Altre recensioni dallo Strega 2020 - Remo Rapino Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio minimum fax

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Circolo di Lettura biblioteca Marconi

                              Altre recensioni dallo Strega 2020

                                     Remo Rapino
                                     Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio
                                     minimum fax
                                     Liborio Bonfiglio è una cocciamatte, il pazzo che tutti scherniscono e che si aggira
                                     strambo e irregolare sui lastroni di basalto di un paese che non viene mai nominato.
                                     Eppure nella sua voce sgarbugliata il Novecento torna a sfilare davanti ai nostri occhi
                                     con il ritmo travolgente e festoso di una processione con banda musicale al
                                     seguito. Perché tutto in Liborio si fa racconto, parola, capriola e ricordo: la scuola,
                                     l’apprendistato in una barberia, le case chiuse, la guerra e la Resistenza, il lavoro in
                                     fabbrica, il sindacato, il manicomio, la solitudine della vecchiaia. A popolare la sua
                                     memoria, una galleria di personaggi indimenticabili: il maestro Romeo Cianfarra,
                                     donn’Assunta la maitressa, l’amore di gioventù Teresa Giordani, gli amici operai della
                                     Ducati, il dottore Alvise Mattolini, Teté e la Sordicchia… Dal 1926, anno in cui viene al
                                     mondo, al 2010, anno in cui si appresta a uscire di scena, Liborio celebrerà, in una
                                     cronaca esilarante e malinconica di fallimenti e rivincite, il carnevale di questo secolo, i
                                     suoi segni neri, ma anche tutta la sua follia e il suo coraggio.

Carla ha scritto: Una vita “arrubbata”, quella di Bonfiglio Liborio: “Qualcuno mi aveva arrubbato la vita… mi
sentivo come quando una brancaglia di cani randaci e feroci ti sbranano la carne con moccicate dolorose e
che ogni pezzo di carne è come un pezzo di vita e alla fine ci rimane solo l’osso che è così fracico che non è
buono nemmanco per il brodo”. Una “vita arrubbata” che attraversa il fascismo, la seconda guerra
mondiale, il boom economico, gli anni di piombo, gli edonistici anni ottanta, festeggia il duemila e arriva più
o meno al passato molto prossimo. Ce la narra lui stesso questa vita con la sua lingua mezzo dialettale
(perché lui è abruzzese, ma mi pare che mischi anche qualche termine del nord, dove emigra) e mezzo
italiano (ma storpiato), più efficaci onomatopee. Sappiamo che è anche finito in manicomio, ma sta sempre
sul crinale tra la lucidità e la pazzia e quando lo leggiamo gli diamo fiducia, come se non ci trovassimo tra le
mani il “diario di un pazzo”. A margine un commento proprio sul linguaggio. Ricorro a una brillante
“bustina” di Umberto Eco. Come solo lui sapeva fare mischia alto e basso, linguaggio puffo e meditazione
pratica sul funzionamento contestuale del linguaggio. Capiamo i puffi perché “la lingua puffa risponde alle
regole di una linguistica del testo: ogni termine è comprensibile e rapportabile ad altri solo se lo si vede nel
contesto e lo si interpreta alla luce del «tema» o topic testuale”. Questo per dire all’autore (o all’editore)
che poteva risparmiarsi il glossario finale. La contestualizzazione aiuta nella comprensione del linguaggio di
Liborio. Noi lo comprendiamo benissimo. Figurarsi se nel flusso inarrestabile della (un po’ troppo lunghetta,
a dire la verità) narrazione andiamo a consultare il glossario. Rapino non si fidava della sua bravura nel
contestualizzare i termini affinché risultassero comprensibili o non si fidava della capacità del lettore di
comprenderli?

Filippo ha scritto: Questo è l’ultimo libro che leggo della dozzina. Per il libro precedente, il tempo preso in
considerazione è stata una settimana, per questo un’intera vita iniziata, nel 1926 e conclusasi nel 2010.
Ottantaquattro anni raccontati dal protagonista Bonfiglio Liborio. Un secolo breve ma più lungo di quello di
Hobsbawam che comincia nel 1917 con la rivoluzione russa e finisce nel 1989, con la caduta del Muro di
Berlino e del sistema sovietico. Ma Liborio ne ha visto di tutti i colori. Ha persino conosciuto il manicomio,
come quello raccontato da Daniele Mencarelli, l’autore del libro precedente. Può sembrare strano l’uso di
un codice espressivo, fondato su una parlata gergale (in appendice un glossario molto istruttivo), ma che
poi si rivela essere il registro principale di una storia vissuta da un personaggio che in fin dei conti ha vissuto
ai margine di una società che, dopo la parentesi nera del Fascismo, ha conosciuto periodi di grande

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progresso e sviluppo economico, sociale e culturale. Anche qui c’è un maestro elementare, Gianferra
Romeo, che gli regala il libro Cuore di De Amicis e lo aiuta a diventare bravo in tutte le materie. Ma non
può, come tanti altri del suo tempo, continuare ad andare a scuola, perché “il pane non nasce con i libri”. La
madre gli ricorda fin da piccolo che aveva gli occhi come quelli del padre, che sebbene non l’avesse mai
conosciuto e non può fare a meno di ricordarlo: “… ogni volta che passavo davanti a uno specchio o a una
vetrina, sempre mi guardavo, ma solo gli occhi mi guardavo, per cercare di capire come era fatto mio padre,
almeno lo sguardatura, il colore almeno degli occhi suoi”. Racconta di essersi innamorato di una ragazza,
Giordani Teresa, che non dimenticherà mai. Che dire… Leggendo il libro hai la netta percezione che, fra le
altre cose, di aver fatto una scoperta: conoscere tanti “modi di dire” mai sentiti prima e ti fa ancora
riflettere su quanto sia ricco e sorprendente il linguaggio della gente comune. Di cui anche i più eruditi,
come Veronesi e Carofiglio, sono certo terranno conto.

                                          Gian Mario Villalta
                                          L’apprendista
                                          SEM

                                          Fuori piove, fa freddo. Dentro la chiesa, in un piccolo paese del Nord-Est, fa ancora
                                          più freddo. È quasi buio, la luce del mattino non riesce a imporsi. Un uomo, Tilio,
                                          sta portando via i moccoli dai candelieri, raschia la cera colata, mette candele
                                          nuove. Sistema tutto seguendo l’ordine che gli hanno insegnato, perché si deve
                                          mettere ogni cosa al suo posto nella giusta successione. Parla con se stesso,
                                          intanto, in attesa che sulla scena compaia Fredi, il sacrestano. Tra una messa e
                                          l’altra i due sorseggiano caffè corretto alla vodka. Così inizia il teatro di una coppia
                                          di personaggi indimenticabile, che intesse nei pensieri, nei dialoghi e nei racconti
                                          un intreccio vertiginoso di vicende personali, desideri, rimpianti e paure che
                                          convocano la vita di tutto un paese, in una lingua che fa parlare la realtà vissuta.

Carla ha scritto: L’apprendista del titolo è un vecchio che fa l’apprendista sacrestano di un altro vecchio
(più vecchio di lui), sacrestano titolare. La vicenda si snoda tra sacrestia e chiesa. Azioni e descrizioni sono
ridotte al minimo. Non sapremo mai ad esempio com’è fatta la chiesa dove i due si aggirano solerti. Non
succede mai niente, o meglio succede pochino: una volta non si trova la chiave del tabernacolo, un’altra il
vino dell’ampolla è quasi finito, un’altra ancora c’è da grattare la cera che è colata dalle candele. Tutto
quello che sapremo è parte del passato dei due dai loro dialoghi. Uno voleva sposarsi la badante della
moglie e l’altro ha avuto una crisi di coscienza quando ha scoperto che il padre era repubblichino. A
margine: Villalta partecipava alla seconda edizione del premio delle biblioteche. Quell’anno vinse Carofiglio.

Filippo ha scritto: Il libro non affronta le grandi problematiche, oggetto di altri libri concorrenti al Premio.
Si parla di un’amicizia di due anziani che svolgono all’interno di una piccola chiesa del Nord –Est il ruolo di
sacrestano, Tilio e di apprendista sacrestano, Fredi, la cui vicinanza li obbliga a confrontarsi su tutto. Sono lì
non tanto in obbedienza a una vocazione quanto per porsi una serie di domande su che cosa sia la
religione oggi in relazione ai temi e ai fatti che riguardano vuoi la vita del paese e vuoi l’impossibilità di
sfuggire alle maldicenze e al chiacchiericcio della gente. E nel tentativo di dare delle risposte, per evitare
prima di tutto lo sgretolamento della comunità che vive intorno alla chiesa, emerge una duplice e
contraddittoria constatazione. Da un lato è meglio non fidarsi della gerarchia dei valori e di non sottoporsi
a nessuna forma vigente degli affetti; dall’altro la convinzione che senza valori e senza affetti non si può
vivere e,quindi, il cinismo, preso sul serio, porta a credere alla vita con tenacia e determinazione. Bello il
rapporto che si instaura fra maestro e apprendista, forse perché nasce dentro la chiesa che è il teatro del
mondo, un luogo e un non luogo, nel senso che pur essendo la casa di tutti non appartiene a nessuno.

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                                   Giuseppe Lupo
                                   Breve storia del mio silenzio
                                   Marsilio
                                   L’infanzia, più che un tempo, è uno spazio. E infatti dall’infanzia si esce e, quando si è
                                   fortunati, ci si torna. Così avviene al protagonista di questo libro: un bimbo che a quattro
                                   anni perde l’uso del linguaggio, da un giorno all’altro, alla nascita della sorella. Da quel
                                   momento il suo destino cambia, le parole si fanno nemiche, anche se poi, con il passare
                                   degli anni, diventeranno i mattoni con cui costruirà la propria identità. Breve storia del
                                   mio silenzio è il romanzo di un’infanzia vissuta tra giocattoli e macchine da scrivere, di una
                                   giovinezza scandita da fughe e ritorni nel luogo dove si è nati, sempre all’insegna di quel
                                   controverso rapporto tra rifiuto e desiderio di dire che accompagna la vita del
                                   protagonista. Natalia Ginzburg confessava di essersi spesso riproposta di scrivere un libro
                                   che racchiudesse il suo passato, e di Lessico famigliare diceva: «Questo è, in parte, quel
                                   libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non
                                   sono spesso che esili barlumi di quanto abbiamo visto e udito». Così Giuseppe Lupo –
                                   proseguendo, dopo Gli anni del nostro incanto, nell’“invenzione del vero” della propria
                                   storia intrecciata a quella del boom economico e culturale italiano – racconta, sempre
                                   ironico e sempre affettuoso, dei genitori maestri elementari e di un paese aperto a poeti e
                                   artisti, di una Basilicata che da rurale si trasforma in borghese, di una Milano fatta di luci e
                                   di libri, di un’Italia che si allontana dagli anni Sessanta e si avvia verso l’epilogo di un
                                   Novecento dominato dalla confusione mediatica. E soprattutto racconta, con amore ed
                                   esattezza, come un trauma infantile possa trasformarsi in vocazione e quanto le parole
                                   siano state la sua casa, anche quando non c’erano.

Roberto ha scritto: Romanzo dal taglio autobiografico, il protagonista racconta la propria vita iniziando dal
ricordo della perdita della capacità di parlare che lo colpisce all'età di quattro anni in occasione della nascita
della sorellina. Da questo episodio traumatico, con l'affetto dei genitori, insegnanti elementari in Lucania,
troverà la spinta per fare delle parole il proprio mestiere, prima laureandosi in Lettere e successivamente
diventando uno scrittore a Milano. In questa città pubblicherà il suo primo libro, dopo molti faticosi
tentativi, che lo porteranno a conoscere importanti personaggi del settore, ampiamente citati nel testo. È
un romanzo ben scritto, decoroso, a tratti minuzioso e prevedibile, un libro che, pur non essendo
"imperdibile", merita di essere letto.

Carla ha scritto: “Quando incontrai per la prima volta nei Promessi sposi la parola sugo frequentavo già
l’università e pensai subito che mia madre avesse ragione. Manzoni parlava di sugo raccontando di
matrimoni, anche se si riferiva a un altro tipo di pomodoro quello dei fati narrati che sono il meglio di un
libro, il suo frutto”. Questo sostiene Lupo, ma poi a noi lettori serve una minestrina in bianco, senza “sugo”.
Nel suo romanzo ci sono descrizioni struggenti di Milano, delicate rimembranze della vita familiare in
Lucania e nel finale un commosso ricordo di Cesare De Michelis. Manca soltanto il “sugo”. È un romanzo
“imperfetto”. Nel senso che è tutto narrato al tempo dell’imperfetto. Il tempo dei ricordi.

Filippo ha scritto: Un’autobiografia che contiene un pezzo della nostra storia recente che inizia con la
conquista della libertà e della democrazia, preludio e premessa del boom economico e culturale degli anni
’60 (gli anni del nostro incanto) fino alla strage di Piazza Fontana e quelli seguenti (gli anni del terrore e
della paura). L’autore è un lucano approdato a Milano che diventa la sua città. Nato in una famiglia di
insegnanti, amanti di libri e di letture per i quali la scuola era un modo per sostenere “le impalcature del
mondo”, un gioco di lettere e di vocaboli che messe insieme, fanno nascere milioni di parole. Questa è la
sua scuola. A quattro anni, con la nascita della sorellina egli subisce un trauma che lo porterà al silenzio che,
poi, a diciassette con lo shock del terremoto dell’’80 quel silenzio si trasforma in una molla e in una risorsa
importante per la sua formazione intellettuale e l’amore per la scrittura. Pare che la venuta della sorella che
un in un primo momento è stato un handicap psicologico si sia rivelato alla lunga un elemento scatenante
del suo carattere volitivo. Prova a mandare i suoi dattiloscritti alle case editrici e quasi mai vengono

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accettati per “incompatibilità con le loro linee editoriali”. Resta deluso è irritato quando si sente dire da un
autorevole letterato, certo Cesare De Michelis, al quale dichiarò che voleva scrivere, che occorre trovarsi un
“padrino” per ottenere l’ok per la pubblicazione dei suoi scritti da parte della casa editrice.

                                      Marta Barone
                                      Città sommersa
                                      Bompiani
                                      Il ragazzo corre nella notte d’inverno, sotto la pioggia, scalzo, coperto di sangue non
                                      suo. Chiamiamolo L.B. e avviciniamoci a lui attraverso gli anni e gli eventi che
                                      conducono a quella notte. A guidarci è la voce di una giovane donna brusca, solitaria,
                                      appassionata di letteratura, e questo romanzo è memoria e cronaca del confronto con
                                      la scomparsa del padre, con ciò che è rimasto di un legame quasi felice nell’infanzia
                                      felice da figlia di genitori separati, poi fatalmente spinoso, e con la tardiva scoperta
                                      della vicenda giudiziaria che l’ha visto protagonista. Chi era quello sconosciuto, L.B., il
                                      giovane sempre dalla parte dei vinti, il medico operaio sempre alle prese con qualcuno
                                      da salvare, condannato al carcere per partecipazione a banda armata? E perché di
                                      quel tempo – anni prima della nascita dell’unica figlia – non ha mai voluto parlare?
                                      Testimonianze, archivi e faldoni, ricordi, rivelazioni lentamente compongono, come
                                      lastre mescolate di una lanterna magica, il ritratto di una persona complicata e
                                      contraddittoria che ha abitato un’epoca complicata e contraddittoria. Torino è il
                                      fondale della lotta politica quotidiana con le sue fatiche e le sue gioie, della rabbia,
                                      della speranza e del dolore, infine della violenza che dovrebbe assicurare la nascita di
                                      un avvenire radioso e invece fa implodere il sogno del mondo nuovo generando
                                      delusione e rovina. Il romanzo di un uomo, delle sue famiglie, delle sue appartenenze,
                                      la sua vita visitata con amore e pudore da una figlia per la quale il mondo si misura e si
                                      costruisce attraverso la parola letta e scritta.

Francesca ha scritto: Città sommersa si inserisce nell’ampio filone della narrativa sulla lotta armata in Italia,
declinato in vario modo negli ultimi quarant’anni. Se negli anni settanta-ottanta l’approccio al terrorismo
era soprattutto storico, sociologico o giornalistico, in seguito sono proliferate le testimonianze dirette dei
protagonisti. La loro partecipazione alla lotta armata veniva ricostruita per creare un ponte tra passato e
presente che permettesse di comprendere e superare quel periodo buio, se non di arrivare a una qualche
forma di espiazione. Colpisce tra tanti la ricostruzione dell'assalto di via Fani fatta da Valerio Morucci, un
racconto trasfigurato, separato dal bagno di sangue reale e ricreato, riscritto letterariamente con abuso di
metafore per rendere una sospensione del tempo in cui gli autori del massacro sembrano agire in uno stato
di trance. Poi è stata la volta della trasposizione degli anni di piombo in un ambito romanzesco dove la
cronaca si è mescolata all'invenzione. Una tendenza recente è quella seguita da narratori che in forma
autobiografica o puramente narrativa compiono un salto generazionale, dando la parola ai figli dei
terroristi. Ancora una volta si va verso un passato tutto da ricostruire per far emergere un padre (per lo più)
in tutta la sua complessità di terrorista e di figura genitoriale. Figli che vogliono penetrare in un mistero e
capire dove potersi collocare in una storia colma di lacune. È il caso di un altro romanzo candidato al
premio Strega nel 2017, Il senso della lotta di Nicola Rafele Ravera, e ora di Città sommersa. Come
annunciato nel titolo, l'autrice vuole esplorare la vera identità del padre addentrandosi in una terra
sconosciuta che lascia affiorare poche tracce sparse da individuare, interpretare e collegare tra loro. Il
romanzo si presenta come un insieme felice di ricostruzioni storiche e di riflessioni: da un lato ripercorre gli
anni giovanili del padre dell'autrice tra Torino, Milano e Roma nei vari gruppi della sinistra
extraparlamentare, dalle prime manifestazioni del '68 a Servire il Popolo a Prima Linea, nel tentativo di
scoprire, con un difficile lavoro di tessitura, chi era davvero, attraverso articoli di giornale, atti del processo
per banda armata, testimonianze dei suoi amici dell'epoca sparsi tra una città e l'altra; dall’altro segue
passo passo il bisogno della protagonista di ritrovare un padre assente e morto prematuramente prima che
potesse rivelarle i tanti tasselli mancanti della sua storia personale e del rapporto con lei. Il romanzo, denso
e documentato, delinea un percorso interessante di rilettura degli anni di piombo con lo sguardo attento di

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Altre recensioni dallo Strega 2020 - Remo Rapino Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio minimum fax
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una scrittrice poco più che trentenne capace di aggiungere sostanza emotiva e psicologica a eventi confinati
generalmente nella loro cornice di sangue.

Filippo ha scritto: Si è fatta molta fatica prima di capire quali fossero le vere intenzioni dell’autrice. Si è
capito dopo il motivo per cui ha scritto questo libro. Voleva conoscere fino in fondo suo padre, nato nel
1945, vissuto il ’68 e morto di cancro nel 2011, con cui aveva avuto sempre un rapporto a dir poco
conflittuale. Era stato condannato per partecipazione a banda armata durante gli anni di piombo fra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. L. B., Leonardo Barone, lo indica con le iniziali. Legge e studia
attentamente tutte le carte riguardanti i tre gradi del giudizio, le memorie difensive dei singoli processi
che lo vedono coinvolto - riprodotte meticolosamente nel romanzo - che non è un romanzo né un saggio
ma un intreccio di storie che comprende la storia della famiglia e quella dell’Italia di quegli anni. Si duole
per non disporre di documenti, di testimonianze, di non trovare una lettera per supportare le sue ricerche.
Verrebbe voglia di darle una mano per spiegarle cosa ha voluto significare Servire il Popolo (m-l) in cui ha
militato il padre con ruoli importanti, tanto da essere destinato a Torino a dirigere il movimento, dove
rimarrà per sempre. Il movimento che l’autrice definisce dal profilo ottuso ed enigmatico, oscillante fra il
fanatismo religioso e l’appartenenza a qualche loggia massonica, per poi parlare della nascita di altre
formazioni terroristiche come Prima Linea, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Brigate Rosse. Della
sinistra cosiddetta istituzionale rappresentata dal Pci, dal Psiup e dal Psi. Del problema dei fiancheggiatori,
dei traditori e dei detrattori della sinistra e della classe operaia, dei difensori dei lavoratori morti ammazzati
dalle Br, come Guido Rossa. Marta Barone scrive il suo libro convinta di non riuscire a centrare l’obiettivo
perché parte dal presupposto che la sua sarà un’impresa impossibile. C’è tuttavia un impegno notevole
nella ricostruzione dei fatti da parte della giovane autrice volto ad accertare le ragioni ideali della scelta
politica del padre, capire quegli anni tremendi del terrorismo rosso che ha insanguinato il nostro Paese.
Viene in mente l’uccisione di Walter Tobagi di cui ricorre il 40°. Si ha l’impressione che il partecipare allo
Strega sia un obiettivo secondario rispetto all’ansia di voler dare un contributo a quanti intendono
approfondire una delle pagine più controverse e buie della nostra storia nazionale.

                                   Silvia Ballestra
                                   La nuova stagione
                                   Bompiani
                                   Si narra che la Sibilla, adirata contro le fate che si attardavano a ballare il salterello con i
                                   pastori, avrebbe scagliato loro le pietre che divennero poi il paese di Arquata del Tronto:
                                   pietre destinate a rotolare di nuovo, drammaticamente, durante il terremoto. Le sorelle
                                   Nadia e Olga si sentono a casa proprio qui, in questa terra che si muove, e che scendendo
                                   dai monti Sibillini verso il mare si fa campagna. Il loro papà ha trascorso la vita coltivando i
                                   campi, perciò ancora oggi la famiglia viene trattata con rispetto. Ma adesso tutto è
                                   cambiato. L’amore e il lavoro hanno portato Olga e Nadia lontano, i figli sono cittadini del
                                   mondo. La gente vuole fragole e susine anche a gennaio. È una nuova stagione. Ed è
                                   tempo di separarsi dalla terra. Inizia per le sorelle un viaggio a ritroso, nella memoria, e
                                   uno reale, attraverso gli incredibili colloqui con i possibili acquirenti del terreno, ex
                                   mezzadri arricchiti o emissari di multinazionali della frutta; tutti maschi, tutti ambigui,
                                   tutti apparentemente incapaci di capire quanto male facciano le radici quando bisogna
                                   tagliarle. È davvero tutto immutabile nell’avvicendarsi delle generazioni, dei raccolti?
                                   Possiamo ancora sperare di lasciare questo pianeta un po’ migliore di come lo abbiamo
                                   ricevuto?

Roberto ha scritto
Le protagoniste del romanzo sono Olga e Nadia, due sorelle che hanno lasciato le terre di famiglia per
motivi di studio e la madre Liliana. Ora adulte, si ritrovano nei luoghi d'infanzia perché, per motivi
economici, devono disfarsi della proprietà. La storia è narrata dalla voce della cugina, conoscitrice di luoghi
e persone del luogo, contadini, mezzadri e altri variopinti personaggi. I luoghi sono le terre dei monti

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Circolo di Lettura biblioteca Marconi

sibillini, tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo, terre così vicine, ma dove si respira ancora un'aria antica da
far West “de noantri”, terre messe in ginocchio e spopolate da recenti terremoti. Intorno alle protagoniste
ed alla ricerca dei restii compratori delle terre, ruotano tanti altri personaggi curiosi, singolari, divertenti,
ma non essenziali che ampliano il mosaico del romanzo. Ho fatto fatica a seguire il racconto per molte
pagine prima di familiarizzare con i tanti nomi; ho apprezzato gli accenni sul dilemma tra l'antico ed il
moderno; è un libro gradevole ma non indispensabile; è un libro su cui discutere.

Carla ha scritto:
Il giardino dei ciliegi 2.0
Una volta tanto la citazione in esergo dà davvero la chiave di lettura del romanzo. Ballestra gioca un po’ con
Cechov (soprattutto con Il giardino dei ciliegi, ma anche con le Tre sorelle che qui sono due sorelle più una
cugina) e tira fuori la divertente cronaca di un’estate nelle Marche. Più convincente di un dépliant turistico,
oltretutto ti mette addosso una gran voglia di andare a far trekking sui Monti Sibillini. Nel mio giudizio
positivo so di essere di parte perché non posso che apprezzare un romanzo in cui i Radiohead vengono
definiti “il gruppo inglese più importante degli ultimi trent’anni”.

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