Temi del Novecento: autori allo specchio. L'autoritratto in versi - Gino Tellini - Formazione Loescher
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L’autoritratto in versi è un tema classico, molto praticato tra 700 e 800 nel genere del sonetto (Metastasio, Sogni, e favole io fingo, 1733; Alfieri, Sublime specchio di veraci detti, 1786; Foscolo, Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti, 1801; Manzoni, Maurits Cornelis Escher, Capel bruno, alta fronte: Mano con sfera occhio loquace, 1801) . riflettente (1935)
Jan van Eyck (1390-1441), Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434), National Gallery (Londra) Quadro straordinario (rappresentazi one tridimensional e dello spazio, grazie allo specchio)
Dettagli o dello specchi o: i due coniugi di spalle, una porta aperta, con due figure in piedi, una delle quali il pittore stesso.
Norman Rockwell (New York, 1894-1978), Triplo autoritratto, 1960 l’immagine riflessa allo specchio, l’immagine dipinta sulla tela, l’immagine reale che dà le spalle all’osservatore.
Autoritratti diretti e trasposti: il tema è suggestivo, dimmi come ti ritrai e ti dirò chi sei... , tra autocelebrazione e autodenigrazione (celebri gli autoritratti di Michelangelo, in pittura, in scultura [nella Pietà fiorentina, Nicodemo], e in poesia...) Vincent van Gogh, l’autoritratto è Autoritratto, (1889), sempre eloquente... Museo d’Orsay (Parigi
Michelangelo: San Bartolomeo (la tradizione vuole che sia morto scuoiato in Siria) mostra la propria pelle (pelle senza corpo), nel Giudizio Universale, Cappella Sistina (Vaticano), 1536- 1541
Particolare che ci interessa ricordare per un testo che leggeremo più avanti
sommario ● Corazzini, Desolazione (alcuni versi) ● Gozzano, La signorina Felicita (ultimi versi) ● Palazzeschi, Chi sono? E lasciatemi divertire! ● Saba, Amai ● Ungaretti, I fiumi ● Montale, Corno inglese ● Pasolini, Supplica a mia madre ● Sanguineti, Cataletto n. 12 ● Alda Merini, Alda Merini
● Situazione storica di primo Novecento: clima dannunziano: crepuscolarismo (Corazzini, Gozzano), futurismo (Palazzeschi), «poesia onesta» di Saba, nuova sillabazione ungarettiana ● Situazione tra le due guerre : Montale (Ossi di seppia, 1925) ● «Sperimentalismo» di Pasolini (ermetismo + neorealismo) ● Neoavanguardia: Sanguineti ● Nuova soggettività: Ada Merini
Sergio Corazzini (1886-1907)
da Desolazione del povero poeta sentimentale (vv. 1-9) Piccolo libro inutile (1906) I Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? II Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te [arrossirei. Oggi io penso a morire. [...]
Desolazione del povero poeta sentimentale (vv. 17-18; 49-56, fine) III Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. [...] VIII Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Guido Gozzano (1883-1916)
da La signorina Felicita (vv. 423-434) I colloqui (1911) Giunse il distacco, amaro senza fine, e fu il distacco d’altri tempi, quando le amate in bande lisce e in crinoline, protese da un giardino venerando, singhiozzavano forte, salutando diligenze che andavano al confine.... M’apparisti così, come in un cantico del Prati, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico.... Quello che fingo d’essere e non sono!
Aldo Palazzeschi (1885-1974)
Chi sono? Poemi (1909) Son forse un poeta? No, certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell’anima mia: “follia”. Son dunque un pittore? Neanche. Non ha che un colore la tavolozza dell’anima mia: “malinconia”. Un musico, allora? Nemmeno. Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia: “nostalgia”. Son dunque... che cosa? Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia.
da E lasciatemi divertire! (vv. 86-93) L’Incendiario (1910) Ahahahahahahah Ahahahahahahah Ahahahahahahah. Infine io ò pienamente ragione, i tempi sono molto cambiati, gli uomini non dimandano più nulla dai poeti, e lasciatemi divertire!
Dal «saltimbanco» al «palpito libero nell’aria» Il libro Due imperi... mancati (1920) è un esempio di militante internazionalismo. È indicativo che proprio a questa cronaca degli anni di guerra – dall’agosto 1914 all’agosto 1919 – lo scrittore abbia affidato le sue più appassionate credenziali non solo di antimilitarista e di antinazionalista, ma di libero cittadino del mondo, di creatura aerea innamorata della vita: «Io sono di tutti i paesi e tutti i paesi sono miei [...]. Io non sono nemmeno un uomo, non ci tengo ad esserlo, io sono una creatura sensuale, un palpito libero nell’aria» (ed. Milano, Mondadori, 2000, p. 32).
Umberto Saba (1883-1957)
Quello che resta da fare ai poeti (1911) Amai (vv. 1-8) Mediterranee (1946) Amai trite parole che non uno osava. M'incantò la rima fiore amore, la più antica, difficile del mondo. Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il Autografo di cuore Quello che resta da le si accosta, che più non fare l'abbandona. ai poeti (1911)
Il coraggio di andare controcorrente Amare «trite parole» significa avere il coraggio di andare controcorrente Rinnovamento dentro la tradizione La questione essenziale per Saba sta in questi termini: ha raggiunto accenti d’indubbia originalità con impiego di mezzi consueti (parole «trite», consumate e comuni; struttura metrica tradizione, come il sonetto, e rime abituali), perché di questi mezzi ha saputo avvalersi per trarre dal «fondo» della propria interiorità segrete «verità» che hanno un significato non legato soltanto alla sua persona. Il coraggio di esplorare dentro di sé Il coraggio di sentire fraterno il dolore
Giuseppe Ungaretti (1888-1970)
I fiumi (vv. 27-41) da Porto sepolto (1916) Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani mhe m’intridono mi regalano la rara Ungaretti al fronte felicità [...] della Grande Guerra
vv. 68-69: «una corolla / di tenebre»: una I fiumi (vv. 61-69 possibilità di vita fine) affascinante ma ancora oscura, inespressa, misteriosa. Questi sono i miei fiumi contati nell’Isonzo Questa è la mia nostalgia che in ognuno Il porto sepolto, mi traspare Udine, ora ch’è notte Stab. che la mia vita mi pare Tip. Friulano, una corolla 1916 di tenebre
Eugenio Montale (1896-1981)
Montale, Corno inglese La poesia, che risale al periodo 1916-1922, offre una sintesi del pensiero e dello stile di Montale. Il motto (antifascista) in greco («Che ci ho a che fare io con gli schiavi?»), è suggerito da Augusto Monti ed è una frase di Alfieri.
Il corno inglese è uno strumento musicale a fiato (della famiglia degli oboi) e il titolo musicale rinvia al tema del componimento: l a ricerca, da parte del poeta, di un accordo con il paesaggio, con la natura circostante, con gli aspetti più vivi del mondo naturale, e il fallimento di questa ricerca. Protagonista, per secoli e secoli, della poesia lirica, il cuore si è rotto, non funziona più, o funziona male, come uno strumento scordato. La lirica, come sentimentale effusione di affetti, per Montale è finita. Corno inglese
Montale, Corno inglese ll vento che stasera suona attento - ricorda un forte scotere di lame - gli strumenti dei fitti alberi e spazza l'orizzonte di rame dove strisce di luce si protendono come aquiloni al cielo che rimbomba (Nuvole in viaggio, chiari reami di lassù! D'alti Eldoradi malchiuse porte!) e il mare che scaglia a scaglia, livido, muta colore lancia a terra una tromba di schiume intorte; il vento che nasce e muore nell'ora che lenta s'annera suonasse te pure stasera scordato strumento, cuore.
Corno inglese IN SINTESI È lo spettacolo di un paesaggio ligure, tra cielo e mare: il vento soffia forte e scuote le fronde degli alberi, come fossero strumenti musicali; il mare, plumbeo, agitato dal vento, cambia colore e spinge a riva un vortice fragoroso di schiume. Il poeta vuole accordarsi con il paesaggio e desidera che il vento faccia suonare anche il Eugenio Montale suo cuore, come uno (1896-1981) strumento musicale. Ma il suo cuore è uno strumento rotto, scordato.
Montale, Corno inglese Disaccordo e disarmonia con il mondo La poesia di Montale è espressione del disaccordo, percepito dal poeta dentro di sé, nel suo rapporto con il mondo, è espressione della disarmonia che il poeta avverte nel rapporto con la realtà e con la società. I versi di Corno inglese esprimono il bisogno di una confidenza tra l’io e la natura, ma questa confidenza è irraggiungibile e l’io soffre la propria solitudine e la propria emarginazione. Il cuore, «scordato strumento» Il «cuore», protagonista di interi volume di poesia languida, sentimentale, effusiva, ora, come emissario di sentimentalismo, non funziona più. La poesia di Montale è poesia aspra, disarmonica, antisentimentale.
Montale, Corno inglese Una parentesi significativa La parentesi dei vv. 7-9 è significativa: indica la prospettiva irrazionale dell’evasione, del lasciarsi andare, del sogno a occhi aperti. Montale sente questa seduzione del fantastico, ma non cede, resta ancorato alla dimensione dura, concreta e vera del reale. Un unico periodo sintattico Si noti che l’intero componimento è costituito da un unico periodo sintattico: un periodo complesso, disarticolato e ambiguo, con subordinate e relative (propongo: sogg. unico è il vento: «Il vento, che suona gli strumenti degli alberi e spazza l’orizzonte e [spazza] il mare che muta colore, [il vento] lancia a terra; il vento...). Il vento domina e agita incontrastato l’intero componimento. Il flusso emotivo del testo è unico e compatto: il desiderio di un accordo con la natura. Ma è desiderio impossibile.
Montale, Corno inglese Effetti ritmici I versi si segnalano per una fitta rete di effetti ritmici: la rima al mezzo nel v. 1 («vento»-«attento»), le rime ai vv. 1, 17 («attento»-«strumento»: sigillo della circolarità del testo), ai vv. 14, 18 («muore»-«cuore»: la morte del cuore come sentimentalismo effusivo) e ai vv. 15, 16 («annera»-«stasera»). Gli effetti ritmici e gli accordi interni sono contraddetti dal «disaccordo» tra il poeta e la natura. Gli effetti fonici non portano a una compenetrazione estetizzante, dannunziana, tra io e natura, ma esaltano il disaccordo e la disarmonia del «male di vivere».
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) feroce sincerità
Pier Paolo Pasolini, Autoritratto con fiore in bocca (1947), Archivio Contemporaneo Vieusseux, Firenze Di Pasolini va ricordato anche un autoritratto cinematografico, nei panni di Giotto, nelle scene finali del suo Decameron: davanti all’affresco dell’Apocalisse, afferma: «Perché realizzare un'opera, quando è così bello sognarla soltanto?».
PASOLINI, AUTORITRATTO Preferisco perdere piuttosto che vincere senza lealtà Nella rubrica di «Dialoghi» con i lettori, tenuta sul settimanale «Vie Nuove» (dal 1960 al 1965), Pasolini rilascia di sé, il 28 ottobre 1961, questo rapidissima istantanea. Io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con metodi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù. […] Il comunismo è perfettamente inutile se non considera sacro il rispetto per la persona umana. Il capitalismo […] è odioso appunto perché non prova questo fondamentale rispetto e, in nome dei suoi supremi interessi, […] umilia la persona umana. da P.P. Pasolini, Poesia, cinema, politica (28 ottobre 1961), in Le belle bandiere, Dialoghi 1960-1965, a cura di G.C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1978, p. 154.
Preferire perdere, piuttosto che vincere senza lealtà, significa non essere interessato a imporsi sugli altri, a prevalere, ad affermare a ogni costo le proprie idee e le proprie convinzioni. Significa, invece, essere interessato al dibattito di idee, al confronto con gli altri, per tentare insieme di avvicinarsi alla soluzione dei problemi e, se possibile, alla verità. Ma significa anche essere consapevole di sostenere Pier Paolo Pasolini idee in contrasto con le (1922-1975) mode e con le linee della cultura ufficiale.
LA PAROLA A … Pasoli Italo Calvino ni «Una poesia che rompa le (1922- scatole!» 1975) La definizione («Una poesia che rompa le scatole!») è di Italo Calvino che, appena letto il poemetto Le ceneri di Gramsci (ancora inedito in volume), lo definisce «poesia piene di cose» (nella lettera a Pasolini, del 1° marzo 1956), Calvi poi ne parla in una lettera al no poeta friulano Mario Cerroni, (1923 del 19 aprile 1956: - 1985)
Lettera di Calvino: «L’unico che mi pare sia sulla via seria […] è Pasolini [,,,]. Non è che le sue poesie “mi piacciano”: è che (come nelle Ceneri di Gramsci) ci trovo da discutere, magari da smontarle pezzo per pezzo, da dimostrare che è tutto sbagliato. Ma è questa la poesia di cui abbiamo bisogno: una poesia che si possa discutere, che tocchi le contraddizioni del mondo in cui ci moviamo, che faccia venire preoccupazioni nuove, anche che irriti, che rompa le scatole! Voi niente [...] non rompete le scatole, insomma non fate niente di utile. Cantate. Ma non vi vergognate? Cantare le sofferenze e le speranze del popolo. Ma non vi vergognate? Vi pare che su queste cose si deva cantare?» da I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Milano, Mondadori, 2000, pp. 454-455.
Supplica a mia madre da Poesia in forma di rosa (1964) Alla madre, Susanna Colussi (1891-1981), di famiglia contadina, originaria di Casarsa, Pasolini è legato da un affetto esclusivo. L’ha voluta come attrice nel film Teorema (1968) e, nel ruolo della Madonna, in Il Vangelo secondo Matteo (1964). Metro: dieci distici di versi lunghi Pasolini con la madre (doppi settenari), a rime baciate (tranne ai vv. 5-6, 9-10, e ai vv. 19- 20 dove la rima è sostituita dall’assonanza).
Supplica a mia madre (vv. 1-12) da Poesia in forma di rosa (1964) È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
Supplica a mia madre (vv. 13-20 fine) ho passato l’infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso. Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione. Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
IN SINTESI Il poeta esprime alla madre l’amore esclusivo e vincolante che nutre per lei. E aggiunge che questo rapporto così intenso è la causa della sua diversità e della sua solitudine sentimentale. Fuori della storia Il colloquio-soliloquio, intenso e straziante, avviene in un orizzonte onirico, fuori del tempo e dello spazio, fuori della storia, dove il poeta è «solo» (v. 20) con la madre (senza il fratello, senza il padre), «solo» con lei che, «sola» (v. 3) al mondo, conosce ogni angolo del cuore del figlio. La «supplica» alla madre si svolge in un rapporto di assoluta intimità, «solo» a «sola».
«Diversità» come peso In questi versi, il poeta denuncia la propria «diversità» come un peso, dovuto (secondo l’interpretazione di Freud) al troppo amore verso la madre. L’amore vero e unico è per lei, di modo che la vita affettiva del figlio è condannata alla solitudine. E la sua «fame / d’amore» (vv. 9-10) si placa con rapporti erotici senza «anima» (v. 10). Accenti di disarmante semplicità La poesia s’intona con accenti di disarmata semplicità, di sobria schiettezza, di crudele sincerità, in modo da dare risalto alla «grazia» (v. 6) della madre, figura mitica «insostituibile» (v. 7), e insieme all’«angoscia» del figlio (v. 6), alla sua immedicabile «solitudine» (v. 8), vissuta come una dannazione («dannata», v. 7).
Autoritratto in prosa da Ritratti su misura (1960) «Come andrà a finire non lo so» In questo «autoritratto», che risale al 1960, Pasolini fa luce su taluni aspetti significativi della sua educazione familiare e del suo carattere. Ma si confessa anche, senza reticenze, sulle proprie passioni quotidiane, tanto da mettere in risalto, con un'ombra di presentimento tragico, il proprio viscerale, aspro, violento e convulso amore per la vita. Ritratti su misura, a da Ritratti su misura di scrittori cura di italiani (poi in Pagine Elio Filippo Accrocca, autobiografiche, in Romanzi e racconti, I) Venezia, Sodalizio del Libro, 1960
«Il dopopranzo esco, e vado a spasso, quasi sempre almeno fino alle due di notte: passo dalle borgate e dalla periferia più affamata... [...] Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l'erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n'è un'abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro... Come andrà a finire, non lo so...»
Edoardo Sanguineti (1930-2010)
Cataletto 12 (vv. 1-9) Segnalibro. Poesie 1951-1981 (1982) a domanda rispondo: lo ammetto, ho messo in carte, da qualche parte, con arte, questa mia storia così: faccio il pagliaccio in piazza, sopra un palco: (io sono il cavadenti, il mangia- e sputafuoco, l'equilibrista contorsionista, il domatore di tigri e pulci, il ciarlatano con l'orvietano, l'incantatore di basilischi, il carto- e il chiro- mante, il zingaro, la spalla di un tony nano, il marrano): (mi cinge e preme un'orda di medicini stile Petrolini, à la manière de Molière, con le sperticatissime siringhe (e scarpe lunghe con le lunghe stringhe), che mi atomizzano, a destra e a manca, in giro, una nuvola densa di un deodorante disinfettante):
Cataletto 12 (vv. 10-17 fine) mi infilo in bocca una mia mano, scendo nella mia gola più profonda, con il mio braccio, e [avanti, e sotto, sempre più dentro, giù, passe-passe di passe-partout, finché mi afferro [ infine, lì in fondo fino al fondo, con il mio dito (che mi è l'indice mio), l'anello del [mio elastico sfintere: e tiro forte, è fatta: mi rovescio le viscere, e mi sembro la [ scuoiatura del coniglio, forse: e grido, su dall'ano, ma piano: venite qui, e vedete: è questo l'uomo nudo, il vivo e il vero, se lo prendi nell'intimo dell'imo (servito [al naturale):
Ironia e autoironia (si sente Dario Fo, e Giorgio Gaber, Quello che perde i pezzi, 1973). Al termine del secolo (la serie dei XIII componimenti di Cataletto risale al1981) ritorna il saltimbanco! (segno che è ritornato quel clima di falsificante P. Picasso, Arlecchino e frastornante oratoria pensoso (1901), magniloquente...) New York, Metropolitan Museum
Alda Merini (1931-2009)
Alda Merini da La gazza ladra. Venti ritratti, in Vuoto d’amore (a cura di M. Corti, Torino, Einaudi, 1991) Amai teneramente dei dolcissimi amanti senza che essi sapessero mai nulla. E su questi intessei tele di ragno e fui preda della mia stessa materia. In me l’anima c’era della meretrice della santa della sanguinaria e dell’ipocrita. Molti diedero al mio modo di vivere un nome e fui soltanto una isterica.
Risalta una nota costante della Merini, la generosità umana («dolcissimi amanti»: la dolcezza è in lei...), il coinvolgimento affettivo senza risparmio (pagato magari a caro prezzo: «fui preda della mia stessa materia»). Contrasti interiori («meretrice» e «santa», «sanguinaria» e «ipocrita»: è pronta all’autodenigrazione...), espressione di incontrollata disponibilità al rapporto con gli altri... Mi piace terminare questa rapidissima rassegna con un connotato tipicamente femminile: la (disinteressata) liberalità affettiva.
fine
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