SCENARIO ECONOMIA 01 dicembre 2016 - Confimi Apindustria Bergamo

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SCENARIO ECONOMIA
01 dicembre 2016
INDICE

SCENARIO ECONOMIA
  01/12/2016 Corriere della Sera - Nazionale                                                 5
  Statali, l'accordo con gli aumenti (e il salvagente per gli 80 euro)

  01/12/2016 Corriere della Sera - Nazionale                                                 6
  «Ripresa, pesa l'incertezza politica»

  01/12/2016 Corriere della Sera - Nazionale                                                 8
  Galateri: società, una governance su misura per le piccole

  01/12/2016 Corriere della Sera - Nazionale                                                 10
  Riva versa 1,3 miliardi, la nuova Ilva rinuncia alle cause

  01/12/2016 Il Sole 24 Ore                                                                  11
  «Trump può scardinare le rigidità delle tasse Ue»

  01/12/2016 Il Sole 24 Ore                                                                  14
  L'incognita americana

  01/12/2016 Il Sole 24 Ore                                                                  15
  «Industria 4.0 decisiva per la produttività»

  01/12/2016 Il Sole 24 Ore                                                                  17
  Produttività la parola chiave per ripartire

  01/12/2016 Il Sole 24 Ore                                                                  18
  L'economia digitale e le disparità da sanare

  01/12/2016 La Repubblica - Nazionale                                                       19
  Assolti gli ex vertici di Banca Etruria non ostacolarono l'attività di vigilanza

  01/12/2016 La Repubblica - Nazionale                                                       22
  "Così daremo più ai poveri e meno a chi già guadagna È l'accordo di Robin Hood"

  01/12/2016 La Repubblica - Nazionale                                                       24
  L'Opec non litiga più e taglia la produzione Il barile di petrolio vola verso 55 dollari

  01/12/2016 Panorama                                                                        26
  LA FINANZA AI GIUDICI: ARRESTATE BAZOLI

  01/12/2016 Panorama                                                                        28
  La miccia (accesa) che fa paura ai mercati
01/12/2016 Il Messaggero - Nazionale                      30
Cimbri: «Il welfare cambia adesso c'è spazio per tutti»
SCENARIO ECONOMIA

15 articoli
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 La scelta dei bonus
 Statali, l'accordo con gli aumenti (e il salvagente per gli 80 euro)
 Dario Di Vico

 In sede di conclusione
  dell'intesa per rinnovare
  il contratto dei lavoratori
  della pubblica
 amministrazione è successo qualcosa di singolare.
  I leader confederali si sono sbracciati (è risuonata
  addirittura la magica parola «salvagente») per assicurare che gli aumenti di 85 euro appena negoziati non
 saranno assorbiti dal bonus fiscale di 80 euro, elargito dalla legge di Stabilità
 2015 per i redditi bassi
 e che ha interessato una
 platea di circa 600 mila
 dipendenti pubblici.
  Sarebbe stato sicuramente paradossale che un aumento incorporasse l'altro, per di più con un saldo netto
 di cinque-euro-cinque, e i sindacalisti sono stati attenti a evitare un pericoloso cortocircuito mediatico
 all'insegna del bonus mangia-bonus. L'episodio però in qualche modo fa riflettere. Era giusto chiudere la
 partita del contratto pubblico ma l'impressione che prevale è quella di una politica della distribuzione del
 reddito à la carte. Una volta si lavora di bonus fiscale, l'altra si negozia con il sindacato un generoso
 accordo sulle pensioni e nel terzo caso poi si arriva ad aumenti generalizzati agli impiegati pubblici, sempre
 con l'idea di esibire davanti alle telecamere un bonus o una gratifica. Molto dipende evidentemente
 dall'imminente referendum e dall'esigenza di saggiare le potenzialità di un populismo dolce, che dopo aver
 esaltato il valore disruptive della disintermediazione riscopre le virtù politiche del consenso. Da tempo
 diversi osservatori hanno sottolineato come il governo Renzi abbia alternato due pedali, da una parte
 l'adozione di riforme anche coraggiose e dall'altra il confezionamento di finanziarie che ricordano quelle
 (democristiane) di ieri. Un puzzle di micro-interventi per lo più diretti a soddisfare singole istanze di
 categoria o di territorio. Con un po' di pazienza si potrà addirittura stilare un repertorio dei bonus che
 Matteo Renzi ha adottato o ha anche solo lanciato mediaticamente durante la sua esperienza di governo,
 evidentemente in lui si è fatta strada l'idea che nell'era della velocità la strumentazione della politica
 economica deve cambiare. Il bonus è più veloce e resta sufficientemente a lungo nella memoria degli
 elettori.
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SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 01/12/2016 - 01/12/2016                                                        5
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 «Ripresa, pesa l'incertezza politica»
 Draghi: bene le riforme del lavoro. Il referendum? Non commento avvenimenti futuri
 Danilo Taino

 DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
  BERLINO Ieri, Mario Draghi ha parlato per l'ultima volta prima della riunione del Consiglio dei Governatori
 della Bce di giovedì 8 dicembre. Inizia ora una settimana di silenzio dei componenti l'organismo, sulla base
 delle regole che la Banca centrale europea si è data di recente. La «settimana bianca» sarà però
 inframmezzata da un momento importante, sul quale sono gli occhi dei politici e degli investitori: il
 referendum costituzionale italiano di domenica, le reazioni al risultato che ci saranno sui mercati e le misure
 che eventualmente prenderà l'istituzione di Francoforte per ridurre la volatilità se ci sarà.
 Draghi non ha voluto entrare nel merito della vicenda italiana. A una domanda che gli ha posto il quotidiano
 spagnolo El País durante un'intervista, ha detto di non potere «commentare eventi politici futuri». Ha però
 aggiunto che «sappiamo di avere un obiettivo che è la stabilità dei prezzi e di avere gli strumenti per
 raggiungerla. Come possiamo meglio contribuire alla fiducia e alla stabilità? Attraverso la realizzazione del
 mandato». La Bce continuerà dunque nel programma di acquisti di titoli sui mercati fino a quando
 l'inflazione non sarà vicina al 2% e in grado di sostenersi a quel livello senza lo stimolo monetario della
 banca centrale. In questo modo, aiuta indirettamente le situazioni che altrimenti sarebbero di difficoltà (ma
 questo Draghi non l'ha detto, ieri) e - si suppone sui mercati - può usare una certa flessibilità negli acquisti
 per tamponare momentaneamente stati di crisi.
 Nella stessa intervista a El País, il presidente della Bce ha anche sostenuto che «l'incertezza politica è
 dominante». Il problema è capire quanto ciò sia destinato a colpire l'economia: per ora, le ricadute di breve
 termine sono state «più pacate di quanto ci si aspettasse». Interessante: per un banchiere centrale, il
 passaggio a una fase in cui dominano la politica e la geopolitica, con le loro incertezze, è un cambiamento
 di stagione repentino che muta lo scenario generale in cui si muove; e che gli rende più difficile influire sugli
 eventi. In altri termini, le banche centrali non sono più the «only game in town» , il solo protagonista
 dell'economia, come lo sono state fino a pochissimo tempo fa. Che forse è un bene, ma in ogni caso è una
 novità.
 Ieri Draghi era molto spagnolo e ha tenuto anche una lectio magitralis alla Deusto Business School di
 Madrid. Ne ha approfittato per sottolineare l'assoluta necessità di riformare le economie europee. Ha notato
 come la crescita della produttività dell'area euro, ora sotto lo 0,5% annuo, sia troppo bassa: «qualcosa che
 sarà grandemente importante per la nostra prosperità futura e avrà conseguenze dirette per la conduzione
 della politica monetaria e di bilancio e per la coesione dell'area euro». Un vero e proprio allarme e un
 richiamo alla politica perché le riforme strutturali siano messe in testa ai programmi di governo. Se la
 produzione per lavoratore, la disoccupazione strutturale e la partecipazione al mercato del lavoro
 resteranno ai livelli di oggi - ha spiegato - «l'invecchiamento della popolazione (e quindi il minor numero di
 lavoratori, ndr) risulterà in una forte caduta del reddito pro capite»: al 2050, del 14% in Germania, del 16%
 in Italia, del 22% in Spagna.
 Draghi ha sostenuto che non è vero che i bassi tassi d'interesse della Bce disincentivino i governi dal fare
 le riforme. Spagna e Italia, per esempio, hanno introdotto misure nel mercato del lavoro che stimolano le
 imprese a crescere di dimensione e ad assumere manodopera. La politica di tassi d'interesse bassi, anzi,
 «dà supporto ai governi per realizzare le necessarie riforme strutturali». Ciò nonostante, «lo slancio sembra
 che stia rallentando». Per questo la Bce continua a insistere per riforme «vitali» che «aumentino la
 produttività e la partecipazione e riducano la disoccupazione strutturale».

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 01/12/2016 - 01/12/2016                                                          6
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 Dopo la Spagna, ora si va alla prova del referendum italiano. Anche per la Bce potrebbe essere un test
 impegnativo.
  danilotaino
  © RIPRODUZIONE RISERVATA
  Nel 1995 la crescita della produttività nell'area euro era intorno al 2%, alla pari con il resto del mondo, ma
 oggi è al di sotto dello 0,5% Gli attuali alti tassi
 di disoccupa-zione giovanile rischiano di compro-mettere la produttività futura di questa generazione
 Foto: Il presidente della Bce
 Mario Draghi ieri a Madrid
 durante il suo intervento
 in occasione del centesimo anniversario della Deusto Business School

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 L'intervista
 Galateri: società, una governance su misura per le piccole
 «Il faro dei fondi sulle riforme» Il convegno «Alla Italy corporate governance conference interverranno
 numerosi investitori globali»
 Sergio Bocconi

 «Le adesioni di numerosi fra i maggiori fondi internazionali al convegno confermano l'interesse di questi
 grandi asset manager globali per il nostro Paese e le nostre imprese. E il governo societario, con la qualità
 raggiunta che lo allinea ai migliori standard mondiali, ha contribuito non poco alla crescita degli investimenti
 esteri nelle nostre società quotate». Gabriele Galateri, presidente del Comitato italiano per la corporate
 governance (costituito nel 2011 da Abi, Ania, Assonime, Confindustria, Assogestioni e Borsa Italiana) e
 delle Assicurazioni Generali, presenta così «Italy corporate governance conference», appuntamento ormai
 consolidato che si svolgerà oggi e domani a Palazzo Mezzanotte e al quale partecipano, fra gli altri, il
 ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, il presidente della Consob Giuseppe Vegas e Mats Isaksson,
 responsabile della corporate governance all'Ocse (che supporta la conferenza), oltre a molti rappresentati
 del mercato (a cominciare dal gigante BlackRock) e policy makers.
  La ricca presenza di investitori internazionali alla vigilia del Referendum segnala anche un'attenzione verso
 l'esito della votazione?
 «Anzitutto testimonia che è alta e crescente la disposizione verso l'Italia come area di investimento di lungo
 periodo. In questo momento poi sottolinea anche l'attenzione-preoccupazione da parte di questi
 interlocutori verso una scadenza che può confermare o meno la volontà del Paese di continuare nelle
 riforme che i mercati finanziari si aspettano in particolare dall'Italia».
 I fondi potrebbero fare un passo indietro nel caso il risultato non la confermasse?
 «Gli investitori temono soprattutto l'incertezza. Una grande volatilità ha preceduto il referendum sulla Brexit
 e le elezioni Usa, tuttavia una volta acquisito l'esito gli asset manager hanno ripreso a guardare al lungo
 periodo».
  «In Italia però il risultato stesso potrebbe aprire una fase di incertezza» .
 «Ritengo che in Italia, come in Europa, le istituzioni siano abbastanza forti da "resistere" anche ai più severi
 "stress test". Va poi considerato che il contesto italiano si inserisce in un quadro più generale, che
 comprende le elezioni francesi, tedesche e così via. I grandi investitori terranno conto di tutti questi
 elementi».
 Qual è adesso il peso degli investitori internazionali nel nostro mercato?
 «Nelle circa 90 società quotate medio-grandi (Ftse-Mib e Mid cap) il peso sul capitale presente in
 assemblea è triplicato dal 2010 a oggi passando a oltre il 30%. Se si considerano le società più grandi
 (Ftse-Mib) la quota sale supera il 40%%. Ciò si traduce anche nel fatto che oggi il 40% delle società
 quotate ha amministratori eletti dalle minoranze, percentuale che sale a oltre il 70% nei gruppi maggiori».
 Dove è migliorabile ancora la governance in Italia?
 «Prima dell'avvio dei lavori della conferenza si riunisce in mattinata il Comitato di corporate governance.
 Come ogni anno verrà approvato il rapporto annuale con il monitoraggio sull'applicazione delle regole del
 Codice di autodisciplina, al quale aderisce ormai il 92% delle società quotate. Il Comitato destina poi alle
 società una lettera nella quale vengono puntualizzati alcuni focus, indicati spunti di riflessione e avanzate
 raccomandazioni in direzione di miglioramenti del Codice.
 E quali saranno i focus?
 «Fra i temi centrali ritengo di poter indicare il consiglio di amministrazione (composizione, presenza di
 professionalità anche internazionali, ruolo nei processi di elezione nelle società ad azionariato più diffuso),
 la politica delle retribuzioni (tetti alla componente variabile, clausole di claw back, indennità di fine carica) la

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 possibilità di adattare alcuni principi o creare un codice separato per le società di minori dimensioni, in
 modo tale anche da stimolarne la quotazione».
 Il governo societario è un asset chiave nella selezione e stabilità degli investimenti ?
 «Sì. Pesa molto sulle scelte e, poiché è percepito come un'opportunità dagli investitori anche in termini di
 presenza nelle assemblee, riduce la volatilità degli investimenti».
 © RIPRODUZIONE RISERVATA
 Foto: Gabriele Galateri, presidente del Comitato per la governance e di Generali

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 Riva versa 1,3 miliardi, la nuova Ilva rinuncia alle cause
 Confermata l'intesa sui fondi bloccati in Svizzera. L'azienda ritirerà procedimenti per circa 2,5 miliardi
 Michelangelo Borrillo @MicBorrillo

 milano «Confermiamo l'esistenza di un accordo e che è stato chiuso per un valore di circa 1,3 miliardi».
 All'indomani dell'annuncio del premier Matteo Renzi, anche il gruppo Riva conferma l'intesa su Ilva «che
 sana i contrasti con le autorità e permette di costruire il futuro». L'accordo ha come oggetto le vicende
 giudiziarie del gruppo Riva che, una volta definiti i dettagli dell'intesa, trasferirà a Ilva i fondi fermi da anni in
 Svizzera e bloccati dalla magistratura italiana, in particolare dalla Procura di Milano (sotto la guida
 dell'attuale procuratore capo Francesco Greco, per trent'anni coordinatore del pool sui reati finanziari)
 nell'ambito di un'inchiesta che ha contestato ai fratelli Adriano ed Emilio Riva (scomparso nel 2014) reati di
 natura fiscale e valutaria.
 I dettagli dell'intesa sui fondi (e le soluzioni tecniche per il trasferimento) destinati al risanamento
 ambientale di Taranto devono ancora essere definiti. Ma a grandi linee è previsto che la famiglia Riva, oltre
 a versare 1,3 miliardi, rinunci al contenzioso contro lo Stato italiano, che di fatto ha espropriato Ilva dopo
 l'inchiesta della magistratura sulle emissioni inquinanti dell'impianto tarantino e il successivo sequestro, nel
 2012. In cambio Ilva, in amministrazione straordinaria da quasi due anni, dovrebbe rinunciare a cause
 contro i Riva del valore di circa 2,5 miliardi.
 Entro gennaio 2017 dovrebbe essere completata la cessione a privati di Ilva. In corsa ci sono due cordate:
 quella di AcciaItalia (Cdp, Arvedi, Delfin e l'indiana Jindal, con advisor finanziari Mediobanca e Citi e legale
 Bonelli Erede) e quella del tandem ArcelorMittal-Marcegaglia.
 L'intesa Riva-Ilva aumenta l' appeal del gruppo siderurgico agli occhi dei pretendenti. Come anche il
 turnaround che si profila nei conti: grazie all'aumento del prezzo dell'acciaio e della produzione, l'Ilva si
 prepara a invertire il trend che la vedeva in passato produrre in perdita. La società conta di chiudere il 2016
 con un Ebitda in «miglioramento» rispetto al 2015 (archiviato con un rosso di 546 milioni) e una produzione
 di 5,9 milioni di tonnellate d'acciaio rispetto ai 4,7 milioni del 2015.
 Sul fronte politico, l'intesa ha acuito i dissapori all'interno del Pd tra il premier Renzi e il governatore
 pugliese Michele Emiliano, per il quale si tratta «di un patteggiamento sulla responsabilità penale di Riva
 Fire che dovrebbe riguardare la Procura della Repubblica e Riva, non il governo».
  © RIPRODUZIONE RISERVATA
  15 mila
  i dipendenti
 del gruppo Ilva in 16 unità produttive,
 13 in Italia
 e 3 in Francia: lo stabilimento più grande
 è a Taranto
 La vendita
 Entro gennaio 2017 dovrebbe essere completata la cessione a privati di Ilva.
 In corsa due cordate: AcciaItalia e Arcelor-Mittal

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 01/12/2016 - 01/12/2016                                                              10
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 INTERVISTA A FRANCIS FUKUYAMA
 «Trump può scardinare le rigidità delle tasse Ue»
 Mario Platero

 Donald Trump ha un asso nella manica: potrebbe esigere i contributi del 2% del Pil in spese militari per
 redistribuire i costi della Nato decisi in Galles, pena una spaccatura dell'alleanza. Potrà forzare così una
 rottura dei limiti nei rapporti disavanzo/Pil imposti da Bruxelles chiedendo eccezioni. pagina 35 Èuno
 sviluppo possibile emerso in una lunga chiaccherata del Sole 24 Ore con Francis Fukuyama, il celebre
 scienziato politico che insegna a Stanford University. Con Fukuyama si è parlato di tutto, del nuovo vento
 populista che sferza in Europa e in America come conseguenza di decisioni lontane, adottate subito dopo
 la fine della Guerra Fredda con la creazione di un'architettura economica globale che ha prodotto sì
 benessere, ma in modo diseguale. Fukuyama mette quattro incognite al centro dell'equazione per l'America
 di Trump, sul piano della politica estera dice: «Obama e Trump si assomigliano, sono entrambi
 isolazionisti». Prevede dunque un minore interventismo soprattutto nel "Nation Building". Ritiene che a
 Washington con il personaggio Trump si sia già entrati in un contesto post partitico con problemi,
 nonostante la vittoria alla Casa Bianca, per il partito repubblicano e in particolare per il Tea Party. Ritiene
 che il tema centrale riguarderà gli investimenti infrastrutturali, una sfida secondo lui da raccogliere in pieno
 che segnerà il ritorno della "bipartisanship", su quel tema e su quello delle rigidità commerciali. Non pensa
 che la vittoria di Trump o l'espandersi del populismo segnino la "fine della democrazia", anzi, dice, queste
 elezioni hanno dato voce a persone che si sentivanoe si sentono escluse. Infine un commento sul
 referendum del 4 dicembre in Italia:è per il sì, perché l'abolizione del Senato darebbe un colpo alla
 "vetocrazia",a quella paralisi di governo che deriva da veti incrociati per la maggioranza delle decisioni
 politiche. Una vittoria del sì in Italia sarebbe molto importante perché definirebbe una linea di resistenza al
 dilagare di un populismo oscurantista in Europa sempre più estremista. Ma l'aspetto più interessante della
 chiaccherata con Fukuyama resta la via della Nato per sbloccarei limiti di bilancio in Europa. Obama ha
 sempre provatoa convincere la Germania a cedere sul fronte dell'austerità e di aprire a politiche fiscali
 aggressive. Con Trump la sfida potrebbe addirittura sfiorare il punto di rottura nelle relazioni transatlantiche
 se la Germania non accetterà di fare un passo indietro. Di questo si parlerà domani alla Luiss, a un
 convegno dedicato al post elezioni americane: " Post-Election America: Political and Economic Challenges"
 dove interverranno scienziati politici come Walter Russel Meade appunto Fukuyama, con il quale apriamo il
 dibattito. Con la vittoria di Trump lei ha parlato di elezioni "spartiacque". Quale Trump prevarrà, il
 pragmaticoo l'ideologico? Mi sembra difficile inquadrare Trump all'interno di un'ideologia.È aggressivo, ha
 parlato di protezionismo, di rivedere le alleanze americane, ha promesso la persecuzione dei suoi
 oppositorie via dicendo. Quale sarà il volto? Un paio di giorni fa pensavo prevalesse quello pragmatico
 perché ha detto che non avrebbe più perseguito Hillary Clinton, ha aperto all'Obamacare, è stato moderato
 sulla Nato. Poi, qualche giorno dopo, ha rivendicato la sua vittoria anche nel voto popolare, puntando il dito
 contro una grossa frode elettorale. Il vecchio Trump, che trae conclusioni dal nulla. Detto questo, fino ad
 ora molte delle sue nomine non sono state così negative come avrebbero potuto essere. Cosa spiega
 secondo lei il voto americano: l'11 settembre, la globalizzazione, la forza di Trump? Non credo si possa
 imputare tutto all'11 Settembre. E Trump rappresenta i sintomi di un malessere, non la causa. La radice
 risale alla fine della Guerra Fredda, quando Usae Europa hanno aderitoa una visione comune sia politica
 che economica: si sono trovati d'accordo sul libero mercato, sulla promozione di frontiere relativamente
 aperte, su un sistema di economie liberali tutelate da grandi istituzioni come il Fmi, il G20o la Wto, hanno
 cercato di cooptare la Cina e hanno rafforzato l'impalcatura della sicurezza attorno al multilateralismo, che
 esiste dalla fine degli anni 40. Tutto questo ha prodotto un benessere incredibile in termini di
 globalizzazione, ma non una redistribuzione equa di questo benessere. E i nodi sono venuti al pettine. C'è

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 questo, un accumulo di risentimenti decennali, dietro questa svolta epocale. Qual è l'impatto politico, siamo
 forse en- trati nell'era del post partitismo? Entrambii partiti subiranno un cambiamento radicale. Nonostante
 Trump abbia vinto, l'analisi sulla spaccatura interna al partito repubblicano resta valida: c'è una differenza
 incolmabile fra gli interessi personali della classe operaia mobilitata da Trumpe la leadership del partito,e
 non c'è modo di aggirarla. Questa frattura può essere brevemente sepolta in un cassetto trovando accordi
 su temi come patriottismo o l'aborto. Ma Trump ha fatto qualcosa di unico, ha mobilitato la classe operaia e
 i repubblicani sono spiazzati. Poi c'è la questione infrastrutture, al centro del programma di Trump, si tratta
 di statalismo. E i principali oppositori a questo programma sono proprioi repubblicani tradizionali. I
 democratici invece potrebbero appoggiarlo. Insomma con una aggressiva politica infrastrutturale cambia
 tutto.... Con quali conseguenze? Ci sarà un vero problema per il Tea Party, sulle infrastrutture potrebbe non
 concedere il votoa Trump che potrà fare una coalizione bipartisan. La polarizzazione tradizionale tra i due
 partiti resterà, ma se questa coalizione vedrà la luce, cambierà radicalmente il partito repubblicano, perché
 il Tea party sarà tagliato fuori. Il nuovo segretario al Commercio WIlbur Ross ha promesso ieri tariffe e
 protezionismo contro la concorrenza sleale, ma nonè forse vero che il problema più serio peri lavoratoriè
 l'innovazione tecnologica? Si, è vero e lo sarà per un lungo periodo di tempo. Ma se per il commercio si sa
 come intervenire, nessuno ha un'idea precisa su come arginare questo fenomeno inarrestabile
 dell'innovazione tecnologica. Il rischioè che nessuno sia in grado di presentarsi con una risposta politica
 alla perdita dei posti di lavoro.E non c'è stata nessuna proposta credibile per gestire l'innovazione. Il rischio
 di "chiusura" dunque c'è. Potrebbe estendersi all'architettura multilaterale militaree politica, quantoè
 importante mantenere quest'impianto di sicurezza? A livello economico il sistema politico militare ha
 funzionato perché gli Stati Uniti erano la potenza egemone ma lasciavano allo stesso un accesso quasi
 gratisa questo sistema. Lo stesso capitava con la Nato. E non c'è dubbio che la questione su come
 dividersi gli oneri è un problema che non siè posto per almeno 30-40 anni. Ma gli stati Uniti hanno accettato
 di sostenere il costo maggiore perché avevano compreso che non si poteva chiedere nulla di più agli alleati.
 Ma qui si pone la vera domanda. Quanto Trump proveràa rinegoziare questi accordi, provando anchea
 ridiscutere gli elementi basilari dell'appartenenza alla Nato?E quando si renderà conto di non poterlo fare,
 allora quale sarà la sua scelta? Abbandonare questo sistema o continuarea fare quello che in fondo hanno
 fatto anche tutti gli altri presidenti? Come sa c'è gia un impegno a contribuire alla Nato con un 2% del Pil in
 spese militari. Questa non era un'idea di Trump anche se l'ha venduta come sua, ma è stata ratificata agli
 incontro Nato del Galles. L'Italia però per via delle rigidità di bilancio europee è molto al di sotto della soglia
 del 2%. Crede che partendo dalla difesa Trump possa scardinare le rigidità fiscali europee? Si. E, ad
 esempio, se l'Europa cominciasse ad investire in modo consistente sulle infrastrutture militari, questo avrà
 una ricaduta molto positiva anche sull'economia americana.È uno scenario possibile: questo potrebbe
 davvero cambiarei toni della discussione anche in Germania. Certo si tratterebbe di uno scenario ottimista,
 similea quello che riguarda le infrastrutture americane. Ma Trump potrebbe effettivamente provarea forzare
 le rigidità europee partendo dalla Difesa, dalla Nato, si potrebbe chiedere all'Europa di escludere certe voci
 dai vincoli di bilancio. Non sarebbe una cattiva idea. Ma per ora sappiamo poco dobbiamo solo aspettare.
 Per il resto alcune cose in ambito Nato si possono rinegoziare, ma non avrei alcuna intenzione di
 rinegoziare le nostre relazioni coni paesi balticio con la Polonia. In Italia il4 dicembre si vota per la riforma
 riforma della costituzione. La sua posizione? A livello puramente tecnico sono completamente a favore, è
 un passo in avanti contro la "vetocrazia" che paralizza tutto. In Italia, come in America, avete un Senato che
 blocca e un sistema elettorale che promuove la frammentazione dei partiti politici. Per cui non si tratta solo
 di questo referendum: sono molti i cambiamenti da attuare per rimuovere questi ostacoli e per consentire di
 semplificare il processo che portaa prendere delle decisioni. Per questo sonoa favore,è un passo nella
 direzione giusta. In ogni caso credo che Renzi abbia avuto una buona idea: l'Italia ha davvero bisogno di
 creare un sistema politico che sia in grado di prendere più decisioni. Sarei felice di liberarmi anche del

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 nostro Senato se potessi. Torniamo alla sua definizione di fine della storia, che nonostante tutto continuaa
 muoversi. Come vede evolversi la storia in questo periodo? Molte persone, dopo aver visto quantoè
 successo con Brexit e con le elezioni americane, hanno gridato al crollo della democrazia, ma io credo che
 sia una grossa esagerazione. Se non altro per rispetto del fatto che il volere delle persone ha vinto sul
 desiderio delle classi dirigenti. E non credo che tutto ciò che sta accadendo sia negativo. Inoltre ogni
 attacco nei confronti del populismo presuppone chei partiti tradizionali stiano facendo tutte le scelte giuste,e
 credo che questo non sia vero: basta guardare alle grandi crisi finanziarie in Americae in Europa, alla crisi
 dei rifugiati. La classe dirigente deve rispondere di molte cose. La preoccupazioneè che tutte queste forze
 intolleranti anti liberali siano oggi senza controlloe non abbiamo ancora visto la fine di tutto questo. Spero
 che questo non succeda ma potrà peggiorare. È preoccupato? Pensa che ci sia stia avviando verso una
 fase di oscurantismo? Sono molto preoccupato: è esattamente quello che dico. Il problemaè che una volta
 scatenati questi gruppi non sembrano essere in grado di fermarsi su posizioni ragionevoli; diventano
 sempre più estremisti, e questo oggi è un grosso rischio. Quanto può essere importante la vittoria di Renzi
 per dimostrare che c'è ancora una resistenza vigile? È molto importante. Così come lo sarà l'elezione
 francese dell'anno prossimo.
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 In percentuale. ANewport (Galles), i leader della Nato hanno deciso di invertire l'andamento di riduzione dei
 bilanci per la difesae di portarli al livello del 2% del Pil entro 10 anni
 Foto: CONTRASTO Francis Fukuyama. Il politologo ha scritto il saggio La fine della storia, pubblicato nel
 1992

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 L'ANALISI
 L'incognita americana
 Davide Tabarelli

 Doveva essere un accordo più semplice, invece lo scontro sottostante fra sauditi e iraniani è stato
 logorante, al limite della rottura. I prezzi ne hanno risentito con oscillazioni intorno al 10% sotto la soglia dei
 50 dollari, valore che resta meno della metà rispetto ai 110 dollari su cui si erano stabilizzati prima del
 2014. Continua pagina 3 u Continua da pagina 1 Il taglio previsto è di 1,2 milioni di barili al giorno, dagli
 attuali livelli record di 33,7 milioni, verso il nuovo tetto, già annunciato a settembre, di 32,5 milioni. È una
 riduzione marginale, il 3,6% della loro produzione, l'1,2% di quella mondiale. Tanto rumore per così poco?
 Sì, in effetti al mercato basta poco per risolvere l'eccesso di offerta che pesa sul mercato da metà del 2014,
 quando l'Arabia Saudita decise di puntare alle quote di mercato. Era dal 2008 che l'Opec non tagliava, ma
 un accordo così allargato, con quote distribuite su tutti, anche con l'Iraq, risale addirittura al 1998, quando
 fu fissato a 27,5 milioni di barili al giorno, 6 milioni in meno di oggi e con prezzi che oscillavano intorno ai 10
 dollari. Da allora gli accordi furono sempre per aumentare, per rincorrere una domanda che saliva troppo in
 fretta e che portò i prezzi ai massimi di 140 dollari nel luglio del 2008. Poi i prezzi si stabilizzarono, tranne la
 momentanea caduta del 2009, a 110 dollari, fino alla reazione veemente dell'Arabia Saudita a metà 2014,
 quando decise di inondare il mercato, spaventata dall'accordo fra Obama e l'Iran. Ora l'elezione di Trump,
 che nella sua campagna ha annunciato una linea dura verso Teheran, tranquillizza Riad e
 paradossalmente favorisce un accordo, con le dovute distanze, fra i due. Nella grande complessità e
 imprevedibilità del mercato petrolifero, anche ieri è stato confermato come emerga una regola dominante:
 se Iran e Arabia Saudita si avvicinano, allora i prezzi crescono, se si allontanano, calano. Ieri i sauditi,
 appunto più tranquilli, hanno finalmente accettato che l'Iran possa tornare a 4 milioni di barili, dagli attuali
 3,7. Il calo di 1,5 milioni che aveva sofferto l'Iran a causa delle sanzione del 2012, era stato coperto da una
 pari crescita dell'Arabia Saudita, alla quale ora rinuncia solo in parte. L'Iran prima della rivoluzione
 produceva 6 milioni di barili al giorno e lo Scià aveva intenzione di superare i 10 dell'Arabia Saudita. Era il
 1978, distanze siderali rispetto alla velocità del mercato di oggi. L'accordo potrebbe avere carattere ancora
 più storico se si confermerà il supposto impegno dei Paesi non Opec, per un taglio di 0,6 milioni di barili al
 giorno, di cui la metà sarebbe a carico della Russia. Mosca si impegnerebbe così, per la prima volta nella
 sua storia, e dopo tanti tentativi falliti in passato, a ridurre di un 3%. Fra i grandi Paesi produttori di petrolio,
 la Russia è proprio quello che trarrebbe maggiore beneficio da una stabile ripresa dei prezzi e di ciò
 immediatamente ne risentirebbe la vicina economia europea. Rimangono ancora parecchi problemi, come
 ripartire le quote, il probabile ritorno di Nigeria e Libia, per il momento ancora fuori, la volontà dei sauditi di
 mantenersi sopra i 10 milioni. E se i non-Opec non volessero partecipare? Su questo punto l'Opec corre il
 rischio di intestardirsi e di mettere a rischio quanto raggiunto ieri. Ma il limite maggiore a una ripresa solida
 dei prezzi arriva proprio dagli Stati Uniti di Trump. A Midland, in Texas, ai bordi occidentali del bacino
 Permiano, che ci sia o non ci sia l'accordo Opec poco conta. L'attività è in fermento e le perforazioni hanno
 ripreso a salire, in quanto il processo di efficientamento, avviato anni fa e accelerato con i prezzi bassi del
 2014, è continuato anche nel 2016. Sono enormi le riserve individuate negli Usa, ma le tecniche sono
 complesse e necessitano di prezzi alti. Tuttavia, con il barile a 50 dollari, molte aree sono pronte a ripartire.
 Il nuovo presidente, al di là degli slogan elettorali, potrà influenzare il settore solo indirettamente, attraverso
 la nomina a capo della Environmental Protection Agency di qualcuno meno severo, che non ponga troppi
 vincoli ambientali a un'attività che, comunque, rimane molto invasiva e che qualche problema lo crea. Per
 l'Opec il rischio di prezzi in caduta si allontana, si goda pure il momento e assapori il ritorno di armonia,
 come non si vedeva da anni. Sappia però che la tecnologia, al di fuori del cartello, è già ripartita.

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 L'INTERVISTA. GIULIO PEDROLLO
 «Industria 4.0 decisiva per la produttività»
 Nicoletta Picchio

 «Con Industria 4.0 aumentano produttività e qualità». Così Giulio Pedrollo, vicepresidente di Confindustria
 per la Politica Industriale. «La mani- fattura sta tornando al centro aggiunge - e le imprese sono pronte ad
 attivare gli investimenti». Servizio u pagina 15 pSta girando l'Italia per spiegare alle imprese sul territorio la
 portata di Industria 4.0 e ciò che può significare per la crescita del paese. La sensazione che ne ricava è
 positiva: «le aziende sono pronte ad investire. C'è un grande lavoro da fare di comunicazione e di
 organizzazione per diffondere le tecnologie digitali, a partire dai Digital Innovation Hub,e superarei timori
 che le novità molto spesso comportano. Ma è una sfida che può e deve essere vinta». Giulio Pedrollo la
 traduce in numeri:«Le stime previste dal governo possono essere superate: con Industria 4.0 si potrebbe
 arrivare ad un punto di pil aggiuntivo a mano a mano che si implementerano le misure decise dal governo.
 Fin quando non vedrò una crescita oltre il 2% non sarò contento». La partenza è con il piede giusto:
 «l'industria sta tornando al centro. Dopo decenni di assenza con Industria 4.0 si cominciaa delineare una
 politica industriale per il paese: è la strada per recuperare i punti di pil e di produzione persi con la crisie
 anche per superare in curva altri paesi concorrenti. Come Confindustria abbiamo spinto molto ed il governo
 ha recepito le nostre richieste di una politica di medio termine, con misure automatiche e orizzontali, che
 agiscono sui fattori. A questo proposito reputiamo importante allungare il periodo di consegna dei beni 4.0
 ordinati entro il 2017 e soggetti a iper ammortamento, dal previsto giugno 2018 a settembre-ottobre 2018.».
 Pedrollo, nel suo ruolo di vice presidente per la Politica Industriale di Confindustria, ha seguito passo passo
 la gestazione di Industria 4.0 ed ora è impegnato affinché si traduca in un vero cambiamento innovativo del
 mondo imprenditoriale. Ci sono già una serie di novità al nastro di partenza, annuncia Pedrollo, che fa par-
 te della Cabina di regia istituita dal governo su Industria 4.0, prima fra tutte il progetto dei Digital Innovation
 Hub. Dovrà essere questo organismo il punto di riferimento delle imprese sul territorio: come si articolerà?
 Ciè stato chiesto come Confindustria di guidare la costituzione di questo network di attori dell'innovazione.
 Sarà un soggetto autonomo, sotto forma di consorzio o di rete, che sarà in relazione con i poli tecnologici,
 le università, gli altri centri di innovazione. Dovrà essere in grado di fornire servizi ad alto valore aggiunto, in
 particolare alle pmi, dare informazioni su come attingere ai finanziamenti, sostenere la formazione di
 manager e operatori. Con un linguaggio semplice, che possa far superare le eventuali comprensibili paure.
 Pensiamoa soggetti regionali, con diramazioni territoriali, per essere vicini alle aziendee
 contemporaneamente avere sufficiente massa critica. Inoltre è stato deciso di individuare dentro il sistema
 di Confindustria un imprenditore che avrà il compito di supervisionee di coordinamento dei Digital
 Innovation Hub, che dovranno tutti essere realizzati entro il 2017. Come si presenta l'industria italiana
 davanti a questa rivoluzione? Dai road show che stiamo facendo come Confindustria, insieme a
 Confindustria digitale, le aziende hanno voglia di mettersi in gioco. Certo, c'è chiè più indietro. Ma proprio
 per mettere quante più imprese possibili in condizioni di diventare 4.0, abbiamo individuato un kit
 informativo e messo a punto un check up da realizzare in rete, dal quale emerge un rating, importante per
 consentire all'impresa di acquisire la consapevolezza del proprio stato. Inoltre dal 2017,e per il futuro una
 parte consistente dei 25 stagisti che Confindustria ha in programma di inserire nelle associazioni saranno
 finalizzati a rafforzare le competenze sull'inno- vazione tecnologica, per dare un migliore servizio alle
 imprese. Ha percepito la volontà di investire? Il coraggio deriva dalla visione. Questo progetto di medio
 termine che è Industria 4.0 offre agli imprenditori un'idea di futuro. Stando ai dati, i macchinari delle aziende
 italiane non sono mai stati così obsoleti. C'è la chance per il paese di agganciare la crescita: dipende dallo
 scatto di orgoglio degli imprenditori e dalla qualità degli investimenti, che devono essere mirati. C'è un
 aspetto che vorrei sottolineare: il mondo richiede velocità, competitività e flessibilità. Industria 4.0 consente

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 alle imprese di essere veloci, competitivee flessibili:è la medicina giusta per il malato Italia. Le nostre
 aziende sono mediamente più piccole rispetto ad altri paesi, primo la Germania. Ed hanno anche una
 minore produttività. Pesano questi handicap? Industria 4.0 può essere la soluzione.È vero, le nostre
 imprese sono piccole e devono crescere: grazie all'innovazione digitale possono connettersie superare il
 limite della dimensione. Inoltre per vincere sui mercati è necessario unire al prodotto il servizio: il digitale dà
 questa possibilità. Aggiungere il servizio come valore aggiunto, per individuare meglio i mercati, anticipare
 le esigenze dei clienti. Coni big data si può avere un orientamento preciso su cosa vuole il mercato, un
 modo per orientare in modo mirato la creatività italiana. Inoltre digitalizzare processi e prodottiè un modo
 efficace per combattere la contraffazione. C'è il problema della bassa produttività... Anche qui, l'innvazione
 digitale è un modo per aumentare la produttività. Si rendono più snelli i processi, ma non solo: l'inserimento
 per esempio di robot 4.0, che possono sostituire il lavoro manuale, favorisce il ritorno in Italia di produzioni
 andate all'estero. L'innovazione e la digitalizzazione riducono i costi e non comportano, come si potrebbe
 pensare, una riduzione del lavoro: c'è bisogno di maggiore assistenza, di programmazione. Insomma, con
 Industria 4.0 aumentano produttività e qualità. Le relazioni industriali devono tenere conto di questi
 cambiamenti, devono puntare ad aumentare la formazione, la produttività, la competitività. Serve grande
 attenzione a tutto ciò che accade in azienda. Domenica si terrà il referendum: l'esito eventualmente
 negativo peserà sulla fiducia o sulla predisposizione ad investire? La sfida di Industria 4.0 si è messa in
 moto. Per noi il sìè 4.0, bisogna realizzare le riforme per modernizzaree innovare il paese. Ma anche se
 vincesse il no le aziende non si fermeranno: l'imprenditore per sua natura guarda al futuro, pensaa creare
 ricchezza e occupazione. E si andrà avanti.
 Impegno cumulato 2017-2020. In miliardi di euro
 I fondi per Industria 4.0
 23,9
 13,0 Impegno privato Impegno pubblico 10,0 11,3 2,6 Incentivare gli investimenti privati su tecnologie e
 beni Industria 4.0 Aumentare la spesa privata in ricerca, sviluppo e innovazione Rafforzare la finanza a
 supporto di Industria 4.0, venture capital e start up Impegno per tutte e tre le iniziative
 Foto: La sfida del digitale. Giulio Pedrollo

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 01/12/2016 - 01/12/2016                                                           16
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 EFFETTO -TRUMP E EUROPA
 Produttività la parola chiave per ripartire
 Alessandro Merli

 Giusto un anno fa, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, spiegava, in un'intervista al
 "Sole 24 Ore", che la politica monetaria della Bce apre un'opportunità ai Governi per fare le riforme che
 possono far ripartire una crescita duratura e trasformare le economie dell'eurozona. E che, anzi, la politica
 monetaria accomodante le rende più facili, al contrario di quanto sostengono i suoi critici, soprattutto
 tedeschi, e, di converso, essa diventa più efficace se al tempo stesso i Governi realizzano le riforme
 strutturali. Nell'ultimo anno, sono concetti che Draghi ha ripetuto spesso. Ieri, ci è ritornato in un discorso a
 Madrid, la cui parola chiave è produttività, dimostrando, cifre alla mano, che l'Europa, un tempo al passo
 con le altre grandi aree dell'economia mondiale, sta scivolando indietro nel confronto internazionale e che
 la perdita di reddito nei prossimi decenni, a causa della mancata attuazione delle riforme, potrebbe essere
 enorme, anche solo per il fallimento nell'affrontare uno dei problemi strutturali con cui si confronta l'Europa,
 quello dell'invecchiamento della popolazione. Draghi elenca le ragioni della bassa crescita della produttività
 in Europa, e queste non sono nuove. Gli economisti sanno dove bisogna intervenire. Eppure, osserva, la
 spinta alle riforme sta rallentando. Non è, in questo caso, un problema solo europeo: il G20 ha riconosciuto
 almeno dal vertice di Brisbane del 2014 che, senza riforme strutturali, la crescita non può sostenersi
 sull'impulso monetario e sullo stimolo fiscale per il quale molti Governi non hanno spazio. Allora, venne
 stilata una lista di mille possibili misure. Continua u pagina 6 u Continua da pagina 1 Un anno dopo, venne
 ridotta a un quinto, nella consapevolezza che senza la scelta di priorità non si sarebbe fatto nulla. Eppure,
 l'attuazione va a rilento, tanto che l'obiettivo di dare una spinta addizionale alla crescita del 2% è stato, in
 sordina, messo da parte. Nell'aprire la presidenza tedesca del G-20, il ministro delle Finanze, Wolfgang
 Schäuble, lo ha neppure troppo implicitamente riconosciuto. Eppure, l'attuazione va a rilento, tanto che
 l'obiettivo di dare una spinta addizionale alla crescita del 2% è stato, in sordina, messo da parte. Nell'aprire
 la presidenza tedesca del G-20, il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, lo ha neppure troppo
 implicitamente riconosciuto. In Europa però il problema è particolarmente acuto. In un'intervista a "El Pais",
 uscita anch'essa ieri, Draghi evita il confronto diretto con gli Stati Uniti, ma è chiaro che i risultati sulle due
 sponde dell'Atlantico, messi faccia a faccia, sono impietosi. Le riforme non si fanno, ammette Draghi,
 perché, almeno nel breve termine, sono impopolari. E mai come adesso, sotto la pressione dei populismi,
 la politica ha la veduta corta. Lo stesso Draghi ammonisce però che sotto la pressione dei populismi
 l'integrazione europea si ferma. E sostiene che è l'incertezza politica la caratteristica "dominante" della
 situazione europea e la minaccia più immediata alla crescita. Ma proprio per questo, in assenza di una
 risposta della politica, Draghi ha provato ancora una volta ad allungare lo sguardo, anche nella
 consapevolezza che lo stimolo monetario non può durare per sempre e che l'efficacia delle misure non
 convenzionali, che rivendica, tende a decrescere con il passare del tempo. Nel discorso di ieri, il banchiere
 centrale europeo parla addirittura dei "prossimi decenni", nei quali la sfida demografica sarà difficilissima.
 «Invertire il declino della crescita della produttività e migliorare l'andamento del mercato del lavoro sono
 entrambi requisiti per vincere questa sfida. Senza uno sforzo concertato sulle riforme strutturali, la crescita
 del reddito pro capite nell'area euro probabilmente ristagnerà, e potrebbe anche calare», è la sua
 conclusione. E sollecita l'azione dei Governi, individualmente, a livello nazionale, e insieme, a livello
 europeo. C'è da chiedersi se a Roma, a Parigi, a Berlino, dove le prove delle urne si susseguiranno nei
 prossimi mesi, e dove aleggia lo spettro di quello che è successo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ci sia
 qualcuno disposto ad ascoltare.

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 INCONTRO ALLA CAMERA
 L'economia digitale e le disparità da sanare
 Carlo Marroni

 L'era digitale cambia il mondo, giorno dopo giorno.E l'Italiaè parte di questo processo anche se gli italiani
 utilizzano ancora solo il 10% del potenziale tecnologico fino a oggi raggiunto, come afferma Google. Maè
 comunque già abbastanza per rivoluzionare parte dei nostri costumi, dei comportamenti, del linguaggio,
 delle relazioni (specie dei giovanie giovanissimi). Solo alcuni dati: sono oltre 18 milioni gli italiani che
 acquistano online, di cui oltre 11 milioni sono frequentatori abituali di piattaforme di vendita. Un processo
 che deve avere una barra guida, che spetta anzitutto alla politica. Una barra "etica" che rispondaa valori
 condivisi di equità nell'accesso alle risorsee ridistribuzione dei proventi. Che sono molto altie talvolta
 sfuggono anche al fisco. «La ricchezza nonè un male di per sé, ma dobbiamo fornirci degli strumenti per
 capire qualè quella disonesta: secondo il Vangeloè quella che crea scarti, che ignora l'esistenza di chi non
 ce la fa», dice il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, che ieriè intervenuto all'incontro alla
 Camera dei deputati su «Equità, eticae redistribuzione al tempo dell'economia digitale», dialogando con il
 presidente della Commissione Bilancio, Francesco Boccia (Pd). «Oggi se il livello di eticaè bassoè perché
 c'è poca cultura, non perché c'è poca religione», ha detto Galantino. «Il discorso religioso evidentemente
 suppone che ci sia conoscenza, responsabilitàe quindi etica»; bisogna «sapere scegliere le notizie, avere
 elementi critici di informazione che portano alla responsabilitàe all'etica. Quando la Chiesa interviene fa
 quello che dovrebbe fare ciascuno di noi, cioè restituisce».E ricorda un dato: «Le 61 persone più ricche al
 mondo hanno le ricchezze corrispondenti alla metà della popolazione mondiale, tre miliardie mezzo. Sono
 dei numeri, ma dietro questi numeri ci sono persone con un volto, esattamente come quelle che annegano
 per attraversare il Mediterraneo. L'economia digitale ha anche questa potenzialità, di aiutarea comprendere
 queste disparità,a scoprire da dove arrivano queste persone, da Paesi che sono stati sfruttati da altri
 Paesie potenze, che una volta sfruttate sono andate viee oggi dicono ai rifugiati: non vi conosciamo». Una
 stretta correlazione unisce quindi l'era digitale con un mondo dove le fratture si consumano trai sempre più
 ricchiei sempre più poveri. La politica quindiè chiamataa «governare» il processo, cheè enorme. Anche dal
 punto vista strettamente fiscale, vista la crescita esponenziale del comparto. Dice Boccia: «Al momento la
 base imponibile dell'economia digitale che sfugge all'erario in Italiaè paria 30 miliardi. Edè una stima più per
 difetto che per eccesso».I settori trainanti sono il turismo, l'informatica, l'abbigliamentoe l'editoria: uno
 spaccato quindi di crescente ricorso all'e-commercee alla moneta elettronica, dati che in qualche modo
 stridono con un altro dato: nel Paese ci sono ben 10 milioni di persone " unbanked ", cioè che non hanno
 mai avuto né un conto corrente in banca, né postale. Per Boccia- che dal 2013 si fa promotore di una
 legislazione fiscale nel comparto del web- dopo l'approvazione della manovra si deve utilizzare «questo
 ultimo miglio di legislatura, che terminerà nel 2018 per una regolazione fiscale, comeè stato fatto per la
 musica digitale. Siamo dentro una straordinaria rivoluzione del capitalismo moderno. C'è una
 concentrazione di ricchezza in alcune parti del mondo, ci sono aziende che guadagnano tantoe aziende
 che chiudono, il gettito fiscale va giù anche laddove il Pil cresce: la politica deve regolare questi fenomeni. Il
 mondoè meno uguale, ci sono molte più opportunitàe la politica pare non sia interessataa regolarei
 fenomeni socialie invece con la Chiesa c'è un dialogo molto proficuo basato sulla sostanzae sui numeri.E
 quando si parla di eticae equità non ci può che ritrovare d'accordo».E la Chiesa dialoga, sapendo che in
 questa fase storica il suo compitoè sempre quello di essere vicinaa chi soffre, rifugiati in testa. E infatti
 Galantino ha ricordato che la Cei ha destinato 2,2 milioni, dai fondi dell'8xmille, per garantire un anno di
 affittoa 700 famiglie di profughi iracheni accolti in Giordania. Nell'ambito dei progetto dei "corridoi
 umanitari", la Cei con la Comunità di Sant'Egidio accoglierà a breve in Italia circa 500 persone dall'Eritrea.

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 Il credito
 Assolti gli ex vertici di Banca Etruria non ostacolarono l'attività di
 vigilanza
 Il Procuratore di Arezzo avverte: su bancarotta e truffa le altre indagini non si fermeranno
 FABIO TONACCI

 AREZZO. Dice il procuratore di Arezzo Roberto Rossi che questa sentenza di assoluzione «non c'entra
 niente con le inchieste per bancarotta e truffa», e che «non avrà alcun riflesso sulle altre indagini su Banca
 Etruria che riguardano i danni subiti dagli obbligazionisti e dai risparmiatori». Formalmente è così. Ogni
 processo ha la sua storia, il suo sviluppo, il suo esito.
  Non sfugge però che due degli imputati assolti ieri, l'ex presidente del Cda Giuseppe Fornasari e l'ex
 direttore generale Luca Bronchi, considerati dai magistrati tra i principali artefici del dissesto della Popolare
 aretina, potranno affrontare eventuali nuovi giudizi con una sentenza favorevole in tasca, per quanto di
 primo grado. Non è poco. La decisione del gup Annamaria Loprete scuote le fondamenta dell'impianto
 d'accusa sinora sostenuto contro gli ex manager, senza però farlo crollare.
  Impone anche una riscrittura del passato di Banca Etruria e del ruolo giocato da Bankitalia e Consob. Tra il
 2012 e il 2013 non ci fu alcun ostacolo alla vigilanza, dunque. Ai tre imputati (Fornasari, Bronchi e un
 direttore centrale ancora in servizio nella Nuova Etruria, David Canestri) erano contestate due cose. La
 prima. Aver concesso crediti per 10,2 milioni di euro al consorzio di imprese che ha acquistato la "Palazzo
 della Fonte", società che inglobava gran parte del patrimonio immobiliare di Etruria, senza comunicarlo agli
 ispettori della Banca d'Italia e fornendo documentazione lacunosa. «Il fatto non sussiste», si legge nel
 dispositivo della sentenza emessa ieri. «L'operazione fu fatta in trasparenza, oltretutto gli ispettori di
 Bankitalia erano fisicamente presenti nella sede centrale di Etruria, perché stavano conducendo una
 ispezione», spiega l'avvocato Antonio D'Avirro, difensore di Fornasari. La seconda contestazione agli ex
 manager era più tecnica, e più grave. Secondo l'accusa, i tre imputati avevano volontariamente classificato
 come crediti in bonis (dunque facilmente recuperabili) prestiti che in realtà erano in sofferenza o incagliati.
 Tant'è che nel bilancio 2012 la Bankitalia chiese di rettificare 205 milioni di euro, in quello del 2013 altri 260
 milioni. L'assunto di base di Palazzo Koch, diventato l'architrave dell'inchiesta per ostacolo alla vigilanza,
 era che la rappresentazione errata dei conti e della liquidità di Etruria avesse indotto Bankitalia a
 pretendere un aumento di capitale di soli 100 milioni di euro invece della cifra congrua che avrebbe potuto
 forse salvare la Popolare.
  Tant'è che Bankitalia si è costituita parte civile, chiedendo 320 mila euro di risarcimento danni. La
 sentenza di ieri ha azzerato tutto. «Il fatto non costituisce reato», scrive il gup, usando la formula con cui si
 indica l'assenza del dolo, della volontarietà. «I parametri di valutazione dei crediti sono cambiati durante la
 previsione e la scrittura dei bilanci, quindi i vecchi manager non possono essere giudicati colpevoli»,
 aggiunge Antonio Bonacci, legale di Bronchi.
  L'indagine del procuratore Rossi per questo filone si è basata unicamente sulle carte che la Banca d'Italia
 gli ha inviato all'inizio del 2014: la relazione ispettiva del 2013 (nella quale già si ipotizzava l'ostacolo alla
 vigilanza) e i verbali di testimonianza di uno degli ispettori di Palazzo Koch. L'inchiesta è nata così. Si è
 arrivati a processo. Ma con la scelta del rito abbreviato l'ispettore di Bankitalia non ha potuto mettere piede
 in aula per sostenere e contestualizzare ciò che aveva segnalato, quindi il giudice ha deciso in base solo ai
 documenti che aveva davanti. E ha assolto. La procura di Arezzo annuncia che farà ricorso in appello,
 quando leggerà le motivazioni della sentenza. Dalle quali si capirà anche quanto la narrazione delle
 disavventure recenti dell'Etruria vada riscritta.
 LE TAPPE L'ISPEZIONE DI BANKITALIA L'indagine per ostacolo alla vigilanza è nata dalla relazione degli
 ispettori di Bankitalia, inviata ai pm di Arezzo nel 2014 IL RINVIO A GIUDIZIO A metà del 2015 il rinvio a

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