L'indipendenza della Banca d'Italia dal Governo negli anni Ottanta: cause interne e internazionali

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Studi e Note di Economia, Anno XVI, n. 2-2011, pagg. 133-170                              GruppoMontepaschi

L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo
negli anni Ottanta: cause interne e internazionali
                                   MARiA LUisA MARinELLi*

    The present work aims at reconsidering the progress in the Bank of Italy’s
    independence from Italian Government during the 1980s in the light of incon-
    sistency of anti-inflationary policy, of possible strategic games between the
    two main authorities, of attempts of restoring public finance, of European
    commitments (i.e. EMS and EMU) and of the international financial liberali-
    zation advance. The institutional reforms carried out during those years do
    not appear to respond to the unique anti-inflationary goal. The collaboration
    between Bank of Italy and Treasury, never finished after the “divorce”, does
    not mean that Bank of Italy and Government jointly decide policy. This sepa-
    ration becomes clear since the tree-year plans of the early 1980s and since
    the obsolescence of Domestic Total Credit goal. Policy changes its philosophy
    in 1980s: from aids directed to improving the performance of economic sec-
    tors, it moves towards creating incentives for virtuous behaviours which were
    not considered spontaneous. In this context international agreements fostered
    these incentives. The paper finally stressed the unawareness by both public
    authorities and public opinions of consequences deriving from Maastricht
    Treaty.
                                                                 (J.E.L.: E61, E42)

1. Introduzione
   Com’è noto, in Europa il processo di indipendenza delle banche centrali
(BC) dai rispettivi governi si è accompagnato al processo di unificazione
monetaria, sino al punto in cui il secondo, comprendendo necessariamente il
primo, ne ha recepito la versione più forte e gli ha affiancato vincoli fiscali,
non da tutti ritenuti necessari. in italia l’autonomia della Banca d’italia (Bi)

* Articolo approvato nel mese di luglio 2010.
L’autrice ringrazia la Fondazione Cassa di risparmio di Lucca per aver finanziato la ricerca intitolata
“Dalla crisi petrolifera a Maastricht. Le istituzioni nazionali e locali fra conflitti di strategie e condivisio-
ne di obiettivi”, nell’ambito della quale è inserito il presente lavoro. Ringrazia altresì tutti i partecipanti al
gruppo, e in particolare A. Binotti ed E. Ghiani, per i commenti ricevuti durante la stesura del lavoro.
** Professore associato di Politica economica nell’Università di Pisa. E-mail: mlmarin@ec.unipi.it.
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si fa partire dal 19811, anno del “divorzio” con il Tesoro e della svolta di poli-
tica monetaria, dunque prima del progetto monetario europeo (Delors, aprile
1989), ma subito dopo gli accordi di cambio dello sME. La letteratura eco-
nomica internazionale che giustificava la separazione delle competenze tra
l’autorità monetaria e quella fiscale mirava al superamento degli alti tassi di
inflazione e di indebitamento pubblico ereditati dagli anni settanta in molti
Paesi occidentali.
    Una tesi, maturata ex-post, è stata quella di considerare la delega di pote-
ri da parte del Governo alla BC, prima, e all’Europa, poi, come una strategia
per “legarsi le mani” ai fini del perseguimento di politiche antinflazionistiche
drastiche altrimenti non attuabili, perché non credibili2. Questa tesi si con-
centra sui risultati macroeconomici delle politiche, condotte da istituzioni
con funzioni obiettivo diverse, senza considerare i costi che sarebbero deri-
vati dalla separazione delle competenze3. L’autonomia reclamata dalla BC in
italia sembrava non riguardasse tanto la facoltà di decidere il tenore della
politica monetaria, quanto il pieno uso degli strumenti e, come vedremo, il
loro assetto operativo. Ciò avrebbe peraltro inficiato (in diversa misura) la
sovranità monetaria dello stato e comportato la perdita dei guadagni da
“signoraggio”, piuttosto forte in un Paese con alto debito pubblico come
l’italia. Una teoria positiva della separazione dei due poteri ci dovrebbe dun-
que spiegare perché i governi sarebbero stati disposti ad accettare la perdita
della sovranità monetaria. Forse i risultati ottenibili in termini di obiettivi
sono stati ritenuti superiori ai costi permanenti per il Governo e lo hanno
indotto ad accettare questa privazione4. non è chiaro se in italia ci fosse una

1 in questo lavoro adotteremo un’accezione ristretta del concetto di autonomia della banca centrale, limi-
tata ai suoi rapporti con il governo e alle sfere della politica monetaria e valutaria. La teoria del central
banking offre un esame più completo ed articolato di tale concetto, coinvolgendo la sfera giuridica, poli-
tologica e sociologica, oltre che quella economica, per il quale si rimanda alla raccolta di ottimi saggi in
Masciandaro e Ristuccia (a cura di) (1988). siamo soprattutto consapevoli che gli interventi sulla struttu-
ra del sistema bancario e finanziario della BC (compresa l’attività di vigilanza) giochino un ruolo fonda-
mentale nella scelta degli strumenti di condotta della politica monetaria e nel suo rapporto con il governo.
Per l’economia del presente lavoro questi verranno trascurati.
2 Più precisamente, l’accordo internazionale costituirebbe un commitment per una politica monetaria otti-
ma, ma altrimenti non realizzabile per la sua incoerenza temporale, mentre l’attribuzione della politica
monetaria ad una banca centrale conservatrice è legata all’ipotesi che la sua funzione obiettivo assegni
maggior peso al costo inflazionistico rispetto a quello assegnatogli dal governo.
3 Come è noto, per Rogoff (1985) il governo farebbe bene a delegare la funzione monetaria ad una Banca
centrale conservatrice poiché, con essa, i risultati di equilibrio di lungo periodo abbassano il bias infla-
zionistico senza nuocere al pieno impiego, e dunque sono migliori. Per quanto riguarda la stabilizzazione
del reddito nel breve periodo, Rogoff peraltro sottolinea la perdita di benessere nel caso di shocks da offer-
ta.
4 C’è stata discussione circa la razionalità di comportamento del governo. Per alcuni esso, pur conoscen-
do i risultati di lungo periodo di una politica antinflazionistica, sarebbe indotto ad incamerare i guadagni
dell’inflazione a sorpresa dal suo orizzonte temporale di breve (comportamento temporalmente contrad-
dittorio). Per altri il suo operato, al di là dei suoi propositi, sarebbe determinato da lobbies interne che
mirano a obiettivi differenti. Ma allora chi rappresenta in realtà il governo?
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vera consapevolezza dei guadagni e delle perdite di tale separazione.
    Un altro tipo di letteratura, allora prevalente, anziché concentrarsi sulle
funzioni obiettivo delle diverse autorità e sulle performances macroecono-
miche, ha considerato i costi e i condizionamenti che l’uso di un certo stru-
mento da parte di una autorità comporta sui bilanci dell’altra. Uscendo dal-
l’esperienza dell’economia finanziariamente chiusa degli anni settanta, in
italia si consideravano ancora i due strumenti: tasso di interesse e deficit pub-
blico come altamente interconnessi e la letteratura economica era fortemente
interessata ai loro rapporti. Prima del divorzio, il finanziamento monetario
del Tesoro comportava rigidità sul bilancio della BC e sulle manovre di poli-
tica monetaria a cui andavano però contrapposti i guadagni, in termini di
finanziamento agevolato, per il disavanzo pubblico. Una tesi, del tutto italia-
na, ha considerato i maggiori costi che sarebbero derivati allo stato dal divor-
zio come una strategia per indurre il risanamento finanziario pubblico: più
costi, più consapevolezza del debito, più risanamento.
    Come sono andati i fatti? sappiamo che negli anni Ottanta sono andati
diversamente da quanto sperato e che la crescita dei deficit e del debito pub-
blico, pur riflettendo maggiormente le responsabilità di natura finanziaria
(maggiori oneri sul prestito), può ancora una volta essere imputata principal-
mente alle decisioni di bilancio, non corrette in funzione dei maggiori costi
del finanziamento esterno.
    Gli anni Ottanta furono caratterizzati, un po’ ovunque nel mondo, da poli-
tiche macroeconomiche contrapposte: fiscali eccessivamente espansive e
monetarie eccessivamente restrittive, che nordhaus spiega come il risultato
della mancata cooperazione tra due autorità, divenute indipendenti, che per-
seguono obiettivi diversi in termini di livelli e di importanza relativa. Ci si
può allora chiedere se in italia negli anni Ottanta si potesse ritenere già com-
pletato il processo di autonomia tra le due istituzioni, tanto da attribuire ad
esse obiettivi ultimi differenziati, e fino a che punto si è davvero spinta la non
cooperazione tra le due istituzioni dopo il divorzio.
    Una ultima tesi da ripercorrere è che le riforme degli anni Ottanta, che
hanno coinvolto Bi e Tesoro, abbiano riguardato soprattutto la liberalizzazio-
ne dei mercati finanziari e il modus operandi della politica monetaria, sotto
la spinta della internazionalizzazione e della forte innovazione finanziaria;
esse sarebbero state introdotte comunque (ecco perché sono state accettate da
entrambi i protagonisti). in questa ottica il divorzio avrebbe rappresentato il
primo atto di un processo di abbattimento di vincoli amministrativi verso una
strategia di politica monetaria orientata al mercato e di una politica di finan-
ziamento del debito, ugualmente liberalizzata.
    Questo lavoro non intende affrontare le conseguenze della separazione tra
le due autorità. Esso si limiterà a chiarire, lungo gli stadi del percorso di indi-
pendenza, le argomentazioni a favore o contro le tesi appena presentate e a
rispondere alle seguenti domande:
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a) Quali sono stati, tra i motivi interni e internazionali, quelli più importanti
nel processo di separazione tra le due autorità? Tali motivi hanno giocato di
più sul lato degli obiettivi o su quello del condizionamento degli strumenti?
b) Quale è stata la consapevolezza dei costi, in termini di minore coordina-
mento e signoraggio, che sarebbero derivati al Governo?
c) Quale concetto di separazione e di cooperazione tra autorità si andava
maturando?
    il lavoro partirà analizzando diffusamente il contesto di politica economi-
ca interno e internazionale a cavallo tra i due decenni 1970-80 (par. 2), intra-
vedendo un programma di intervento condiviso tra Banca d’italia (Bi) e
Governo, che ebbe però subito a decadere (par. 3). Riconsidererà successiva-
mente il “divorzio” come processo del tutto consensuale tra Banca d’italia
(Bi) e Tesoro (par. 4). Ai rapporti tra politica monetaria e politica fiscale sarà
dedicato il par. 5, sia dal punto di vista degli effetti presunti che tale combi-
nazione ebbe sul sistema economico, sia dal punto di vista strategico nel rap-
porto tra le due autorità. infine il lavoro considererà la ratifica del trattato di
Maastricht, cercando di distinguere sempre responsabilità e consapevolezza
da parte dell’uno e dell’altro attore istituzionale, nonché della società civile.
in particolare vuole chiedersi se la generale indifferenza suscitata dal trattato
nel nostro Paese sia stata strategicamente voluta per superare gli annosi
impasse interni o sia stata determinata dallo scarso grado di consapevolezza
del cambiamento in corso da parte delle stesse istituzioni.

2. La BI tra inflazione, distribuzione del reddito e politiche strutturali
    2.1 La fine del governatorato Baffi e l’adesione allo SME
    Dopo l’era Carli, il governatore Baffi (agosto 1975-ottobre 1979) inizia a
reclamare una vera autonomia della Banca centrale dal potere politico, depre-
cando le situazioni in cui, nella debolezza di una delle due istituzioni, preva-
lesse o la Banca o la politica. nel suo schema, recepito più tardi dalla lette-
ratura economica, autonomia avrebbe dovuto significare responsabilità della
BC per un solo obiettivo: la stabilità dei prezzi5. Contemporaneamente, però,
la concezione “conflittuale” dell’inflazione italiana, innescata dagli shock
esogeni, portava Baffi a ritenere difficile una terapia monetaria intrapresa
unilateralmente dall’istituto di emissione. “A Baffi, sebbene di spirito libera-
le e con forte orientamento al mercato, toccò in sorte di fare o di consigliare
il ricorso a un gran numero di controlli diretti nel campo valutario come in
quello creditizio”, così afferma il suo più stretto collaboratore, M. sarcinelli,

5 il governatore Baffi svincola gradatamente la politica monetaria dall’obiettivo, sempre perseguito da
Carli, di stimolare gli investimenti attraverso il sostegno dei profitti, convincendosi di dover riportare l’o-
perato di Bi alla lotta contro l’inflazione.
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(1991: 439). Per Baffi i controlli costituivano il male minore di una situazio-
ne eccezionale. i suoi obiettivi di breve periodo divennero la Bilancia delle
Partite Correnti (ampiamente risanata) e la produzione interna. La stabilizza-
zione dei prezzi fu relegata al più lungo periodo. L’elevata imposta da infla-
zione che gravava sulle attività liquide (dovuta ai tassi di interesse nominali
non sufficientemente alti) avvantaggiava lo stato, ma anche le imprese alta-
mente indebitate, comportando una redistribuzione del reddito che andava
solo a danno dei detentori di attività finanziarie6, i quali non davano peraltro
segnali di insofferenza. La consapevolezza dei gravi costi in termini di pro-
duzione e di distribuzione del reddito che, al contrario, una manovra di poli-
tica monetaria restrittiva avrebbe comportato su di una economia “rigida”
come quella italiana, fece procedere Baffi con estrema prudenza in questa
direzione; egli si limitò a sollecitare quei cambiamenti strutturali che avreb-
bero ridotto gli incentivi alla domanda inflazionistica espressa da diversi
gruppi sociali7. sollecitò la modifica del meccanismo della scala mobile,
cercò di sviluppare il mercato monetario e finanziario (cambiando le aste dei
BOT e introducendo i CCT) e diede grande impulso all’attività di vigilanza
per superare l’approccio discrezionale e per aumentare la concorrenzialità dei
mercati. sollecitò anche la revisione dei meccanismi per le nomine bancarie.
insomma, pur in un periodo di controllo monetario attuato attraverso il con-
trollo del credito e gli altri interventi diretti sugli attivi bancari, Baffi inizia-
va a porre le basi necessarie per procedere ad una futura liberalizzazione.
L’autonomia della Banca centrale e l’affermazione dei meccanismi di merca-
to non potevano che procedere insieme.
    in questo contesto, la scelta più ricca di conseguenze antinflazionistiche
fu fatta dai policy-makers italiani con l’adesione dell’italia all’accordo dello
sME, nel dicembre 1978. il dibattito allora in corso si chiedeva se le politi-
che interne per la stabilizzazione monetaria dovessero precedere o meno il
vincolo esterno. Baffi (a differenza del suo successore Ciampi) non riteneva
che tale disciplina potesse essere imposta dal cambio. Pur non contrario ai
cambi fissi, non accettò lo sME con slancio, essendo scettico circa la capa-
cità della politica italiana di trasformare l’impegno internazionale in com-
portamenti coerenti all’interno e temendo gli effetti dell’apprezzamento reale
del cambio che ne sarebbero seguiti (sarcinelli 1991: 450; Pittaluga 2004:
142). Accettata la decisione governativa, egli ottenne dai partners europei di
entrare con una lira deprezzata ed una banda di oscillazione larga, condizio-

6 né il tasso di risparmio, come affermava lo stesso Baffi, sembrava influenzato dai bassi (spesso negati-
vi) tassi di interesse reali.
7 Come sostenuto da Pittaluga, in italia c’era una coalizione politico-sociale che sosteneva l’inflazione.
Con essa, le imprese vedevano ridursi l’alto indebitamento e, grazie al deprezzamento del cambio, evita-
vano di perdere quote internazionali di mercato. Anche le banche avevano profitti prociclici. solo i rispar-
miatori avrebbero potuto ostacolare l’inflazione. Cfr. Pittaluga 2002: 54-64.
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ni che garantirono all’italia una transizione dolce.
    il Governo, anch’esso restìo ad entrare fin dall’inizio dell’accordo, cam-
biò idea all’improvviso. sembrava che esso si apprestasse a promuovere quei
cambiamenti strutturali che sarebbero stati necessari per accedere in un
momento successivo. il documento Pandolfi (di cui parleremo nel paragrafo
successivo), intitolato: “Piano 1979-81. Una proposta per lo sviluppo, una
scelta per l’Europa”, intendeva appunto promuovere un modello alternativo
di sviluppo per l’economia italiana, avente come corollario la partecipazione
allo sME. secondo nardozzi, la decisione di entrare venne presa dal
Governo soprattutto in coerenza con la volontà di proseguire nel processo di
unione europea di cui l’italia era stata da sempre fautrice.
    significativi gli interventi di Luigi spaventa e di nino Andreatta, rispetti-
vamente alla Camera e al senato, in occasione dell’approvazione parlamen-
tare all’adesione italiana8. il primo, del tutto contrario per tante ragioni – la
congiuntura internazionale, l’asimmetria che l’accordo monetario manteneva
a favore della Germania, le condizioni ‘irrinunciabili’ all’ingresso richieste
dal Governo italiano e negate – si dichiara in sintonia con il giudizio della
maggior parte dei tecnici, degli economisti e dei politici dell’epoca. spaventa
è ugualmente contrario a lasciare a tale scelta una mera connotazione politi-
ca, che vede nella costrizione esterna un mezzo per indurre la nostra econo-
mia ad adottare i comportamenti necessari per il suo risanamento. serve
infatti all’italia un periodo di adattamento prima di assumere impegni di cam-
bio, perché il risanamento non può essere imposto e non può avvenire senza
consenso. Poiché l’enforcement di una politica economica interna rigorosa
può “essere altrettanto più efficace se viene vissuto come una necessaria pre-
parazione ad una entrata credibile piuttosto che come insostenibile conse-
guenza di una entrata prematura”, come affermato anche da M. Monti
(spaventa 1980: 232).
    n. Andreatta, al contrario, si complimenta con il ministro del Tesoro
Pandolfi che ha trattato l’accordo, richiamando il Piano da esso stesso pre-
sentato per l’economia, ma non ritiene la realizzazione del piano una pre-con-
dizione per l’ingresso nello sME. Al contrario, la stabilizzazione delle gran-
dezze monetarie non è attuabile senza la stabilizzazione del cambio (la logi-
ca va dunque capovolta, Andreatta 1980: 218). nemmeno la politica dei red-
diti, da sola, può servire. Per Andreatta non si può continuare ad eludere il
problema dell’inflazione e a non capire che, senza un cambio relativamente
stabile, l’unico strumento a disposizione rimane una politica dei redditi “sel-
vaggia” e “feroce” (Andreatta 1980: 217). è stata una politica errata quella di

8 L’italia non aderì all’accordo assieme agli altri Paesi il 6 dicembre 1978, ma cambiò idea subito dopo,
in tempo per partire il 1° gennaio 1979. Gli interventi di Andreatta e spaventa si trovano in nardozzi (a
cura di) 1980.
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perseguire l’espansione e proteggere i profitti con i cambi deboli. L’italia ha
accumulato riserve, ma anche importato altra inflazione. è interessante il
cambio di responsabilità contro l’inflazione che Andreatta attribuisce alle
autorità: con l’accordo dello sME i riallineamenti di cambio richiesti sareb-
bero divenuti di competenza e responsabilità del Tesoro, anziché della BC. è
preferibile che sia il ministro del Tesoro ad assumersi pubblicamente le
responsabilità di una gestione inflazionistica che comporta aggiustamenti del
cambio9. nel caso in cui prevalesse il rinvio dell’adesione italiana allo sME,
Andreatta chiede, fin da subito, l’emanazione di provvedimenti di urgenza
che restringano l’area delle indicizzazioni.

    2.2 La complessa strategia della Banca d’Italia negli anni Ottanta
    Dimessosi Baffi per le note vicende giudiziarie10, il governatore Ciampi si
trovò a gestire la seconda crisi petrolifera all’interno del nuovo accordo di
cambio e in concomitanza della svolta monetarista imposta dalla FED di
Volcker (1979-82). Al nuovo governatore è stato riconosciuto un indubbio
cambiamento di rotta nella politica valutaria e monetaria della Bi, ma si è
discusso se esso abbia coinciso con un preciso disegno strategico da parte di
Bi o non piuttosto con un comportamento coerente con le precedenti deci-
sioni, prese dallo stato, di aderire allo sME.
    Ci pare di riconoscere una evoluzione nell’approccio della Banca centra-
le: all’inizio degli anni Ottanta, il quadro di riferimento per una politica
monetaria restrittiva sembra essere lo stesso del decennio precedente: la poli-
tica monetaria non va intrapresa da sola; successivamente, di fronte al buon
andamento dell’economia italiana, la stessa Bi avalla la tesi dell’esistenza di
un suo complesso disegno strategico che avrebbe guidato i comportamenti
dell’istituto, e attribuisce ad esso i meriti dei miglioramenti ottenuti. Questa,
come afferma nardozzi, poteva essere una razionalizzazione ex-post delle
complesse vicende economiche che caratterizzarono quegli anni (nardozzi
1993).
    nella Relazione annuale per il 1980, all’inizio del suo insediamento,
Ciampi parla di statuto della moneta, che chiama in causa attori diversi. La
natura dei mali italiani è essenzialmente reale: “l’inflazione potrebbe essere
piegata, ma urgono misure di contenimento del disavanzo pubblico, di pro-

9 “non è forse preferibile, in questo campo, che sia il Ministro del Tesoro ad assumere pubblicamente le
proprie responsabilità, invece che delegarle tacitamente al dott. Geronzi della Banca d’italia, che negli
ultimi due anni ha svalutato la lira del 10% l’anno?” (Andreatta 1978, 215). il dott. Geronzi, l’operatore
in cambi della Banca d’italia, é un ‘ottimo tecnico’, si affretta a commentare Andreatta.
10 L’avviso di garanzia a P. Baffi e M. sarcinelli viene citato come l’apice delle pressioni esercitate sulla
Bi per attutire la fermezza con cui gestiva la crisi dell’italcasse, del Banco Ambrosiano e della Banca
Privata italiana. L’isolamento politico in cui si venne a trovare l’istituto centrale in tale occasione avreb-
be giustificato i successivi provvedimenti CiCR tesi a limitare le aree di commistione con altri soggetti di
politica economica (De Cecco 1982:304).
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mozione della produttività, di contenimento dei costi” (Considerazioni fina-
li, 1980: 383-384). Egli sottolinea l’alta soglia strutturale dell’inflazione che
ci contraddistingue dagli altri Paesi, su cui influiscono le variazioni delle
ragioni di scambio con l’estero e la dipendenza dalle materie prime importa-
te, gli scompensi tra la composizione della domanda e la struttura della pro-
duzione, l’intensità delle pressioni salariali e la loro coerenza con l’evoluzio-
ne della produttività, gli assetti della finanza pubblica e le modalità di inter-
vento dello stato, i divari territoriali, le indicizzazioni che non ne tengono
conto, ecc. Per quanto riguarda i rapporti tra deficit pubblico e politica mone-
taria, ancora una volta egli sottolinea, così come Pandolfi, non tanto l’im-
possibilità di contenere gli aggregati monetari, quanto l’impossibilità di farlo
senza limitare lo spiazzamento del finanziamento pubblico su quello privato:
“La dimensione dei fabbisogni pubblici (...) e la necessità di limitare lo spiaz-
zamento dell’attività produttiva e di investimento dei privati hanno condotto
alla creazione di un volume di credito e di attività liquide che ha permesso
una crescita del reddito nel quale la componente inflazionistica è stata larga-
mente prevalente” (Ciampi 1980: 241). Occorre dunque che il disavanzo sia
contenuto entro i limiti compatibili con le esigenze dell’accumulazione e coe-
renti con una politica, nei fatti, antinflazionistica. Dopo un anno dallo sME,
comportamenti coerenti con quella adesione non sono ancora stati presi.
Occorrono misure plurime e coordinate ma, da parte sua, la Banca centrale
manterrà una linea di severità monetaria (Ciampi 1980: 247). Le politiche
monetarie e valutarie non debbono svolgere funzioni di supplenza, ma deb-
bono mantenere fede agli accordi presi dal Paese (sME); contemporanea-
mente, la politica monetaria deve superare il criterio dello stop and go per
riferirsi ad orizzonti sufficientemente estesi e a quantità prefissate, il che
comporta l’accettazione di movimenti più ampi dei tassi di interesse. Qui si
nota l’iniziale influenza delle nuove linee di intervento della politica mone-
taria messa in atto negli s.U.
    Troviamo dunque inizialmente la stessa diagnosi di Baffi nella interpreta-
zione e nella cura dell’inflazione, ma più determinazione nell’applicazione
della politica monetaria restrittiva, grazie agli accordi sME e alla politica
Volcker. il mantenimento del cambio, anziché passare alle responsabilità di
medio periodo del Governo (come auspicato da Andreatta), viene ancora
attribuito alle capacità della Bi e del sistema bancario ad essa rispondente
(attraverso l’indebitamento esterno).

11 il processo inflazionistico degli anni settanta, teso a mantenere profitti, investimenti e produzione,
aveva infatti impedito quei mutamenti nella struttura produttiva e nelle tecnologie, che sarebbero stati
necessari in conseguenza dell’aumento dei prezzi delle materie prime. Esso aveva inoltre favorito la cre-
scita dei settori protetti dalla concorrenza internazionale e la nascita di imprese dai profitti facili. Le gran-
di imprese avevano avuto guadagni gratuiti dalla svalutazione e dal basso costo dell’indebitamento. i set-
tori maturi erano stati incentivati.
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    nel corso degli anni, il disegno di Bi diventa più ambizioso: gli strumen-
ti di politica monetaria e valutaria, nonché la regolamentazione del sistema
creditizio, diversamente manovrati rispetto agli anni settanta, avrebbero
spinto ad un ammodernamento del sistema economico sia reale che finanzia-
rio11. Per Ciampi, dunque, a differenza che per Baffi, il rafforzamento del
cambio avrebbe condotto ad un circolo virtuoso nei processi di rientro dal-
l’inflazione e di ristrutturazione industriale. La nuova politica valutaria e
quella monetaria andavano a braccetto nella nuova strategia: il cambio fisso,
oltre a contribuire direttamente al contenimento dell’inflazione, avrebbe sti-
molato il meccanismo allocativo della concorrenza, avrebbe attivato reazioni
e comportamenti fautori essi stessi di una maggiore stabilità dei prezzi.
Anche l’alto costo del denaro avrebbe stimolato le imprese ad un migliore
utilizzo dei fattori produttivi, ad una maggior resistenza di fronte alla spinta
dei costi del lavoro. L’ammodernamento avrebbe dovuto insomma riguarda-
re la struttura dei prezzi relativi, l’allocazione delle risorse, la composizione
settoriale dell’industria e la sua dimensione aziendale (Bonaiuti 1993). Anche
il sistema finanziario andava adeguato ai nuovi compiti. C’era da superare il
sistema amministrativo insito nell’allocazione del credito agevolato, che
aveva dominato negli anni sessanta e settanta, col rafforzamento dell’im-
prenditorialità bancaria e della concorrenza nel settore. il tutto sarebbe dovu-
to avvenire all’insegna del principio di separatezza tra sistema bancario e
sistema industriale e, contemporaneamente, di superiorità del giudizio di
merito di credito da parte delle banche rispetto a quello attribuito dai merca-
ti finanziari. i provvedimenti strutturali presi dalla Bi sul sistema finanziario
furono molti e avvennero all’interno del generale fenomeno di disinterme-
diazione bancaria attuato in tutto il mondo ad opera dei mercati12.
    secondo nardozzi (1983: 14-15) le ricerche interne a Bi che ispirano tale
disegno riprenderebbero la tesi delle crisi da ‘sproporzione’di Marx. “La
stagflazione dipenderebbe dalle difficoltà che incontra la struttura dell’offer-
ta ad adeguarsi al nuovo sistema dei prezzi relativi, secondo un modello ‘ori-
ginale’ e … ‘accademico’ per cultura ed assenza di pregiudizi”. Ci pare di
poter aggiungere che, dopo il periodo di problemi valutari contingenti e tem-
pestosi degli anni settanta, la Bi torna a riflettere a tutto tondo sulle caratte-
ristiche strutturali dell’economia italiana, e sulle sue distorsioni, così come
era già solita fare negli anni sessanta.

12 è stata superata la distinzione giuridica tra i vari intermediari, abolito il divieto di costituzione di nuovi
sportelli, stimolato il miglioramento gestionale delle banche, la differenziazione delle passività, rafforza-
to il mercato monetario. i gruppi bancari polifunzionali suggeriti da Bi avrebbero rappresentato una sin-
tesi tra il vecchio sistema della specializzazione e quello della banca universale. Anche l’allocazione delle
risorse finanziarie richiedeva una spinta riformatrice verso lo sviluppo dei mercati e una maggiore con-
correnza nei servizi bancari.
142                           Studi e Note di Economia, Anno XVI, n. 2-2011

    Ma gli obiettivi di parte reale del disegno erano coerenti con gli strumen-
ti a disposizione della sola Banca centrale?
    La fiducia nel nuovo regime valutario porta addirittura alcuni economisti
(minoritari) a ricredersi sulla bontà della politica passata, ritenuta a suo
tempo come ineluttabile13. sintomatico è l’esperimento condotto da
Andreatta e D’Adda14. Usando una versione aggiornata del modello
Prometeia essi conducono una simulazione contro-fattuale sugli anni settanta
sostenendo che il controllo del cambio e alti tassi di interesse reali sarebbero
stati strumenti efficaci e non costosi per la lotta contro l’inflazione.
L’economia italiana sarebbe approdata agli anni Ottanta senza i temuti costi
in termini di reddito e di disoccupazione (la domanda interna sarebbe stata
sostenuta dalla crescita del debito pubblico e della ricchezza privata) e l’e-
quilibrio esterno si sarebbe mantenuto attraverso le importazioni di capitali.
L’esperimento ha fatto discutere sia per il metodo15 sia per l’estrapolazione di
alcune conseguenze che gli autori avrebbero sottovalutato16.
    Kregel sottolinea invece come non vi fosse allora evidenza, né teorica né
empirica, che una politica del cambio forte potesse condurre nella direzione
auspicata dalla Banca, piuttosto che ad una deindustrializzazione come era
già avvenuto negli s.U. e in G.B. i risultati effettivi di tale politica non pote-
vano che dipendere dalla presenza di particolari condizioni economiche inter-
ne ed esterne, che in effetti in italia sono sussistite. L’economia italiana usci-
va da un periodo di eccezionale espansione (1977-80) che aveva fatto cre-
scere profitti, investimenti e aveva posto le premesse per il risanamento. Le
due condizioni estere: realizzazione dello sME e politica restrittiva america-
na, sostennero tale cambio di politica17. non molto diversa è l’analisi di

13 “il coro dei commentatori, sia del mondo accademico sia in quello del giornalismo economico, è stato
unanime nel dare un giudizio positivo alla politica dei cambi che ha costituito lo strumento fondamentale
di aggiustamento dopo la prima crisi petrolifera. si è ritenuto che la Banca centrale abbia operato in una
serie continua di stato di necessità e che non fosse possibile un corso di azione diverso da quello seguito”.
Andreatta e D’Adda 1985: 37-38).
14 “L’ipotesi da verificare è quella degli effetti, sulla prima crisi petrolifera, della adozione degli stessi
strumenti impiegati per affrontare la seconda crisi petrolifera e dei costi che tale strategia avrebbe com-
portato in termini di disoccupazione e riduzione della crescita” (Andreatta e D’Adda 1985: 37).
15 M. salvati critica l’esperimento contro-fattuale, non solo per lo stretto rapporto che intercorre tra equa-
zioni di comportamento del modello e politiche (critica di Lucas), ma anche per il grande cambiamento
del clima politico sociale che ha caratterizzato i due decenni, da cui il regime monetario e di cambio non
può venire separato.
16 in particolare spaventa (1985) dimostra che il sentiero dinamico in cui si sarebbe venuta a trovare l’e-
conomia italiana sarebbe stato del tutto instabile, con disavanzi esteri correnti crescenti, formazione del
debito pubblico sempre più rapida e tassi di interesse reali sempre più elevati. Ciò avrebbe dimostrato
l’impossibilità, per un’economia aperta, di una convivenza prolungata tra una politica monetaria rigorosa
(indirizzata al sostegno del cambio e incurante degli effetti dei tassi reali sull’accumulazione del debito)
e una politica fiscale fissata indipendentemente.
17 Con il dollaro che si apprezzava sul marco, l’italia non poteva che tenersi a metà tra le due valute (come
aveva già fatto nella seconda metà degli anni settanta). Questo rese possibile alle imprese italiane di recu-
perare nell’area del dollaro i mercati persi nell’area europea.
M.L. Marinelli - L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta...         143

Giavazzi e spaventa (1989) che, alla fine degli anni Ottanta, chiudono la
riflessione sulle politiche economiche dei due decenni con un giudizio posi-
tivo per entrambe. Le misure politiche messe in campo dopo gli shock petro-
liferi: inflazione, deprezzamenti del cambio, sussidi alle imprese (questi ulti-
mi finanziati con l’elevato fiscal-drag) non avrebbero semplicemente differi-
to i costi dell’aggiustamento; inoltre la disciplina imposta dallo sME non
avrebbe sortito gli stessi effetti, se praticata in un contesto storico diverso. i
costi della politica deflazionistica degli anni Ottanta furono bassi e gli effet-
ti di stimolo positivi, poiché attuati successivamente alla ripresa dei margini
di profitto, al boom degli investimenti e alla modernizzazione degli impian-
ti, provocati dalla politica precedente e perché accompagnati da altri provve-
dimenti governativi, che agirono sia sulla domanda che sull’offerta18. D’altro
canto, il forte accumulo del debito pubblico di quegli anni non sarebbe stato
la conseguenza delle politiche in questione: esso avrebbe trovato le sue radi-
ci nelle riforme sociali dei primi anni settanta. il profilo temporale delle poli-
tiche è risultato dunque decisivo.
    se il risanamento economico e finanziario auspicato dalle politiche di Bi
sia stato completato o se sia giusto attribuirne la paternità alla sola BC è
un’altra questione. Alcuni sottolineano gli effetti provocati dalla rivalutazio-
ne del cambio reale e dunque da una politica rigorosa del cambio accompa-
gnata da una inflazione interna non ancora in linea con quella degli altri
Paesi. Tale rivalutazione avrebbe imposto una ristrutturazione e un aggiorna-
mento tecnologico all’industria per l’esportazione, ma anche un progressivo
deficit corrente che Bi coprì con importazioni di capitali (Graziani 1991). Per
altri, come già detto, esso è il risultato di politiche globali sostenute da Bi,
Governo, sindacati e Confindustria, nel periodo successivo alla crisi valuta-
ria del 1976, e decise per l’allentamento del vincolo energetico (Kregel 1993,
Giavazzi- spaventa 1989). Alcuni esiti delle politiche sono stati deludenti19:
lo sviluppo settoriale dell’industria prese degli indirizzi non previsti. La sva-
lutazione rispetto al dollaro, che da una parte rese tollerabile il cambio forte
rispetto all’Europa, premiò ancora i settori tradizionali e impedì il salto qua-
litativo auspicato da Bi. Certo è che i processi di ristrutturazione ci furono e

18 Quando le autorità lasciarono apprezzare la lira, i sussidi alle imprese furono sostituiti da sostegni a
favore della razionalizzazione produttiva. il recupero del fiscal drag venne concesso in cambio di mode-
razione salariale. Gli autori reputano che le aspettative deflazionistiche vennero più influenzate soprattut-
to dalla sconfitta del referendum sulla scala mobile e dalla fermezza del governo.
19 A metà degli anni Ottanta l’aggiustamento non era ancora compiuto (deficit agricolo, dipendenza ener-
getica, terziario), il mercato azionario era rilanciato solo dalla grande impresa che aveva usufruito del
declino dei prezzi delle materie prime e del valore del dollaro, delle politiche governative e del migliora-
mento delle relazioni industriali. Ma gli elevati profitti della grande impresa venivano investiti in opera-
zioni finanziarie (acquisizione di altre imprese) e quindi non si traducevano in allargamento della capacità
produttiva. Anche la partecipazione al capitale di enti creditizi veniva a minacciare il criterio della sepa-
ratezza tra banca e industria.
144                    Studi e Note di Economia, Anno XVI, n. 2-2011

portarono ad un aumento dei profitti delle imprese anche al di là delle previ-
sioni, che alimentò il boom di borsa del 1987.
    Una tendenza di grande rilievo, come vedremo meglio in seguito, è che
andava cambiando nel decennio l’approccio di politica economica. Da un
approccio tradizionale e positivo, di miglioramento delle performances del-
l’economia, pur nella mancata condivisione dei comportamenti degli agenti
economici, si passa alla strategia del “bastone”. Quelli che negli anni settanta
potevano essere ritenuti i costi di una politica monetaria e valutaria restritti-
va verranno considerati dalle autorità alla stregua di incentivi, utili all’attiva-
zione di comportamenti virtuosi da parte delle aziende e del pubblico e capa-
ci di stimolare la modernizzazione dell’economia.

3. La breve intesa tra BI e Governo
    Alla fine degli anni settanta e all’inizio degli anni Ottanta, quando il
governatore invocava una riflessione programmatica da parte del Governo e
un complesso di cambiamenti strutturali e comportamentali, l’intesa con il
Governo sembrava finalmente decollare. A cavallo dei due decenni si può
constatare l’esistenza di una grande uniformità di vedute tra le analisi della
Bi di cui abbiamo appena parlato e quella del Governo, enunciata nel Piano
Pandolfi (1979-81). Da esse risultava la necessità e l’urgenza di porre in esse-
re politiche differenziate e coordinate per ridurre l’inflazione italiana in
maniera permanente e senza sacrificare l’occupazione.
    i fattori “strutturali” (settori inefficienti e di rendita) e comportamentali (il
conflitto distributivo tra imprese e sindacati) che allora venivano generica-
mente ricondotti alle caratteristiche dell’offerta, possono spiegare, in chiave
di analisi economica moderna, la presenza in italia di una disoccupazione di
equilibrio non inflazionistico (nAiRU) molto alta e, in mancanza di una sua
accettazione da parte delle autorità, una spirale inflazionistica sempre in
movimento con vincoli esterni allo sviluppo. Gli economisti e le autorità di
politica economica italiani si erano trovati da molto tempo (fin dall’epoca
della programmazione economica) di fronte alla scelta fra manovre congiun-
turali sulla domanda – di stop and go – e manovre programmatiche (di
medio-lungo periodo) sull’offerta per allentare i vincoli strutturali che con-
ducevano appunto il sistema a reagire con sintomi di pieno impiego pur in
presenza di disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata (savona 1983).
nonostante una coscienza politica approfondita dei problemi strutturali che
riguardavano l’economia italiana le politiche, fino agli anni settanta, erano
però state tutte di tipo congiunturale. i piani pluriennali del Governo erano
generalmente falliti per scarsità di consenso politico (Faucci 2008, Pochini
2008). Ma ora le condizioni sembrano diverse: i piani sono meno ambiziosi
e più brevi (triennali, anziché quinquennali). Essi collimano perfettamente
con la visione della BC, probabilmente anche a causa dell’osmosi di tecnici
M.L. Marinelli - L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta...          145

ed economisti creatasi tra le due autorità.
    Per ottenere un riallineamento dell’inflazione ai livelli degli altri Paesi
europei (8%) e un ampliamento della capacità produttiva e della produttività
nazionali, il Piano Pandolfi prevedeva due principali strumenti di intervento,
riguardanti: a) l’evoluzione quantitativa e strutturale della finanza pubblica;
b) l’andamento del costo del lavoro. Una strategia per il risanamento della
finanza pubblica avrebbe dovuto creare spazio per gli investimenti pubblici e
assicurare contemporaneamente le ‘compatibilità finanziarie’ tra pubblico e
privato all’interno del controllo del Credito Totale interno (CTi) allora per-
seguito dalla Bi20. i calcoli presentati erano molto semplici: con un obiettivo
di inflazione ridotta, il finanziamento di entrambi i fabbisogni avrebbe porta-
to ad un rapporto CTi/PiL troppo elevato, oppure il settore pubblico avrebbe
sottratto inesorabilmente fondi al settore privato. Alternativamente, soddisfa-
cendo entrambi i settori e mantenendo il rapporto desiderato CTi/PiL (le
grandezze venivano considerate in termini nominali) l’inflazione sarebbe
salita al 16%. L’unica vera via di uscita doveva essere una politica di bilan-
cio tesa a ridurne il fabbisogno complessivo e a liberare spazi per il finanzia-
mento delle imprese. L’evoluzione della finanza pubblica aveva distorto in
italia la struttura dell’intermediazione finanziaria e imposto la regolazione
dei mercati, senza peraltro aver impedito la formazione di un eccesso di liqui-
dità (combustibile inflazionistico del sistema). Contemporaneamente, il costo
del lavoro avrebbe dovuto essere mantenuto costante nel triennio in termini
reali, con aumenti del salario a semplice compensazione del ‘degrado’ mone-
tario (non si parla di produttività). nuove politiche del lavoro avrebbero
dovuto facilitarne la flessibilità e l’uso efficiente da parte delle imprese
(Pandolfi 1980: 157)21. è impressionante notare come esso sposi del tutto il
punto di vista della BC. Con la gestione Carli, la creazione monetaria era
stata attenta alla distribuzione del reddito tra profitti e salari e, senza essere
totalmente accomodante, aveva consentito di trasferire gli aumenti del costo
del lavoro sui prezzi. Come afferma P. savona (1983), con l’affermarsi del
concetto di CTi le preoccupazioni delle autorità monetarie si sono spostate
dalla distribuzione del reddito al finanziamento del settore privato, quest’ul-

20 il controllo dell’espansione del CTi (definito come somma del “credito interno al settore non statale” e
del “fabbisogno interno al settore statale”) era stato introdotto nel 1974, su richiesta del FMi, in funzione
dell’equilibrio delle partite correnti con l’estero. in realtà, in sede CiPE ( a cui competeva l’individuazio-
ne di obiettivi finali di politica economica e di coordinamento tra politica di bilancio, politica dei redditi
e politica monetaria) veniva stabilito il target del fabbisogno pubblico e approvata la crescita program-
matica della moneta e del credito al settore non statale, compatibili con il CTi. Così, almeno ex-ante, il
CTi fungeva da raccordo tra politica di bilancio e politica monetaria (Cfr. Cotula 1989: 504-505). La pre-
senza di debordi del fabbisogno pubblico dall’obiettivo metteva la Bi nelle condizioni di dover scegliere
se rispettare il CTi o il credito al settore non statale.
21 Tali provvedimenti avrebbero dovuto comportare una riduzione dei salari reali nell’industria dell’1,2 %.
sorprendentemente Andreatta nel suo intervento parlamentare non citava la necessità di intervento sul
deficit pubblico, così sottolineata da Pandolfi!
146                          Studi e Note di Economia, Anno XVI, n. 2-2011

timo calcolato seguendo uno standard di tipo mark-up sul fabbisogno del set-
tore pubblico. Questo faceva nascere un intreccio di reciproca causalità tra
spesa pubblica, creazione monetaria e costo del lavoro, che conduceva all’in-
flazione e alla svalutazione22.
    Dopo il fallimento del piano Pandolfi, nel dicembre 1980 si assiste ad una
svolta, con i Piani a medio termine 1981-83 e 1982-84. Questi non sono più
generali e si concentrano sul lato dell’offerta, a partire da certe condizioni di
bilancio pubblico e di creazione monetaria: la crescita monetaria si ipotizza-
va decelerare del 2% annuo e il finanziamento del settore pubblico rimanere
al 10% del PiL. il Piano La Malfa 1981-83 cercava di liberare le politiche
economiche dai grandi schemi macroeconomici che avevano caratterizzato i
piani precedenti. Ci si accontentava così di migliorare le tendenze spontanee
del mercato, mettendo in atto una serie di interventi settoriali che dovevano
consentire la realizzazione di maggiori investimenti pubblici (miranti a solle-
vare alcuni vincoli, come la dipendenza dall’estero) da finanziarsi attraverso
una riduzione della spesa corrente sul PiL. se il Piano Pandolfi era stato cri-
ticato (dai comunisti) per la mancanza di coordinamento delle politiche di
settore con gli obiettivi macroeconomici generali, il nuovo piano sembrava
presentare il difetto opposto, vale a dire la mancanza di obiettivi generali di
contesto. nel tentativo di migliorare il sostegno politico esso limitava il pro-
prio intervento alla composizione della spesa pubblica e spostava l’ottica dal
controllo della domanda – lasciata implicitamente alla BC – alle politiche
intese a sviluppare l’offerta (seguendo gli indirizzi internazionali dell’OCsE
e della CEE) (Magnani 1983). Esso presumeva che gli operatori di tutti i mer-
cati (oltre a quello del lavoro) potessero essere interessati ad una politica di
sviluppo nella disinflazione. A parte la mancanza degli auspicati comporta-
menti di mercato, le politiche programmatorie non si poterono attuare per il
semplice motivo che il fabbisogno pubblico procedeva molto al di sopra della
cifra programmata del 10% (13,4, 15,2 e 17% fino al 1983)23.
    Gli obiettivi del Governo diventavano dunque meno inclusivi (generali) e
più specifici, ma ugualmente difficili da realizzare. sfumata la realizzazione
di un intervento programmatorio generale e coordinato tra Bi, Governo e
forze sociali (sindacali), la politica di controllo della moneta e del cambio
aveva acquistato una legittimazione che prima nessuno le avrebbe attribuito.
L’impegno per lo sME non sembrava ricadere sul comportamento pubblico,
come auspicato inizialmente da Andreatta.

22 P. savona, uscito dal servizio studi della Banca d’italia e stretto collaboratore di Carli, si trovava al
Ministero del Bilancio con G. La Malfa, come presidente del C.T.s. della Programmazione economica.
23 La tesi di savona è peraltro che le autorità di politica economica in italia non sono mai state, per con-
dizioni interne e internazionali sovrane dei propri strumenti e che quindi la politica economica degli anni
Ottanta sarebbe dovuta inevitabilmente passare attraverso il recupero di tale sovranità. nella seconda parte
del decennio si sarebbe potuto procedere al governo dello sviluppo e delle strutture economiche, per il
quale sarebbero maturate condizioni demografiche e politiche favorevoli.
M.L. Marinelli - L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta...        147

4. Il “divorzio consensuale” con il Tesoro
    nel luglio 1981, come è noto, la Bi si liberò dall’obbligo di acquistare il
debito pubblico invenduto alle aste del Tesoro, al prezzo base precedente-
mente concordato con esso. Come vedremo, il provvedimento comportò un
“divorzio” tra le due autorità del tutto consensuale e realizzato gradatamente
nel tempo. Per la prima volta nella storia politica italiana, ai tre principali
dicasteri economici: Finanze, Tesoro e Bilancio erano preposti tre economi-
sti, rispettivamente: F. Reviglio, B. Andreatta24, G. La Malfa (quest’ultimo,
in precedenza, al servizio studi di Bi), che presumibilmente sapevano a cosa
il Governo sarebbe andato incontro. il divorzio avrebbe privato il Tesoro dal
sussidio derivante dai più bassi tassi di aggiudicazione in asta, ottenuti grazie
all’intervento della Banca centrale, ma anche di una parte del finanziamento
in base monetaria, che riduceva la sua necessità di indebitamento esterno.
Esso, si pensava, avrebbe attribuito la responsabilità politica per i livelli dei
tassi di interesse a lungo termine al Tesoro. D’altro lato, la BC avrebbe potu-
to migliorare il suo controllo sulla base monetaria e sulla liquidità bancaria.
Essa poteva però continuare ad intervenire in asta se lo avesse ritenuto coe-
rente sia con gli obiettivi di politica monetaria sia con gli obiettivi economi-
ci generali del Governo.
    Rispetto alla politica monetaria, il periodo in cui si realizza il divorzio tra
Bi e Tesoro è significativo sotto diversi punti di vista: sia per il cambiamen-
to di indirizzo assunto dalla politica di cu abbiamo già parlato, sia per la ricer-
ca da parte dell’istituto di emissione di nuove procedure operative; sia per
l’intenzione di addivenire ad una maggior separazione dei ruoli rispetto al
Tesoro. La politica monetaria, fino ad allora impostata su meccanismi ammi-
nistrativi, stava perdendo di efficacia e richiedeva una svolta verso strumen-
ti indiretti o di mercato. i controlli diretti sul credito venivano in parte aggi-
rati dalla rapida innovazione finanziaria; il crescente fabbisogno pubblico
sacrificava quello privato, come abbiamo già osservato; l’allocazione del cre-
dito da parte delle banche veniva distorta e la loro efficacia operativa ridotta.
Così, il divorzio può essere letto o come strumento per il passaggio ad una
politica monetaria restrittiva o come un passo verso nuovi metodi di control-
lo monetario nonché verso una maggior indipendenza della BC. nello stesso
periodo si realizzano anche altri provvedimenti degni di essere ricordati,
quali la richiesta di anticipazione straordinaria al Parlamento del dicembre
1982, l’abbandono del massimale sugli impieghi del luglio 1983, l’istituzio-
ne delle aste competitive dei BOT nel maggio 1983, che dànno ragione di
tutte le trasformazioni in atto.

24 in un recente convegno di Bi in memoria di B. Andreatta, la figura del ministro-economista è stata giu-
dicata propositiva e decisiva in occasione del divorzio attuato in piena sintonia con il governatore Ciampi
(cfr. Draghi 2008).
148                           Studi e Note di Economia, Anno XVI, n. 2-2011

    è utile richiamare il contesto internazionale e interno in cui si realizzò il
divorzio. nella seconda metà del 1979, la politica monetaria statunitense per
contenere l’inflazione passa a perseguire un obiettivo intermedio monetario
attraverso lo stretto controllo della Base monetaria (esperimento monetarista)
causando un rapido innalzamento tanto dei tassi di interesse a breve quanto
dei tassi a lungo termine e una loro altissima volatilità. in italia, a causa del
2° shock petrolifero e della ripresa della domanda interna, l’inflazione era
saltata al 22% e le partite correnti presentavano un deficit pari al 4% del PiL.
il fabbisogno del settore pubblico, dopo un periodo di stasi, tornava a salire
nel 1980 in maniera incontrollabile, restringendo la quota del CTi destinata
al settore privato (30%). La politica monetaria diventava veramente restritti-
va solo nel 1981, attraverso il rafforzamento dei massimali, l’incremento dei
tassi, che per la prima volta salivano al di sopra dell’inflazione, e l’introdu-
zione del deposito previo sugli acquisti di valuta.
    Vale la pena ricordare che la legge abrogata dal divorzio era stata intro-
dotta nel 1975, non tanto per favorire il Tesoro, quanto per creare (finalmen-
te! avrebbe detto il governatore uscente Carli), un mercato monetario al ser-
vizio dei nuovi metodi di politica monetaria. Era sostanzialmente la Bi che
determinava i tassi sui BOT25. Ma, come successe anche negli stati Uniti,
l’inflazione aveva minato l’efficacia del controllo dei tassi da parte delle BC,
poiché questi venivano aggiustati in ritardo e troppo poco rispetto alla cre-
scita dei prezzi (indipendentemente dall’ammontare del finanziamento pub-
blico) e si sentiva ormai l’esigenza di sperimentare le reiterate proposte
monetariste di controllo della moneta.
    nell’assetto istituzionale italiano la semplice gestione della tesoreria dello
stato presso la Bi creava la necessità di un continuo intervento da parte della
Banca e di uno stretto coordinamento tra le due autorità; le difficoltà ovvia-
mente crebbero con la crescita del fabbisogno finanziario dello stato. il
Tesoro poteva spendere sopra le proprie entrate utilizzando un “diritto di sco-
perto” sul conto accentrato presso l’istituto di emissione; diritto consentito
fino al 14% della spesa di bilancio. L’accumulo di disavanzi giornalieri deter-
minava dunque automaticamente livelli crescenti di liquidità per il sistema,
che il Tesoro avrebbe dovuto riassorbire con il ricorso all’emissione di titoli.
Ma la distanza tra le aste e l’eccessiva fuoriuscita di liquidità imponeva alla
BC di porre in essere manovre compensative, cioè di vendere BOT nel corso
del mese attraverso operazioni di mercato aperto (OMA), per impedire che il
sistema utilizzasse la liquidità immessa, anche solo temporaneamente, in
eccesso. il Tesoro, era ritenuto certo responsabile della spesa, ma non del suo

25 si crearono infatti le condizioni per mantenere un eccesso di offerta sul mercato primario che lasciasse
la possibilità alla Banca di scegliere il livello dei tassi coerente con la quantità di moneta che voleva crea-
re (salvemini 1983).
M.L. Marinelli - L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta...           149

finanziamento, né del suo costo. La BC si affannava a rendere tale finanzia-
mento (automatico) compatibile con le esigenze in termini di base monetaria
e di tassi per il sistema nel suo complesso. La politica di razionamento del
credito, implicita nel controllo del CTi, aiutava a rendere i tassi sui titoli più
bassi di quelli di equilibrio.
    Anche il Tesoro era del tutto insoddisfatto per non poter più gestire i pro-
pri disavanzi mensili, a causa dell’accentramento presso di esso dei fabbiso-
gni del settore pubblico allargato, avvenuto nella seconda metà degli anni
settanta. Gli enti di spesa territoriali presentavano disavanzi autonomi e
imprevedibili che impedivano la vecchia “politica di tesoreria” che, in qual-
che modo nel passato, aveva cercato di regolare i fabbisogni sugli obiettivi di
politica monetaria (salvemini 1983). Apparirà chiaro come il divorzio, avreb-
be dovuto comportare innanzitutto una riallocazione dei compiti tra le due
autorità, la gestione del debito al Tesoro e l’avvio verso controlli più diretti
della BM per la BC. Esso avrebbe dovuto attenuare il legame tra il fabbiso-
gno pubblico e la creazione di base monetaria, e, per effetto delle nuove pro-
cedure operative, si sarebbe dovuta accettare una maggiore variabilità nei
tassi di interesse a breve termine.
    in realtà le analisi di correlazione tra fabbisogno pubblico e base moneta-
ria interna o tra fabbisogno e BM creata dal Tesoro hanno mostrato livelli
molto bassi sia prima che dopo il divorzio (Barbieri e Fortuna 1985: 21) e i
mutamenti attesi sono arrivati con notevole ritardo rispetto al provvedimen-
to. sarà solo con l’allungamento delle scadenze del debito (maggiori emis-
sioni di CCT e di BTP e il minor uso dei BOT) che il fabbisogno pubblico
verrà soddisfatto in misura minore con BM e si potrà liberare del margine
disponibile sul c/c. il divorzio sembra dunque aver giocato un ruolo limitato
nell’ambito della politica del controllo monetario26. La restrizione monetaria
si è realizzata, ma indipendentemente da esso.
    Quanto appena detto è confortato dai dati della tavola seguente (tab.1),
dove si può notare che il sostegno della Bi al Tesoro sul mercato primario è
continuato anche dopo il divorzio, per buona parte degli anni Ottanta. solo
con l’abbandono del prezzo base all’emissione (1988-89 a seconda del tipo
di titolo), l’elasticità dei tassi ha ridotto drasticamente le situazioni di scarsità
di domanda dei titoli pubblici e gli interventi della BC sono divenuti più leg-
geri e hanno seguito altre motivazioni27. Condizionate dal finanziamento
dello stato, le Operazioni di Mercato Aperto (OMA) hanno mantenuto sem-

26 Come afferma M.T. salvemini (1983: 47): “Occorre riconoscere quanto opportuna sia stata la cautela
con cui si è proceduto a disintermediare la Banca d’italia, nonché apprezzare la flessibilità con cui, in
momenti di crisi del cambio, tale intermediazione è stata ripresa e utilizzata”.
27 Come la crescita del portafoglio della Banca centrale e il tentativo di influenzare il tasso medio di aggiu-
dicazione d’asta.
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