020). Un’indagine condotta dall’Università del Bangladesh dice che quasi metà (il 47%) delle lavoratrici dell’abbigliamento in questo momento non ha alcun reddito. Le marche dell’abbigliamento, le catene di distribuzione e i governi devono contribuire a “mitigare gli effetti della crisi provocata dal Covid 19 per i lavoratori della filiera globale”, sostiene la Clean Clothes Campaign (Campagna abiti puliti, rete internazionale di pressione per imporre alle marche dell’abbigliamento meccanismi di tutela dei lavoratori): in un appello diffuso in aprile chiede alle
marche occidentali di onorare i contratti, assicurarsi che i propri fornitori paghino i salari, contribuire ai fondi di welfare, garantire che nelle fabbriche attive siano osservate misure sanitarie adeguate. In un blog, la Campagna raccoglie aggiornamenti quotidiani dai paesi produttori. “Quando il movimento sindacale ha cominciato a citare per nome le marche che non hanno pagato le ordinazioni fatte, alcune si sono impegnate a onorare i contratti”, faceva notare Kalpona Akter. Il Workers Rights Consortium infatti ha avviato un osservatorio sulle maggiori marche di abbigliamento: risulta che nomi di peso come Adidas, H&M o Inditex (proprietario di Zara) si sono impegnate a pagare per intero ma molti altri, da Walmart a Arcadia (proprietario di molte marche note), non rispondono. Il 29 aprile in Bangladesh alcune centinaia di fabbriche hanno riaperto, nonostante molti timori per la sicurezza. Ma centinaia di migliaia stanno ancora aspettando il salario.
Lavoratrici si lavano le mani prima di entrare in fabbrica. Dhaka, maggio 2020 da la Bottega del Barbieri Marina Forti per AREA Brasile nel caos: Bolsonaro costringe alle dimissioni il ministro della salute. E’ il secondo in un mese… Nelson Teich, nominato ministro della salute in Brasile appena
un mese fa, ha deciso di mollare. In meno di un mese è stato di fatto esautorato ogni giorno dal suo presidente della Repubblica, un Jair Bolsonaro oramai trasformatosi nel nemico numero uno al mondo di tutto ciò che è scienza e di ogni politica di serio contenimento dell’epidemia di coronavirus nel gigante sudamericano. Gli ospedali sono al collasso, le cifre ufficiali, bugiarde visto il limitato numero di tamponi per scoprire gli infetti e il non censimento della povera gente morta a casa senza alcuna assistenza, fanno del Brasile il paese più infetto dell’area e tra poco del mondo intero. La risposta di Bolsonaro a questa immane tragedia è stata ed è di un cinismo senza limiti. Il coronavirus è una banale influenza, chiudersi in casa è da vigliacchi, usate la clorochina sempre, nonostante più ricerche abbiano attestato l’alta tossicità di questo medicinale che in ogni caso non è né cura né prevenzione. Prima di Teich, era stato costretto alle dimissioni Luis Mandetta. Mentre l’allora ministro della salute e la gran parte dei governatori spingevano per misure di contenimento e lockdown, Bolsonaro convocava manifestazioni dei suoi sostenitori, bollava di “comunisti” chiunque volesse tenere la gente a casa, incitava i suoi “patrioti” a rivoltarsi contro le istituzioni “traditrici”. Praticamente li invitava al golpe. Di fronte a questo caos sanitario, al collasso democratico in corso, molti paesi stanno richiamando il personale delle loro ambasciate. Nella comunità internazionale si parla oramai chiaramente di “rischio Bolsonaro”. ” Bolsonaro non vuole un medico ad aver cura della salute dei
brasiliani. Vuole un fanatico, un ciarlatano. O un militare che obbedisca, senza pensare, ai suoi ordini. Due ministri della salute dimessi in piena pandemia non rappresentano solo un segnale di incompetenza. Siamo di fronte a un crimine, ad un tentativo di omicidio contro la nostra nazione”, dichiara un esponente politico di opposizione mentre tanti altri, quasi un coro, lanciano un disperato “si salvi chi può”. Amarissime, a tal proposito, le parole di Luis Mandetta, ex ministro della salute: ” Non ci resta che sperare in Dio”. silvestro montanaro Vaccino coronavirus: Le multinazionali farmaceutiche e l’amministrazione Trump ricattano il mondo Mentre scoppia il caso Sanofi sul vaccino che ancora non c’è ma che potrebbe essere distribuito prima negli Usa, Oxfam lancia un appello in previsione dell’Assemblea Mondiale della Sanità, in programma il 18 maggio con i ministri della salute dei 194 stati membri collegati a distanza. E rivela come l’amministrazione Trump spinga perché non venga utilizzato un meccanismo di negoziazione collettiva delle licenze dei brevetti tra gli stati ma piuttosto perché venga garantito il diritto di brevetto alle cause farmaceutiche.
Quattro i punti del piano: l’obbligo a livello globale di condivisione di tutte le conoscenze, dati, brevetti (legati al Covid 19), e l’impegno a subordinare tutti i finanziamenti pubblici alla realizzazione di terapie o vaccini che siano resi accessibili a tutti e privi di brevetti; l’impegno da parte dei Paesi ricchi ad aumentare gli investimenti pubblici diretti ad una maggiore capacità globale di produzione e distribuzione di vaccini; un piano, concordato a livello globale, di distribuzione dei vaccini, terapie e test diagnostici basato sulle reali necessità sanitarie dei Paesi e non sulla loro capacità di spesa. Vaccini, trattamenti e test dovrebbero essere resi disponibili per tutti e prodotti e venduti al minor costo possibile (idealmente per i vaccini a non più di 2 dollari a dose) e forniti gratuitamente a chiunque ne abbia bisogno; un impegno concreto per migliorare l’attuale sistema di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci – in cui il profitto delle case farmaceutiche viene prima della salute delle persone – evitando il mancato sviluppo di molti farmaci necessari ma non redditizi o la loro indisponibilità per le persone più vulnerabili a causa di prezzi non accessibili. “Per vaccinare (ma il vaccino non è stato ancora sviluppato, ndr) contro il coronavirus la metà più povera della popolazione mondiale – 3,7 miliardi di persone – servirebbe meno di quanto le 10 maggiori multinazionali del farmaco guadagnano in 4 mesi. Per sconfiggere la pandemia – dice la confederazione di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale – è perciò indispensabile che governi e aziende farmaceutiche si impegnino per garantire che vaccini, test diagnostici e terapie siano gratuiti ed equamente distribuiti a tutti, in tutti i paesi del mondo. Solo così sarà possibile vincere questa sfida, in cui nessuno è salvo se non lo saremo tutti”.
“La Fondazione Gates ha calcolato che per produrre e distribuire un vaccino efficace e sicuro per le persone più povere del mondo serviranno 25 miliardi di dollari, meno dei circa 30 miliardi di dollari che le 10 big del farmaco hanno guadagnato in media in soli 4 mesi lo scorso anno. A fronte di profitti complessivi per 89 miliardi di dollari nel 2019. Eppure paesi ricchi e grandi aziende farmaceutiche – spinti da interessi nazionali e privati – potrebbero impedire o ritardare la distribuzione di vaccini nei paesi in via di sviluppo” sostiene Oxfam. “Sul tema, l’Unione Europea ha presentato una risoluzione all’Assemblea Mondiale della Sanità, che propone la creazione di un meccanismo volontario di negoziazione collettiva delle licenze dei brevetti tra gli stati e le case farmaceutiche e di condivisione di dati e conoscenze relative a vaccini, terapie e test diagnostici Covid 19, che possa garantire prezzi accessibili per il maggior numero di paesi, inclusi quelli più poveri. Un’iniziativa che – sottolinea Oxfam – rappresenta un primo passo nella giusta direzione, anche se ancora insufficiente. Se, infatti, questo meccanismo fosse reso obbligatorio e applicato a livello globale, potrebbe permettere a tutti i paesi di produrne versioni a basso costo, oppure importarle se non hanno le infrastrutture adeguate per la produzione”. “Dai documenti trapelati risulta però purtroppo che l’amministrazione Trump, stia lavorando per eliminare dalla risoluzione qualsiasi riferimento a questo meccanismo, inserendo un forte richiamo al rispetto dei diritti sui brevetti delle case farmaceutiche, che vedrebbero quindi garantita l’esclusività nella produzione e la possibilità di fissare i prezzi di vaccini, terapie e test che svilupperanno. Ciò appare – spiega Oxfam – tanto più inaccettabile, per il fatto che per finanziare il loro lavoro di ricerca e sviluppo
siano stati utilizzati fondi pubblici”. Ed è in questa ottica che probabilmente l’inquilino della Casa Bianca ha scelto un ex manager dell’industria farmaceutica e un alto ufficiale per guidare l’operazione Warp Speed, volta ad accelerare lo sviluppo di un vaccino: Moncef Slaoui sarà advisor del programma e il generale Gustave Perna svolgerà il ruolo di direttore operativo. Slaoui è l’ex capo della divisione vaccini della GlaxoSmithKline (Gsk), che ha lasciato nel 2017 per fare il finanziere. La Gsk sta lavorando al vaccino anti Covid 19 proprio insieme alla Sanof, al centro della polemica del giorno per le dichiarazioni del suo dg sulla distribuzione in via prioritaria del vaccino negli Usa, poi parzialmente modificata. C’è poi Moderna, nel cui board Slaoui siede come consigliere. “Sarebbe disumano e controproducente per la tutela della salute di ciascuno di noi, indipendentemente dal Paese in cui viviamo, non garantire a tutti la possibilità di essere vaccinati – ha detto Sara Albiani, policy advisor di Oxfam Italia per la salute globale – Vaccini, test e cure efficaci e sicure dovrebbero essere prodotti su scala globale e distribuiti senza brevetti, a basso costo, in base ai bisogni nelle diverse aree del mondo, anziché essere messe all’asta al migliore offerente. Abbiamo bisogno di un Piano globale che stabilisca chiaramente come saranno prodotti e distribuiti, definendo tutte le garanzie del caso”. Per Oxfam serve un piano globale per scongiurare il rischio che i paesi ricchi si aggiudichino, una volta sviluppati, vaccini e terapie a scapito di quelli più fragili, così come successo sinora con i dispositivi di protezione e i respiratori polmonari per le terapie intensive. Occorre inoltre evitare che alcune aziende farmaceutiche possano trarre profitti enormi a scapito della salute globale, controllando la produzione e fissando i prezzi di farmaci
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