ACCETTARE L'INCERTEZZA COME UNA CERTEZZA. IL CHANGE MANAGEMENT E LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE IN TEMPI DI CRISI.

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ACCETTARE L'INCERTEZZA COME UNA CERTEZZA. IL CHANGE MANAGEMENT E LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE IN TEMPI DI CRISI.
ACCETTARE L’INCERTEZZA COME UNA CERTEZZA.
    IL CHANGE MANAGEMENT E LA GESTIONE DELLE RISORSE
                 UMANE IN TEMPI DI CRISI.
 Intervista a Luca Stefano Vanni - Vice Presidente HR & Organizational Effectiveness, EMEA presso
                                                 NEC Europa

                        a cura di Lara Cortese, Agata Sofia Monteleone, Nikita Tyurin
                              Master in Risorse Umane e Organizzazione 2013

Come gestire le persone nei processi di cambiamento organizzativo. Perché è importante comprendere i
diversi sistemi sociali nazionali nella gestione di organizzazioni multinazionali. Quando è possibile utilizzare
policy comuni e quando invece è importante contestualizzare la strategia rispetto al territorio e alla cultura.
Gestire un’organizzazione globale e le sue risorse umane, durante la crisi. La storia di un manager italiano di
una società giapponese a Londra.

Ci incontriamo su Skype. Abbattiamo così le barriere geografiche: da Baveno a Londra. Dalla sede della
Business School Fondazione ISTUD alla nuova sede di Londra della NEC: grazie alla webcam riusciamo a
immaginare l’ufficio di Luca Stefano Vanni. Subito si mostra disponibile a dedicare il suo tempo e la sua
esperienza a tre ragazzi, che, da qualche anno, hanno maturato l’ambizione di avvicinarsi al mondo delle
risorse umane e dell’organizzazione aziendale.
Dopo un paio di premesse e alcune interruzioni tecnologiche, desiderosi di sapere, iniziamo subito con
alcune domande sulle differenze culturali nelle organizzazioni. Dopotutto è un italiano, che lavora a Londra,
nella divisione EMEA (Europa, Middle-East, Africa) di una società giapponese…
ACCETTARE L'INCERTEZZA COME UNA CERTEZZA. IL CHANGE MANAGEMENT E LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE IN TEMPI DI CRISI.
Sulla base delle esperienze maturate nel corso della sua carriera, come descriverebbe le differenze
della cultura organizzativa di una società a stampo nipponico rispetto alle multinazionali
anglosassoni?
                                          Ci sono delle fondamentali differenze, che, come tutte, hanno i
                                          loro pro e contro. Immaginate un triangolo. Se disegniamo
                                          un’organizzazione piramidale, normalmente la dividiamo in ruoli e
                                          li analizziamo il più possibile in modo da presidiare tutti gli aspetti
                                          del processo con grande precisione.
                                          Il concetto giapponese è un po’ diverso: ci sono dei ruoli, le ‘palle’,
                                          che non si toccano e ci sono degli spazi ove il team lavora.
                                          C’è una rete sociale fortissima e i ruoli sono meno definiti,
                                          permettendo così alle persone di occupare lo spazio in cui loro
desiderano lavorare.
Se il problema cade in una zona dove non c’è un ruolo ed un responsabile definito, le ‘palle’ intorno si
stringono per risolvere quel problema. Per noi occidentali questo tipo di organizzazione crea un problema
notevole in quanto, non individuando i responsabili delle attività, il sistema risulta confuso. Questo
meccanismo inoltre richiede molte più persone che lavorano sullo stesso problema. Ciò, unito alla seconda
caratteristica forte del sistema giapponese, che è quella della condivisione delle decisioni o ‘Nemawashi’,
porta ad un rallentamento della presa di decisioni: siccome la loro modalità di leadership è il consenso,
hanno bisogno che tutte le persone raggiungano un certo tipo di consenso prima di decidere. Così, in
                                                 Giappone, i meeting sono solo momenti celebrativi e
                                                 formali –e ciò compensa in parte il problema della
                                                 lentezza–    poiché    gli   argomenti    sono    già     stati   in
                                                 precedenza      discussi     e   condivisi.   Tuttavia,    questo
                                                 meccanismo diventa ancora più lento con l’aumentare
                                                 delle persone che interagiscono nell’organizzazione. Oggi,
                                                 in una società che si muove a ritmi sempre più veloci,
                                                 questo meccanismo ‘antico’ entra in crisi. Non è un caso
                                                 che, mentre in passato il Giappone era uno dei paradigmi
delle teorie organizzative, oggi nessuno guarda più al Giappone cercando modelli manageriali efficienti. Le
uniche tecniche che si prendono sono quelle legate al manufacturing, dove la logica incrementale, che è un
altro degli elementi dell’attenzione del management giapponese al dettaglio, funziona bene in ambienti di
quel tipo. Per il resto nelle aziende giapponesi vi è un forte problema di leadership che stenta a emergere
perché il condizionamento culturale è veramente forte.

Come avete integrato all'interno della divisione EMEA tali differenze culturali?
In EMEA stiamo cercando di compiere questo tipo di contaminazione. Adesso stiamo eseguendo un piano di
riorganizzazione, che non è solo un ridimensionamento, purtroppo, in termini di organico, ma un
cambiamento della nostra organizzazione da un modello basato sulle ‘Country’ come unità indipendenti di
profitto a un modello regionale, organizzato per funzioni regionali di supporto (HR, Finance, IT) e linee di
business. In questo cambiamento stiamo cercando di implementare un modello che sia più vicino alle nostre
logiche organizzative, quindi con una definizione un po’ più chiara dei processi e delle responsabilità.
Tuttavia il sistema giapponese comporta il dover chiedere un sacco di consensi a Tokyo –la casa madre
della NEC ha sede in Giappone– anche per problemi che non avrebbero un legame diretto. Questo in un
momento di cambiamento rende tutto più difficile e lento, perché non si può contare su una leadership
all’americana. Tuttavia ogni famiglia è una cultura e ognuno al suo interno trova i modi per gestirla e andare
avanti. Noi siamo molto lontani da un modello teorico di leadership, che assegna un management team, crea
un team, implementa una strategia, ha un processo di feedback ben chiaro e con le stesse persone che gli
hanno dato la delega. Qui è tutto molto più complesso e più fluido.

Seguendo questa logica, quali sono i diversi approcci, se vi sono, alla gestione delle risorse umane
nelle diverse divisioni geografiche in NEC?
Innanzi tutto bisogna dire che all’interno dell’area EMEA esistono due livelli di controllo: l’Europa e poi
Russia, Middle-East e Africa, territori che ci sono stati affidati recentemente e in cui, per un fattore sia
dimensionale sia culturale, la mia attività è più limitata. Se parliamo, dunque, di Middle-East e Africa, mi
sono limitato alle policy di governance principali sulla selezione e sulle politiche retributive, ma, di fatto, le
risorse umane sono gestite dalla linea. Per quanto riguarda, invece, l’Europa, sei anni fa, quando sono
entrato in NEC, ogni paese non solo era un centro di profitto indipendente, ma ognuno aveva le sue policy e
gli HR locali rispondevano al presidente locale. Oggi, attraverso il metodo, molto giapponese, del consenso,
abbiamo creato tutte le politiche principali a livello europeo. All’interno di questo gruppo, che in teoria adotta
le stesse policy, ci sono comunque delle chiare differenze di applicazione, secondo quella che è la cultura
nazionale. Nell’applicazione delle policy bisogna avere dunque diversi pesi e misure, nonostante uno
‘zoccolo’ uguale di base. È necessario tenere conto che l’applicazione delle logiche organizzative deve
rispettare i tempi necessari per far sì che un nuovo modo di lavorare sia digerito secondo la cultura che
troviamo localmente.

Può descriverci la struttura organizzativa in NEC prima e dopo la crisi del 2008?
In realtà ci sono due driver principali che ci hanno fatto modificare l’organigramma: uno è la crisi e l’altro il
passaggio di NEC da una produzione di massa (telefonini, PC, disc drive, proiettori, monitor) –oggi alcuni di
questi prodotti sono stati dismessi, alcuni ceduti, altri sono stati raggruppati in una società del gruppo, che si
chiama ‘NEC Display Solutions’, società che gestisce i canali indiretti– a un business prevalentemente B2B,
come le infrastrutture per gli operatori di telefonie mobili, software di sicurezza e i sistemi voci-dati per la
comunicazione aziendale. Ciò significa passare da muovere box a vendere sì prodotti ma soprattutto servizi,
che devono risolvere un problema al cliente in maniera personalizzata.
Un approccio più consulenziale?
Sì, ma anche molto più che consulenziale, perché non è neanche costruire una soluzione di fronte ad un
problema dato, ma capire dove va la tecnologia e cercare di proporre un progetto che, di fatto, costituisca un
business plan per l’operatore.
Tutto ciò ha richiesto di rivedere tutti i nostri processi interni e di adeguare la nostra struttura organizzativa. E
qui ovviamente la crisi non ci ha aiutato. Ci siamo resi conto che, in un business che era un terzo rispetto al
passato, la struttura precedente era troppo pesante e abbiamo, dunque, cominciato a clusterizzare le
funzioni di staff.
Il grande cambiamento ha quindi due driver, non solo la crisi, non solo l’evoluzione della tecnologia, che ci
porta a dover avere delle risorse più specializzate e sofisticate, ma anche un cambio di portafoglio prodotti
da ‘Business-to-Businesso-to-Consumer’ a ‘Business-to-Business’ vero e proprio.

In questo senso la gestione del cambiamento può essere vista come uno strumento che porta
all'efficienza e all’ efficacia organizzativa?
Assolutamente. Uno dei driver forti qui è che bisogna ridurre i costi. Un’azienda per essere sana deve
comunque produrre una redditività. Non credo alle aziende che non producono soldi, perché contro natura.
Un’azienda deve produrre profitto, poi eticamente possiamo disquisire: non è corretto licenziare 3000
persone, perché gli azionisti chiedono un incremento dal 10% al 15% della redditività, poiché la borsa cala.
Questo è un modello malato, ma l’azienda deve produrre un reddito. Noi in NEC Europa stiamo mettendo in
atto proprio per questo un processo di cambiamento. Dove andiamo oggi? Oggi abbiamo annunciato le
nuove strutture, assegnando tutti i ruoli e le responsabilità. È un processo molto complesso, anche per le
implicazioni sociali e le discussioni sindacali. Nelle prossime settimane lanceremo il nuovo piano HR, che è il
progetto principale di Change Management, che abbiamo chiamato ‘Operazione Kon-tiki’. La metafora del
Kon-tiki è stata utilizzata giacché sta a indicare un’impresa disperata, ma in cui si va a riscoprire qualcosa
che è stato dimenticato. Noi vogliamo che le nostre persone riscoprano sia l’orgoglio che il successo, che
avevamo come gruppo NEC. Questo percorso di riscoperta avverrà tramite un processo di kick-off e
formazione con l’intento di creare nuovi gruppi transnazionali con valori e senso di appartenenza condivisi.

Considerando questa logica del cambiamento organizzativo e l’attuale scenario economico, crede
che la tendenza verso fusioni e acquisizioni possa portare a un miglioramento delle performance
aziendali? Se sì, come?
Dipende. Io credo che l’acquisizione sia una delle modalità di collaborazione, ma non necessariamente
l’unica: si può acquisire, prendere delle partecipazioni azionarie, fare partnership di tipo commerciale o di co-
sviluppo di alcune parti di una soluzione. La tendenza a fare rete, secondo me, continuerà, perché non è
possibile dare oggi delle soluzioni complesse, padroneggiare tutti i pezzi di tecnologia (nel caso NEC) che
servono a creare una certa soluzione. Difatti, in alcuni casi, il gruppo NEC ha anche pensato di acquisire
altre società in situazioni particolarmente complesse che richiedevano competenze altrettanto articolate da
poter essere risolte ‘in casa’.
Prima parlava di una riduzione dell’organico. A seguito di questo processo di ristrutturazione, che
tipo di politiche delle risorse umane sono state adottate in NEC, considerando anche l’outpacement?
L’outplacement è una domanda interessante, in quanto sottintende una teoria che noi cerchiamo di
utilizzare: essere ‘buoni employer’. Al di là del fatto che siamo sottoposti a forti vincoli di budget, abbiamo
tuttavia cercato di equilibrare, per quanto possibile, il forte squilibrio che ancora oggi esiste tra i sistemi
sociali in Europa. Ci sono paesi, quali Italia e Francia, molto tutelati dal punto di vista legale e paesi, come
quelli anglosassoni, Nord ed Est Europa, in cui è molto più semplice dismettere persone. In certi casi
abbiamo creato noi una politica, offrendo outplacement o raddoppio delle mensilità di buona uscita previste,
mentre abbiamo cercato di essere severi nei paesi in cui c’erano già della tutele molto forti e negoziare molto
duramente con le rappresentanze sindacali. Le policy di outplacement sono state elaborate e consigliate
caldamente, ma abbiamo lasciato ai vari paesi la discrezionalità di attuarli. Un’altra politica che stiamo
utilizzando, dopo aver individuato la mappatura dei talenti, per le persone che rimangono, come già spiegato
in precedenza, è l’inserimento di alcune risorse, all’interno del progetto Kon-tiki: questo ci consente di esporli
a lavorare con il nuovo management aziendale oltre ad inserirli all’interno d’interventi di formazione finalizzati
alla gestione del cambiamento.

Quindi questo progetto Kon-tiki può essere visto come la soluzione di lungo periodo, per così dire,
anche in un’ottica di talent retention e talent management?
Di lungo periodo no, è il primo passo, sarà il nostro primo concreto passo della strategia di talent
management e retention. Abbiamo da poco messo in piedi un sistema di retention per il 10%
dell’organizzazione, su cui fare dei benchmark di mercato per valutare, se richiedono, secondo il ruolo
ricoperto all’interno dell’organizzazione, un adeguamento retributivo. Altrimenti interveniamo con dei
retention bonus e un pacchetto d’incentivazione legata agli obiettivi della ristrutturazione aziendale della
durata di diciotto mesi, tempo necessario per mettere in linea un’organizzazione.

Più da un punto di vista personale e in vista delle nostre prospettive per il futuro, se fosse un
giovane talento, in che settore si orienterebbe in questo momento?
Io credo che sia importante fare le cose che ci piacciono. Non si riesce a essere eccellenti facendo le cose
che non ci appassionano. Ogni scelta deve avere una motivazione che non può venire dal fatto che il lavoro
è meglio pagato o socialmente riconosciuto: questi sono driver che prima o poi si esauriscono. Il mio
suggerimento è, quindi, di perseguire qualsiasi cosa vi tocchi le corde perché è l’unico modo per essere
eccellenti. Inoltre penso che ci siano dei valori, delle competenze chiave sulle quali puntare. Se non ti senti
realizzato dal punto vista professionale e personale e non sei in sintonia con i tuoi valori, non puoi diventare
un buon professionista. Quindi ritengo che ognuno debba farsi il così detto ‘esame di coscienza’
interrogandosi su quelli che sono i propri driver di motivazione, scommettendo su comportamenti e valori
chiave, che ti mettono in sintonia con te stesso. In terza istanza credo che non bisogna essere rigidi nei
confronti delle sfide che la vita può metterci davanti, ritenendole pur sempre in linea con i valori e gli ideali
perseguiti.

A fronte delle sue esperienze cosa direbbe a tre ragazzi che tra poco si approcciano al mondo del
lavoro?
Io direi prima di tutto di chiedervi quali sono le cose che vi fanno brillare gli occhi. Ricordatele e cercate di
declinarle nel mondo del lavoro. Secondo, di accettare l’incertezza come una certezza: l’incertezza è una
parte della nostra vita quindi dobbiamo imparare a conviverci e viverla come un’opportunità. Se siamo
confidenti delle nostre risorse, l’incertezza diventa una scoperta giorno dopo giorno di quello che possiamo
fare nella vita. Inoltre tre sono le raccomandazioni che mi sento di farvi: continuare a imparare, non si smette
mai di imparare. Una chiave di oggi per essere degli uomini liberi è l’employability: se ho delle risorse sono
un uomo libero e sono più disposto a correre dei rischi e scendere a compromessi. La seconda è ricordavi la
differenza tra amici con la ‘A’ maiuscola e conoscenti. Le prime sono le persone che vi seguiranno per tutta
la vita, se avete dei valori e delle esperienze condivise, queste sono le persone che vi possono fare da
specchio nei momenti di crisi e sono le uniche persone che vi troverete accanto quando tutti gli altri
spariranno soprattutto quando avrete delle crisi professionali. La terza è di essere sempre voi stessi. ‘Io sono
comunque io’. Se un uomo si sente libero, fa le scelte giuste perché sono meno vincolate da paure e calcoli
di convenienza.

                              Luca Stefano Vanni è Vice Presidente HR & Organizational Effectiveness,
                              EMEA presso NEC Europa.
                              “Figlio d’arte” –il padre era un noto direttore del personale– da bambino
                              sognava di diventare Ufficiale di Marina, sogno in parte coronato durante il
                              periodo degli studi universitari. Laureato nel 1985 in Economia presso
                              l’Università Bocconi, ha precedentemente lavorato in Hoya, Bull, Indipendent
 Consultancy e Inaz.
 Oggi vive a Londra. È appassionato di golf e tiro con l’arco.
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