Vajont 9 ottobre 1963 - 463210/SC Manlio Casagrande - Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico

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Manlio Casagrande
                463210/SC

             Vajont
            9 ottobre 1963

Teorie e Tecniche del Linguaggio Giornalistico
                Prof. Fiengo

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Introduzione

    Con questo lavoro ho voluto analizzare come alcuni quotidiani abbiano coperto il tragico evento
della frana sul bacino artificiale del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, che provocò la morte di circa
duemila persone. Come abbiano trattato l’argomento nei giorni appena successivi alla sciagura e
quanto spazio abbiano dato alle proteste della popolazione locale prima che questo episodio si veri-
ficasse. Nonché i risvolti politici, l’influenza delle proprietà di alcuni giornali, lo scontro ideologico
tra comunisti e “il resto del mondo”, l’utilizzo di un linguaggio spesso condizionante soprattutto per
un lettore sprovveduto.
    E’ doveroso precisare le difficoltà tecniche incontrate. Reperire giornali dell’epoca è stata impre-
sa piuttosto ardua1, non sempre le fonti disponibili sono di prima mano, anche se gli articoli che ho
citato e messo a confronto, oltre ad averne copia originale, credo siano indicativi e rappresentativi
del giornalismo di allora in quanto scritti da nomi di spicco e collocati nelle prime pagine dei più
grandi quotidiani nazionali.
    L’analisi verte su 3 quotidiani: “Il Corriere della Sera”, “l’Unità” e “Il Gazzettino”. Del primo
vanno ricordati l’ingente impiego di risorse e la qualità dei corrispondenti; il foglio del partito co-
munista ha avuto un ruolo rilevante nella fattispecie rappresentando l’indignazione dei montanari at-
traverso articoli di protesta dopo, ma soprattutto prima, il 9 ottobre 1963; infine il giornale locale, in
pieno conflitto d’interessi, ha assai tergiversato nel tentativo, peraltro vano, di informare il popolo
senza deludere la proprietà. In ultima una piccola analisi di una pagina de “Il Giorno” di venerdì 11
ottobre 1963 che mette in risalto come si possa comunicare tutte le informazioni fondamentali e, at-
traverso una sapiente impaginazione, allo stesso tempo offrire una chiave di lettura dei fatti che con-
dizionerà il lettore nell’interpretazione delle notizie.
    E’ fondamentale ricordare il contesto storico nel quale è accaduta la tragedia del Vajont. Infatti la
lettura dei quotidiani di allora offre, al di là della notizia prettamente storica, un quadro preciso e
dettagliato dell’Italia di quel periodo e, al fine di una corretta comprensione, non si possono prescin-
dere la situazione accesa e i temi scottanti che impegnavano l’opinione pubblica: i contrasti sovente
violenti tra i vari partiti politici, la guerra fredda o, e la diga del Vajont né sarà per un periodo
l’incontrastato emblema, il miracolo economico italiano.

                                      Il quotidiano anni ‘60

   Nel 1963, anno in cui è accaduta la tragedia del Vajont, il quotidiano era il principale mezzo
d’informazione. Vantava una serie di peculiarità che la televisione e la radio non possedevano – o
non possedevano ancora - e nel descrivere la frana del 9 ottobre le mise tutte in gioco: l’estensione,
molte furono le pagine dedicate al Vajont; la profondità degli articoli, con la possibilità di scendere

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  Alla biblioteca di Longarone, la più fornita sull’argomento, non possiedono alcuna copia originale dei quotidiani
dell’epoca, solamente una striminzita rassegna stampa con qualche fotocopia delle varie prime pagine.

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in minuziose analisi; l’impiego di grafici, che illustrarono chiaramente lo smottamento della monta-
gna; l’uso di fotografie, con quotidiani quale “Il Giorno” che uscì con 4 sovraccoperte dedicate e-
sclusivamente alle immagini del luogo del disastro.
    I quotidiani erano di poche pagine, basti pensare che “l’Unità” di sabato 12 ottobre contò sole 12
pagine. Il linguaggio impiegato aveva spesso connotazioni letterarie, e poteva permettersi un ritmo
lento, soprattutto se confrontato con quello frenetico e nevrotico di oggi, atto a comunicare con un
pubblico educato ai tempi televisivi. Non si era instaurato il circolo autoreferenziale dei media se-
condo il quale i media parlano quasi esclusivamente di sé stessi, caratterizzato dall’abituale e goffo
tentativo dei giornali di recuperare e commentare notizie, talvolta progettate con l’unico scopo che
se ne parli, che la televisione ha dato in esclusiva. La RAI ebbe un ruolo marginale, mentre legger-
mente diverso può essere il discorso per quanto riguarda la radio, della quale però rimane conservato
ben poco materiale.
    Il quotidiano può essere concepito come un “campo di forze organizzate gerarchicamente in una
struttura”2, ovvero il prodotto giornale è l’equilibrio che si crea da una molteplicità di forze di natura
e intensità diverse. Nel raccontare la frana del Vajont, ogni quotidiano dovette fare i conti soprattut-
to con “le condizioni tecniche, le scelte redazionali, le posizioni di campo, la priorità di interessi, le
matrici culturali, gli orientamenti politici, il destinatario, la dislocazione geografica e socio-politica
del pubblico”3.
    Ecco che il quotidiano è posto al confine tra gli obblighi aziendali di spettacolarizzare l'   evento a
fini commerciali, dare una lettura critica della situazione evitando altresì di informare troppo, senza
rischiare di danneggiare gli interessi sottostanti. Tutto ciò si concretizza, per esempio, nella scelta di
un termine parziale accanto ad uno neutro, nell’accostamento di un titolo ad una particolare fotogra-
fia, nella presenza di un titolo forte non perfettamente concorde con l’articolo che lo segue: in poche
parole, nella presenza, all’interno della pagina di riferimenti che inducano il lettore ad un certo tipo
di interpretazione e decodifica.
    “L' informazione – come afferma Umberto Eco - é per definizione parziale, per il fatto stesso di
scegliere un evento, dove collocarlo, con che carattere e attraverso quali parole evocative raccontar-
lo l'informazione é soggettiva. E'un assunto filosofico elementare. Tuttavia l'      informazione giornali-
stica é spesso tendenziosa, dipendente, succube degli «organi di potere», i quali attraverso la censura
o la stesura di una notizia ne variano l' impatto con il lettore”. E negli articoli presi in considerazione
questo è ciò che è avvenuto: il campo di forze è spesso distorto a vantaggio della proprietà, la quale
per non intaccare il proprio prestigio evita accuratamente che vengano pubblicate alcune informa-
zioni che invece trovano spazio in buona parte della stampa straniera o di opposizione.
    Infatti la tragedia del Vajont non muore nel 1963. Per gioco, sarebbe possibile raccontare
l’attualità attraverso i quotidiani di ieri, o i telegiornali di ieri. Toccando altre epoche, a prima vista
così distanti, salta agli occhi come i problemi di fondo nei campi della politica, della società,
dell’uomo siano i medesimi, oggi come mezzo secolo fa. Sarebbe sufficiente variare date e nomi4
per notare come il contesto nel quale si sviluppano i problemi di ogni giorno sia rimasto, nei suoi ca-

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  Teoria sulla quale Alberto Cavallari basava le sue lezioni di giornalismo tenute alla Sorbona dal 1958 al 1970.
3
  Mario Isnenghi, “Il potere di Carta”, saggio all’interno del volume a cura di Maurizio Reberschak “Il Grande Vajont”.
4
  Salvo qualche rara e curiosa eccezione: un numero del Corriere della Sera del 1974 e di Repubblica del 2002 hanno
come sommario “Silvio Berlusconi vuole comprare il Corriere della Sera”.

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ratteri generali, invariato. Ecco come il Vajont, al pari di qualsiasi altro fatto storico del nostro pae-
se, se osservato in chiave allegorica, assuma un peso sicuramente maggiore di quello di una storia di
un paesino di montanari, ma diventi un fatto storico, civile, personale che quotidianamente si ripete
e che richiama, in primo luogo, la coscienza sociale di ognuno di noi.

                              La storia: il Vajont in poche righe

   “Ti dice niente Vajont? 9 ottobre 1963. Dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano tutti
insieme 260 milioni di metri cubi di roccia. Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano
nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. Di questi cinquan-
tamilioni, solo la metà scavalca la diga: solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua… Ma è più
che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Vil-
lanova, Faè. Duemila i morti. La storia della diga del Vajont, iniziata sette anni prima, si conclude in
quattro minuti di apocalisse con l’olocausto di duemila vittime.”5

    Era il 1929 quando avvenne il primo sopralluogo nei paesini di Erto e Casso6 da parte
dell’ingegnere Carlo Semenza e del geologo Giorgio Dal Piaz. Il progetto vagamente abbozzato
all’epoca era quello di costruire un immenso lago artificiale, una sorta di banca dell’acqua di 58 mi-
lioni di m³ d’acqua. Per avere un metro di paragone basti pensare che gli altri 7 laghi già costruiti
nelle Prealpi, se sommati, avrebbero formato un bacino di 64 milioni di m³ d’acqua. Il progetto era,
a quanto pare, ambizioso. Venne avvallato dal conte Giuseppe Volpi, uno dei più importanti
industriali italiani e fondatore della Società Adriatica di Elettricità (SADE), il quale ottenne
l’autorizzazione a procedere convocando una riunione straordinaria nelle confuse giornate che se-
guirono l’8 settembre 19437.
    Nel 1948 la SADE si presentò al Comune di Erto per istigarlo a vendere le terre dove sorgerà la
diga. Il Comune di Erto, intimorito dalle carte bollate provenienti dallo Stato, malauguratamente
vendette. Anche la terra che non era sua. Infatti più di cento famiglie si accorsero che il comune a-
veva ceduto i loro terreni, e pretesero il rimborso che gli spettava. Il Comune di Erto fu costretto ad
indebitarsi con la SADE per poter risarcire i cittadini. Non era ancora cominciata la “storia del Va-
jont” e già la SADE si trovò in posizione di forza nei confronti degli ertani.
    Nel 19568 la SADE approdò ad Erto e, dopo aver aperto un cantiere di 400 operai, cominciò a co-
struire. La diga portò entusiasmo, modernità, soldi. Il cantiere offriva posti da operaio9 e aumentò il

5
  Dal retro del libro di Paolini Marco e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti Editore, 1997.
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  Erto, paesino di 906 abitanti, e Casso, 456 abitanti, la frazione minore del comune di Erto e Casso, sorgono sulla riva
destra del Vajont, il torrente che taglia al centro una valle a pochi chilometri da Belluno.
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  Il 15 ottobre 1943 grazie all’adunanza di 13 membri su 43 della IV Sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pub-
blici, i quali, naturalmente, non costituivano il numero legale.
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  E’ curioso notare come nel 1956 si costruì anche la prima caserma dei carabinieri, quando ve n’era già una a Cimolais,
a soli 5 chilometri di distanza. Con l’arrivo di un’industria potente era necessario che ci fosse un’istituzione in grado di
far rispettare l’ordine, per esempio inviando gli espropri o punendo i dissenzienti che non volevano cedere la casa.

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tenore di vita: a Longarone i cittadini si poterono permettere le prime radiotransistor, le Gilera 300,
persino qualche automobile. L’azienda, consapevole del forte appoggio del governo, sovente non ri-
spettava i decreti legislativi e agiva prima di ottenere le necessarie autorizzazioni. Nacque allora il
“Comitato”, presieduto dal dottor Gallo, che lotterà contro le ingiustizie e le sopraffazioni della
SADE fino a quando, si saprà in seguito, la stessa SADE non acquisterà, ad un prezzo ragionevole, i
suoi terreni. E’ uno dei tanti tradimenti che i cittadini dovranno sopportare, non ultimo quello de “Il
Gazzettino”, sempre pronto a elogiare la forza e il prodigio degli ingegneri e non darà mai voce al
malcontento popolare.10
    Nel 1957 dagli stessi Semenza e Dal Piaz11 che fecero il primo sopralluogo nel 1929, venne ap-
provata una variante della diga, ovvero l’innalzamento di 61,60 metri. Il progetto della diga passò
da 200 metri a 261,60 metri, e naturalmente aumentò anche la disponibilità del bacino idrico: da 58
milioni di m³ a 150 milioni di m³ d’acqua..
        Accaddero delle cose strane. Ecco un esempio. Il 15 giugno 1957 arrivò dal ministero
l’autorizzazione governativa a costruire, ma la SADE già da tempo aveva attivato il proprio cantiere.
Tempo dopo l’ingegner Desidera, funzionario del Genio Civile di Belluno, in seguito a numerose
segnalazioni, decise di far chiudere il cantiere. Ventiquattro ore dopo verrà sostituito da un uomo
malleabile come il professor Violin, con il quale la SADE non avrò più alcuno screzio. Le situazioni
anomale, pur non essendo l’argomento della ricerca è necessario sottolinearlo, furono all’ordine del
giorno.
        Affinché una diga incominci ad operare è necessario verificarne la tenuta. Nel 1958 venne
nominata la “Commissione di Collaudo” che faceva capo all’ingegner Penta, già assunto in prece-
denza dalla SADE. Nel 1959 a Pontesei, in una diga costruita da Semenza con la consulenza di Pen-
ta, avvenne una frana. Gli ertani iniziarono a preoccuparsi: “se è successo a Pontesei - pensarono -
perché non può accadere qui?”
        La lingua del potere, burocratica e dotta, presente nei documenti ufficiali rendeva impossibi-
le qualsiasi interesse spontaneo alle procedure da parte dei “montanari ignoranti”: la SADE era un
colosso e nessuno aveva l’autorità per criticarne l’operato. Ma non tutto procedeva senza intoppi.
Numerosi indizi portavano gli autoctoni a protestare con forza, ad organizzare riunioni tra capifami-
glia, a partecipare attivamente affinché la situazione non desse adito a malintesi. Gli alberi comin-
ciarono ad inclinarsi, comparirono delle crepe sui muri delle case, evidenti screpolature sui marcia-
piedi, si sentirono rumori sordi e persistenti arrivare dalla montagna, e in più, il 2 dicembre 1959 a
Frejus, in Francia, una diga cedette provocando 400 morti. Una “honte nationale”, si disse, un ver-
gogna nazionale.
        Nel 1959 si susseguirono altre importanti rilevazioni, in primo luogo quella dell’austriaco
Leopold Müller. Müller parlerà in seguito di “una grande frana profonda,” affermando che “non è
più possibile evitare la frana”. Invece l’ingegner Pietro Caloi sostenne che “la crosta del monte Toc

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  L’operaio era quasi un lavoro di prestigio al tempo, soprattutto rispetto ad altri tipi di lavoro quali il falegname, il con-
tadino, il venditore ambulante.
10
   Tina Merlin, Vajont 1963. La costruzione di una catastrofe. Da una nota della Merlin: “nel 1939 i proprietari del Gaz-
zettino risulteranno: la FIAT con 1291 azioni, la SADE con 1000 azioni, Volpi con 800, Cini con 854. Cini e Volpi, pa-
droni della SADE, diventeranno perciò i padroni del Gazzettino”.
11
   Se nel 1929 Semenza e Dal Piaz erano due giovani studiosi, nel 1957 l’ingegner Semenza è prossimo alla pensione
mentre il geologo Dal Piaz lo è da tempo.

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appoggia su un potente supporto roccioso autoctono”. “La frana se c’è”, ribadì Caloi “riguarda però
soltanto alcuni strati di sfasciume superficiale, al massimo 20-30 metri di spessore. Sotto è roccia
compatta.” Ecco che il parere dei due tecnici era discordante. Erano necessari nuovi esami per com-
pletare le indagini di Müller, e queste vennero affidate a Franco Giudici ed Edoardo Semenza12, fi-
glio dell’ingegner Carlo Semenza, che arriveranno alle stesse conclusioni del geologo austriaco. Ma
il progetto era troppo avanzato e gli interessi economici non prevedevano ripensamenti dell’ultima
ora.
         Infatti nell’autunno del 1959 la diga era finita, non restava che verificarne la tenuta attraverso
le prove d’invaso che consistono nell’immissione lenta e calcolata dell’acqua nel bacino e nello
svuotamento dello stesso per esaminare la reazione della montagna. Tre saranno le prove d’invaso
effettuate. La prima incominciò nel 1960. L’acqua lentamente saliva e copriva le zone dove poco
tempo prima risiedevano 400 persone, poi sfrattate e costrette ad una casa di fortuna. La quota fissa-
ta era 600 metri, all’incirca a metà della diga. La SADE richiese l’autorizzazione a portare l’acqua a
660 metri senza prima aver svasato13. La seconda prova d’invaso divenne la continuazione della
prima, ma ci fu un motivo ben preciso che mise le ali ai piedi della SADE: in Italia da un periodo si
parlava di nazionalizzazione delle aziende idroelettriche e terminare i controlli significava aumenta-
re notevolmente il prezzo della diga.
         Il 4 novembre 1960 accadde quello che tutti temevano. Dopo una settimana di pioggia il
monte Toc franò sul bacino artificiale. Fu il primo forte e inequivocabile segnale. Infatti comparve,
visibile in parte anche ad occhio nudo, una fessura di un metro che percorreva il fianco della monta-
gna per circa due chilometri e mezzo. I tecnici annunciarono una riunione d’urgenza nella quale pre-
sero in considerazione varie e costose ipotesi e, alla fine, optarono per un tunnel che forando la mon-
tagna collegasse, secondo il principio dei vasi comunicanti, due bacini. Nel caso di una frana l’acqua
avrebbe raggiunto un’altezza media nei due bacini. Questo progetto bloccò per circa sei mesi le ope-
razioni d’invaso.
         Il 3 febbraio 1961 pervenne ai tecnici il quindicesimo rapporto geologico di Müller sulla fra-
na del Toc. L’austriaco sosteneva che le contromisure, sul piano pratico, erano a quel punto irrealiz-
zabili. Ma quest’ipotesi era fortemente screditata dagli interessi in ballo. Solo il 6 febbraio di un an-
no dopo il “Servizio Dighe” autorizzò l’invaso a quota 675. Non appena l’acqua salì aumentò
l’attività sismica nella vallata: d’intensità del secondo e terzo grado della scala Mercalli si registra-
rono cinque scosse a marzo, undici ad aprile, diciassette a maggio e ventuno a giugno, ma non rice-
vettero l’attenzione che meritavano, erano considerate scosse d’assestamento.
    Nel frattempo venne affidato dalla SADE all’università di Padova il compito di costruire un mo-
dellino in scala del progetto in modo da simulare la tenuta della diga. Al progetto venne incaricato il
prof. Ghetti, il quale svolgerà il suo lavoro in modo, si potrebbe dire, non propriamente scientifico.
Nonostante tutto “la quota di sicurezza è di metri 700 s.l.m.” sosterrà. Inoltre “se l’acqua si trova a
700 metri l’onda sarebbe stata di 25-30 metri d’acqua” annotò nei suoi appunti durante le simulazio-

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   E’ da poco uscito un libro firmato da Edoardo Semenza, il quale ha esposto la propria opinione sui fatti del Vajont.
Parte del libro è una risposta al lavoro di Paolini e al libro della Merlin.
13
   Si chiede Paolini: “Allora, per fare i controlli, per vedere lo stato del fondo dopo una prova d’invaso, bisogna togliere
l’acqua, se no cosa controlli? È un lavoro di pazienza… Solo che ogni volta che togli acqua perdi tempo. E il tempo,
quando sono impiegati tanti capitali, non è denaro: è molto denaro!”

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ni, “ma se trova l’acqua più alta, con quella differenza l’onda avrebbe un’ampiezza infinitamente
più grande”.
    Nell’ottobre del 1962 terminò la seconda prova d’invaso e, contemporaneamente, cessò l’attività
sismica nella valle. Si decise di iniziare la terza prova d’invaso. Ma il 6 dicembre 1962 venne pub-
blicata sulla “Gazzetta Ufficiale” la legge che istituiva l’ENEL, l’Ente Nazionale dell’Energia Elet-
trica.
    Il 26 luglio 1963 l’ENEL prese in consegna dalla SADE l’impianto del Vajont come “impianto
funzionante”14, nonostante mancasse la terza prova d’invaso, quella che avrebbe garantito il corretto
funzionamento della diga. La terza prova d’invaso venne compiuta a tempo di record, ma la respon-
sabilità penale era a quel punto nelle mani dell’ENEL, proprietaria ufficiale.
    Il 2 settembre 1963 un terremoto del 7 grado della scala Mercalli scosse il Vajont. La preoccupa-
zione aumentava, ma la SADE rispose che era infondata e che tutto era sotto controllo. Vennero in-
dette nuove riunioni, i tecnici si confrontarono, comunicarono le loro tesi, cercarono di capire fino a
che punto fosse possibile esporsi. L’angoscia cresceva, e comune il desiderio di fare chiarezza, ma il
9 ottobre era alle porte.

   Il 9 ottobre 1963 alle ore 22.30 a Longarone i bar sono affollati: sul secondo canale c’è la partita
Glasgow Rangers-Real Madrid. Moltissimi giovani sono scesi a valle dalle montagne in motorino, o
in bicicletta, in cerca di un televisore. Longarone, “piccola Milano” com’era chiamata, alle ore 22.35
rimane senza corrente. Un lampo inaudito illumina la vallata a giorno. I fumosi locali si vuotano, c’è
un istante di incomprensione, le persone escono all’aperto per capire. Ma non c’è niente da capire.
Un temporale, si pensa. Il vento è pungente, ma non sono folate, è continuo, crescente. Intanto il
monte Toc è franato nel bacino artificiale. Si è alzata un’onda di 250 metri, più alta persino del pae-
sino di Casso che, per miracolo, viene sorvolato da quest’ammasso d’acqua. Nessuna vittima a Cas-
so. In 4 minuti, ad una velocità di 80 km/h , l’acqua percorrerà i due chilometri che la separano dalle
prime case della vallata, le prime case di Longarone. E intanto il vento spira forte, pungente, batta-
gliero più che mai. C’è un odore di terra nel vento. E’ un odore strano. Poi, qualcuno intuisce. E lo
dice. C’è panico in paese, chi è indeciso se correre a salvare i genitori o la fidanzata. Chi prende
l’auto e accelera. Chi non fa in tempo ad accendere il motorino. Chi si chiude in casa e prega. Nes-
suno può veramente sapere, nessuno può immaginare la devastante portata dell’onda. Il vento conti-
nua. Perché prima ci penserà l’aria, e poi l’acqua. Duemila morti, più o meno. “E’ il più grande fu-
nerale che mai abbia attraversato questo paese – sottolineerà Paolini al termine del suo spettacolo -,
dopo Caporetto. E non era solo il suo. Era quello di quell’Italia contadina che non serviva più a nes-
suno.”

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     Pagina 9 dell’allegato A del protocollo d’acquisto.

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Prima del 9 ottobre 1963

    “Il Gazzettino”, unico organo di stampa regionale con alcune pagine provinciali, anche sotto le
proteste degli ertani che vorrebbero vedere pubblicate le ingiustizie e le sopraffazioni delle quali so-
no vittime, tace. Passato, come già accennato, dalla SADE alla DC, in ossequio ai precedenti pro-
prietari, “Il Gazzettino” preferisce manifestare il “suo compiacimento per l’opera grandiosa e ardita
che [ndr. Carlo Semenza, il progettista ingegnere della diga] ha progettato e che, quando sarà rea-
lizzata, costituirà indubbiamente un giusto motivo di orgoglio per la tecnica italiana”15.
    Inoltre un’inchiesta16 di diversi servizi sull’argomento viene condotta, in quel periodo, da Ar-
mando Gervasoni17 suggerita dal parroco di Casso don Carlo Onorini, ma più per fuorviare
l’attenzione che per informare. Naturalmente non si discute né si accenna alla precaria situazione
degli ertani, ma si alimenta il solito e sterile campanilismo, distraendo la popolazione locale da ben
più incombenti questioni.
    L’unico giornale che ha pubblicato degli articoli di protesta è stato “l’Unità”. La giornalista Tina
Merlin scriverà tre articoli nei quali denuncerà il rischio imminente d’un pericoloso smottamento
della montagna circostante al lago artificiale, i malumori che prendono sempre più consistenza tra i
paesani e le irregolarità burocratiche delle quali si fa artefice la SADE.
    L’articolo titolato “LA SADE SPADRONEGGIA / MA I MONTANARI SI DIFENDONO” pre-
sente nel numero de “l’Unità” del 5 maggio 1959 le costerà, insieme al direttore Orazio Pizzigoni,
una citazione a giudizio per divulgazione di “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pub-
blico”18. I due verranno assolti “perché il fatto non costituisce reato”19. E’ curioso notare come qual-
che giorno prima dell’assoluzione, il 7 novembre precisamente, si sia effettivamente verificato ciò
che Tina Merlin temeva, ovvero l’innalzamento delle acque del bacino di oltre un metro causato da
una frana. Il secondo articolo, non a caso, appare l’8 novembre 1960 con il titolo “UNA GIGAN-
TESCA FRANA PRECIPITA A ERTO / NEL LAGO ARTIFICIALE COSTRUITO DALLA SA-
DE” e descrive il cedimento della montagna, le reazioni allarmate degli abitanti, l’arrivo in “due lus-
suosissime macchine [...] dei pezzi grossi della SADE”.
    “UNA ENORME FRANA / DI 50 MILIONI DI METRI CUBI” viene pubblicato il 21 febbraio
1961 e sostiene, senza mezzi termini, che “tutta una montagna sul versante sinistro del lago, artifi-
ciale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schian-
to. In quest’ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze.”
    Dopo il 9 ottobre 1963 “l’Unità” adotterà una linea giornalistica aggressiva anche in virtù di que-
sti articoli che batterono sul tempo gli avversari, anche se poi la battaglia sarà quasi esclusivamente

15
   “Il Gazzettino”, 16 giugno 1957, pagina locale. E’ un commento alla notizia dell’approvazione da parte del Consiglio
superiore dei LL.PP. del progetto della diga.
16
   Tina Merlin, cit.
17
   Ibidem. In una nota su Gervasoni, la Merlin scrive: “Gervasoni, che dopo la sciagura scriverà un libro sul Vajont […]
era al corrente, come me, della situazione, ma non poteva scriverla sul suo giornale. Si porterà nel cuore fino alla morte
[…] il rimorso di aver accettato le regole del suo padrone al posto di quelle della sua coscienza.”
18
   Elenco documenti processuali. Citazione a giudizio: “[…] imputati di reato di cui all’art. 656. 57 CP e 18 Legge sulla
stampa 8-2-1948 n.47”.
19
   Ibidem. Sentenza di Assoluzione.

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politica con i quotidiani filo-governativi pronti a screditare “gli sciacalli comunisti”20 i quali, a loro
volta, ne ricavarono un motivo in più per continuare la loro lotta alle istituzioni ed agli organi di po-
tere.

                         Il giorno dopo: giovedì 10 ottobre 1963

   Malgrado la frana sia avvenuta alle 22.39 del 9 ottobre 1963 la maggior parte dei giornali riesco-
no a correggere la prima pagina e a pubblicare la notizia il giorno successivo. In generale assistiamo
ad un numero elevato, e peraltro comprensibile, di errori: “Stampa Sera” parla di “primi soccorsi
del governo per le popolazioni del Cadore”21, “Il Gazzettino” che uscirà in 3 copie diverse inseren-
do fino all’ultimo gli aggiornamenti degli inviati, non sa se “la sciagura sia stata provocata dal crollo
totale o parziale del grandioso gigante di cemento armato oppure […] dalla caduta di una frana di
proporzioni elevatissime nell’invaso formato dalla diga”22. “Il Corriere della Sera” parla di “decine
di morti e centinaia di feriti”23, mentre “L’Unità” titola in prima pagina “HA CEDUTO LA DIGA
SUL LAGO VAJONT” e sospetta “che le vittime debbano contarsi a decine”24; non compare alcun
accenno agli articoli precedentemente pubblicati e scritti dalla Merlin, infatti è da venerdì 11 che in-
comincia la battaglia contro i monopoli dell’industria elettrica. Il numero di morti previsti dagli altri
giornali varia da 2000 a 3000.
   E’ fondamentale tenere in considerazione l’ora tarda in cui il disastro è avvenuto, la mancanza di
mezzi di comunicazione con i luoghi circostanti la frana25, la notte fonda che sicuramente non ha
agevolato le indagini e l’impossibilità di raccogliere testimonianze attendibili dai pochi superstiti
ancora sotto shock.

20
   A questo proposito riporto una nota della Merlin: “Un grande manifesto nazionale della DC, affisso il 19 ottobre in
tutta Italia, è intitolato a caratteri di scatola SCIACALLI. Si scrive: «Sulla sciagura del Vajont il Partito comunista ha
imbastito una spregevole speculazione politica […] I COMUNISTI INVIANO “AGIT-PROP” PER ATTIZZARE SOT-
TO LE MACERIE IL FUOCO DELL’ODIO E DELLA SOVVERSIONE. ADDITIAMO AL DISPREZZO DEL PAE-
SE GLI SCIACALLI COMUNISTI»”. Da Vajont 1963, cit.
21
   “Stampa Sera” di giovedì 10 ottobre 1963 a pag. 15.
22
   “Il Gazzettino” di giovedì 10 ottobre 1963 in prima pagina nella prima edizione che titola “DISASTRO ALLA DIGA
DEL VAJONT”.
23
   “Corriere della Sera” di giovedì 10 ottobre 1963, nel sommario in prima pagina che titola “UNA VALANGA
D’ACQUA SOMMERGE / CASE E PERSONE PRESSO BELLUNO”.
24
   “L’Unità” di giovedì 10 ottobre 1963, articolo in seconda pagina .
25
   Le centraline dei telefoni saranno intasate per molte ore e sarà praticamente impossibile comunicare con i paesi limi-
trofi.

                                                            9
I giorni seguenti: venerdì, sabato e domenica

    Con venerdì 11 ottobre la situazione nei giornali cambia radicalmente. Le redazioni avranno il
tempo di controllare le informazioni che andranno in stampa, di pubblicare ampi servizi con fotogra-
fie e grafici illustrativi e di organizzare la linea ideologica che il giornale dovrà adottare nel corso
della vicenda.
    Un ruolo prioritario fu svolto da 3 quotidiani: “Il Corriere della Sera”, “Il Gazzettino” e
“L’Unità”. “Il Corriere della Sera” era il più autorevole quotidiano nazionale, superiore agli altri
nei mezzi e nei giornalisti impiegati, e la linea politica adottata fu a tratti incerta, con alcuni articoli,
per esempio di Buzzati, Cavallari e Silvar, caratterizzati da una vena malinconica e arrendevole, e
altri spunti, come quelli di Corradi, che nell’indignazione chiedevano giustizia. “Il Gazzettino” era
un importante canale dell’opinione pubblica, soprattutto per gli abitanti del Veneto, perché regionale
e quindi più vicino al popolo. “L’Unità” rappresentava l’unica voce contro lo Stato e contro i mo-
nopoli dell’energia elettrica, anche in forza della linea editoriale indignata e rabbiosa che il giornale
adottò successivamente ai fatti rivendicando d’esser stato il primo a lanciare l’allarme in tempi non
sospetti.
    La linea politica si riflesse nella terminologia adottata. Per esempio ne “Il Corriere della Sera” e
ne “Il Gazzettino” si parla di “catastrofe di proporzioni bibliche”, di “diabolica catapulta”, di
“un’immagine grottesca del giudizio universale” insistendo, con tono a tratti vagamente leopardiano,
sul fatalismo e sull’imprevedibilità della Natura, con un vago conforto ai superstiti, sopravvissuti
come “formiche che il piede dell’uomo inconsapevolmente risparmia, eppure appartenevano alla
medesima colonna che il piede ha schiacciato”. “L’Unità” non disdegna l’utilizzo di un gergo forte-
mente connotativo e parla ripetutamente di “strage”, “assassinio”, “genocidio”, “carneficina”, “or-
rendo massacro”, “olocausto”.

    “Il Corriere della Sera” di venerdì 11 ottobre titola, a 9 colonne, in prima pagina “ONDA
DELLA MORTE”. Nell’articolo di Egisto Corradi la tragedia viene descritta come una “catastrofe
inimmaginabile”, “ciclopica ondata”, “coltre di roccia e fango”, “catastrofe di proporzioni bibliche”,
“valanga d’acqua”, “diabolica catapulta”. E’ avvenuto “lo stesso fenomeno che avverrebbe a vibrare
un pugno in una scodella d’acqua”, metafora peraltro ripresa, con sottili variazioni, da molti giorna-
li, e anche dallo stesso Dino Buzzati, quando scrive che “un sasso è caduto in un bicchiere colmo
d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui.” L’articolo di Egisto Corradi, che continuerà
a pagina 2, è indicativo perché toccherà grosso modo tutti i temi sui quali verteranno le pagine dei
principali quotidiani italiani riguardanti il Vajont: l’incapacità degli uomini di pensare, realizzare,
concepire una tragedia di così vaste proporzioni; il cordoglio che unisce l’intero paese per i morti e

                                                     10
per i sopravvissuti; il fervore dei soccorsi da parte di volontari da ogni parte d’Italia; in ultimo “la
paura del Toc” e la preoccupazione che il monte potesse cedere nell’aria da molto tempo.
    In generale è su quest’ultimo punto che verterà l’ambiguità delle pagine del “Corriere della Sera”.
Alcuni articoli, come si vedrà, saranno verdetti indiscutibili sulla potenza e sull’imprevedibilità della
Natura, unica e sola artefice della catastrofe, mentre dall’altra compariranno anche servizi che chie-
deranno giustizia e che inviteranno le pubbliche autorità alla rilevazione delle eventuali responsabi-
lità umane. Il tutto con la preoccupazione di non darla vinta ai comunisti che, secondo l’opinione di
Cavallari, peraltro diffusa nell’opinione pubblica, fecero d’una tragedia una speculazione politica.
    In seconda pagina il titolo a 9 colonne è “SI CAMMINA SU UNO STRATO DI MORTI” met-
tendo in risalto la forza devastante della Natura che, senza risparmiare nulla, ha “strappato, divelto,
scavato, segato, polverizzato, spostato, impastato”. Ha scoperchiato le tombe del cimitero, profa-
nando quindi il luogo sacro per eccellenza, che tale non è perché di fronte all’immensa portata
dell’ondata violenta non ci sono distinzioni che tengano. Si viene a contatto con un’umana ugua-
glianza di fronte alla morte, alla fatalità, all’imprevedibilità della tragedia che può cogliere chiun-
que, sempre e in ogni luogo. Si insiste “sulle tombe scoperchiate” e sull’impossibilità da parte delle
persone di ritrovare “i propri morti”: la gente non può vivere col pensiero di non poter dare sepoltura
ai propri familiari, di non poterli piangere davanti a una tomba. E non erano solo speculazioni gior-
nalistiche nel tentativo di spettacolarizzare l’evento, ma si trattava di un problema realmente sentito
dai superstiti familiari delle vittime.26
    La pagina numero 3 sarà al centro di molte polemiche. Si apre col titolo: “TUTTO E’ IRRIME-
DIABILMENTE FINITO”, preceduto dall’occhiello: “CORAGGIO, SEPPELLIAMOLI, NON C’E’
ALTRO DA FARE”. Il sommario recita: “Ormai non c’è più nessuno da salvare e soccorrere; ci so-
no solamente morti da portare via – File di soldati / scavano con vanghe e zappe – E’ già l’ora dei
bulldozer - Bisogna avere il coraggio di chiedere perché è avvenuto”. Sotto, della grandezza di mez-
za pagina, una fotografia di Longarone distrutta. I due articoli che compaiono sotto la fotografia so-
no “NATURA CRUDELE” di Dino Buzzati e “Dopo il disastro, il silenzio” di Alberto Cavallari,
inviato speciale.
    Il pezzo di Buzzati è caratterizzato dal doppio coinvolgimento dello scrittore e dell’uomo che,
all’occorrenza, si fa cittadino, amico, fratello dei dispersi, ricordando che i morti “non sono della
Cina o della Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me”. L’articolo è in sé
stupefacente per la vitalità che il romanziere impiega nel difendere, anzi esaltare, l’operato
dell’uomo. Ripercorre la storia della diga, da prima della costruzione in cui nel panorama si distin-
gueva solo un “vecchio e romantico ponticello” che collegava le due montagne, che qualcuno aveva
insinuato essere il più alto ponte d’Italia, e che venne “umiliato” dalla diga non appena questa venne
ultimata. Credo sia interessante riportare alcuni passi per capire l’intensità e la frequenza di un elo-

26
   Merlin, cit. Nella nota 10 a pagina 118 la Merlin spiega: “Il culto dei morti è sempre stato molto vivo nelle zone di
montagna. Le tombe nei cimiteri sono sempre ben curate e piene di fiori. Nel caso del Vajont, ricuperare la salma del
proprio familiare e dargli sepoltura, voleva dire «portarselo a casa», poter «discorrere con lui» quando lo si andava a
trovare in cimitero. Tale sentimento era ben visibile soprattutto a Longarone: quando dalle macerie emergeva un corpo
irriconoscibile i superstiti pretendevano di riconoscere un proprio familiare, disputandolo con altri superstiti, per poter
avere un morto da portarsi a casa”.

                                                           11
gio che non si ferma al lato estetico della diga, ma intravede una vitalità quasi mistica carica “di una
vita misteriosa”.

“Il fantastico muraglione […] giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve,
immobile eppure carico di una vita misteriosa”.
“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il
bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, sta-
vano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere, quindi non si
può, […], dare colpa a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimoniava della tenacia, del
talento e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico”. […] “Ed era
una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi”.
“Intatto, […], sta ancora il prestigio della scienza, della ingegneria, della tecnica, del lavoro. […] Tutto era sta-
to calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto e ai lati, era stata traforata co-
me un colabrodo per una profondità di decide e decine di metri, […], apparecchiature sensibilissime registra-
vano le più lievi irregolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della
natura è stata più grande ed astuta che la fantasia della scienza.”
“Intatto, e giustamente, è il prestigio dell’ideatore, dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico,
dell’operaio, giù giù fino all’ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont”.

   Sulla destra l’articolo di Alberto Cavallari è remissivo, commovente ma privo di una seppur mi-
nima speranza. L’occhiello e il titolo sono emblematici. Ecco un estratto estremamente indicativo:

“Non mi è mai capitato, in diciotto anni di giornalismo, di dire che dopo un disastro è inutile scavare, cercare,
chiamare, soccorrere. C’è sempre stato un filo di speranza. C’è sempre stato un bambino superstite sui tetti
da salvare. C’è sempre stato un vecchio sotto le macerie che chiama. Ma qui bisogna stringere i denti e scri-
verlo. Qui non c’è più nessuno da salvare e da soccorrere. Qui ci sono solo dei morti da portar via. Duemila,
duemiladuecento, duemilacinquecento, non si sa bene. Sono nell’ordine delle migliaia, come nei disastri in-
diani, come in Cina, e non c’è niente da sperare. Coraggio, seppelliamoli. E’ l’unica cosa che ci resta da fa-
re.”

   Fortunatamente queste previsioni non si riveleranno azzeccate, dato che “Il Corriere della Sera”
di domenica 13 a pagina 2 titolerà: “Un uomo aveva udito i suoi lamenti. / Sola al mondo una bimba
salvata / fra le rovine di Longarone” e a pagina 3 verrà data notizia del ritrovamento di altri due
bambini vivi. Il pezzo di Cavallari, altamente suggestivo, ripercorre le zone del paese distrutto, ri-
corda i generosi soccorsi da ogni parte d’Italia, riflette sull’incapacità dell’ingegno umano di accet-
tare una simile sconfitta mentre, in giornata, ha visto arrivare pompieri, barelle, volontari, preti, poi i
lanciafiamme, infine il rumore tetro dei bulldozer che, “con la mandibola di acciaio, rompono le ul-
time illusioni.”
   Ancora più deciso è l’articolo di Silvar a pagina 4 che titola: “LE FORZE DELLA NATURA /
NON HANNO TRAVOLTO LA DIGA” specificando nel sommario che “Si deve alla saldezza della
costruzione se non tutti i milioni di metri cubi di acqua sono precipitati a valle, determinando un di-
sastro dieci volte maggiore”. Il pezzo inizia così:

“La sciagura del Vaiont resterà sicuramente nelle cronache come una delle più impressionanti e dolorose nel
settore degli invasi idrici artificiali, ma non rientra nella casistica dei drammi il cui verificarsi possa farsi risalire

                                                           12
a cause puramente tecniche. Sulla base dei dati fin qui a nostra disposizione dobbiamo dire che il dramma è
stato determinato da un concorrere di circostanze nelle quali la tecnica – in particolare quella delle dighe di
sbarramento idroelettriche – non entra neppure come concausa.”

    L’articolo continua dando una sommaria ricostruzione degli avvenimenti e celebrando
l’incredibile resistenza della diga alternando aggettivi forti a numeri indicativi. Anche nei giorni
successivi, Silvar si è sovente adoperato in descrizioni estremamente settarie e faziose utilizzando
un linguaggio che, anche quando non dava espliciti giudizi di merito, lasciava chiaramente trasparire
la propria idea sull’argomento. Ecco un altro estratto dall’articolo, dove i termini isolati non hanno
alcunché di soggettivo, ma è il loro accostamento a creare nel lettore l’impressione voluta.

“La sua possente massa di 353.000 metri cubi di calcestruzzo poggiava solidamente in una profonda gola
rocciosa in calcare dolomitico, sulla quale si affondavano le sue fondazioni e si impostavano le spalle del po-
deroso arco.”

   Silvar continua riprendendo ciò che aveva già anticipato nel sommario. Non solo non viene presa
in considerazione l’ipotesi della responsabilità dei costruttori della diga, ma è addirittura l’eccellente
operato dell’uomo ad aver evitato ben più terribili catastrofi.

“Si deve all’intima connessione fra diga e roccia di sostegno se la violenta ondata provocata dal precipitare
della frana nel lago non ha scardinato il manufatto, permettendogli di opporsi validamente ad una distruzione
totale che avrebbe moltiplicato spaventosamente le conseguenze del disastro.”

   Per il resto viene, al solito, messa in risalto la fantasia della natura e la compattezza della diga
che, in un’impresa quasi disperata, è riuscita, forse oltre i limiti che si aspettava, a resistere contro
l’onda d’urto “propagata nella massa del lago con la violenza di un titanico ariete”.
   Sabato 12 ottobre in prima pagina c’è un articolo di Cavallari con il titolo “I VIVI RICOMIN-
CIANO A VIVERE”. Cavallari dedica ampio spazio all’avvento dei sindaci comunisti dall’Emilia
che stanno rimpiazzando i pochi consiglieri, ancora inebetiti e sconvolti dalla tragedia.

“I consiglieri superstiti tacciono, i sindaci emiliani sono abili, parlano di un disastro provocato dal «sistema».
Consigliano di organizzare gli aiuti tra comune e comune scalcando le autorità centrali, di distribuire i denari
ai superstiti subito. Dieci minuti dopo, sono i signori in grigio e blu che guidano il consiglio.”

   Il tema dello strumentalismo politico pervade all’incirca metà articolo. Cavallari sarà uno dei
“giornalisti borghesi” più attaccati dalle pagine de “l’Unità”. E’ curioso notare che troviamo un altro
articolo d’impatto molto forte, quello di Egisto Corradi che “la strategia del giornale retrocede in
terza”27. Il pezzo di Corradi è emblematico sia nel titolo “ASPETTAVANO IL CROLLO / GUAR-
DANDO LE SPIE LUMINOSE” che nell’occhiello “I TECNICI SAPEVANO CHE LA MONTA-
GNA STAVA FRANANDO. Si legge che “la diga è intatta, intatta e superba nel suo strapiombo di
duecentosessantacinque metri”, ma vengono senza eufemismi descritti, per la prima volta con evi-
denza sulle pagine del giornale, i segnali di pericolo e, da un’intervista ad un carpentiere della diga,

27
     Mario Isnenghi, cit.

                                                       13
messo in risalto che “i tecnici sapevano che una parte della montagna doveva crollare nel lago. A-
spettavano da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. […] I tecnici, ovviamente, si aspettavano una
frana di proporzioni infinitamente minori rispetto a quella che invece si ebbe”. E’ con articoli come
questo che la linea adottata dal “Corriere della Sera” non è chiaramente definibile secondo un bina-
rio predeterminato che i giornalisti, di volta in volta, percorreranno senza uscire. Al contrario si o-
scilla dagli elogi incondizionati alla diga a dichiarazioni impegnative come quest’ultimo titolo preso
in considerazione. Inoltre come sottolinea Mario Isnenghi, “Cavallari e Corradi si confermano le due
punte di diamante […] non si vuole tuttavia suggerire una lettura alternativa dei fatti da parte dei due
inviati; c’è piuttosto un montaggio bilanciato da parte del giornale, con una linea probabilmente
problematica che si viene aggiustando giorno dopo giorno”.

   Domenica 13 ottobre il “Corriere della Sera” apre con il titolo “GIORNO DEI MORTI A LON-
GARONE”. Sulla sinistra compare un editoriale non firmato “GIUSTIZIA SENZA RISSA”, frase
che sarà poi il leitmotiv della giornata e delle giornate seguenti, in risposta all’ansia a tratti nevrotica
della giustizia-subito gridata a gran voce dai comunisti. Nessuno ha verità da elargire e solo la
magistratura potrà dare sentenze definitive sono i due cardini su cui si muove l’editoriale e gran
parte dell’opinione pubblica non di estrema sinistra. Il “Corriere della Sera”, pur rifiutando di am-
mettere la validità delle tesi comuniste e sostenendo fino all’ultimo la necessità della sentenza uffi-
ciale, non scadrà in interpretazioni di basso livello o in costruzioni di pagine giornalistiche inganne-
voli e faziose, come “Il Giorno” in un’analisi che si vedrà in seguito, ma potrà permettersi una neu-
tralità dettata dal fatto di non essere assoggettato a vincoli di potere poiché, essendo uno dei più im-
portanti quotidiani italiani, il “Corriere della Sera” è esso stesso fonte di potere.

    “L’Unità” sarà il quotidiano che più di ogni altro parteciperà alla lotta politica affinché si faccia
giustizia rivendicando d’esser stato il primo ad aver lanciato l’allarme ancora in tempi non sospetti.
Ma c’è di più: l’organo del P.C.I. vede spegnersi un comune, quello di Longarone, retto da comuni-
sti e socialisti e questo alimenta l’indignazione e l’invettiva protagoniste nelle pagine per almeno
una decina di giorni.
    Il venerdì 11 ottobre in giornale dedica 4 pagine su 14 al Vajont, il linguaggio, rispetto al mode-
rato “Corriere della Sera”, è più aggressivo ed esprime la collera degli inascoltati comunisti. Infatti
proprio la giornalista Tina Merlin, l’autrice degli articolo sul Vajont ha permesso infatti al giornale
di battere sul tempo gli avversari, ricoprirà il ruolo di personaggio anche se ella stessa ricorderà che
il suo non è stato uno scoop o una profezia, ma il lavoro corretto d’un’onesta giornalista che ha scrit-
to ciò che tutti sapevano. L’articolo di spicco è quello scritto da Aniello Coppola con titolo “Trage-
dia con un nome”, in prima e ultima pagina:

                                                    14
“Troppe scene si ripetono con monotonia. Il diluvio di flautate parole di conforto per i «laboriosi valligiani», la
solita promessa della solita «inchiesta all’italiana» per accertare eventuali responsabilità e, tanto per buttare
le mani avanti, le consuete divagazioni letterarie sulla «cieca e diabolica forza della natura» che annichilisco-
no con inesorabile fatalità il genio dell’uomo. Paccottiglia demagogica, si dirà, per cui non vale la pena di
perder tempo.”

    Sabato 12 ottobre il giornale dedica al Vajont 4 pagine su un totale di sole 12. In prima pagina
il titolo a 9 colonne recita: “E’ STATO UN ASSASSINIO!”, e l’occhiello: “LA TREMENDA DE-
NUNDIA DEI SUPERSTITI DAVANTI ALLE MACERIE”. Come si può notare non vengono uti-
lizzati mezzi termini e questo alimenta maggiormente il conflitto che si scatena anche dalle pagine
dei giornali con “l’Unità” pronta a screditare i “giornalisti borghesi”, tra cui Cavallari preso partico-
larmente di mira, il “Corriere della Sera” e “Il Giorno”, anche se un po’ tutte le testate avrebbero
dovuto essere bersaglio degli attacchi comunisti. Le reazioni negli altri giornali si fanno, a volte più
moderate e tra le righe, come Cavallari quando scrive “giustizia senza rissa” oppure altrettanto vigo-
rose come Montanelli che grida additando agli “sciacalli comunisti”28.
    Continua la lotta contro il monopolio dell’industria elettrica. Sempre sabato 12, con l’articolo “I
responsabili”, Aniello Coppola commenta:

“Ci vuole ben altro che il piagnucolio dei retori che pontificano su tanti giornali per far credere a chi è scampa-
to alla morte che questo sia il momento di piangere sull’inanità dell’ingegno umano di fronte alle forze della
natura. […] E’ stato un assassinio! Con queste parole si è espressa oggi la collera dei sopravvissuti di fronte
al presidente del Consiglio”.

    L’articolo di Piero Campisi, in prima e dodicesima pagina, “Il PCI chiede un’inchiesta parla-
mentare” avvisa i lettori dell’imminente consegna del “Libro bianco sulla tragedia del Vajont”29 alle
autorità competenti. E’ interessante notare come il termine diga sia a volte sostituito da “micidiale
pericolo”, “autentico pericolo pubblico” e come sia costante il richiamo ai “criminosi piani del mo-
nopolio”, ai “rapaci monopoli elettrici”, al “crimine vero e proprio”.
    Estremamente numerosi i termini che richiamano la rabbia espressa dai comunisti, quindi “colle-
ra”, “pericolo”, “assassinio”, “indignazione”, “protesta” o espressioni quali “uccisi nel sonno mi-
gliaia di uomini”, “genocidio”, “carneficina”, “orrendo massacro”, “strage” che richiamano da un
lato la presenza di un colpevole certamente identificabile come responsabile dell’accaduto, dall’altro
la reazione della gente che, malgrado lo choc subito, non lesinerà di chiedere giustizia alle fonti uf-

28
   Da una nota della Merlin: “E Montanelli sulla «Domenica del Corriere»: «Quella di Longarone è una tragedia spaven-
tosa. Ma nella vita delle Nazioni ci sono, appunto, anche le tragedia spaventose, le carestie, pestilenze, i cicloni, i terre-
moti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne […] Se certe
reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che
le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. Ma qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha
sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al di-
sprezzo di tutti i galantuomini italiani»”.
29
   Il Libro bianco sulla tragedia del Vajont è la documentazione presentata dalla delegazione parlamentare del P.C.I. al
Presidente della Repubblica Antonio Segni il 13 ottobre 1963. E’ diviso in 4 parti. La Parte I comprende la documenta-
zione tratta dagli Atti del Enti locali, di organizzazioni, consorzi, ecc. relativi ai problemi della Valle del Vajont. La Par-
te II raccoglie la documentazione tratta dagli Atti parlamentari relativi ai problemi della montagna e della Valle del Va-
jont. La Parte III illustra la documentazione tratta dalla stampa. La Parte IV comprende la documentazione su notizie e
informazioni varie raccolta sulla tragedia del Vajont.

                                                             15
ficiali, per esempio, al Presidente del Consiglio Giovanni Leone, al Ministro dell’Interno Mariano
Rumor o al presidente della Repubblica Segni in visita al Vajont.
   Domenica 13 ottobre a pagina 3 compare un titolo in 9 colonne: “ATTO DI ACCUSA”, con un
occhiello che recita: “Oggi sarà presentato al presidente Segni il / «Libro bianco» sulla tragedia del
Vajont”. La pagina tocca argomenti ormai noti dalla rabbia per la giustizia al governo mafioso, non
senza tirare in ballo gli equilibri internazionali e il sistema di fondo che è il capitalismo mondiale,
come fa Mario Alicata nel suo articolo intitolato “Rischio calcolato”, nel quale afferma:

“Il «rischio calcolato» dei dirigenti del monopolio elettrico SADE s’inserisce nella stessa «visione del mondo»
che ha potuto portare i gruppi dirigenti dell’imperialismo ad impostare per anni tutta la loro politica sul «rischio
calcolato» d’una guerra termonucleare, ed è una «visione del mondo» che sta giù ben oltre il cinismo: è già
follia, criminale follia”.

    Lo scritto di Alicata inizia riprendendo le parole di uno degli articoli di Tina Merlin. Emblemati-
co il titolo dell’articolo centrale di Piero Campisi: “Il governo rifiutò / di intervenire / contro la SA-
DE” e continua spiegando dettagliatamente come avverrà la consegna del Libro Bianco ripercorren-
do le tappe nelle “il ministero […] dava una valida mano al monopolio, per aiutarlo a zittire chi vo-
leva impedire un’opera che veniva già allora considerata come un’autentica minaccia per molti Co-
muni”. La pagina si chiude con, sulla destra, l’articolo di Stefano Falco che titola “2 settembre: Erto
lancia / l’allarme a tutte le autorità”, rilevando per l’ennesima volta gli appelli lanciati dal Comune
in tempi precedenti e rimasti inascoltati.
    La pagina 7 è dedicata a Tina Merlin, che “aveva scritto a chiare lettere tutta la verità”, come re-
cita l’occhiello. Sopra una grande foto di Longarone distrutta un titolo grande annuncia “TUTTI
SAPEVANO / NESSUNO SI MOSSE”. Due sono gli articoli che compaiono in questa pagina: “Il
«colpo» / della verità” di Aniello Coppola e “Magari fosse riuscita a / turbare l’ordine pubblico!” di
Tina Merlin. Le seguenti 4 righe, dall’articolo di Coppola, illustrano quale sia il tono generale
all’interno della pagina. La rivendicazione al diritto di protesta per aver parlato a tempo, l’orgoglio
dell’onestà rispetto allo stato corrotto, l’inclinazione da parte della testata ad identificarsi continua-
mente con la propria giornalista e, quindi, a brillare di luce riflessa:

“IL COLPO giornalistico è tutto qui: nella diligenza, nello scrupolo, nell’onestà professionale e politica di una
giornalista che vuole la verità e che ha a sua disposizione il giornale che dirla perché non ha paura della SA-
DE né delle denuncie della polizia, perché non riceve soldi dalla Confindustria, perché non ha rispetto per i
ministri Togni e Zaccagnini.”

   Nelle pagine de “l’Unità” ampio spazio è dedicato agli articoli che ripercorrono, in modo anche
particolareggiato la recente e bizzarra storia del Vajont: l’ingegnere capo del Genio Civile di Bellu-
no messo in disparte perché tentava di imporre alla SADE il rispetto delle procedure30, i numerosi

30
   “L’Unità”, domenica 13 ottobre, p. 8, dal titolo “Sade intoccabile: trasferito chi denunciava il monopolio”, non firma-
to.

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