Homo Sapiens Digitalis o - Uomo-Dato? L'essere umano nell'era digitale - Aspen Institute Italia

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                                  Homo Sapiens Digitalis o
                                             Uomo-Dato?
                           L’essere umano nell’era digitale

                           per
                           Aspen Institute Italia

                           a cura di
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“(Towards) an industrial revolution of unmitigated cruelty”
                                                                                                      Norbert Wiener, 1949

        Il panorama mondiale sta rapidamente cambiando sotto la spinta dei processi tecnologici in
corso, in particolare quelli di digitalizzazione, sempre più estesi e pervasivi. Numerose sfide
digitali sono già entrate nell’agenda delle grandi potenze con importanti conseguenze sulle società
e sugli individui: telecom e 5G, intelligenza artificiale e big data, futuro del web e governance di
Internet, droni, satelliti e dispositivi dual use per armamenti automatizzati e robotica civile, crypto
valute, blockchain e fintech, e nuove dinamiche dell’economia digitale. Ne sia plastico esempio la
nuova guerra fredda per la supremazia digitale nel mondo – in nuce o in atto che sia già – fra Stati
Uniti e Cina. Le nuove dinamiche del digitale includono anche una evoluzione delle forme di
lavoro che richiede il rafforzamento dello spazio democratico per il dialogo sociale, e crea sfide di
rilevanza centrale per quanto riguarda l’allineamento dei modelli economici ad un piano
incentrato sulle persone
        L’era digitale si è imposta anche nella vita quotidiana dell’homo sapiens, come un processo
evolutivo silenzioso e inesorabile. Al punto che informazioni più o meno personali, raccolte in
modo più o meno trasparente, paiono oggi determinare un inedito sistema di valutazione
dell’essere umano. Il dibattito in ordine alla relazione fra essere umano e dato è dunque diventato
centrale nelle agende pubbliche come in quelle private, pressoché ad ogni latitudine e in ogni
cultura.

        1.        L’ubiquità del “dato”, nuovo paradigma economico
       Negli ultimi due decenni il dato ha assunto un ruolo sempre più importante, per le aziende
come per l’individuo, diventando di fatto una risorsa cruciale nell’economia dell’era digitale. Non
a caso si parla di “capitalismo della sorveglianza”, riferendosi all’idea che nuove asimmetrie di
conoscenza e di ricchezza stiano caratterizzando l’odierna società dell’informazione, in cui le
grandi aziende tecnologiche hanno soppiantato il capitalismo industriale del XX secolo
accumulando introiti, livelli di influenza pervasiva e potere grazie all’utilizzo dei nostri dati.
       I processi di controllo e comunicazione messi in atto dalla società dell’informazione stanno
modificando profondamente le regole fondamentali delle condizioni di vita e di lavoro, i codici di
condotta degli esseri umani. È questo – appunto – il “capitalismo della sorveglianza”, basato sugli
enormi profitti generati dall’estrazione di dati che riguardano la quotidianità di tutti noi, stando a
una definizione che ricorre in un crescente numero di opere, da ultima “The Age of Surveillance
Capitalism” (2019), di Shoshana Zuboff di Harvard University.
        Prima di affrontare il tema della raccolta, gestione e monetizzazione del dato occorre
ancora interrogarsi sulla relazione fra dato e informazione e – più in generale – su quale tipo di
dato sollevi preoccupazioni in ordine alla sua gestione. Da un punto di vista informatico, un dato è
un valore decontestualizzato; una rappresentazione originaria, cioè non interpretata, di un
fenomeno, evento, o fatto, effettuata attraverso simboli o combinazioni di simboli, o di qualsiasi
altra forma espressiva legata a un qualsiasi supporto. Un’informazione – invece – è un dato
contestualizzato; l’informazione deriva cioè da un dato, o più verosimilmente da un insieme di
dati, che sono stati sottoposti a un processo di interpretazione che li ha resi significativi per il
destinatario. Una conoscenza è il collegamento fra più informazioni. Tali collegamenti possono

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essere di varia natura, ad esempio causa/effetto, oppure semplicemente temporali o geografici. I
dati e le informazioni possono esistere indipendentemente da un eventuale utilizzatore ed infatti è
possibile memorizzarli in un sistema informatico; la conoscenza richiede – invece –
un’interpretazione, ovvero la connessione con un essere senziente e può essere simulata da un
sistema informatico tramite un programma di intelligenza artificiale.
         Da un punto di vista legale, il dato che sembra rilevare maggiormente nella discussione
sociopolitica attuale è quello personale. Esso rappresenta lo strumento tecnico-giuridico attraverso
il quale i legislatori – nazionali, comunitari e internazionali – tutelano l'insieme dei diritti collegati
all'identità personale, quindi è un bene giuridico di secondo grado. In ottica europea, dato
personale è qualsiasi informazione (es. il nome) concernente una persona fisica identificata o
identificabile (art. 4 GDPR), anche indirettamente; oppure informazioni (es. codice fiscale,
impronta digitale, traffico telefonico, immagine, voce) riguardanti una persona la cui identità può
comunque essere accertata mediante informazioni supplementari. La persona a cui si riferiscono i
dati soggetti al trattamento si definisce “interessato” e può essere solo una persona fisica, non
un'azienda. Fra questi, sono i dati biometrici che acquisiscono sempre maggiore rilevanza nella
riflessione.
         I dati biometrici, come ad esempio le impronte digitali usate per sbloccare gli smartphone
di ultima generazione, sono infatti sempre più usati anche nei dispositivi personali. Il GDPR li
definisce come “dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico, relativi alle
caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica e che ne consentono o
confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici”. Oltre
all'impronta digitale, possiamo considerare anche la conformazione fisica della mano, del volto,
dell'iride o della retina, e anche il timbro e la tonalità della voce. La raccolta di tali dati avviene
tramite componenti hardware e software che acquisiscono il dato biometrico e lo analizzano
confrontandolo con dati acquisiti in precedenza e conservati in un database: in tal modo è possibile
identificare la persona interessata. Per la particolare natura di questi dati, il loro trattamento
richiede speciali cautele per evitare danni a carico degli interessati. In linea generale, infatti, il
GDPR vieta il trattamento di dati biometrici intesi ad identificare in modo univoco una persona
fisica; alla regola generale seguono comunque una serie di esenzioni, che permettono il
trattamento dei dati biometrici.

        1.1) Raccolta del “dato”: sempre, ovunque… e – “comunque” – in Cina
        I dati vengono creati in quantità sempre maggiore, giustificando lo sforzo per utilizzarli e
dare senso alle informazioni contenute. Ogni giorno vengono creati 2,5 quintilioni di byte e il ritmo
continua ad accelerare grazie alla crescita esponenziale di internet e del mobile nei Paesi emergenti
e non, e dell’Internet of Things (IoT). Ad oggi, nel mondo vengono inviati 16 milioni di messaggi
SMS al minuto e 156 milioni di messaggi di posta elettronica, mentre vengono effettuate 2,4 milioni
di ricerche su Google. Per dare un’idea della crescita esponenziale della quantità di dati, nei soli
due anni dal 2015 al 2017 è stato generato il 90% della quantità totale di dati presenti oggi nel
mondo. Stime aggiornate al 2017 fissano a oltre 3,7 miliardi il numero di persone che hanno
utilizzato internet almeno una volta nell’ultimo anno, una crescita del 7,5% anno su anno.
        La raccolta dei dati diventa quindi sempre più facile ed ubiqua. I dati possono infatti essere
raccolti attraverso vari tipi di dispositivi. Nel settore B2C – quello cui siamo più prossimi – i più
comuni sono il terminale desktop (il computer), il dispositivo mobile (lo smart-phone), IoT,
dispositivi wearables e vocali “voice” (l’assistente virtuale azionato con comandi vocali). Mentre i

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primi tre hanno anni di storia alle spalle, il dispositivo “voice” è apparso solo di recente grazie al
diffondersi di prodotti come Alexa, prendendo sempre più piede: ad oggi ci sono più di 33 milioni
di dispositivi vocali usati nel mondo. I dispositivi mobili rimangono comunque la fonte principale
di informazioni sul consumatore. La natura degli smart-phone li rende in grado di raccogliere
un'enorme quantità di dati: password, numeri di carte di credito, numeri di previdenza sociale,
contatti, nomi, indirizzi e via dicendo, tutti archiviati in un unico dispositivo e nel cloud. Non a
caso più della metà delle ricerche avviene oggi tramite cellulare.
        In Cina, ad esempio, quasi tutta l’attività dei mass media punta ad utilizzare il canale
mobile: il consumatore medio cinese trascorre circa 7 ore al giorno sul cellulare, il doppio rispetto
agli statunitensi. I dati accumulati quotidianamente – poi – aumentano grazie alla facilità di
raccolta, ponendo il problema del loro utilizzo. Ad aree geografiche diverse, contesti sociali e
settori commerciali o industriali differenti corrispondono approcci diversi nella raccolta e nella
gestione del dato.
       Interessante è ancora il confronto fra Occidente e Cina. In Occidente, grazie alle
regolamentazioni vigenti, varie aziende sono in concorrenza fra loro per la leadership sul mercato.
In Cina invece il mercato è molto meno frammentato con poche aziende che detengono una quota
dominante: è il caso di Baidu, Alibaba e Tencent, insieme noti con l'acronimo “BAT”. È come se in
un contesto occidentale Amazon, Bank of America, Google, Facebook, Activision Blizzard, CNN e
ESPN fossero tutti di proprietà di una sola società.
         Tencent da sola controlla la più grande piattaforma di gioco al mondo, una vasta gamma di
agenzie di notizie, le piattaforme dominanti di social media in Cina (Weixin e WeChat),
piattaforme di servizi finanziari (WeChat Pay e QQ Red Envelope Mobile Pay), investimenti retail
(Tencent è il secondo più grande azionista di JD.com, uno dei maggiori rivenditori online della
Cina), Tencent Video (il più grande servizio di streaming in Cina, con oltre 43 milioni di abbonati)
e Tencent Sports (la piattaforma di sport online numero uno in Cina). Questo gigantesco
conglomerato spiega perché il 55 per cento di tutto il tempo trascorso online dai consumatori cinesi
sia sull'ecosistema di aziende Tencent.
        L'ecosistema online cinese – praticamente privo di frammentazione – offre inoltre la
possibilità di comprendere appieno il comportamento ed i gusti dei clienti. Le aziende cinesi
accedono infatti ai dati in una sorta di modalità a circuito chiuso – tutti sulla stressa applicazione –
raccogliendo informazioni su ogni aspetto della vita di una persona al fine di sviluppare una
profonda comprensione del consumatore e migliorare l’efficacia del marketing. Il dato convoglia
infatti una quantità pressoché infinita di informazioni utilizzate dalle aziende per offrire servizi
ottimizzati e personalizzati con l’intento di soddisfare tutte le esigenze di qualsiasi tipologia di
cliente. Basti pensare al settore e-commerce: l’acquisto di un prodotto online da parte di un
consumatore fornisce alla piattaforma diverse informazioni, fra cui: la quantità di tempo speso
online, quali prodotti siano stati visti e quali scartati, la location del cliente, la capacità media di
spesa del cliente – ad oggi accurata all’80 per cento quando basata su geo-localizzazione – e le sue
abitudini nello shopping.
        La crescente quantità di dati accumulati deve però muoversi di pari passo con la qualità
delle deduzioni estraibili dai dati stessi (la cosiddetta “data science”), altrimenti il rischio è di
perdere la piena potenzialità del bagaglio di informazioni custodite nel dato. La limitazione
principale al radicamento della data science nella pratica interpretativa del dato è legata alla
capacità di riconoscere le abilità e gli skillset richiesti per elaborare al meglio il dato, da cui deriva
la scarsità di personale specializzato in data science.

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La conferma viene dagli Stati Uniti dove in passato le università assumevano i migliori
esperti al mondo di intelligenza artificiale, mentre a farlo sono oggi le aziende tecnologiche
offrendo ai migliori studenti stipendi elevati prossimi a quelli degli atleti professionisti. Pratica
possibile solo alle grandi multinazionali, che rallenta di fatto la crescita del sapere universitario e
di conseguenza la formazione di una nuova categoria di professionisti della data science in grado di
servire un numero più grande di aziende. Anche perché – a causa delle recenti tensioni fra Stati
Uniti e Cina – cresce continuamente il numero di giovani cinesi – che avevano acquisito
competenze di data science durante la propria permanenza negli Stati Uniti, di studio prima e
lavoro poi – ora rientrati a lavorare in Cina.

        1.2) Protezione del “dato”: il modello GDPR
        La crescita costante della quantità di dati accumulati e il continuo miglioramento della loro
qualità – vale a dire le informazioni estraibili grazie ai progressi della data science – suscita
domande sulla necessità di proteggere il consumatore ed il dato. Negli ultimi anni la necessità di
regolare il dato in materia di proprietà, protezione e monetizzazione ha avuto alcuni esiti, il
principale un anno fa quando in Europa – e di riflesso in altri Paesi – è stato introdotto il General
Data Protection Regulation (GDPR). In vigore dal 2016 ma pienamente effettivo dal 25 maggio
2018, il GDPR è basato su sette pilastri – legittimità, correttezza e trasparenza, limitazione delle
finalità, riduzione dei dati, precisione, limitazione dello spazio di archiviazione, integrità e
riservatezza (sicurezza) e infine responsabilità – e rappresenta lo strumento con cui l’Europa ha
voluto porre il dato al centro della tutela.
         A otto mesi dall’entrata in vigore del GDPR, il 28 gennaio scorso in occasione della giornata
per la protezione dei dati – voluta dal Consiglio d’Europa sin dal 2006, quindi in tempi molto
antecedenti alle nuove norme a conferma di quanto l’Unione Europea abbia a cuore il tema – è
stata siglata la “decisione di adeguatezza” tra la Commissione Europea e il Giappone; tale accordo
permetterà la libera circolazione dei dati personali tra Unione Europea e Giappone, creando di
fatto il più grande spazio al mondo di circolazione sicura dei dati, grazie a cui i cittadini europei, i
cui dati personali saranno trasferiti in Giappone, beneficeranno di una forte protezione delle
informazioni relative alla vita privata. Il meccanismo reciproco sarà attivato grazie ad un
successivo accordo siglato nell’aprile di quest’anno. Il tutto con benefici che ricadranno anche sulle
imprese europee che – grazie a questo accordo – avranno un accesso privilegiato a un mercato di
127 milioni di consumatori, a conferma – secondo l’Unione Europea – del fatto che l’accordo
costituirà un modello per futuri partenariati in questo settore fondamentale e contribuirà alla
definizione di standard di livello mondiale.
         Stando a una recente ricerca di Cisco, il GDPR avrebbe anche effetti economici positivi
“indiretti”. Al di là degli obblighi di legge, si starebbe infatti dimostrando che una rigorosa
conformità alla privacy riduce la lunghezza del ciclo di vendita e aumenta la fiducia dei clienti.
Interessante lo spaccato delle informazioni raccolte da Cisco, secondo cui il 59% delle aziende
coinvolte nello studio applica pienamente le prescrizioni introdotte con il GDPR, mentre il 29%
prevede di farlo entro un anno e per il 9% ci vorrà oltre un anno. Il livello di adeguamento per
Paese varia dal 42 al 75%. Spagna (76%), Italia (72%), Regno Unito (69%) e Francia (62%) si
collocano ai vertici della classifica, mentre Cina (42%), Giappone (45%) e Australia (50%) sono ai
livelli più bassi. In alcuni casi però, fuori dall’Unione Europea, i Paesi il cui ciclo di vendita è più
breve sono anche quelli nei quali si è investito meno dal punto di vista della privacy o dove
l’applicazione del GDPR è più difficilmente verificabile. Tra questi la Turchia (2,2 settimane) e la

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Russia (2,5 settimane). Fa eccezione il Messico, primo Paese dell’intero continente americano per
adeguamento al GDPR (contro Stati Uniti, 57% e Canada 60%), il cui ciclo di vendita è di 2,9
settimane.
        Lo studio evidenzia anche come le aziende che hanno investito maggiormente nel
soddisfare i requisiti del GDPR siano anche quelle che hanno complessivamente subito meno
crimini informatici. Nel novero delle preoccupazioni di clienti e investitori negli ultimi anni sono
entrati anche i problemi legati alla sicurezza dei dati e dell’esponenziale aumento delle minacce
perpetrate da criminali informatici, che fanno sempre più facilmente ricorso a trojan bancari e
ransomware; ciò può danneggiare il mercato e far desistere gli investitori più prudenti qualora non
si fidino completamente dell’azienda con la quale interagiscono. Tempi più brevi per il ripristino
dei sistemi e minori costi derivanti dai data breach hanno dunque favorito le aziende in linea con il
GDPR in 79 mila episodi, contro i 212 mila di quante non erano ancora capaci di soddisfare i
requisiti del GDPR. Delle prime, il 37% ha comportato perdite entro i 500 mila dollari, contro il
64% delle seconde.
        Il tema rimane tuttavia controverso. L’introduzione del GDPR ha indubbiamente richiesto a
tutte le aziende importanti investimenti di adeguamento, ma – come rilevato dallo studio di Cisco
– con un saldo netto positivo dei benefici per chi si è adeguato alla norma. Nella gran parte dei casi
studiati, le aziende hanno infatti snellito le procedure interne e reso più semplice – e sicuro – il
processo che dall’interessamento del cliente porta alla conclusione dell’acquisto. Lo studio
risponde soprattutto alle prime obiezioni che da anni si fanno al Regolamento europeo: a fronte di
un costo di adeguamento, per lo più di entità proporzionale rispetto alla grandezza e alle
possibilità delle aziende, l’investimento sembra ritornare con benefici tangibili sia per gli utenti sia
per le imprese. L’accordo siglato fra Unione Europea e Giappone sembra confermare una simile
lettura positiva degli effetti del GDPR.
       In direzione opposta a ciò è quanto sostengono diverse multinazionali – soprattutto
tecnologiche e/o anglosassoni – contrarie a restrizioni nell’uso dei dati. Ancora pochi giorni fa, ad
esempio, Heidi Messer, nota investitrice ed imprenditrice in ambito tecnologico, scriveva sul New
York Times un duro articolo intitolato “Why We Should Stop Fetishizing Privacy”. Messer sostiene
– dando voce a molti operatori del settore – che le grandi imprese tecnologiche creino occupazione,
incoraggino l’innovazione e forniscano gratuitamente importanti servizi per cui sarebbe un grave
errore volerne limitare i margini di attività introducendo normative come il GDPR.
        A ciò si aggiunge la constatazione che per quanto il legislatore possa fare passi avanti su
questo tema, il consumatore finale non pare ancora dare la necessaria importanza – o valorizzare –
lo scambio gratuito di dati a cui è esposto giornalmente. Di fatto oggi il cliente fornisce all’azienda
una quantità significativa di dati che l’azienda stessa è in grado di monetizzare con terzi, senza che
il consumatore benefici della transazione. Per questo bisogna rendere consapevole il consumatore
della quantità di informazioni che rende accessibile a terzi. Un esempio è quello del telefono
cellulare: sapere quali informazioni sono raccolte dal dispositivo sarebbe il primo passo verso la
consapevolezza della necessità di proteggere i propri dati.

        1.3) Monetizzazione del “dato”: il tentativo dell’italiana Weople
      Un altro tema importante è quello della monetizzazione del dato, ad oggi nelle mani di
poche aziende. Se è vero che l’azienda offre un servizio che il cliente ripaga esplicitamente in
denaro e implicitamente in dati, è altrettanto vero che il cliente deve poter dare un valore ai dati
che cede come parte della transazione. Ne sono esempio applicazioni come Weople, che

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consentono alle persone di mettere in sicurezza i propri dati personali e monetizzarli, rispettando
l'attuale legge GDRP.
        Weople rappresenta ad oggi il primo tentativo di “raccogliere, proteggere e far “fruttare” i
nostri dati personali” ed un unicum che merita un breve approfondimento. Applicando l’articolo
20 del GDPR, Weople – su delega dei propri utenti – chiede ai giganti del web e a tante altre
aziende copia dei dati digitali riferiti all'iscritto e li deposita in un conto del singolo utente. Di
fatto, mette nelle condizioni di esercitare il nuovo diritto alla portabilità dei dati, quel diritto che
permette di ricevere i dati personali forniti al titolare del trattamento, in un formato strutturato, di
uso comune e leggibile meccanicamente, e di trasmetterli a un diverso titolare. L’obiettivo ultimo è
quello di accrescere il controllo da parte delle persone sui propri dati personali, restituendo valore
economico ma anche diritti, rendendo effettivi i vantaggi introdotti dal GDPR. L'unico impegno da
parte di chi entra sulla piattaforma è l'iscrizione, mentre non ci sono costi.
        Weople cerca anche di trasferire al proprietario dei dati i vantaggi che derivano dalla loro
condivisione proponendosi infatti anche come piattaforma di marketing diretto per offrire
proposte e comunicazioni a target interessanti. In particolare, ciò avviene trovando clienti-aziende
e proponendo loro di veicolare, tramite app, pacchetti, offerte personalizzate e/o comunicazione a
segmenti di correntisti che Weople ha dimostrato, grazie ai dati, essere potenzialmente
interessanti. Ovviamente, senza mai dare dati personali all'azienda e ponendosi come filtro e unica
piattaforma per raggiungere il cliente. Quanto le aziende pagheranno per veicolare queste offerte
personalizzate verrà dato, in grandissima parte, alle persone destinatarie delle stesse. È una delle
poche volte in cui, per ricevere un'offerta o una comunicazione, il destinatario finale viene pagato.
         Questa seconda attività genererà due forme di guadagno per l’iscritto: un salvadanaio
personale dove si può accumulare il valore in moneta vera, e un portafoglio di offerte
personalizzate a cui si può liberamente decidere di aderire o meno. A breve – poi – si potrà
investire masse di dati anonimi, aggregati e protetti nel mercato in cui, al momento, si genera più
valore: si tratta di attività di arricchimento e valorizzazione di database di terze parti, sempre fatte
senza cedere i dati individuali e personali. Qui entrerà in gioco la massa dei dati degli iscritti a
Weople e il valore che si genererà (aggiuntivo rispetto a quello visto sopra) sarà merito un po' di
tutti: verrà quindi restituito attraverso un sistema di estrazioni su base periodica.
        Semplice anche il meccanismo di iscrizione alla piattaforma: l’utente apre un “caveau
personale” con sei cassette di sicurezza nelle quali sceglie liberamente se depositare e investire i
dati relativi agli account social (Facebook, Istagram, Twitter, Linkedin), gli atti di acquisto relativi
alle carte fedeltà, gli acquisti on line tramite account e-commerce, i dati digitali relativi agli account
Google e Apple, una selezione di interessi della persona e infine una breve autodescrizione.
Weople funziona come una banca: si apre un conto dati, si diventa correntista e si deposita una
somma in forma di dati. A quel punto la banca investe tutti i dati dei vari clienti per farli rendere,
facendo da garante e, a (grande) differenza delle banche vere, restituendo gran parte del ricavato
agli utenti: il 90%, al netto delle spese e dei costi documentati in app, verrà retrocesso alle persone
(i “correntisti”).
       I vantaggi a breve per gli utenti iscritti consistono nella possibilità di ricevere una
monetizzazione del valore dei propri dati. A oggi si stima sino a 100 o 200 euro all'anno, anche in
base a quanti e quali dati un “correntista” investirà, più i vari regali a estrazione e naturalmente la
possibilità di beneficiare di offerte molto personalizzate. In termini di costi il meccanismo è
premiale. La parte economica viene infatti finanziata con il meccanismo della restituzione del 90%
di cui si è detto. A lungo termine, grazie alla massa dei dati investiti dalle persone, Weople

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probabilmente potrà fornire a individui e famiglie altri servizi, sia di utility sia di protezione, tutti
genuinamente e al 100% dalla parte delle persone perché alimentati direttamente dagli utenti.

        2.        Homo Sapiens Digitalis o Uomo-Dato?
        La rivoluzione tecnologica ha generato una società “datocentrica”, in cui l’essere umano è
un “uomo-dato”, “generatore” di dati e, in quanto tale, “pesato” come somma di dati. Cruciale è
quindi identificare e gestire a proprio vantaggio la miriade di opportunità/vulnerabilità digitali che
caratterizzano sia la nostra vita quotidiana (la domotica in primis) sia gli ambienti
tecnologicamente più avanzati. L’essere umano – d’altra parte – è anche un homo sapiens, che la
digitalizzazione ha trasformato in digitalis, offrendogli opportunità prima inimmaginabili,
travalicando vincoli, gerarchie e costrizioni, e rinnovando la speranza in un mondo meno iniquo.
         Lungo questa dicotomia – rischi ed opportunità nella nuova era digitale – si è mossa la
riflessione avviata quest’anno dal gruppo di lavoro interno della Comunità dei Talenti, che ha
scelto di approfondire tre spunti di interesse generale:
       2.1) Il valore della Cina come grande laboratorio vivente della digitalizzazione, che si sta
rapidamente dimostrando in grado di anticipare le tendenze in molti settori trainati dalle
tecnologie digitali, indicando quale potrebbe essere la società digitalizzata di domani.
      2.2) L’evoluzione della relazione fra uso del dato personale e riservatezza, che mostra
approcci differenti a seconda dei Paesi e delle culture, lasciando aperto il dibattito su quale sia il
modello migliore ed evidenziando il bisogno di un consenso internazionale.
        2.3) L’atteggiamento necessario per cogliere le opportunità offerte dal digitale, stante
ancora la contrapposizione fra i rischi della mappatura dell’“uomo dato” e i ritardi delle aziende
che rischiano di utilizzare le opportunità del digitale in modo acritico.

        2.1) La Cina, un grande laboratorio vivente della digitalizzazione
        La Cina, per le dimensioni di mercato e l’entità degli investimenti messi in campo, può
essere considerato un vero e proprio laboratorio vivente della digitalizzazione, con caratteristiche
tali da indurre una riflessione sulle potenziali ricadute, soprattutto dal punto di vista della
riservatezza dei dati personali.
       Un esempio recente: in vista del trentesimo anniversario dei fatti di Tiananmen, erano già
oltre 200 milioni le telecamere di sorveglianza installate nel Paese, soprattutto in zone dove le
autorità ritengono possano svolgersi manifestazioni di protesta, e di nuova generazione, cioè con
algoritmi che permettono di individuare la persona indifferentemente in base a fisionomia,
corporatura, postura o camminata. In Cina esiste infatti un enorme sostegno politico e finanziario a
lungo termine – a livello sia nazionale sia locale – per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale che
per ora non ha eguali nel mondo.
       A livello nazionale la regia è affidata ad un documento guida dello State Council che
delinea l’obiettivo di creare un’industria dal valore di 19 miliardi di euro entro il 2020, in grado di
raggiungere importanti innovazioni tecnologiche entro il 2025, garantendo al Paese di diventare il
leader mondiale entro il 2030.
        A livello locale ci sono esperienze come quelle di Shanghai, che ha lanciato un piano per un
centro industriale basato sull’intelligenza artificiale del valore di 19 miliardi entro il 2020; di Hefei,
in Anhui, che dovrebbe diventare capitale mondiale nel campo del riconoscimento vocale. Molte
altre amministrazioni locali hanno piani simili e non meno ambiziosi.

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Ci sono poi realtà come Megvey, la principale azienda di software per il riconoscimento
facciale in Cina, che consente a Didi, il più grande operatore di ride sharing, di verificare per motivi
di sicurezza l’identità dei guidatori. L’uso di programmi di riconoscimento facciale è infatti
onnipresente in Cina e serve ai privati cittadini, come nel caso di Didi; su scala più ampia trova
tuttavia la sua maggiore diffusione nel sistema di sorveglianza pubblica del paese.
        A ciò si aggiunga una quantità ineguagliata di dati: 1,4 miliardi di cittadini, 750 milioni di
utenti di telefonia mobile che generano numeri multipli di transazioni via cellulare. Un eldorado di
dati la cui omogeneità è frutto di uno standard nazionale sulla protezione delle informazioni
personali che si aggiunge ad un framework esistente sulla sicurezza informatica e sulla protezione
dati personali che risale già al 2012. La coesistenza di questa massa enorme di dati – generati 24
ore/24 – con l’imbuto normativo, che assegna il controllo totale di queste informazioni ad apparati
governativi, consente la gestione monopolistica di questa immensa miniera di dati che non ha e
non avrà rivali in altri contesti geografici, sia dal punto di vista della dimensione, sia della capacità
computazionale e dell’accesso esclusivo ai dati da parte di sistemi governativi centralizzati.
         Emergono dunque due considerazioni di cui occorre essere coscienti. La prima è sulla
centralità del “software”, sulla rilevanza militare e sulle implicazioni economiche della rivoluzione
tecnologica che sono stati compresi con maggiore anticipo dalla classe dirigente cinese, educata a
ragionare strategicamente. Essa è peraltro molto facilitata dal regime politico in cui opera. Senza i
costi della democrazia, in assenza di valori come la privacy – percepita sino a poco tempo come un
valore negativo – con il predominio delle aziende e dei sussidi di stato, con barriere alle imprese
straniere, con un massiccio intervento pubblico a sostegno della ricerca e delle startup, non è così
difficile far correre più veloce la tecnologia rispetto ai Paesi democratici.
        La seconda riguarda l’impatto della rivoluzione digitale sull’arena internazionale. A questo
proposito vale la pena ricordare la formula “no system of law enforceable” coniata da Kenneth Waltz
nel 1959. Con questa espressione Waltz definiva l’anarchia come principio ordinatore del sistema
internazionale in opposizione al criterio della gerarchia che caratterizzerebbe i sistemi politici
interni. L’assenza di ordine gerarchico non significa naturalmente che non si determinino
gerarchie di fatto tra gli attori del sistema internazionale. L’ipotesi è tuttavia che la rivoluzione
digitale confermi – e anzi consolidi – la proposizione di Kenneth Waltz: nel corso degli ultimi tre
decenni le tecnologie digitali si sono sviluppate in assenza di un sistema di leggi effettivamente
applicabili (“no system of law enforceable among [the States]”). Anche i pochi accordi politici bilaterali
sono rimasti sulla carta come dimostra in modo emblematico l’intesa in materia cyber siglata dai
Presidenti Obama e Xi il 25 settembre 2015.
       Di tutto ciò si dovrebbe tener conto guardando all’esperienza del laboratorio digitale cinese
come modello per le nostre società di domani. Ciò perché l’effetto combinato dei processi di
globalizzazione economica e di digitalizzazione rende molto difficile applicare in ambito
domestico le regole del diritto interno, soprattutto nei Paesi dove è in vigore lo Stato di diritto. E
perché la rivoluzione digitale non ha un impatto omogeneo in tutti i Paesi: culture, tradizioni
storiche e linguistiche, sensibilità religiose influenzano le modalità con cui le società nazionali si
adattano al mutamento tecnologico.

        2.2) La continua evoluzione della relazione fra uso del dato personale e riservatezza
       Le diverse esperienze in corso in varie parti del mondo mostrano approcci differenti, in
particolare in Cina, Europa e Stati Uniti, nella considerazione e gestione del dato personale. A un
anno dall’entrata in vigore del GDPR, il dibattito su quale sia il modello migliore evidenzia il

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bisogno ancora insoddisfatto di un consenso internazionale su condivisione dati e tutela della
privacy. Ciò porta a due riflessioni generali. Una di natura giuridica – sulla relazione fra logiche di
natura causale e logiche di data analytics – per cercare di capire come in Occidente ci avviciniamo al
problema. Una di natura politica, che riguarda il bisogno ancora insoddisfatto di un consenso
internazionale su condivisione dati e tutela della privacy.

        2.2.1) La relazione fra logiche di natura causale e logiche di data analytics
       La tradizione giuridica occidentale è fondata su logiche di natura causale – secondo lo
schema astratto causa/effetto –, laddove le attività legate al trattamento dei dati e, in particolare, i
sistemi di data analytics si basano su logiche di natura predittiva o inferenziale, ossia su giudizi di
tipo sostanzialmente “probabilistico”. L'adozione di logiche di natura inferenziale può produrre
conseguenze, talvolta anche rilevanti, sia sul singolo individuo sia sul piano delle politiche sociali.
         Quanto al primo caso, gli individui possono trovarsi a subire gli effetti di decisioni legate al
trattamento dei dati anche quando i loro dati non sono stati, in concreto, trattati, per il solo fatto
dell'appartenenza ad un gruppo definito individuato dagli algoritmi. A questo gruppo – che può
essere già identificato o riconosciuto nel tessuto sociale (in relazione al genere, l'etnia, l'età, la
religione, la condizione lavorativa, ecc.) o appositamente creato allo scopo per il soddisfacimento
di specifiche finalità – vengono riferiti azioni, abitudini, stili di vita o comportamenti, su cui si
fondano decisioni di natura economica, politica o sociale. Un esempio è quello del cosiddetto
“neighborhood’s general credit score”, che lega il merito creditizio alla residenza in una
determinata area, con l'effetto di fondare decisioni di forte impatto sulla vita degli individui (quali
la concessione di mutui o i tassi di interesse praticati) non più sulla condizione individuale, ma su
quella del gruppo di riferimento. Occorre osservare che gli strumenti di tutela a disposizione
dell'individuo sono spesso inadeguati, perché il soggetto può perfino ignorare di appartenere al
gruppo selezionato e, inoltre, quando la decisione non investe direttamente minoranze e gruppi
sociali tutelati, può essere difficile distinguere tra attività discriminatorie e scelte aziendali.
         Quanto al secondo caso, il trattamento dei dati condiziona sempre di più le politiche sociali
e le decisioni pubbliche anche in settori particolarmente sensibili quali, in particolare, la
previdenza sociale, la pianificazione urbanistica, la sicurezza. In questo caso, oltre al tema della
riferibilità ai singoli di decisioni elaborate in base al gruppo di appartenenza, si pone soprattutto la
questione della correttezza del processo, anche in considerazione del forte impatto delle decisioni
sulle politiche sociali. Negli Stati Uniti – ad esempio – alcune forze di polizia adottano software
c.d. di polizia predittiva, che supportano l'attività di prevenzione, attraverso un controllo
incrociato della tipologia e della modalità dei reati e dei luoghi in cui sono stati commessi. Si è
replicato, però, che i risultati garantiti da questo strumento potrebbero essere in parte falsati da
meccanismi di "auto-avveramento", dal momento che i luoghi indicati dal software sono quelli
dove si concentrerà una più intensa presenza delle forze dell'ordine, favorendo l'accertamento di
reati che in zone meno presidiate non verrebbero invece allo scoperto. Il rischio, insomma, è quello
di incorrere in decisioni "non neutrali" nel processo di trattamento dei dati.

        2.2.2) Il consenso internazionale sulla condivisione dei dati e sulla tutela della privacy
        Lo scorso 10 dicembre il mondo ha celebrato il settantesimo anniversario di un documento
di straordinaria importanza: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. La longevità di
questo documento di incomparabile visione storica e normativa può essere considerato un punto
sia di arrivo sia di partenza. Di arrivo, in quanto la Dichiarazione è nata dalle tragedie generate da

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due guerre mondiali, dalla grande depressione degli anni Trenta e dalla tragedia dell’Olocausto. È
un documento quindi concepito per prevenire simili disastri, e le tirannie e le violazioni che le
hanno alimentate e causate. Di partenza, in quanto rimane uno strumento fondamentale per
comprendere quanto sia oggi necessario rilanciare quella sfida per proteggere nuove tipologie di
diritti, che hanno come punto di riferimento centrale l’uomo – o meglio gli esseri umani usando
un’accezione più universale – e i dati che le nuove tecnologie pervasive e ubique generano con
fattori di crescita esponenziali e con implicazioni a vari livelli – sia per gli individui sia per le
società – che sono sempre più complesse da prevedere e da gestire.
        Ci si trova quindi di fronte a una serie di necessità imperative che obbligano la comunità
internazionale attraverso i suoi Stati membri e gli altri attori emergenti del sistema internazionale –
di natura sia privata sia pubblica – a creare simili standard per i nuovi diritti al fine di estendere
agli individui nuove misure di protezione che erano non ipotizzabili solo pochi lustri fa. Questi
nuovi diritti devono essere mirati, sia a riequilibrare le distorsioni create dalle diseguaglianze
emerse in maniera sempre più evidente nel nuovo millennio, sia a decifrare nuovi scenari basati su
rapporti sociali ed economici che evolvono più rapidamente rispetto ad ogni altra trasformazione
tecnologica, sulla spinta dei motori dell’economia digitale e dell’intelligenza artificiale.
        Sul fronte delle diseguaglianze la necessità di forgiare nuovi diritti investe la vita
economica e gli aspetti emergenti che influenzano in maniera sempre più significativa il mondo
del lavoro. Questo perché le protezioni tradizionalmente incluse nel contesto dello stato sociale
come concepito nei secoli scorsi, sulla base delle esigenze della rivoluzione industriale, non
bastano più di fronte alle profonde trasformazioni che stiamo attraversando. Si tratta di rivedere i
principi alla base del contratto sociale concepito alla fine del ‘700. Nei sistemi economici
contemporanei e futuri si dovrà dedicare sempre più attenzione e risorse alla riqualificazione di
chi esce dal mercato del lavoro a causa di cambiamenti tecnologici, transizioni legate
all’evoluzione delle politiche ambientali, e a scenari demografici che forzeranno i governi a
disegnare politiche di protezione sociale caratterizzate da forme di assistenza più lunghe e più
sofisticate.
         Si tratta – in sintesi – di riformulare i diritti economici e sociali degli individui e delle
comunità per adattarli alle esigenze del XXI secolo e alla capacità di individui e sistemi economici
di generare volumi di dati sempre più granulari e di alto valore aggiunto soprattutto se aggregati o
triangolati fra varie fonti pubbliche e private. È questa una sfida di carattere epocale che tocca i
diritti legati alla tutela della privacy e al concetto di “uomo-dato”. Una sfida che è inevitabilmente
connessa a questioni di identità personali e di diritti di proprietà intellettuale, per articolarsi in
territori inesplorati come la convergenza fra tecnologie digitali e biotecnologie e l’uso di algoritmi
sempre più sofisticati che regolano interazioni di natura lavorativa e commerciale, decisioni di
salute pubblica e di medicina preventiva e di precisione così come interazioni sociali a livello
individuale e fra comunità. Si tratta – in altri termini – di elaborare, declinare e tutelare i
protagonisti di tali transazioni e interazioni.
       Tanto i nuovi diritti economico-sociali che quelli derivanti dai nuovi meccanismi generati
dall’equazione “uomo-dato” sono pressanti perché è la loro assenza – non solo normativa ma
anche teorica – che induce un numero crescente di individui, anche nelle democrazie occidentali, a
forme di protesta collettiva che possono mettere a rischio le regole fondanti della convivenza. Da
qui deriva un’urgenza per i legislatori a entrambi i livelli – sia internazionale sia nazionale – di
dedicare più tempo allo studio delle transizioni e delle trasformazioni che si generano nei processi
innescati dall’”uomo-dato”. Questi sono interventi di carattere indispensabile per contribuire a

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formulare le risposte più adatte al fine di adeguare alle esigenze del XXI secolo il corpo dei diritti
degli individui.

        2.3) L’atteggiamento necessario per cogliere le opportunità offerte dal digitale
        L’atteggiamento verso le nuove tecnologie è ancora oggi caratterizzato da un’apparente
frattura: da un lato le élite intellettuali, e spesso il legislatore, per le quali anche la mappatura
dell’“uomo dato” potrebbe assumere connotazioni negative; dall’altro le aziende che rischiano di
utilizzare le opportunità del digitale in modo acritico, quando addirittura di non utilizzarle affatto.
Nel mezzo il consumatore che, a parole, condivide le preoccupazioni dei primi, ma nei fatti sembra
dimostrare poco interesse a difendere la propria privacy. Un nuovo dialogo tra mondo culturale,
legislatore e aziende è – oltre che utile per evitare sia il prevalere di una posizione acritica, sia una
chiusura che penalizzerebbe l’innovazione – anche possibile. Lo dimostrano alcuni esempi
collegati a casi di utilizzo virtuoso dell’“uomo dato”, a beneficio sia del singolo sia della
collettività: l’identificazione digitale dell’individuo e la medicina personalizzata.

        2.3.1) L’identificazione digitale dell’individuo
         Una recente ricerca del McKinsey Global Institute riporta stime della Banca Mondiale
secondo le quali quasi un miliardo di persone nel mondo non ha alcuna forma di identificazione
personale legalmente riconosciuta. Altri 3,4 miliardi di persone hanno un qualche tipo di
identificazione legalmente riconosciuta, ma con capacità limitata di usarla nel mondo digitale. I
restanti 3,2 miliardi hanno un'identità riconosciuta legalmente e partecipano all'economia digitale,
ma potrebbero non essere in grado di utilizzare tale ID in modo efficace ed efficiente online. È
infatti facile dare per scontato il concetto di identificazione, in particolare nelle economie mature:
molto meno in quelle in fase di sviluppo.
       La realtà è che un miliardo di persone nel mondo non ha alcuna forma di identificazione
legale – men che meno una digitale – il che impedisce loro di accedere a servizi governativi ed
economici fondamentali come l’esercizio dei diritti politici, l’assistenza sociosanitaria e la
partecipazione al mondo del lavoro legale. Il resto degli abitanti del mondo – appunto circa 6,6
miliardi di persone – hanno sì una qualche forma di identificazione, ma spesso con una limitata
capacità di usarla nel mondo digitale; oppure sono attivi online, ma affrontano una crescente
complessità che rende difficile mantenere in modo sicuro ed efficiente la loro digital foot print.
         L’identificazione digitale o “ID digitale” potrebbe invece aiutare tutti e tre i gruppi di
persone ad autenticare la propria identità attraverso un canale digitale, sbloccando il loro accesso
al mondo digitale nel settore economico, sociale e politico. Con una valenza economica importante:
stando allo studio McKinsey, l’identificazione digitale dell’individuo permette di creare valore per
ciascuno di questi tre gruppi: promuovendo una maggiore inclusione, che fornisce un maggiore
accesso a beni e servizi; aumentando la formalizzazione, che aiuta a ridurre le frodi, protegge i
diritti e aumenta la trasparenza; e promuovendo la digitalizzazione, che favorisce l'efficienza e la
facilità d'uso. Lo studio stima addirittura che – ipotizzando tassi di adozione elevati dell’ID
digitale – questo “sblocco” abbia il potenziale per liberare un valore fra il 3 e il 13% del PIL
mondiale nel 2030. L’entità del valore economico liberabile dipende ovviamente da Paese a Paese,
dal tasso di adozione dell’ID digitale, ecc. Tra le economie emergenti, un Paese medio potrebbe
raggiungere nel 2030 un valore equivalente al 6% del PIL; in quelle mature, il Paese medio
potrebbe raggiungere un valore prossimo a circa il 3%.

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Va osservato – tuttavia – che l'adozione dell'ID digitale è sì possibile ma non automatica.
Finora, programmi di ID digitali – attuati da governi nazionali o da società private – hanno avuto
tassi di adozione molto variabili: da risultati quasi trascurabili a tassi di implementazione – in
alcuni casi – addirittura del 90%. Un buon programma di ID digitale, implementato in modo
ponderato, offre significativi vantaggi di inclusione e standard più elevati di privacy e sicurezza
con costi limitati. Al punto che il relativo costo, quando rapportato ad alti tassi di adozione,
potrebbe essere marginale, soprattutto se a fronte di un significativo vantaggio economico. Con
un’attenta progettazione del sistema e politiche per promuovere l'assorbimento e mitigare i rischi,
l’ID digitale – oltretutto – può rappresentare una chiave importante per sbloccare una crescita
inclusiva, offrendo un valore economico quantificabile per gli individui, al di là dei significativi
benefici non economici.

        2.3.2) La medicina personalizzata…e dintorni
        La mappatura dei geni e gli studi sull’influenza dell’ambiente sul DNA permettono di
sviluppare farmaci personalizzati e cure rivoluzionarie. Medicina di Precisione significa creare
nuovi modelli diagnostici e terapeutici, oltre che riaffermare il carattere umano della cura: dalla
riscoperta del rapporto medico-paziente all’enfasi sull’uomo come persona dotata di una propria
storia genetica, sociale e ambientale. Se questa è l’impostazione alla base dell’opportunità della
digitalizzazione in ambito sanitario, occorre un’analisi più dettagliata lungo tre direttrici, fra loro
interconnesse: l’intelligenza artificiale in sanità; medicina genomica e medicina personalizzata;
farmacogenomica, stampa 3DP.
        La medicina personalizzata –nota anche come medicina di precisione – si è dimostrata uno
degli obiettivi più lungimiranti che la ricerca sanitaria si sia mai posta. Fattore determinante del
suo affermarsi è stata la capacità di sequenziare il genoma umano, che ha trasformato il modo in
cui la medicina viene concepita. Il nostro genoma viene visto come un pacchetto di programmi in
cui sono contenute tutte le istruzioni per costruire il nostro corpo, determinarne il funzionamento e
persino modellare la nostra personalità. La sperimentazione genetica a livello cellulare ha dato
enormi risultati per la salute dell’umanità, aiutando a comprendere le basi molecolari e
biochimiche della vita, a studiare la biologia cellulare del cancro, la determinazione delle
predisposizioni genetiche per le malattie diffuse e le basi molecolari dell'attività dei farmaci.
Nonostante l’enorme costo iniziale per l’avvio del progetto – Human Genome Project (HGP),
primo grande progetto di big science che ha coinvolto le scienze biomediche con un costo
complessivo di svariati miliardi di dollari – attualmente si può sequenziare un genoma umano in
poche ore e con costi ragionevoli.
        La genomica – intesa come branca della biologia molecolare che studia l'organizzazione e la
struttura dei geni di un organismo nel contesto dell'intero genoma – sta inoltre ponendo il
paziente, piuttosto che la malattia, al centro dell'attenzione dell’assistenza sanitaria, con un
passaggio dalla logica della cura a quella del trattamento. La diagnosi precoce di una malattia può
infatti aumentare significativamente l’efficacia del trattamento ed identificare la malattia prima
ancora dell’emergere della sintomatologia: molte malattie, ad esempio i tumori, sono causate da
alterazioni dei nostri geni. La tecnologia genomica può identificare tali alterazioni e cercarle
usando molteplici testi genetici: la diagnosi precoce di molte patologie è – e deve continuare ad
essere – motore di ottimismo incentivando lo sviluppo di marcatori di nuova generazione per
identificare le malattie in tempi molto più rapidi. Così la sanità si muoverà più verso la
prevenzione che la cura.

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Il Progetto Genoma Umano ha portato alla scoperta di circa 200 geni coinvolti in malattie
che si stanno rivelando altamente efficaci per un’analisi accurata e veloce. Un obiettivo attuale è
costruire un database di biomarcatori genetici soprattutto per i tumori, perché dai tumori si può
prelevare il tessuto, sequenziarlo e identificarne le alterazioni. Il Cancer Genome Atlas ha a
disposizione biomarcatori genetici per almeno 30 tipi di tumore. Questo database potrebbe
permettere diagnosi definitive in secondi e addirittura raccomandare trattamenti mirati basati sul
DNA del paziente e sulla tipologia del tumore. Il sequenziamento del tumore non solo aiuta ad
identificare il tumore, ma anche a capirne l’identità, le cause e come debellarlo: si tratta di un
approccio che sta vivendo un pieno dispiego negli Stati Uniti. È ponendosi questo obiettivo che il
nostro Paese dovrebbe investire di più nella ricerca e nel trasferimento tecnologico delle
biotecnologie applicate alla salute dell'uomo, avviando la produzione industriale di molecole
innovative e nuove strategie terapeutiche contro neoplasie e malattie rare. Basti ricordare che
l’Italia è tra i pochi Paesi europei in cui l'industria biotecnologica negli ultimi anni è stata uno dei
settori a registrare un trend positivo di fatturato, brevetti e occupazione.
        Quando si tratta di trattamento, la genomica sta permettendo lo sviluppo di un altro
importante tassello della medicina di precisione: la farmacogenomica. Come noto, uno stesso
farmaco nella stessa dose agisce su persone diverse in modo diverso. Uno dei motivi è che i nostri
geni influenzano la produzione di enzimi che metabolizzano i farmaci. Se ad esempio una
variazione genetica impedisce agli enzimi di funzionare correttamente, il farmaco può accumularsi
nel corpo con gravi effetti collaterali: circa il 30% delle persone, in base a delle variazioni geniche
non è in grado di convertire completamente un noto farmaco anticoagulante comunemente usato.
Grazie ai test genetici, farmaci alternativi possono invece essere usati. Sono più di 250 i farmaci
etichettati con informazioni farmacogenomiche, che consentono loro di essere prescritti sulla base
della genetica del paziente.
        Con l’aumentare dell’informazione sulla farmacogenomica e la standardizzazione del
sequenziamento del DNA, è probabile che i farmaci verranno prescritti sempre più in base ai nostri
geni, riducendo al minimo gli effetti collaterali dannosi e rendendo i trattamenti più rapidi ed
efficaci oltre che meno costosi. La genomica sta addirittura cambiando il modo in cui si sviluppano
i farmaci: permettendo di trovare un'alterazione specifica alla base di una malattia permette di
sviluppare un farmaco che agisca specificamente su tale alterazione genetica. Dall'approccio
dell'assistenza sanitaria generale ci si sta muovendo quindi verso quello di un’“assistenza sanitaria
personalizzata”.
        La stampa 3D (3 Dimensions Printing) è un metodo di produzione relativamente nuovo e in
rapida espansione che ha trovato numerose applicazioni nel settore automobilistico, aerospaziale e
in molte altre aree, compresa quella sanitaria. Con 3DP si intende la realizzazione di oggetti
tridimensionali mediante produzione additiva, partendo cioè da un modello 3D digitale. Il
modello digitale viene prodotto con software dedicati e successivamente elaborato per essere poi
realizzato con diverse tecnologie, tra cui anche quella che costruisce prototipi strato dopo strato,
attraverso una stampante 3D. In medicina ci sono nuove interessanti applicazioni che stanno
rivoluzionando il modo in cui vengono eseguiti gli interventi chirurgici, sconvolgendo i mercati
delle protesi e degli impianti, nonché l'odontoiatria. Un campo relativamente nuovo è quello del
bioprinting, ovvero la stampa con cellule che segna un incredibile progresso. Numerose
applicazioni di 3DP in medicina appartengono alla medicina personalizzata e sono in piena
espansione. Esempi includono protesi personalizzate, modelli medici e dispositivi medici che
rivoluzionano l'assistenza sanitaria e possono cambiare radicalmente molte aree della medicina
tradizionale.

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