RESOCONTO DISK (Diabetici Italiani Sul Kilimangiaro) - Diabete Roma ...
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
RESOCONTO DISK (Diabetici Italiani Sul Kilimangiaro) di Aldo Maldonato 7-17 gennaio 2002 Mezzanotte. Si parte per “l’attacco finale alla vetta”, come un po’ enfaticamente si è espresso il capo-spedizione durante il suo sermone del pomeriggio, con l’aria di un allenatore prima della partita più importante della stagione, dicendosi certo che tutti raggiungeremo la cima. Non è chiaro perché gli accompagnatori locali abbiano l’abitudine di far partire così presto i clienti dal rifugio Kibo, situato a 4700 metri di altezza, ultima e meno confortevole tappa lungo la via più comoda e frequentata della più alta montagna d’Africa, il Kilimangiaro, chiamato anche Kibo dagli indigeni, che con la sua cima più alta - lo Uhuru Peak - raggiunge la quota di 5900 metri. È probabile che lo facciano per consentire di godere delle prime luci del giorno dalla cima, prima che la foschia o le nuvole la avvolgano completamente, come sono solite fare a partire da metà mattina. Certo è che questa scelta comporta di dover camminare di notte per quasi tutta la salita, alla incerta luce di una lampada frontale, esposti a temperature molto basse, - 20° C nel nostro caso, senza il conforto dei raggi del sole, che normalmente raggiungono il bordo del cratere sommitale solo verso le sei del mattino. Il capo dei nostri accompagnatori Wilson, 50 anni, è la guida più esperta del luogo come egli stesso ci ripete spesso, e con la nostra spedizione festeggia la sua cinquecentesima ascensione. Durante i primi giorni di salita ha avuto modo di conoscerci e apprezzarci, e anch’egli si dice fiducioso che la maggior parte di noi raggiunga la vetta. Prima della partenza invece probabilmente non avrebbe scommesso su di noi, avendo saputo che siamo un gruppo un po’ particolare. Infatti la maggior parte di noi ha il diabete di tipo 1, insulino-dipendente. Una strana iniziativa L’idea di salire sul Kilimanjaro con un gruppo di persone affette da diabete di tipo 1 è venuta a Mario Zolli, medico dell’ospedale di Mirano (VE), quando ha scoperto durante un’escursione effettuata con un alpinista diabetico che a quest’ultimo bastavano poche unità di insulina per tenere bassa la glicemia, nonostante mangiasse molto. Era l’estate del 2000. Folgorato da questa rivelazione, il dottor Zolli si è proposto di diffondere la buona notizia che l’attività fisica fa bene al diabete, con un’impresa dal doppio valore simbolico: dimostrare che i diabetici possono anche scalare le cime più alte, e portare ai fratelli meno fortunati della Tanzania un aiuto concreto consistente in una parte della generosa sponsorizzazione ottenuta per l’impresa.
2 Ottenuta l’adesione di Gerardo Corigliano, diabetologo di Napoli, presidente dell’ANIAD (Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici), il resto dell’organizzazione è stato in discesa, dalle sponsorizzazioni al reclutamento dei partecipanti. L’unica difficoltà è consistita nel dover dire no ad alcuni che non davano sufficienti garanzie di esperienza in montagna. Ho aderito volentieri all’iniziativa appena mi è stato proposto, e ho confermato la mia partecipazione anche quando purtroppo la “mia” paziente che aveva aderito con me, una giovane universitaria nativa della Val di Fassa, ha dovuto rinunciare per una distorsione al ginocchio mentre si allenava sul Sassolungo. Le mie due antiche passioni, per l’educazione terapeutica delle persone con diabete, e per la montagna mi facevano sentire particolarmente vicino a questa iniziativa. Sentivo che avrei potuto dare qualcosa ai partecipanti e sapevo che a mia volta avrei potuto imparare molto da loro. Ma sarei stato all’altezza dell’impresa? Il Kilimangiaro non presenta difficoltà tecniche, e per questo è spesso sottovalutato. In realtà l’altezza di quasi seimila metri comporta forti rischi di mal di montagna per le persone non acclimatate, cioè abituate a vivere a quell’altitudine. È noto – e lo avremmo tragicamente potuto constatare con i nostri occhi – che il mal di montagna, da sintomi lievi e rapidamente reversibili, può evolvere verso due gravi complicazioni, entrambe potenzialmente mortali: l’edema polmonare da alta quota e l’edema cerebrale da alta quota. Il rischio non sembra correlato con l’età né con il grado di allenamento, ma è certo che diminuisce nelle persone acclimatate. La mia esperienza di montagna avrebbe potuto tranquillizzarmi: in fondo ero già salito su un quasi-6000, il Nevado Pisco in Perù, e mi ero arrampicato sulla vetta dei più prestigiosi 4000 delle Alpi, dal Cervino al Gran Paradiso, dal Weisshorn alla Dent Blanche, dallo Zinalrothorn all’Obergabelhorn, dalle varie punte del Monte Rosa al Dom, dall’Alphubel allo Stralhorn all’Allalaninhorn, ma tutto ciò era avvenuto qualche anno fa, e per giunta ero venuto a sapere che con i miei 56 anni compiuti sarei stato il “nonno” del gruppo. Inoltre era possibile che, almeno per alcuni dei partecipanti, la meta si ampliasse per includere altri due obbiettivi, la cima secondaria del Kilimangiaro, il Mawenzi, alto 5150 metri e tecnicamente più interessante, con vie di secondo-terzo grado, e il M.Kenya, decisamente più difficile. Se fossi stato bene, almeno una di queste alternative mi tentava molto. Il 2001 era stato per me un anno di lavoro particolarmente intenso e non avevo avuto tempo per allenarmi come si deve, però la data fissata per la partenza – il 7 gennaio 2002 – mi avrebbe consentito una mossa strategica. Avrei preso due settimane di ferie fra Natale e l’Epifania, e ne avrei approfittato per allenarmi e soprattutto per acclimatarmi. Sapevo che a questo fine quello che conta soprattutto è dormire in quota: ebbene avrei lasciato la famiglia nei comodi letti del nostro residence e sarei andato a dormire al rifugio Lagazuoi che, con i suoi 2750 metri è il posto più alto agibile d’inverno nella zona di Cortina. Dicono che basta dormire 10 notti a 3000 metri per essere pronti per i 6000. Io sono riuscito a salire al Lagazuoi solo tre sere con le pelli di foca sotto gli sci e a pernottare lì: non sarà stato sufficiente ma è stato certo meglio che restare alla mia quota abituale, vicino alla riva del Tevere. Altri, come Gerardo Corigliano, hanno forse avuto più difficoltà di me per allenarsi e acclimatarsi, fra Vesuvio e Monte Faito, ma la volontà può molto, e aiuta a trovare occasioni utili nelle circostanze più impensate. Molti dei partecipanti si sono riuniti in autunno per un’escursione sulle Pale di San Martino, ma il grosso della preparazione è stato lasciato all’iniziativa dei singoli.
3 Alla partenza il gruppo DIsK risultava così costituito: 11 persone con diabete di tipo-1, cinque medici e un… marito. Uno dei medici, Marianna, anestesista era la moglie di uno dei diabetici. L’altro medico, Paola Pavan, medico dello Sport, senza esperienza di montagna, si era aggregata all’ultimo momento con l’obiettivo di raggiungere quota 5000, per vedere come si sarebbe comportata a una quota analoga a quella del campo base di un 8000, dove sarebbe stata presto inviata per condurre una ricerca sul metabolismo in alta quota. Delle persone con diabete, due (Marco e Vittorio) erano forti alpinisti, Luca era un forte arrampicatore con poca esperienza di alta montagna, Mauro era un forte fondista, ma anche corridore e ciclista in montagna, Alberto un ex maratoneta dall’eccezionale curriculum, e gli altri sei (Andrea, Cristina, Daniele, Fabio, Ilaria e Pietro) erano persone “normali”, cioè sportivi e più o meno amanti della montagna, ma a livello dei comuni mortali. Insieme verso la cima Il Kilimangiaro è un enorme rilievo vulcanico, lungo circa 50 chilometri e largo 20, che si erge per più di 4000 metri dai 1800 metri dell’altopiano della Tanzania. Molto è stato scritto sulla sua cima coperta da ghiacciai eterni, costituita da un enorme cratere di più di 2 chilometri di diametro. Durante le sei ore di autobus dall’aeroporto di Nairobi, attraverso il confine tra Kenia e Tanzania, fino a Moshi siamo tutti ansiosi di vedere la nostra meta, di misurarci con lei, ma resteremo delusi: come accade la maggior parte del tempo, la metà superiore della montagna resta nascosta fra le nuvole e non ci resta altro che tentare di indovinare dove sarà la cima, prolungando con l’immaginazione i due profili inferiori dei fianchi della montagna. Il mattino del 9 gennaio, dopo un’abbondante colazione, a bordo di tre fuori-strada, raggiungiamo il Marangu Gate, da dove inizia la prima delle quattro tappe che ci porteranno in cima. La via di Marangu, detta anche CocaCola Route, è la più comoda delle numerose vie che percorrono i versanti della montagna, ed è l’unica attrezzata con veri e propri rifugi il cui comfort decresce mano a mano che cresce la quota. La via è costituita da una comoda stradina in terra battuta, percorsa incessantemente da turisti provenienti da ogni parte del mondo e dai portatori che trasportano sulla testa il grosso dei bagagli dei clienti, fino a un massimo di 20-25 Kg. La prima tappa è lunga 12 km e ci porta dal Marangu Gate, 1800 m, attraversando la zona della foresta tropicale, ai 2700 m del Rifugio Mandara. Qui un minaccioso cartello
4 ammonisce a non insistere verso la cima se si è ammalati o esausti, e vieta il proseguimento ai bambini di meno di 10 anni. Siamo alloggiati in comode stanze a 4 cuccette e, dopo una sosta e un ristoro, molti di noi si avventurano a esplorare i dintorni, sperando di vedere la cima, che però è sempre fra le nuvole e ci si svelerà solo l’indomani. 10 gennaio. Ci aspetta una tappa di 15 chilometri che, finita la foresta tropicale si svilupperà per intero nella fascia vegetale chiamata savana, portandoci ai 3720 m del rifugio Horombo. Qui le camere sono a sei cuccette e i bagni sono decisamente più spartani. Il prezzo delle bottiglie di acqua minerale, l’unica potabile, aumenta dai due ai tre dollari a bottiglia. Poco prima di giungere a Horombo, un curioso spettacolo ci coglie di sorpresa, tanto che quasi nessuno di noi fa in tempo a documentarlo con una foto: quattro portatori accompagnano correndo in discesa una barella sostenuta da una ruota di motorino fissata al centro sotto di essa. Nella barella è disteso un uomo, che si difende dagli scossoni tenendo la testa un po’ sollevata. Questo ci consente di vedere che ha un buon aspetto: si tratta del primo caso di mal di montagna di cui siamo testimoni, e i portatori stanno curandolo nel modo più efficace, cioè facendogli perdere quota il più presto possibile. Di altri cinque casi saremo testimoni prima della fine della spedizione e uno di questi riguarderà un membro del nostro gruppo. Inoltre assisteremo anche alla discesa di una barella che trasporta un morto, che apprenderemo essere un uomo svedese di 40 anni, verosimilmente colpito da edema cerebrale da alta quota. Proprio per prevenire il mal di montagna il nostro programma, a differenza di altri organizzati da compagnie turistiche di tutto il mondo, prevede una “pausa” di un giorno a metà salita, o meglio una breve escursione seguita da un secondo pernottamento nello stesso rifugio a quota 3720 m. 11 gennaio. Con Marco, Vittorio e Mauro avevo programmato di approfittare di questa pausa per tentare la salita ai 5150 m. del M. Mawenzi, e così facciamo, dopo avere a lungo contrattato con la guida, che – in base alla legge locale – ci impone la “guida” di un paio di indigeni. Arrivati nell’anfiteatro pietroso che conduce alla via rocciosa che viene considerata
5 la “normale” per la vetta, scopriamo con sorpresa che di notte sono caduti alcuni centimetri di neve che hanno imbiancato il paesaggio. Le “guide” ci mollano all’attacco della parete e si posizionano per aspettarci al ritorno. Noi proseguiamo fino a quota 5010 in un canalino roccioso sempre più pieno di ghiaccio mano a mano che si sale. A questo punto la prudenza prevale e decidiamo di rinunciare, con il disappunto di avere fiduciosamente lasciato in albergo l’attrezzatura da ghiaccio… ma anche con il sollievo di Mauro che era al suo primo contatto con la roccia. Grazie alla mia corda di 20 m e ad alcune fettucce trovate in parete, Marco può assicurarci per una discesa più veloce sulle rocce ancora coperte da un sottile strato di neve e, ritrovate le “guide” che ci aspettavano sul sentiero, torniamo al rifugio Horombo. 12 gennaio. Si parte tutti insieme da Horombo (3720 m) per i 10 Km che ci condurranno all’ultimo rifugio: il Kibo (4703 m), che è il più spartano di tutti, situato proprio alla base del cono sommitale del vulcano. Lì finisce la stradina e inizia il ripido sentiero dove dovremo incamminarci durante la notte. L’itinerario finale prevede di procedere lungo la massima pendenza fino al bordo del cratere sommitale (il cosiddetto Gilman’s Point, 5675 m) e quindi di percorrere per circa 1,5 Km il bordo del cratere, guadagnando altra quota fino alla vetta (chiamata Uhuru Peak, 5896 m). Finalmente il freddo giustifica l’utilizzo dei pesanti sacchi a pelo che abbiamo portato e, dopo una rapida cena andiamo molto presto a tentare di dormire. 13 gennaio. A mezzanotte, dopo una prima colazione contro-voglia, l’uscita dal rifugio ci offre una sorpresa: la pioggia che ci ha accolto ieri pomeriggio ed è continuata per tutta la sera, durante la notte si è mutata in neve, e ora uno strato di 10-15 centimetri riveste tutto il cono sommitale, a partire dal rifugio, facendolo biancheggiare alla luce della luna. La temperatura di 20° sotto zero, il passo molto lento imposto dalla guida, e la necessità di fermarci ogni tanto per verificare la glicemia, fanno sì che alcuni di noi soffrano molto il freddo. Lungo il pendio quattro diabetici e un accompagnatore sono costretti a rinunciare per il freddo e la fatica in due diversi momenti. Ogni volta il capo-guida Wilson li fa scortare da una giovane “guida” al rifugio Kibo, dove incontreranno Paola che è rimasta ad aspettarci.
6 Giunti al Gilman’s Point godiamo dello spettacolo dell’alba e proseguiamo verso ovest lungo il bordo del cratere. Alle 6:30, dopo esattamente sei ore e mezza dalla partenza, raggiungiamo la vetta in 7 diabetici e 4 medici e, dopo le reciproche congratulazioni e le foto di rito, ci incamminiamo per la discesa. Poco prima di giungere al Gilman’s Point ci accorgiamo che il giovane Andrea parla lentamente e interrompe qualche frase a metà. Mi basta uno sguardo con Marianna per condividere un sospetto che è quasi una certezza: HACE (High Altitude Cerebral Edema) o edema cerebrale da alta quota! Con la prontezza tipica degli anestesisti-rianimatori, Marianna gli infila un ago-cannula in una vena del braccio e gli inietta una fiala di cortisone, come da protocollo. Solo in seconda battuta gli controlliamo la glicemia per escludere la possibilità di un’ipoglicemia inavvertita: il valore di 170 mg/dl conferma la correttezza della nostra diagnosi. A questo punto Wilson decide di mandare a valle il grosso della comitiva accompagnato da una delle tre “guide” rimaste con noi: con Andrea restiamo solo Marianna e io, oltre a Wilson e agli ultimi due indigeni a disposizione. La cura principale per il mal di montagna è perdere quota rapidamente, quindi appena Andrea è in grado di alzarsi i due ragazzi locali lo sostengono per le braccia e si avviano quasi trascinandolo verso il Gilman’s Point, che per fortuna è vicino. Lungo la discesa Andrea migliora rapidamente e in prossimità del rifugio Kibo è già in grado di camminare da solo. Tuttavia Wilson, forte della sua esperienza, dispone che sulla stradina che scende al rifugio Horombo, verso il quale ripartiamo immediatamente, Andrea sia trasportato in barella. 14 gennaio. Si parte subito dopo colazione per completare la discesa fino al Marangu Gate. Sono 1920 metri di dislivello che percorriamo agevolmente tutti, compreso Andrea che sta di nuovo benissimo. L’unico fastidio è la pioggia battente che ci accompagna per tutta l’ultima ora, e che ci fa apprezzare quanto siamo stati fortunati con il meteo nei giorni precedenti. Ci attende il trasferimento, in fuori- strada e in autobus, ad Arusha, dove incontriamo i rappresentanti dei diabetologi della Tanzania, ai quali facciamo dono di materiali vari per la cura e il monitoraggio del diabete. Il giorno seguente ci spostiamo all’Hotel Hilton di Nairobi, dove avremo un paio di giorni per fare i turisti, prima del volo di ritorno a Roma. Marco e Vittorio, invece, proseguono per il M. Kenya, che riusciranno a scalare per una via lunga e difficile… ma questa è un’altra storia, e chi è interessato può leggerne il resoconto di Marco Peruffo.
7 Conoscenza e condivisione Tutte le sere, nell’ora che precede la cena, ho organizzato una riunione del gruppo durante la quale ho intervistato due partecipanti, con l’idea di far raccontare a ciascuno che cosa avesse rappresentato nel passato e significasse nel presente per lui o per lei convivere con il diabete. Calcolando il fatto che le riunioni sono cominciate solo a marcia iniziata, quindi nel primo “lodge”, e che in alta quota quando le condizioni logistiche e climatiche erano più disagevoli un paio di riunioni sono saltate, sono riuscito appena a intervistare tutti una volta. All’inizio ciascuno si è presentato con i suoi dati anagrafici da cui è emerso che le età andavano dai 25 ai 54 anni, mentre l’età di insorgenza del diabete andava dai 2 ai 34 anni, con durata del diabete da 2 a 33 anni (durata media 16,4 ± 8,8 a). Qui di seguito, una selezione di frammenti di storie di vita che i partecipanti – rispondendo alle mie domande aperte – hanno voluto condividere con il gruppo, contribuendo così grandemente a creare quel senso di reciproca comprensione e vicinanza, che per alcuni si è trasformato nel tempo in autentica amicizia. Domanda: Come è avvenuta la scoperta del diabete? ☞ “In un anno ho perso 12 Kg, poi insulina: ho pianto per una settimana senza farmi vedere da marito e figlio. Quando ho ripreso il peso e stavo bene l’ho accettato e abbiamo voluto una figlia.” ☞ “Sono autonomo dall’età di 7, dopo un campo-scuola.” ☞ “All’inizio grave cheto-acidosi con perdita di 12 Kg: aiutato dalla compagna e dal figlio, mentre i miei genitori sono andati in crisi.” ☞ “Mi sono fatto fare le iniezioni dalla mamma fino a 16 anni (avvento delle penne).” ☞ “Astenia intensa per 1 anno con tante indagini anche psichiatriche… Poi glicemia a 200: cercavo di andare sotto a un’auto. Presto ho iniziato sport: bici, sci-alpinismo.” ☞ “All’epoca arrampicavo e ho cominciato ad avere spesso traumi muscolari o articolari; poi ho iniziato a perdere peso… e arrampicavo meglio. Dopo la diagnosi ho avuto un iniziale rifiuto per l’insulina.” ☞ “Dopo una mononucleosi ho perso 15 Kg in 45 giorni, finché ho trovato la glicemia a 700. Trauma psicologico attutito per la presenza del diabete in famiglia: in particolare mio padre, che mi ha imposto fin da subito l’auto-iniezione. Dopo un anno ho avuto un coma IPO… e mia madre è crollata.” ☞ “Esordio durante l’ultimo anno di università, mi ha fatto perdere un anno. In casa c’è stata confusione: nessun problema con la fidanzata, poi moglie, ma i genitori sentono di avere un figlio malato. Nel 1° anno ho avuto varie IPO gravi e ciò mi ha dato ansia fino a crisi di panico. Poi ho imparato a essere più elastico e dopo un anno ho cominciato ad avvertire le IPO.” ☞ “Ho perso 11 Kg in 3 settimane. In arrampicata preparavo il grado 8a ed ero contento di essere più leggero… fino alla chetoacidosi. Appena fatta l’insulina sono rinato, e in arrampicata sono diventato più cattivo, aggressivo.” ☞ “Lavoravo, ero sposato con un figlio, non praticavo sport. Durante un periodo a casa, fame e debolezza con calo di 10 Kg, fino alla chetoacidosi (glicemia 600). Dopo il ricovero mi curavo con 1 iniezione di insulina lenta al dì, ma avevo la fobia dell’ago e ho sospeso l’insulina; quindi secondo ricovero e passaggio a 2 iniezioni. Il medico mi ha consigliato l’attività fisica e a 30 anni ho iniziato con tennis, piscina e palestra, ma andavano male gli orari. Poi un amico mi ha portato a correre… Da allora ho corso 70-80 maratone (con un personale di 2h 50’), quattro ‘50 Km’ e tre ‘100 Km’.” ☞ “Ho tre casi di diabete in famiglia, ma la mia diagnosi è stata lenta a causa dell’estate:
8 andavo in bici bevendo un l di acqua all’ora. Dopo un calo di vari Kg in un mese, sono andato in remissione per 7-12 mesi. Sono seguito molto dai miei genitori, che a volte mi hanno difeso anche da consigli sbagliati. Come sport, ho iniziato presto il fondo, ma poi a 12-13 anni mi sono stufato. Dopo alcuni anni ho avuto occasione di accompagnare la nazionale russa di fondo e lì è nata la passione, che ha trasformato la fatica in divertimento, e spinta verso un obiettivo. Domanda: Qual è l’aspetto più negativo del diabete per te? ☞ La rinuncia ai dolci! Faccio attività fisica anche per mangiarli. ☞ L’ignoranza degli altri. Al 1° colloquio di lavoro mi hanno scartato per il diabete. ☞ Cambiare lo stile di vita per l’insulina. E se venisse a mio figlio… ☞ Limitazioni varie: p.es. dover programmare; il sub, lo judo. ☞ Precarietà, cioè risposta dell’organismo variabile (e imprevedibile). ☞ Valore aggiunto agli altri problemi (‘una rottura’). ☞ Limiti nelle prestazioni. Necessità di programmare. ☞ La preoccupazione delle complicanze. ☞ Devi sempre avere qualcuno che ti segue, che sa dove sei (per timore di IPO gravi). Domanda: Un aspetto positivo? ☞ Ho imparato ad accettare gli eventi spiacevoli. ☞ È un aiuto per capire la gente. L’evoluzione nella cura: oggi i bambini stanno meglio di come stavo io. ☞ Mi ha fatto capire la fragilità umana e maturare più in fretta. Mi ha reso solidale con gli altri. ☞ Ho imparato a mangiare bene (e anche mio fratello!) ☞ Ha rappresentato una soglia di cambiamento mentale nei miei rapporti (+ sensibilità). ☞ Grossa opportunità: mezzo di autopromozione sociale (conferenze). ☞ Vedere la vita in modo diverso. Capire la gente. ☞ Mi ha avvicinato al bisogno degli altri. Non vado a casa a mangiare per aiutare gli altri nell’associazione. ☞ Ho capito meglio il funzionamento del corpo. Da 1 anno, il microinfusore mi consente di non programmare la giornata dal mattino. A domande varie… ☞ In casa facciamo da mangiare a turno: tutti evitano i fritti. La paura delle complicanze mi condiziona un po’. Più di tutto mi preoccupa che venga il diabete a mia figlia. ☞ Non ho mai smesso di dirlo, ma faccio di tutto (anche il DisK) per dimostrare agli “altri” che con il diabete si fa di tutto. Gli “altri” sono soprattutto le leggi discriminatorie: mai avuto problemi con i concittadini. ☞ Ho fondato un gruppo di volontariato per aiutare le persone con handicap (Down). Ho finito gli studi in fretta e ho fatto tanti sport. ☞ Abbastanza osservante come adolescente. Cercavo di nascondere il diabete con i coetanei, però se necessario lo ammettevo. Sto cominciando a capire la gestione al 100% solo adesso. ☞ Ho un carattere avventuroso, ma la necessità di programmare non mi pesa. Non ripenso a che vita avrei senza diabete. Non concepirei una vita senza attività fisica. ☞ Da subito il buon controllo è stato finalizzato a ottenere le migliori performances. In casa l’ambiente deve essere favorevole. Quello che voglio fare è divertirmi nell’ambiente che preferisco. Contatto con i medici: il medico di famiglia mi chiede le novità sul diabete; con il diabetologo mi sento ogni tre mesi. Non poter andare più in montagna? Per me è inconcepibile. ☞ Non ho problemi con i genitori ma con gli amici (mai detto, tranne che a due o tre). Buon autocontrollo in coincidenza con inizio della montagna. Lo sport mi ha dato equilibrio.
9 ☞ Discussione in casa: avere figli o no? Dubbi per l’alta frequenza del diabete in famiglia. La passione di mio padre non ha condizionato molto le mie scelte di montagna. Non poter andare più in montagna? Buona domanda! Fino a poco tempo fa sarebbe stato inconcepibile; ora potrei parlarne con mia moglie. ☞ Buona convivenza con il diabete: ho molto scrupolo per la cura. Faccio 2-3 U d’insulina alle h 4:20 tutte le notti. L’ho sempre detto agli altri. A parte l’escursionismo, altre forme di attività fisica le faccio per dovere, per una cura migliore. ☞ Problemi con gli amici di arrampicata, che non hanno capito i miei problemi; quindi ho cambiato amici. Se non posso più arrampicare, vado a nuotare. Sono arrivato così presto all’autocontrollo grazie all’aiuto degli altri, e anche perché osservo tutti e “rubo” da tutti, anche qui. Filtraggio delle informazioni? Da solo. ☞ Volevo un 2° figlio ed è andata bene (ha 24 anni). Mi ero convinto di voler guarire, nonostante ogni evidenza. Il figlio: ‘Papà, quand’è che guarisci?’ Cosa mi aspettavo quando ho buttato siringhe e insulina? Nulla, è stata una reazione di rabbia durata 2-3 giorni… passata con l’aiuto di mia moglie. Prima facevo attività fisica per cura.; poi ho visto la cura in funzione della corsa. Facevo poche glicemie perché mi regolavo bene da solo… avevo tutto in una “cartucciera”, ma non serviva. Un figlio è istruttore di alpinismo; l’altro è arbitro di calcio. Se il diabete venisse a loro, la prenderei malissimo. ☞ Nel 1993 sono stato 54° al Camp. Naz. Juniores di fondo. A 17 anni, passione anche per la corsa: 1994, 36 Km di corsa in montagna con 800 m di dislivello: 3h 10’. Ho anche fatto molta bici: 10 gg, 1100 Km, dislivello tot 23-24 Km. L’ho sempre detto a tutti. Ho messo il microinfusore non per fare meno iniezioni: faccio in media 8 glicemie al giorno. Conclusione: lo sport è una cura? Oggi conosciamo bene i benefici fisici e psicologici di un’attività fisica regolare, e l’escursionismo in montagna è fra le attività più salutari, purché attuato con le debite precauzioni. L’esperienza DIsK ha mostrato, sia nei risultati biomedici, sia nelle testimonianze dei partecipanti, che anche attività molto impegnative, come l’alpinismo in alta quota, non solo sono possibili a chi ha il diabete tipo-1, ma possono essere svolte senza compromettere il buon controllo, e possono diventare scuola di vita e di cura, sia per l’esperienza maturata su di sé, sia per il confronto continuo con gli altri partecipanti.
Puoi anche leggere