VEGETARIANI, VI ODIO Manuale medico per il trattamento del vegetariano - Xoom.it
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VEGETARIANI, VI ODIO Manuale medico per il trattamento del vegetariano
PRESENTAZIONE DELL' OPERA In passato sono stato più volte criticato per il mio duro atteggiamento nei confronti dei vegetariani. Mi si accusa di essere intollerante e di non rispettare il loro stile di vita. Con il presente scritto intendo confermare queste critiche e ribadire ancora una volta quanto io odi i vegetariani. Ma in questa sede è mia intenzione cambiare approccio, dialogare con il vegetariano, perché ritengo che in fondo ad ogni vegetariano ci sia ancora un po' di umanità che può essere riscoperta e preservata; tutto questo senza rinunciare al mio odio atavico nei loro confronti (che è veramente molto grande). La mia convinzione è che non sia mai troppo tardi per guarire dal vizio della verdura, seguendo uno scrupoloso programma di recupero. Aspettare troppo potrebbe però aggravare la situazione e un bel giorno c'è il rischio di svegliarsi con i denti piatti, 2 stomaci e un irrefrenabile desiderio di brucare la peluria del proprio zerbino. Le testimonianze sono simili: "Ho iniziato con il radicchio, era solo curiosità, ma dopo un mese l'insalata non bastava più e senza accorgermene ero già passato al frullato di crauti" (Marco); per Natalia invece è stato il ravanello ad innescare il drammatico processo, assunto in discoteca dopo aver ordinato un lemon soda, senza sapere che al bar facevano uso di verdure per risparmiare sui limoni. Attualmente non esistono comunità di Vegetariani Anonimi, il problema del vegetarismo è quindi latente nella nostra società e spesso l'erbivoro si sente incompreso, escluso, solo; a ciò si aggiungono sintomi propri della malattia come la certezza di essere nel giusto, di capire più degli altri e di essere tanto filosofici. Un vegetariano allo stato avanzato è spesso preda di autoerotismo per il grave autocompiacimento in cui versa. Quello che manca è un serio programma di recupero da applicare sia a livello personale-familiare che ospedaliero. Con la presente trattazione mi propongo di fornire un possibile protocollo terapeutico che sia finalizzato non a curare il vegetariano, ma ad evitare che faccia altri danni, rendendolo inoffensivo; purtroppo per farlo è necessario anche guarire lo stesso vegetariano. Peraltro la totale inconsapevolezza del malato rende la sua patologia del tutto inefficace come mezzo autopunitivo e di sofferenza, altra ragione che mi ha spinto a scrivere questo trattato.
PATOGENESI E SINTOMATOLOGIA Cenni storici: vegetarismo e vegetarianesimo. Prima degli anni ottanta il vegetarismo non era considerato una patologia. Precedentemente si indicava con il termine di "vegetarianesimo" ("vegan" nel mondo anglosassone) quella filosofia che credeva nel principio del bastone e della carota, il cui fondatore e massimo esponente fu il cancelliere tedesco Bismarck, nel corso del XIX secolo. In seguito alla morte dello statista, tale scuola di pensiero subì numerosi scismi, nacquero allora movimenti paralleli come "Ravanello e Randello", "Avocado del Popolo", "Col Cavolo", "il Grande Cocomero", "Porro in Testa". Ben presto però assunsero la forma di sette estremiste, eliminando ogni alimento animale dai loro programmi parapolitici farnetizzanti e bruciando con rito celtico chiunque sorprendessero a mangiarne. I singoli Stati ebbero la meglio disperdendo gli erboterroristi che però continuarono segretamente la loro attività di proselitismo, tramandando di generazione in generazione gli insani insegnamenti. Non sono attestati episodi di vegetarianesimo prima di Bismarck, nonostante alcuni storici tendano a considerare rilevante il precetto pitagorico "astenersi dalle fave", forse dettato da regole civili non scritte che già allora isolavano i vegetariani per il loro atteggiamento antisociale. Solo con gli studi del Dr. Helrich Carnhauser negli anni ottanta finalmente si comprese che il vegetarianesimo non andava più considerato come un atteggiamento acquisito o una filosofia, ma come una vera e propria malattia, tanto da essere sostituito con il termine "vegetarismo". Alla luce di questa nuova valutazione del vegetarismo i sociologi dell'epoca proposero di abbandonare il clima di caccia alle streghe e di non discriminare i malati, fino a quel momento isolati e perseguitati dalla società. L'assurdità di tale considerazione era lapalissiana: l'erbivoro va comunque perseguitato e punito, indipendentemente dalle ragioni del suo comportamento. Carnhauser studiò l'eziologia della malattia e scoprì che i figli nati da genitori sani, dei quali però almeno uno aveva seguito diete vegetariane, erano stupidi e anemici; ma il suo straordinario intuito gli suggerì un'ipotesi che fu presto confermata da successivi esperimenti: anche i soggetti vegetariani nati da genitori non vegetariani erano stupidi e anemici. Tali dati sperimentali furono uniti in un'unica legge formulata dallo stesso Carnhauser: "Tutti i vegetariani sono stupidi e anemici a prescindere".
La sindrome del vegetarismo. Le precise cause biologiche della patologia sono ancora in fase di studio, certi sono invece i sintomi precoci quali deviate concezioni etico-ambientali, salutistiche o religiose che si accompagnano in fase avanzata ad autocompiacimento severo. La difficoltà di studio è dovuta principalmente alla diagnosi tardiva del male, quando ormai la prolungata dieta vegetariana ha danneggiato irreparabilmente il soggetto, rendendolo stupido e anemico; l'insorgenza della stupidità è però da molti considerata la vera causa della malattia, non un effetto, teoria del tutto ipotetica per l'oggettiva difficoltà nel determinare l'esatto momento di comparsa della stupidità. Allo stato attuale il vegetarismo è classificato come malattia sociale, per questo è importante dare spazio al problema e riconoscere i malati, additandoli per strada e facendoci beffe di loro a gran voce, perché il primo passo è riconoscere la malattia, quindi anche i malati. Il vegetariano è pericoloso per sé e per gli altri perché negando con la carne anche la propria umanità, non si riconosce più in quel sistema sociale organizzato in un sistema di diritti e doveri; il suo atteggiamento è quindi volto a restringere il mondo esterno al suo angusto modo di vedere le cose, che nei soggetti sani prende il nome di etica.
STRATEGIE TERAPEUTICHE La terapia consigliata comprende due fasi: un programma di recupero che il malato dovrà osservare con adeguata assistenza e una dieta speciale mirata a ristabilire il corretto apporto nutrizionale all'organismo. Nonostante per motivi didattici si renda necessario dividere i due momenti di cura in una successione temporale, questo non deve avvenire nella pratica: si dovrà infatti curare mente e corpo all'unisono, adottando la medesima crudeltà, assolutamente necessaria per lo scopo. Il minimo episodio di tolleranza o comprensione rischia di compromettere il buon esito della terapia. Programma di recupero: l'ottuplice viottolo. 1- "Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte alla carota e al broccolo e che le nostre vite erano divenute incontrollabili." Il primo passo è riconoscersi malati. Un vegetariano sa di essere vegetariano, però non riesce a comprendere la gravità della cosa, non percepisce la condizione patologica del nutrirsi di erba. Bisogna quindi aiutare in questa fase il paziente a capire che il vegetarismo non è glamour, è una cazzata e basta, quindi egli stesso è un cazzone, non una mente illuminata. Si consiglia l'uso frequente del bastone. 2- "Siamo giunti a credere che un potere più grande di noi potrebbe ricondurci alla ragione." A volte la verdura assume per il malato una forte valenza simbolica o religiosa, il cui attaccamento morboso varia con l'ortaggio. I quadri patologici più gravi sono senza dubbio descritti con la carota ed il broccolo; esemplare a tal proposito è il caso clinico descritto dal Dr. H.Carnauser dove il paziente aveva identificato i propri genitori con i suddetti ortaggi, macchiandosi dunque di vegetarismo, cannibalismo e parricidio. Il paziente potrebbe per questa ragione aver bisogno di sostituire, da un punto di vista simbolico, le verdure con un altro oggetto: risultati incoraggianti sono stati ottenuti con bastoncini di incenso o, per i casi più gravi di verdurofagia e mineralofagia, candele al manzo. 3- "Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura della carne, come noi potemmo concepirla." L'uomo da che mondo è mondo mangia la carne, la ciccia, i muscoli delle altre bestie morte ammazzate per sua stessa mano, con variabile sofferenza a proprio gusto. Il vegetariano deve accettare la carne come condizione imprescindibile per la fruizione dello status di uomo. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino è molto chiara al riguardo: "Dicesi UMANO ogni bipede che, in condizioni normali, si allaccia le scarpe da solo, non usa la lingua per esigenze di igiene personale, mangia carne. In assenza di 1 (uno) dei suddetti requisiti l'essere in questione non è da ritenersi
idoneo all'umanità e pertanto cessa si essere centro di imputazione di diritti e doveri riconosciuti dalla presente Carta." Quindi sia in termini biologici che giuridici, il vegetariano non può essere definito umano, bensì un non-uomo che in passato non è stato neanche degnato di una classificazione: nel regno animale il vegetariano non esiste, non c'è posto per lui. Il vegetarismo viene così ad essere una condizione innaturale e patologica. Se la natura avesse voluto che mangiassimo solo erbetta non ci avrebbe dato i canini; poi i ruminanti non fanno altro che vomitare di proposito, a dimostrazione ancora una volta di quanto il vegetarismo faccia diventare stupidi. 4- "Abbiamo fatto un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi." Il quarto passo è una presa di coscienza che rende l'erbivoro consapevole della propria inettitudine. Il malato capisce che mangiare erba non è figo, bensì pietoso, si rende conto di quanto sia stato ridicolo e inizia a soffrire. E' la fase della vergogna. 5- "Abbiamo ammesso di fronte agli altri e a noi stessi l’esatta natura dei nostri torti." Strettamente connesso con il precedente punto, questa è la fase della colpa. Il vegetariano, dopo la vergogna, avverte anche la colpa di aver offeso lo stesso concetto di umanità nel rifiutare la carne. 6- "Siamo completamente pronti ad accettare una bistecca di cavallo al sangue." E' il momento dell'espiazione e del rito di consacrazione sociale: pentirsi non basta, serve un atto di abiura che dimostri la completa riabilitazione del malato, ormai pronto ad essere riammesso tra gli uomini con riserva. 7- "Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo diventati pronti a rimediare ai danni recati loro." L'erbivoro è pericoloso. La sua indole altezzosa può recar danno alla società in ogni ambiente in cui siano richiesti rapporti interpersonali: a lavoro, a casa, nei mezzi pubblici, al ristorante e al bar. La sua superbia crea disagio nelle persone con cui viene a contatto, anche se tale situazione è piuttosto temporanea, sostituita da greve ilarità quando i motivi del biancore cadaverico del paziente vengono resi noti. 8- "Avendo ottenuto un risveglio spirituale come risultato di questo Ottuplice Viottolo, abbiamo cercato di portare questo messaggio agli altri erbivori e di mettere in pratica questi principi in tutte le nostre attività." Dovere morale del paziente guarito è di contribuire a debellare il vegetarismo. Lo spirito che deve animare l'ex vegetariano non è quello di compassione verso quelli che erano suoi simili, perché solo l'odio è concesso verso costoro. Si deve invece pensare al bene della società, denunciando ogni episodio sospetto di erbivorismo.
Clinica: assistenza ospedaliera dell'erbivoro. -Abbandono dell'insalata. Benché il passaggio alla carne debba essere graduale, l'abbandono della verdura deve avvenire nel modo più immediato e irreversibile, onde evitare ulteriori complicazioni (vedi sindrome del bastone e della carota). Visti i costi di palliativi in grado di simulare il gusto della verdura, la prassi ha imposto l'uso dell'ortica e del cardo quale deterrente. A volte l'alienazione del paziente lo spinge a perseverare nel consumare ugualmente la "piccante" insalata; con il tempo però le lesioni orali provocate dalle verdure urticanti costituiranno un'ostruzione fisica pressoché totale alla deglutizione. -Alimentazione proteica iniziale. Un cambio drastico di dieta può provocare episodi di vomito nel paziente. Le ragioni del problema, prima che psicogene, sono di natura fisica: bisogna abituare il vegetariano alla consistenza della carne gradualmente. Si consiglia pertanto di iniziare con omogeneizzato diluito in acqua calda, imboccando il soggetto tramite siringa. Una particolare precauzione è quella di non rivelare mai la vera composizione dell'omogeneizzato, dicendo che sono feci liquide di animali erbivori ancora in vita, i quali hanno espressamente firmato un consenso informato per il trattamento dei propri escrementi. Il paziente si tranquillizzerà subito. Altro errore spesso commesso dal personale ospedaliero è di togliere l'ago dalla siringa usata per imboccare: l'ago va ovviamente lasciato all'estremità della siringa a puro scopo intimidatorio, la sua dimensione è affidata al libero sadismo dell'infermiere. -Dieta definitiva e rifiuto verso la carne. A volte il vegetariano crede di poter giustificare la propria malattia nascondendola dietro una nobile causa. La più frequente è quella del buonismo forzato: il paziente riferisce di non sopportare l'idea che si possa uccidere un animale, percependo la carne come materiale cadaverico. L'approccio più comune in situazioni di questo genere è una dieta speciale a base di animali ancora vivi. In genere si preferiscono gli animali morti e cotti per una questione di praticità e di igiene, ma nulla vieta di mangiarli vivi e lasciare che muoiano durante la digestione. Si consiglia l'utilizzo di molluschi prima di passare ai grandi mammiferi, a volte difficilmente ingeribili.
RAPPORTO MEDICO-ERBIVORO Come spesso sottolineato nel corso della trattazione, l'atteggiamento verso il vegetariano deve essere sempre il più ostile possibile, al fine di garantire l'esito positivo della terapia. L'ostilità è richiesta sia come dovere professionale del personale medico che come dovere morale di tutti coloro che dovranno venire a contatto con il malato. Episodi di sadismo accelereranno il processo di guarigione. In genere chi si rivolge al medico - per sua iniziativa o, più spesso, indirizzato da familiari, medici, psicologi, sacerdoti, servizi sociali o semplici amici - non si riconosce subito erbivoro ma tende piuttosto a considerarsi un forte salutista, non è cosciente di avere problemi con le verdure. In questa prima fase il medico deve far capire al soggetto che quella che aveva sempre considerato un'abitudine (da sbandierare a tutti per far vedere quanto è alternativo) è in realtà una “malattia”. E' a questo punto che il medico deve prontamente immobilizzare l'erbivoro, sedarlo quando necessario e proseguire con il ricovero immediato, avviando la terapia.
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