Dove la mafia non ha vinto. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla camorra

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Dove la mafia non ha vinto. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla camorra
XXVIII Convegno della Società Italiana di Scienza Politica 2014
                                     Perugia 11-13 Settembre

                           Economie alternative e movimenti sociali.
                    Tra resilienza, resistenza e innovazione in tempi di crisi
                             Chairs: Massimiliano Andretta, Riccardo Guidi

 Dove la mafia non ha vinto. Il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla camorra
  di Vittorio Martone
  Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Napoli Federico II
  vittorio.martone@unina.it

     Premessa
     «La mafia non ha vinto» è il titolo del recente saggio di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca
che rimette in discussione la cd. «trattativa» Stato-mafia negandone sostanzialmente la sussistenza.
La ricostruzione esposta nel saggio centra nella strategia di prevenzione patrimoniale uno degli
strumenti più efficaci nel contrasto alle mafie: vedendosi sottrarre i propri possedimenti, gli affiliati
a diverse organizzazioni mafiose tentano una mediazione con lo Stato con esiti che sono tuttora da
accertare in sede processuale. Non è un caso che l’antimafia giudiziaria, nel recente documento Per
una moderna politica dell’antimafia (2014), confermi la prevenzione patrimoniale quale riferimento
strategico del contrasto. Una scelta che, a poco più di trent’anni dalla sua introduzione, ha portato al
sequestro, alla confisca e al riutilizzo di migliaia di beni: ad oggi sono circa 13 mila gli immobili e
le aziende confiscati, nell’80% dei casi situati nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa
(Calabria, Campania e Sicilia).
     Si tratta di un patrimonio che, quando intercettato dal movimento dell’antimafia civile, ha
favorito esperienze di riutilizzo e trasformazione della ricchezza mafiosa in bene comune. È quanto
accade nella cosiddetta Campania «intermedia», l’area a nord di Napoli compresa tra il nolano, il
litorale domitio e l’agro aversano. Qui ha agito e agisce il cartello noto come Clan dei Casalesi, una
delle «camorre» che esprime la più spiccata vocazione imprenditoriale, reinvestendo ampiamente i
proventi dei traffici illeciti nell’economia legale. Riuniti in una federazione di clan, con guida
verticistica e ramificazioni territoriali, i clan casalesi sono riusciti a colonizzare interi settori
dell’economia locale, privilegiando quelli che maggiormente si connettono al controllo del
territorio: agricoltura, agroindustria, filiera casearia-bufalina, edilizia e opere pubbliche, grande
distribuzione e smaltimento dei rifiuti. La forza della regolazione criminale dell’economia locale si
consolida attorno a un capitale sociale consolidato: un tessuto connettivo e di consenso diffuso che,
a partire dal controllo delle pubbliche amministrazioni e tenendo dentro interi segmenti della
società, è riuscito a far sì che l’economia criminale sia divenuta prassi. Le conseguenze devastanti
di un tale fenomeno non compromettono solo la tenuta del corpo sociale, ma trasformano anche la
fisionomia ambientale dell’area, prima sottoposta a cementificazione sregolata e poi a
proliferazione di siti di stoccaggio e sversamento di rifiuti.
     Dopo quarant’anni di dominio dei clan casalesi sostenere che in questi territori «la mafia non ha
vinto» può apparire un eufemismo. Eppure, a cavallo del Duemila, dopo una efficace repressione
giudiziaria coincisa con il cd. processo Spartacus, alcuni vertici dei clan vacillano, subiscono
sequestri e confische (ad oggi circa 1.600 beni tra Napoli e Caserta) e finiscono nel cono
dell’attenzione mediatica. Questa circostanza si accompagna a un importante fermento della locale
rete di associazionismo, sinora celata da una coltre di omertà diffusa, che al recupero di centralità
nel dibattito pubblico affianca un orientamento spiccato al proficuo riutilizzo dei beni confiscati.
Questa rete multiforme e variegata di attori della società locale (associazioni di promozione sociale
e culturale, cooperative agricole e del terzo settore, imprenditori, associazioni di migranti, parti

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sociali ecc.) sottrae ai clan intere porzioni di territorio e interi settori avviando importanti esperienze
imprenditoriali. Anche sull’onda dell’entusiasmo alcuni studi ravvisano, al riguardo, una
progressiva strutturazione di un vero e proprio distretto dell’economia sociale, basato sulla
riconversione agroalimentare dei terreni confiscati alla camorra e veicolato dal locale movimento
antimafia. Tuttavia, sradicare un’economia criminale basata su un capitale sociale mafioso tanto
consolidato e riconvertirla in economia sociale non è affatto un percorso lineare. Obiettivo del
presente paper è mettere in luce alcune dinamiche di questa tentata riconversione a partire
dall’analisi delle esperienze di riutilizzo di beni confiscati nella filiera agroalimentare in Campania.
     Il materiale da cui parte l’analisi è l’esito di una ricerca empirica, basata su un’osservazione
partecipante e su interviste a testimoni qualificati (gestori, attivisti, istituzioni e cittadini). Il
materiale raccolto è stato poi circostanziato e arricchito con l’analisi della documentazione di
progetto, letteratura e cronaca locale, mettendo in luce le pratiche messe in atto per l’attivazione di
reti tra associazioni e imprese attive sul territorio, per aumentare le esternalità positive e le
economie di scala dei progetti, le argomentazioni adottate dagli attivisti e il dibattito pubblico nel
quale si situano1. Il paper si suddivide in quattro paragrafi. Nel primo si delinea l’evoluzione di
quello che potremmo definire il «movimento antimafia» italiano, descritto in stretta correlazione
con le azione di policy dirette alla repressione patrimoniale della criminalità economica. Nel
secondo paragrafo si approfondisce il quadro criminale della Campania e della provincia di Caserta,
sottolineando la vocazione imprenditoriale della camorra di provincia. Nel terzo si propone una
rassegna generale dell’associazionismo antimafia del casertano, specialmente per quanto concerne
simboli, discorsi e prassi attivate in tema di riconversione dello sviluppo locale verso l’economia
sociale. Nel quarto paragrafo si propone un approfondimento su due casi esemplari, il «Consorzio
Agrorinasce» e la Cooperativa «Le Terre di Don Peppe Diana», mostrando gli elementi che ne
definiscono le buone prassi, ma anche gli ostacoli e le resistenze ambientali che inevitabilmente si
presentano.

     1. Le politiche e i movimenti sociali contro le mafie
     Il contrasto patrimoniale rappresenta senza dubbio uno dei principali strumenti delle politiche
antimafia e segna un mutamento nelle strategie repressive prendendo di mira la dimensione
economica e imprenditoriale delle organizzazioni criminali. Un orientamento di policy che va fatto
risalire all’introduzione della Legge Rognoni-La Torre2, che oltre ad introdurre la fattispecie del
416bis3 e affronta le mafie nella loro componente economico-finanziaria. Oltre a una maggiore
efficacia repressiva, questo strumento mira a distinguere efficacemente il settore legale da quello
illegale per scoraggiare il reinvestimento di proventi illeciti nell’economia legale (Arlacchi e Dalla
Chiesa 1987). La legge del 1982 prevedeva che i beni mobili e immobili, crediti, azioni e aziende
sequestrate venissero genericamente devolute al patrimonio dello Stato. A partire dagli anni

1
  Il materiale analizzato è stato raccolto nel corso di una recente indagine su «I beni sequestrati e confiscati alle
organizzazioni criminali nelle regioni dell’Obiettivo Convergenza: dalle strategie di investimento della criminalità
all’impiego di fondi comunitari nel riutilizzo dei beni già destinati», finanziato dal Ministero dell’Interno e sviluppato
dal centro di ricerca Transcrime. Chi scrive ha preso parte al Team regionale Campania, curando la ricerca su tre studi
di caso, con il coordinamento di Michele Riccardi e di Marco Dugato (Università Cattolica - Transcrime). Un primo
draft con i risultati dell’indagine sono in Transcrime 2012. Il materiale è stato da me aggiornato da materiale qualitativo
proveniente da una serie di interviste tra il 2013 e il 2014 e sulla base di nuove acquisizioni degli ultimi mesi.
2
  Legge 646/1982. La normativa precedente si concentrava sugli strumenti di prevenzione personale (sorveglianza
speciale con obbligo o divieto di dimora) che traevano principale ispirazione in letture culturaliste: riconoscendo una
sostanziale comunanza di valori tra mafie e contesti sociali di appartenenza, tali strumenti miravano a sradicare gli
indagati dai luoghi di origine e a spostarli verso territori connotati da presunte «tradizioni civiche» distanti e refrattarie
(Becchi 2000). Una strategia che ha notoriamente favorito – anche se non in maniera sistematica – l’emergere di
fenomeni criminali nelle aree di arrivo (sia all’interno del Mezzogiorno che nel centronord Italia) mostrando come «non
ci siano territori immuni dal contatto mafioso» (Sciarrone 2014, p. 9).
3
  Il 416bis fornisce al reato di «associazione di tipo mafioso» una autonoma rilevanza penale: l’argomentazione
giudiziaria si concentra ora sull’organizzazione e sulle attività all’interno della quale si situano i singoli fatti delittuosi o
le singole posizioni di reato degli affiliati.

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Novanta, a seguito di diffuse iniziative in seno alla società civile, viene varata la legge che prevede
il loro riutilizzo ai fini sociali4. Sancire che ogni ricchezza accumulata illecitamente dalle mafie
debba essere destinata al riutilizzo per scopi collettivi, oltre all’efficacia repressiva ed economica,
presenta ovviamente un elevato valore simbolico: l’aggressione ai patrimoni permette di scalfire il
prestigio o la capacità di un gruppo mafioso di condizionare le realtà socio-economiche nelle quali
esercita il proprio potere. La confisca è un processo di restituzione alla collettività di beni
illecitamente sottratti ed accumulati, come definito dalla Corte di Cassazione e richiamato nelle
relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia (da ora, Cpa), e mira a eliminare dal circuito
legale le iniziative economiche svolte in contrasto con l’utilità sociale.
     La nuova normativa distingue la destinazione per le diverse tipologie di beni: per i beni
aziendali il mantenimento è affidato allo Stato che può affittarli, venderli o liquidarli; i beni mobili
(somme di denaro, cambiali, titoli ecc.) vengono trasformati in contante e riversati nelle casse dello
Stato; i beni immobili (case, terreni ecc.) possono essere mantenuti o dallo Stato per finalità di
giustizia e protezione civile, o trasferiti ai Comuni in cui si trovano per finalità istituzionali o
sociali. Il processo di confisca si suddivide in due fasi. La prima riguarda l’aggressione ai patrimoni
(individuazione, sequestro, confisca). La seconda riguarda la destinazione dei beni e dei patrimoni,
da restituire ai fini sociali attraverso il riutilizzo produttivo o pubblico, dove l’intervento
istituzionale deve necessariamente aprirsi alla collaborazione della società civile (Mete 2010)5. Una
circostanza che ha fatto di questo strumento di policy uno dei principali motori del consolidamento
del movimento antimafia nazionale.
     Nella letteratura delle scienze politiche e sociali solo in tempi relativamente recenti si sta
ponendo l’accento sulla forma e sull’evoluzione di un «movimento contro la mafia», sulla cui
ricostruzione persistono numerose lacune. Quando si è scritto di lotta alla mafia è stato fatto quasi
esclusivamente con riferimento a Cosa Nostra siciliana, tralasciando le esperienze campane e
calabresi, presenti anche se in maniera spontanea e disomogenea (Ioppolo 2012). L’esperienza
siciliana è di certo esemplare, e può essere distinta in tre fasi. La prima, compresa tra i Fasci
siciliani e il secondo dopoguerra, vede la sovrapposizione delle istante antimafia con le lotte
contadine e sindacali: qui la lotta per la distribuzione delle terre ai contadini ha coinciso, dunque,
con loro sottrazione ai mafiosi. Dagli anni Sessanta la contestazione al potere mafioso era portata
avanti da minoranze e opposizioni politiche, legate ad alcuni personaggi chiave come Danilo Dolci
o Peppino Impastato. Dagli anni Ottanta queste esperienze cominciano a delinearsi in forma di
movimento, tuttora in fase di edificazione, con il delinearsi di un immaginario condiviso, di
solidarietà allargate e di reti informali in progressivo consolidamento. Le spinte alla mobilitazione
sono conseguenza di due ondate di violenza mafiosa, in cui muoiono assassinati importanti
esponenti politici e delle istituzioni. La prima, agli inizi degli anni Ottanta6, provoca una profonda
risposta sociale che fungerà da propulsore per il varo della legge Rognoni-La Torre, menzionata
poc’anzi. La seconda ondata si registra dieci anni dopo, a seguito delle stragi di Capaci e di via
d’Amelio e degli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano: da questo momento la lotta alla
mafia oltrepassa il territorio siciliano per divenire fenomeno nazionale. Ad oggi, quello che
potremmo definire movimento antimafia si presenta come un insieme eterogeneo di gruppi di
volontariato, di spezzoni di partiti e sindacati, di singoli cittadini, che organizzano iniziative di vario
tipo, attivandosi soprattutto sull’onda di grandi spinte etico-emotive (Santino 2009). Vista la natura

4
  La Legge 109/96 recante Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati è l’esito di
un’ampia iniziativa popolare che ha funto da esperienza collettiva e da importante forma di coordinamento nazionale tra
i principali soggetti del associazionismo antimafia.
5
  In base alla legge 109/96, Comuni, Province o Regioni cui è stato trasferito il bene possono assegnarlo, in concessione
a titolo gratuito, a comunità, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni
di volontariato (L. 266/91), a cooperative sociali (L. 381/91), ad associazioni ambientaliste o a comunità terapeutiche e
centri di recupero e cura di tossicodipendenti (D.P.R. 309/90).
6
  Tra gli omicidi, quello del Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, del capo della Procura di Palermo
Gaetano Costa, dell’Onorevole Pio La Torre, estensore della 646/1982 e del Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla
Chiesa.

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del fabbisogno sollecitato (garanzie di sicurezza, benessere e legalità), la eterogeneità delle sue
componenti (non ascrivibili a un gruppo sociale contraddistinto) e le forme di azione sperimentate
(non necessariamente centrate sul conflitto, tantomeno anti-sistemico), anche il movimento
antimafia può essere inserito tra i soggetti sociali emergenti nella società postindustriale (Touraine
1978; Melucci 1989). Come ravvisato per altri soggetti sociali sorti su istanze post-materiali, anche
l’antimafia non si limita a rivendicazioni redistributive, ma a differenza di quelli la sfida qui risiede
nel proporre forme di resistenza all’espansione dell’illegalità in tutte le sfere del sociale. Un
movimento che si situa storicamente in quello che è stato definito capitalismo politico-criminale
(Asso e Trigilia 2011), in cui gli scambi occulti e gli accordi collusivi diventano elementi
strutturanti del funzionamento del mercato e criteri di distribuzione e redistribuire delle risorse
collettive. Oltre al ruolo della criminalità organizzata di tipo mafioso, siamo di fronte al diffondersi
di fenomeni corruzione (di amministratori e rappresentanti politici, funzionari e burocrati), all’area
grigia delle complicità trasversali (imprenditori e professionisti) e a fenomeni di legalità debole,
ovvero condizioni di diffusa e normalizzata violazione delle norme giuridiche che dovrebbero
rendere prevedibile e calcolabile il contesto entro il quale si esplica l’attività degli operatori
economici e dei cittadini (La Spina e Scaglione 2011). È in questo quadro di sregolazione (Donolo
2001) che le mafie sono accolte e rafforzano rapporti collusivi in campo economico e politico,
mettendo a sistema l’appropriazione particolaristica di risorse collettive (Sciarrone 2014). In
riferimento all’analisi della strutturazione e politicizzazione delle fratture socio-politiche (Lipset e
Rokkan 1967; Rokkan 1970), sembrerebbe emergere qui un ulteriore cleavage, non situato nelle
tradizionali dicotomie capitale-lavoro, laici-cattolici, centro-periferia, ma ascrivibile per l’appunto
nella frattura legalità-illegalità. Nei due decenni successivi alle stragi degli anni Novanta, su questa
base il movimento registra il proliferare di associazioni, cooperative, enti vari, individui e gruppi
della società locale, impegnati nella diffusione di pratiche e discorsi in difesa della legalità e di lotta
contro il potere dei clan. In un’indagine sull’associazionismo nel Mezzogiorno svolta in
concomitanza della seconda ondata, si rileva un vivace associazionismo antimafia composto da
soggetti di piccole dimensioni, impegnati in attività di prevenzione (educativo-culturale), di
sensibilizzazione (informativa-conoscitiva) e di mobilitazione (manifestazioni, iniziative legislative
ecc.). L’estrazione politica dei militanti vede un peso prevalente di soggetti del mondo cattolico, ma
anche esponenti di estrazione riformista e di sinistra (Ramella e Triglia 1996). Particolare ruolo
svolgono le associazioni dei familiari delle vittime di mafia (Donolo e Turnaturi 1988; Dalla Chiesa
2006).
    Tuttavia, generatosi sull’onda della reazione alle violenze, il movimento ha inizialmente pagato
difetti di tenuta quando, dalla metà degli anni Novanta, la forza delle organizzazioni criminali è
sembrata disperdersi con i successi dell’azione giudiziaria, sia nel Mezzogiorno che nel Centronord
(Bolzoni e Lodato 1998; Violante 1997)7. Ad approfittare del «cono d’ombra» generato dalla
repressione su Cosa Nostra siciliana sono anzitutto ‘Ndrangheta e Camorra, che consolidano le
proprie posizioni di potere espandendo gli affari anche in diverse regioni del Centronord (Dalla
Chiesa e Panzarasa 2012). Pur ridotta nei livelli di partecipazione, in questa fase la mobilitazione
contro le mafie prosegue sottotraccia spostando l’asse da iniziative prevalentemente di tipo reattivo
ed emotivo alla messa in opera di iniziative di tipo proattivo e territoriale. In questo passaggio
gioca sicuramente un ruolo importante Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie8, rete di
soggetti che è riuscita a edificare un’organizzazione di grandi dimensioni, ramificata sul territorio e
capace di rendere l’azione dell’antimafia sistematica e stabile nel tempo (Forno 2011). Specie a
livello locale, la solidità e le dimensioni di Libera assegnano a questo attore un ruolo di riferimento

7
  Il calo dell’attenzione coinvolge anche l’antimafia giudiziaria. A partire dagli anni Ottanta in alcune regioni
settentrionali – in particolare in Lombardia e Piemonte – la magistratura avvia un’intensa attività repressiva, conclusa
con i maxiprocessi degli anni Novanta (Spataro 2011). Dopo questa fase, però, è seguito un lungo periodo in cui il
problema delle mafie nel Centro e Nord Italia è tornato a essere sottovalutato (Sciarrone 2014).
8
  Libera nasce nel 1995 con il sostegno di grandi associazioni nazionali provenienti dal mondo cattolico (ACLI, Agesci,
CISL, etc.) e dal mondo sociale della sinistra progressista (ARCI, Legambiente, CGIL, UISP, etc.).

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anche nell’interazione con le altre realtà dell’antimafia con raggio d’azione nazionale, come
l’associazione Familiari Vittime di Mafia, il Centro Studi Pio La Torre, Avviso Pubblico,
Legambiente per i rapporti sulle ecomafie, SOS Impresa di Confesercenti, Addio Pizzo e le altre
associazioni federate nella F.A.I. (Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane) 9.
Una recente analisi quantitativa della diffusione dell’associazionismo antimafia (Sciarrone e Dagnes
2014)10 mostra che l’insieme delle principali realtà (presidi di Libera, associazioni antiracket e
antiusura, altre associazioni e gruppi) hanno oramai raggiunto una presenza capillare su tutto il
territorio italiano: nel Centronord la presenza è prevalente nelle grandi aree urbane in cui il
fenomeno è più radicato e/o evidente11. La maggiore concentrazione si registra comunque nelle aree
di tradizionale insediamento mafioso, dove la distribuzione appare a macchia di leopardo (Sciarrone
2011, p. 26): considerando la presenza e la mobilitazione di associazioni antimafia e antiracket,
comprese le iniziative e prese di posizione delle associazioni di categoria, la situazione più
dinamica si riscontra nelle province di Palermo, Caltanissetta e Agrigento, mentre permangono
elementi di criticità in quella di Trapani, e in molte aree della Calabria (soprattutto del versante
ionico) e della Campania (in particolare di Napoli e Salerno).
     All’interno dell’antimafia civile continuano a coesistere tutt’oggi una varietà di tradizioni
culturali e politiche, caratteristiche organizzative e operative disparate, livelli di
istituzionalizzazione differenti (dal gruppo informale all’associazione nazionale, dalla fondazione al
centro di ricerca e documentazione ecc.). L’accento qui posto su Libera – e in particolare su Libera
terra, segmento associativo dedito al riutilizzo dei terreni per l’agricoltura sociale12 – è in questa
sede strumentale ai fini analitici, poiché sin dapprincipio questa organizzazione ha dato particolare
importanza al riutilizzo dei beni e dei terreni confiscati, supportando cooperative sociali e
associazioni, sempre più impegnate su questo fronte anche con il sostegno pubblico.
     Per favorire il processo di restituzione alla collettività di questo importante patrimonio, infatti,
sono stati implementati diversi programmi di finanziamento di livello nazionale e regionale,
specialmente utilizzando i fondi comunitari tramite i Pon «Sicurezza per lo Sviluppo».
Considerando le Regioni del Mezzogiorno a tradizionale presenza mafiosa, su una base di 173
progetti pilota e sotto-progetti a essi collegati, emerge proprio un ruolo crescente delle cooperative e
delle associazioni rispetto ai beni gestiti direttamente da enti pubblici (tabella 1)13. Considerando
solo i progetti finanziati con Pon, sembrano prevalere dal 2007 le esperienze legate alla protezione
delle fasce svantaggiate, ma anche progetti di sviluppo economico e imprenditoriale primariamente
in ambito agricolo e agrituristico (tabella 2).
     Intercettare il patrimonio confiscato è dunque una risorsa sempre più importante per la rete
dell’associazionismo antimafia, orientata a un proficuo riutilizzo dei beni confiscati con diverse
finalità sociali.

9
  Pur in un clima di cooperazione diffusa, non mancano i casi di frattura, critica o conflittualità interna, talvolta accesa;
non è questa la sede per analizzarne i termini e le posizioni discordanti, cui prendono parte a fasi alterne importanti
soggetti dell’antimafia italiana come il Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, l’Associazione
Antonino Caponnetto, l’Associazione I Cittadini contro le mafie e la corruzione e la Casa della legalità onlus, noto
osservatorio antimafia per le regioni del centronord. Per un approfondimento, si rimanda a un paper pubblicato proprio
da Casa della legalità onlus dal titolo «Libera di nome ma non di fatto rappresenta un problema politico» (15 luglio
2012, disponibile online; ultima consultazione in data 1 settembre 2014).
10
    Come notano gli Autori, è tutt’oggi assai difficoltoso rintracciare cifre affidabili e complessive sui soggetti
dell’antimafia, sintomo anche questo di un percorso di istituzionalizzazione tuttora in fieri.
11
   Nel Centronord, i dati più elevati si registrano nelle province di Roma, Pisa, Firenze, Bologna, Milano e Torino.
12
   Libera terra è la rete di realtà agricole per le produzioni biologiche tratte dalle terre confiscate alle mafie. L’Agenzia
collegata, Cooperare con Libera Terra, è lo strumento di supporto che dal 2006 supporta operativamente
l’organizzazione delle cooperative sociali che aderiscono al progetto.
13
   I dati si riferiscono a 173 progetti di riutilizzo finanziati con i PON 2000/2006 «Sicurezza per lo sviluppo del
Mezzogiorno d’Italia» e PON2007/2013 «Sicurezza per lo sviluppo – Obiettivo convergenza» nelle regioni del
Mezzogiorno (Transcrime 2012).

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Tabella 1 - Progetti e sotto-progetti finanziati per tipo di gestore e PON
                                         Progetti PON2000/2006               Progetti PON2007/2013
        Tipo di gestore
                                            v.a.                %                    v.a.            %
Associazione                                        18                  18.9                19              24.4
Società                                              2                   2.1                 0                0.0
Ente Pubblico                                       14                  14.7                 3                3.8
Consorzio di Comuni                                  2                   2.1                 2                2.6
Cooperativa                                         12                  12.6                25              32.1
Fondazione                                           3                   3.2                 2                2.6
Forze dell’Ordine                                    1                   1.1                 3                3.8
Altro                                                5                   5.3                 6                7.7
ND                                                  38                  40.0                18              23.1
Totale                                              95                   100                78               100
Fonte: Transcrime 2012, p. 54.

Tabella 2 - Progetti e sotto-progetti finanziati per tipologia e anno
                                            Progetti PON2000/2006                   Progetti PON2007/2013
        Tipo di gestore
                                            v.a.                %                    v.a.            %
Aggregazione sociale                                19                  20.0                 6                7.7
Informazione-Educazione                             22                  23.3                14              17.9
Protezione fasce deboli                             22                  23.3                32              41.0
Riqualificazione urbana                             15                  15.8                14              17.9
Sport                                                8                     8                 1                1.3
Sviluppo economico                                   9                     9                11              14.1
Totale                                              95                   100                78               100
Fonte: Transcrime 2012, p. 54.

        Figura 1 - Beni confiscati in Italia per tipologia e distribuzione regionale

         Fonte: Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC), 2013

    Si tratta di un patrimonio di dimensioni importanti, composto – al 2013 – da più di 11 mila
immobili e quasi duemila aziende distribuite sull’intero territorio nazionale, con picchi nelle regioni
meridionali; quasi un sesto dei beni è concentrato in Campania (1.918 beni tra aziende e immobili,
pari al 14.82% del totale) (Figura 1). Qui le confische riguardano i due territori connotati da
maggiore densità mafiosa, ovvero le province di Napoli (1071) e di Caserta (521), area in cui si
dipanano gli studi di caso presentati in questo paper (Tabella 2).
                                                         6
Tabella 2 - Beni confiscati in Campania per tipologia e destinazione, confronto tra province
                    In         Destinati        Destinati non      Aziende in     Aziende uscite dalla
     Provincia                                                                                         Totale
                 gestione     consegnati         consegnati         gestione           gestione
     Avellino       15            10                 0                  7                  3             36
     Benevento      0             8                  2                  5                  0             15
     Caserta       120           304                 7                 47                 30             521
     Napoli        317           465                 90               135                 45            1071
     Salerno        50           112                 7                 58                 17             275
     Totale        502           899                 106              252                 95            1918
     Fonte: Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC), 2013

    La presenza così massiccia di beni e aziende, oltre a essere un indicatore di efficacia dell’azione
della Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) campana, è anche un indicatore della peculiare
vocazione imprenditoriale delle «camorre», che attorno al controllo dei terreni e all’intermediazione
dei prodotti agroalimentari basano buona parte della loro accumulazione di profitti. Ai nostri fini è
dunque utile tratteggiarne i caratteri principali.

     2. La «camorra imprenditrice» in provincia di Caserta
     Per indicare le organizzazioni criminali della Campania si parla spesso di camorre, al plurale,
mettendo in evidenza la molteplicità dei gruppi presenti, la loro varietà interna e la loro elevata
conflittualità (Sales 1993; Barbagallo 1999; Gribaudi 2009; Marmo 2011). Semplificando,
possiamo considerare camorrista il gruppo criminale di tipo mafioso che ha origine in Campania,
ma che può avere caratteristiche molto differenti. Per fare ordine, è stata proposta una prima
distinzione all’interno del panorama criminale regionale tra camorre «di provincia» e camorre «di
città» (Sales 2006). Queste ultime, radicate nei rioni e nei quartieri di Napoli, sono assai
frammentate, composte da piccoli gruppi, poco efficaci nel controllo del contesto economico e
politico-istituzionale. Le camorre di provincia, invece, assumono forme organizzative più
complesse, esercitano un controllo stringente sulle attività illegali del territorio e hanno una forte
vocazione imprenditoriale nei mercati legali. Dalla provincia di Napoli e di Caserta proviene la
prima generazione di contrabbandieri camorristi (si pensi a Cutolo, Bardellino, Mallardo, Nuvoletta,
Alfieri e Fabbrocino), che darà alle organizzazioni criminali campane una forte vocazione
imprenditoriale, partendo dal mercato ortofrutticolo fino ad arrivare al controllo degli appalti e del
ciclo edilizio e dei rifiuti (Brancaccio 2011).
     In particolare, lo scenario in cui si collocano i casi di studio di seguito presentati è quello della
Terra di Lavoro, un’area – che comprende la parte settentrionale della provincia di Napoli e si
estende lungo il Litorale Domitio e l’Agro Aversano in provincia di Caserta – in cui la diffusione
della corruzione politico-amministrativa e del crimine organizzato giocano un ruolo di primo piano
nel direzionare le linee di sviluppo, tanto che è possibile individuare un processo speculare, di
strutturazione reciproca, tra evoluzione del tessuto economico-territoriale e strategie camorristiche
locali (Martone 2011). Qui opera il cosiddetto Clan dei Casalesi, tratteggiato nella documentazione
giudiziaria come una struttura particolarmente compatta, con una federazione di gruppi collegati a
una regia centralizzata e a una cassa comune14. Un profilo che ha permesso un significativo
controllo sulla vasta area compresa tra la provincia nord di Napoli e il casertano, con importanti
estensioni nelle altre province campane dell’entroterra e del basso Lazio. La letteratura sul tema
mette in luce dei clan casalesi il loro essere «camorra d’impresa», capaci di reinvestire capitali
illeciti in sistemi anche complessi d’affari, costruendo ampi e variegati reticoli di sostegno esterno

14
   La descrizione della struttura e dell’evoluzione della camorra casalese è tratta dai principali procedimenti del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (1986, 1996, 2006 e 2008).

                                                          7
specie nei settori collegati al consumo dei suoli (edilizia, grandi opere e gestione dei rifiuti) 15.
L’analisi dei principali caratteri del fenomeno criminale casertano permette di evidenziare tre
dimensioni cruciali per il dipanarsi dei casi di studio analizzati: la peculiare vocazione
imprenditoriale della camorra locale; l’edificazione nel tempo di un possente tessuto connettivo,
con fulcro nelle amministrazioni locali per la gestione degli appalti; il configurarsi di un contesto
economico-criminale che definisce le linee di sviluppo del territorio.
     Già caratterizzata da una certa vitalità economica, collegata prevalentemente alla produzione e
trasformazione agroalimentare, fino al secondo dopoguerra quest’area conserva una struttura
produttiva e insediativa di tipo rurale. In questo periodo si delineano i primi tratti della vocazione
imprenditoriale della camorra locale, che ruotava attorno al boss Antonio Pagano, già dedito al
controllo delle terre e alla intermediazione commerciale. I suoi affiliati acquistavano terreni, erano
imprenditori agricoli, lucravano sulla distribuzione dei prodotti ortofrutticoli e dell’industria
casearia (Sales 2006, p. 242). Questo profilo socioeconomico e urbanistico muta considerevolmente
a partire dagli anni Settanta, quando si registrano ondate crescenti di insediamento, esito
dell’espansione urbana napoletana verso i principali canali di traffico dell’immediato entroterra.
     L’area è segnata da un’esplosione insediativa informe e disordinata (Amato 2003), in cui la
debole regolazione politica genera abusivismo diffuso ed economia sommersa, in un quadro di
sviluppo fortemente condizionato dalla immissione continua di finanza statale e accompagnato da
una complessiva inadeguatezza nei controlli istituzionali della spesa. È in questo nuovo scenario
che emerge la figura di Antonio Bardellino, che «“inventò” la cosiddetta “mafia imprenditrice”,
incoraggiando la costituzione di consorzi per la fornitura di sabbia, inerti e calcestruzzo, di cui la
criminalità organizzata assunse il controllo, determinando un monopolio assoluto nel settore
dell’edilizia casertana» (Cpa 2006, p. 557). Bardellino, e il suo vice Mario Iovine, vincitori della
guerra di camorra contro i cutolinani16, riuniscono i gruppi criminali locali in una struttura
verticistica con competenze su base territoriale e centro decisionale a Casal di Principe. Forti dei
profitti del traffico di stupefacenti dal Sudamerica e già padroni della locale industria del cemento17,
i casalesi riescono a lucrare ingenti capitali dall’infiltrazione nella ricostruzione post-terremoto e da
altri importanti appalti, rendendosi i principali autori della infrastrutturazione del territorio 18.
     Per i casalesi l’industria del cemento disegna la prima vera accumulazione di ricchezza che,
unita alla occupazione capillare della sfera della economia pubblica (Monzini 1999), consolida il
loro modus operandi in termini di camorra d’impresa, in cui gli stessi affiliati ai clan investono in
attività lecite i capitali ricavati da estorsioni e traffici illeciti (Barbagallo 2010, p. 153). Tutte le
famiglie che compongono la costellazione casalese19 avviano importanti esperienze imprenditoriali
nella zona. Esponenti della famiglia Schiavone, che subentrano nel controllo diretto delle imprese di
calcestruzzo, dalla fine degli anni Ottanta diversificano i propri investimenti nella filiera della

15
   Si vedano, tra gli altri, Anselmo e Braucci 2008, Barbagallo 2010 e Corona e Sciarrone 2012.
16
   Bardellino è tra i vincitori della faida che oppone, tra il 1978 e il 1983, la Nuova Camorra Organizzata (NCO) –
compagine creata da Raffaele Cutolo nel tentativo di riunire i clan campani in un unico cartello – ai clan ostili alla
riunificazione, confluiti nella cosiddetta Nuova Famiglia.
17
   Le imprese vicine ai clan casalesi monopolizzano il ciclo del cemento attraverso un articolato sistema di consorzi di
produzione del calcestruzzo e degli inerti. Lo stesso Bardellino, nel 1982, crea la General Beton (impianto di
produzione di calcestruzzo) e gestisce il Consorzio Cedic, creando così un sistema che permette il monopolio nella
distribuzione di calcestruzzo in tutta l’area (Anselmo 2009). Nella sentenza Spartacus (Tribunale di Santa Maria C.V.
2006) si legge che alla fine degli anni Ottanta le imprese dei Casalesi riescono a influenzare l’assegnazione dell’80%
dei lavori pubblici grazie ai loro contatti diretti nelle amministrazioni locali.
18
   Ancora la sentenza Spartacus conferma che i clan locali hanno gestito i finanziamenti per la ricostruzione seguita al
terremoto del 1980, quelli per la costruzione del carcere e degli uffici giudiziari di Santa Maria Capua Vetere nonché i
maggiori investimenti pubblici per l’infrastrutturazione della Provincia, come gli appalti per la sistemazione del canale
dei Regi Lagni, la superstrada Nola-Villa Literno e il raccordo con l’autostrada A1 Roma-Napoli.
19
   Dopo Bardellino, tra i reggenti dell’organizzazione troviamo nomi noti alle cronache come Francesco Schiavone detto
Sandokan, Francesco Bidognetti detto cicciotto ‘e mezzanotte, Vincenzo Zagaria e Antonio Iovine ‘O ninno.

                                                           8
mozzarella di bufala Dop20 e, a partire dagli anni Novanta, nel settore dei trasporti su gomma di
prodotti ortofrutticoli21. Sempre dal calcestruzzo nasce il successo imprenditoriale degli Zagaria,
che successivamente diversificano i propri investimenti nell’industria agroalimentare e nella
speculazione edilizia. Pasquale Zagaria detto Bin Laden, fratello del boss latitante Michele, è forse
la figura che meglio esemplifica la vocazione imprenditoriale della camorra casertana. Già titolare
della EdilMoter, impresa di costruzioni prosperata con l’appalto dei Regi Lagni 22, Zagaria riesce a
esportare il metodo camorristico di regolazione del mercato sia in altre aree del Paese, sia in altri
settori produttivi. Reinveste nelle costruzioni nell’area di Parma, conduce importanti trattative per
l’inserimento dei clan locali negli appalti dell’Alta Velocità e della Ferrovia Alifana, governa la
distribuzione dei prodotti Cirio e Parmalat su Napoli e Caserta, avvia una importante speculazione
edilizia nel centro di Milano23. Ma ciò che si consolida nella lunga fase di infiltrazione negli appalti
pubblici è il secondo dei tre elementi individuati: il tessuto connettivo della camorra casalese, che a
partire dal controllo delle amministrazioni locali riesce a «tenere dentro, in un unico disegno
criminale […] tutti i segmenti della società [tanto da poter asserire] che la forza del clan dei
casalesi riposi proprio sulla rete di collusioni e complicità che nel tempo esso è riuscito a
costruire» (Lamberti 2009, p. 501). Nel ventennio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta i clan
instaurano legami profondi con gli esponenti politici e istituzionali dell’area, influenzano
pesantemente le amministrazioni locali24, candidano propri affiliati alle elezioni25 e, in generale,
edificano un sistema di collusione diffusa poggiato sulla complicità di dirigenti, funzionari,
impiegati pubblici, forze dell’ordine, imprenditori e professionisti locali. A fare da cornice, quella
tendenza consolidatasi con l’intervento straordinario, verso un ampio potere di deroga concesso ai
governi locali, che conduce a forme di concentrazione, privatizzazione e incontrollabilità
dell’azione pubblica, con la conseguente proliferazione di illegalità diffuse nella gestione della
spesa (Barbagallo 1988). Forme di corruzione dilagante e di capillarità del controllo camorristico
nell’area che hanno conseguenze devastanti sul consumo del territorio, terzo e ultimo elemento
caratterizzante il contesto casertano. Come ravvisato già agli inizi degli anni Novanta dalla Cpa,

         “il dominio camorristico ha significato dissipazione di risorse, assenza di produttività, insufficienza ed
         inefficienza dei servizi e soprattutto l’illegalità diffusa [con conseguente dilagare] dell’abusivismo edilizio e
         dall’assenza di strumenti urbanistici […]: l’80 per cento delle costruzioni andrebbero demolite [anche se] le
         ordinanze di demolizione verosimilmente non potranno venire eseguite per carenza di fondi e per le difficoltà
         di abbattere alcune ville bunker che costituiscono l’abusivismo dei capi clan (Cpa 1993, pp. 1380-1).

20
   La mozzarella DOP (Denominazione di Origine Protetta) è fonte di ingenti profitti per gli Schiavone, ma anche per i
clan Zagaria e Iovine, che gestiscono direttamente i caseifici, impongono i propri prodotti in regime di semi-monopolio
e operano truffe collegate all’utilizzo di latte bufalino proveniente da zone esterne all’area DOP (Lombardia, Romania e
altri Paesi dell’Europa dell’Est).
21
   Attraverso il controllo della società “La Paganese” di Aversa, gli Schiavone sono riusciti a controllare la stragrande
maggioranza dei trasporti su gomma da e per i mercati ortofrutticoli del Centro-Sud Italia.
22
   I Regi Lagni sono un fitto reticolo di canali che attraversa la pianura a nord di Napoli per oltre 56 km. Furono voluti
dal viceré spagnolo Pedro Fernandez de Castro nel 1610 con l’obiettivo di convogliare in mare le acque piovane e
sorgive e prevenire le inondazioni.
23
   I resoconti dell’infiltrazione camorristica nella realizzazione dell’Alta Velocità sono in Imposimato et al. (1999); una
interessante ricostruzione della figura di Pasquale Zagaria come imprenditore camorrista è in Capacchione (2008).
24
   Solo nei primi tre anni dall’entrata in vigore della normativa sullo scioglimento delle amministrazioni locali, ben 13
Comuni dell’area sono interessati da provvedimenti, tra i quali lo stesso Casal di Principe. Al 2011 il complesso dei
decreti di scioglimento emessi in Provincia di Caserta è pari a 27, ai quali si aggiungono altri 3 decreti, emessi nel 2010
per irregolarità nella gestione dei rifiuti comunali ravvisate nei Comuni di Mondragone, Castel Volturno e ancora Casal
di Principe.
25
   È il caso di Ernesto Bardellino, fratello del capoclan, sindaco di San Cipriano d’Aversa e, più recentemente, di Nicola
Ferraro, imprenditore dei rifiuti vicino agli Schiavone, eletto consigliere regionale nelle file dell’Udeur nel 2005. Dopo
le elezioni regionali del marzo 2010, Ferraro è stato arrestato con l’accusa di essersi accordato con i reggenti dei gruppi
Schiavone e Bidognetti per ricevere sostegno elettorale («Casalesi e “affaire” rifiuti: arrestato ex consigliere regionale
Ferraro (Udeur)», Corriere del Mezzogiorno, 12.07.2010).

                                                            9
È in questo quadro di eccessiva e deregolata cementificazione che la nota emergenza rifiuti
appare solo come l’ultima versione di un modello economico-criminale che crea profitto dal
consumo del territorio, anche attraverso la colonizzazione delle istituzioni deputate alla sua
pianificazione (Martone 2012). In un contesto siffatto, il deficit accumulato in decenni di presenza
mafiosa intacca la società e l’economia locale: «i network mafiosi contribuiscano a configurare
assetti relazionali e istituzionali che condizionano l’organizzazione economica di determinate
società locali» (Sciarrone 2011, p. XXXII). Le relazioni tra gruppi mafiosi e imprenditori si
dimostrano simmetriche, «compenetrate», in cui la ricerca del sostegno mafioso diviene una delle
leve normali dell’agire economico. Come dire, l’economia subisce un «processo di aggiustamento
patologico» (Asso e Trigilia 2011, p. 15) e si incastra in una società locale «in cui gli scambi
occulti e gli accordi collusivi finiscono per essere concepiti come un modo per stare sul mercato, se
non addirittura l’unico modo per sopravvivere economicamente» (Sciarrone 2011, p. 31). Oltre agli
operatori economici, i comitati d’affari composti da imprese e gruppi mafiosi si avvalgono poi della
consulenza di numerosi professionisti e burocrati della pubblica amministrazione locale, chiamati a
certificare le loro attività imprenditoriali (licenze edilizie, controlli ambientali e sanitari, certificati
antimafia ecc.). Questa nebulosa di relazioni fiduciarie e di scambio, consolidata in trent’anni di
progressiva occupazione del settore, rappresenta lo specifico capitale sociale della camorra: un
fenomeno preoccupante per la sua pervasività26, che fa della regolazione camorristica un vero e
proprio corpo intraneo all’economia locale, capace di insediarsi in un intero comparto produttivo e
di orientarlo in direzioni per essa più redditizie. Ne consegue un generale abbassamento dei costi
morali, quale fenomeno generalizzato e favorito dall’assenza di disapprovazione sociale cui i
singoli vanno incontro nelle loro cerchie sociali (Asso e Trigilia 2011, p. 36). Segnali che
contribuiscono a consolidare la consapevolezza di un cortocircuito sociale che può rendere molto
difficoltosi i tentativi di mutamento.

3. Il distretto dell’economia sociale
     Il Cnel, in tema di utilizzo dei beni confiscati, ritiene necessaria la «costruzione di
un’imprenditoria alternativa a quella mafiosa in grado di assicurare il mantenimento
dell’occupazione legale dei lavoratori dipendenti dell’impresa e preveda il potenziamento di
un’occupazione liberata dal vincolo mafioso» (2006, p. 31). Oltre a muovere variabili connesse allo
Stato (normative, incentivi, repressione del crimine ecc.) e al mercato (recupero della concorrenza,
trasparenza contabile e fiscale, diritti del lavoro ecc.), generare un diffuso fenomeno di
«imprenditoria alternativa» chiama in causa variabili di tipo culturale e sociale, intaccando i
meccanismi che sono alla base della genesi e della riproduzione del consenso sociale mafioso
(Sciarrone 2006; Ruggiero 1996). Se l’azione repressiva della magistratura punta a indebolire le
organizzazioni criminali sottraendo loro i patrimoni e mettendone in crisi il potere economico,
l’azione costruttiva delle istituzioni e delle forze sociali dovrebbe avere la funzione di indebolirne il
consenso esterno e dunque il potere politico. È in questo sofisticato connubio tra patrimonio
mafioso confiscato e associazionismo antimafia che si vogliono rintracciare le potenzialità per un
passaggio storico da un antimodello di sviluppo economico criminale in Campania (Corona e
Sciarrone 2012) a un modello di sviluppo differente e centrato sull’economia sociale (Musella
2012). Affrontare quanto accaduto in provincia di Caserta, in cui la pervasività della «camorra
imprenditrice» costituisce un fattore distorsivo dell’economia alterandone i meccanismi e le
opportunità di sviluppo, può fornire alcuni elementi di riflessione in tal senso.
     L’antimafia casertana è erede della figura di Don Giuseppe Diana, parroco di Casal di Principe
assassinato nel 1994. Già nel 1991, in piena faida interna al clan dei casalesi27, «Don Peppe» e altri

26
   Al 2010, nell’area tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa (16 km2 con 50mila abitanti) risultano
1.200 condannati 416bis e numerosi comuni sciolti per infiltrazioni (Scanni e Oliva 2006).
27
   Dalla seconda metà degli anni Ottanta si apre una faida interna ai gruppi casalesi, che porterà all’eliminazione dei due
capi Bardellino e Iovine. Da questo momento quello dei casalesi non può considerarsi un unico clan centralizzato, ma
una compagine di gruppi correlati da rapporti di cooperazione e conflitto a seconda degli affari in gioco (Brancaccio e

                                                           10
parroci diffondono un documento dal titolo Per amore del mio popolo non tacerò, in cui la Chiesa
locale non si limita a denunciare la criminalità organizzata, ma indica una strategia precisa tesa a
rifondare una nuova comunità unita attorno alla giustizia e alla solidarietà. Due anni dopo alle
elezioni comunali di Casal di Principe si afferma, a sorpresa, una giunta di sinistra guidata da
Renato Natale28. Quell’amministrazione durerà solo un anno, soggetta a intimidazioni e sabotaggi,
tra i quali l’omicidio dello stesso Don Giuseppe Diana, avvenuto il 19 marzo del 1994.
     Così come già visto per gli episodi che hanno scosso il Paese e dato spinte emotive al
movimento antimafia nazionale, anche nel casertano la reazione alla morte del parroco di Casal di
Principe è dirompente: per la prima volta un’intera comunità irretita dal silenzio e dalla paura trova
la forza di manifestare pubblicamente il proprio risentimento (Mosca 2011, p. 292). Questa reazione
si sedimenta ben presto nel locale associazionismo antimafia: nel corso degli anni Novanta nascono
diverse realtà che portano il testimone della memoria di Don Peppe (Baldascino 2012). Nel 1998 a
valle di un percorso formativo erogato dal Gruppo Abele sui temi del mutamento dell’impegno
civile nel territorio, nasce la cooperativa Solesud Onlus, che oltre agli scopi di analisi e denuncia del
fenomeno mafioso si propone di creare «una comunità alternativa alla camorra» (Statuto). Solesud
incrocia ben presto Libera e il Consorzio Agrorinasce29: dal 2000 viene implementata la locale
«Università per la Legalità e sviluppo», ubicata in un bene confiscato alla camorra reso disponibile
da Agrorinasce e attivata con il coordinamento scientifico di Libera. Seguono numerose attività di
carattere educativo, informativo e sociale.
     Su questo sfondo, dando continuità alle diverse attività intraprese nell’area, viene formalizzato
il Comitato Don Peppe Diana recando ancora una volta nella sua mission il «costruire comunità
sane e solidali alternative alla camorra» (Statuto). Nel 2006 il Comitato si fa promotore
dell’«Osservatorio sull’uso sociale dei beni confiscati» attuato con Libera e finanziato dalla
Provincia di Caserta; un dispositivo che mette in rete le diverse associazioni impegnate sul fronte
dei beni confiscati e che opera una mappatura dei beni presenti nella Provincia ai fini del riutilizzo.
     Il 2006 è un anno cruciale nel consolidamento dell’antimafia casertana, che trae vantaggio da
tre forze concomitanti: quella repressiva, con l’emissione della Sentenza Spartacus; quella
mediatica, con la pubblicazione del volume Gomorra; quella civile, con la mobilitazione
Contromafie.
     L’operazione Spartacus parte nel 1995, sotto la guida del procuratore Federico Cafiero de Raho
della Dda di Napoli, e in dieci anni produce 157 arresti, 626 udienze e più di 500 testimoni ascoltati.
La Sentenza, depositata nel 2006, in 3.200 pagine disarticola l’organizzazione casalese
comminando 91 condanne di cui 21 ergastoli. Alla repressione personale si affianca quella
patrimoniale, con il sequestro di 119 fabbricati, 52 terreni, 140 società. Spartacus rappresenta un
simbolico spartiacque nel contrasto ai clan casalesi: pur essendo già in gran parte detenuti, da ora i
vertici del clan subiscono un logoramento delle posizioni di dominio, con l’inevitabile
prolungamento dei periodi di detenzione o la definitiva impossibilità di una eventuale
scarcerazione. Indebolimento accentuato dall’attenzione pubblica seguita alla pubblicazione del
volume di Roberto Saviano, che funge da catalizzatore per le mobilitazioni che seguiranno 30. Da

Martone 2014). Pertanto, il ricorso in questa sede all’etichetta Clan dei Casalesi ha esclusivamente ragioni di
immediatezza, non più corrispondente al fenomeno nelle sue forme attuali.
28
    Storico attivista dell’antimafia locale e fondatore dell’Associazione Jerry Essan Masslo (assistenza medica ai
cittadini immigrati), che prende il nome dal cittadino sudafricano assassinato nell’agosto del 1989 a Villa Literno:
quella morte, oltre a segnare la nascita di un vero e proprio movimento antirazzista in Terra di Lavoro, funge da sprone
per il processo legislativo sfociato nella Legge Martelli, primo testo organico in materia di immigrazione in Italia.
Renato Natale è stato rieletto Sindaco, dopo vent’anni, alle elezioni comunali del giugno 2014. Si veda «A Casal di
Principe vince il sindaco anticamorra Renato Natale», in laRepubblica, 9 giugno 2014.
29
   Come si vedrà in seguito, si tratta di una Società consortile costituita dalla struttura prefettizia con i Comuni di San
Cipriano d’Aversa, Casal di Principe, Casapesenna, Santa Maria la Fossa e Villa Literno; opera specificatamente nel
coordinamento di attività di recupero e riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati.
30
   Una interessante discussione sul ruolo di Gomorra e della letteratura in generale nel produrre attenzione pubblica sul
fenomeno mafioso e stimolare nuove chiavi analitiche per decifrarne la struttura sono in La Spina et al. (2009).

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questo momento l’interesse dei media sarà destinato a crescere ineluttabilmente: dopo la
pubblicazione di Gomorra sono proliferate le produzioni editoriali (letterarie, cinematografiche,
saggistiche ecc.), concentrate proprio nell’area in cui sono ambientate le vicende del romanzo 31 e
sui clan considerati fino a pochi mesi prima «una mafia sconosciuta» (Scanni e Oliva 2006). Le
manifestazioni di solidarietà per Saviano, così come per altri scrittori ed esponenti delle istituzioni
che subiscono intimidazioni dai boss in carcere, tratteggiano anche le argomentazioni espresse nel
percorso Verso contromafie in provincia di Caserta, guidato ancora da Libera e dal Comitato don
Peppe Diana. Si è trattato di un processo partecipato di preparazione in vista degli stati generali
dell’antimafia del 2006, in cui centinaia di attori (magistrati, politici, amministratori, docenti,
giornalisti, professionisti, imprenditori, operatori del Terzo settore e cittadini) si sono riuniti per la
condivisione di proposte di lotta alla mafia. Proposte poi confluite nel Manifesto di Verso
contromafie in provincia di Caserta, formalizzato nella giornata conclusiva dell’11 novembre 2006,
tenutasi al Santuario della Madonna di Briano a Villa di Briano, divenuto luogo simbolo della lotta
anticamorra in provincia di Caserta (Baldascino et al. 2008)32. Tra i contenuti del Manifesto viene
data particolare importanza ai passaggi cruciali per il mutamento dell’economia criminale in
economia sociale, prevedendo il contrasto al «fenomeno del riciclaggio di capitali illeciti
(analizzando le connessioni tra economia legale e illegale)» e alla promozione di «nuovi modelli di
sviluppo locale (dando priorità alle persone, al contesto ed al diritto di uguaglianza e cittadinanza,
ri-orientando in questa direzione le risorse pubbliche)» che passa per il sostegno alle «cooperative
e le associazioni che s’impegnano nel riutilizzo sociale dei beni confiscati».
     Pur segnando esclusivamente i passaggi più importanti, questa ricostruzione mostra come
l’insieme dei movimenti antimafia in provincia di Caserta abbia nel tempo consolidato un repertorio
di simboli (date, luoghi, vittime), di pratiche discorsive (manifesti, volumi di riferimento, strategie
condivise) e di modalità organizzative e relazioni con le istituzioni capaci di favorire percorsi di
costruzione identitaria: un processo di rivincita in un territorio di confine sino a quel momento
relegato nella penombra della periferia napoletana33. In questa costruzione, è emerso che particolare
enfasi viene posta sul ruolo della riconversione economica del territorio, attraverso il riutilizzo ai
fini sociali dei beni confiscati alla camorra. Così si esprime una storica attivista del Comitato don
Peppe Diana:

            «I beni confiscati sono diventati non solo presidio di legalità per ricostruire il tessuto culturale e
            la coscienza civica per troppo tempo calpestata, ma anche modello di sviluppo in grado di fare
            economica, economia sociale, di investire e di riconvertire il patrimonio immobiliare della
            camorra in fatto di crescita sociale ed economica del territorio. Ne è derivato un modello di
            riutilizzo, il modello Caserta, che si caratterizza per la specificità delle attività e della gestione
            che le cooperative sociali hanno saputo implementare riuscendo a realizzare quanto avrebbero
            invece dovuto fare le istituzioni. Nelle ville e nei possedimenti terrieri dei camorristi, a Casal di
            Principe, San Cipriano d’Aversa, Casapesenna, Villa di Briano, Castel Volturno, Sessa Aurunca,
            è in funzione una particolare forma di impresa sociale che restituisce il maltolto al territorio e ai
            cittadini attraverso la promozione di percorsi di reinserimento lavorativo di persone svantaggiate
            all’interno dei beni confiscati» (Cioffo 2012, p. 64, corsivo nostro).

    All’interno di questo quadro nasce, nel 2009, la prima cooperativa di Libera Terra in Campania,
che si propone di produrre e valorizzare i prodotti tipici del territorio (mozzarelle, grano, ortaggi),

31
   Si vedano, tra le altre: Cantone, 2008; Di Fiore, 2008; Capacchione, 2008; Sardo, 2008; Braucci, Laffi, 2009; De
Crescenzo, 2009; Nazzaro, 2010; Moccia 2013 ecc.
32
   Nella giornata conclusiva viene espressa solidarietà per le intimidazioni ricevute allo scrittore Saviano, alla
giornalista e attuale Senatrice Pd Rosaria Capacchione e al Giudice Raffaele Cantone, presente all’iniziativa. Villa di
Briano sarà sede di incontri e manifestazioni anche negli anni successivi e presso la locale Parrocchia è stata istituita la
Scuola di Pace dedicata a don Giuseppe Diana.
33
   A suggellare quanto appena asserito, si segnala la recentissima pubblicazione dell’inchiesta I Casalesi, una etichetta
non più riferita al noto clan, ma ai principali testimoni del locale associazionismo anticamorra (Pagnano 2014).

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