RESOCONTO DISK (Diabetici Italiani Sul Kilimangiaro) - Diabete Roma ...

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RESOCONTO DISK (Diabetici Italiani Sul Kilimangiaro) - Diabete Roma ...
RESOCONTO DISK
                       (Diabetici Italiani Sul Kilimangiaro)
      di Aldo Maldonato
                                                                                  7-17 gennaio 2002
      Mezzanotte. Si parte per “l’attacco finale alla vetta”, come un po’ enfaticamente si è
espresso il capo-spedizione durante il suo sermone del pomeriggio, con l’aria di un allenatore
prima della partita più importante della stagione, dicendosi certo che tutti raggiungeremo la
cima.
       Non è chiaro perché gli accompagnatori locali abbiano l’abitudine di far partire così presto
i clienti dal rifugio Kibo, situato a 4700 metri di altezza, ultima e meno confortevole tappa lungo
la via più comoda e frequentata della più alta montagna d’Africa, il Kilimangiaro, chiamato
anche Kibo dagli indigeni, che con la sua cima più alta - lo Uhuru Peak - raggiunge la quota di
5900 metri. È probabile che lo facciano per consentire di godere delle prime luci del giorno dalla
cima, prima che la foschia o le nuvole la avvolgano completamente, come sono solite fare a
partire da metà mattina. Certo è che questa scelta comporta di dover camminare di notte per
quasi tutta la salita, alla incerta luce di una lampada frontale, esposti a temperature molto basse, -
20° C nel nostro caso, senza il conforto dei raggi del sole, che normalmente raggiungono il bordo
del cratere sommitale solo verso le sei del mattino.
      Il capo dei nostri accompagnatori Wilson, 50 anni, è la guida più esperta del luogo come
egli stesso ci ripete spesso, e con la nostra spedizione festeggia la sua cinquecentesima
ascensione. Durante i primi giorni di salita ha avuto modo di conoscerci e apprezzarci, e
anch’egli si dice fiducioso che la maggior parte di noi raggiunga la vetta. Prima della partenza
invece probabilmente non avrebbe scommesso su di noi, avendo saputo che siamo un gruppo un
po’ particolare. Infatti la maggior parte di noi ha il diabete di tipo 1, insulino-dipendente.

Una strana iniziativa
      L’idea di salire sul Kilimanjaro con un gruppo di persone affette da diabete di tipo 1 è
venuta a Mario Zolli, medico dell’ospedale di Mirano (VE), quando ha scoperto durante
un’escursione effettuata con un alpinista diabetico che a quest’ultimo bastavano poche unità di
insulina per tenere bassa la glicemia, nonostante mangiasse molto. Era l’estate del 2000.
      Folgorato da questa rivelazione, il dottor Zolli si è proposto di diffondere la buona notizia
che l’attività fisica fa bene al diabete, con un’impresa dal doppio valore simbolico: dimostrare
che i diabetici possono anche scalare le cime più alte, e portare ai fratelli meno fortunati della
Tanzania un aiuto concreto consistente in una parte della generosa sponsorizzazione ottenuta per
l’impresa.
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      Ottenuta l’adesione di Gerardo Corigliano, diabetologo di Napoli, presidente dell’ANIAD
(Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici), il resto dell’organizzazione è stato in discesa,
dalle sponsorizzazioni al reclutamento dei partecipanti. L’unica difficoltà è consistita nel dover
dire no ad alcuni che non davano sufficienti garanzie di esperienza in montagna.
       Ho aderito volentieri all’iniziativa appena mi è stato proposto, e ho confermato la mia
partecipazione anche quando purtroppo la “mia” paziente che aveva aderito con me, una giovane
universitaria nativa della Val di Fassa, ha dovuto rinunciare per una distorsione al ginocchio
mentre si allenava sul Sassolungo. Le mie due antiche passioni, per l’educazione terapeutica
delle persone con diabete, e per la montagna mi facevano sentire particolarmente vicino a questa
iniziativa. Sentivo che avrei potuto dare qualcosa ai partecipanti e sapevo che a mia volta avrei
potuto imparare molto da loro.
      Ma sarei stato all’altezza dell’impresa? Il Kilimangiaro non presenta difficoltà tecniche, e
per questo è spesso sottovalutato. In realtà l’altezza di quasi seimila metri comporta forti rischi di
mal di montagna per le persone non acclimatate, cioè abituate a vivere a quell’altitudine. È noto
– e lo avremmo tragicamente potuto constatare con i nostri occhi – che il mal di montagna, da
sintomi lievi e rapidamente reversibili, può evolvere verso due gravi complicazioni, entrambe
potenzialmente mortali: l’edema polmonare da alta quota e l’edema cerebrale da alta quota. Il
rischio non sembra correlato con l’età né con il grado di allenamento, ma è certo che diminuisce
nelle persone acclimatate.
      La mia esperienza di montagna avrebbe potuto tranquillizzarmi: in fondo ero già salito su
un quasi-6000, il Nevado Pisco in Perù, e mi ero arrampicato sulla vetta dei più prestigiosi 4000
delle Alpi, dal Cervino al Gran Paradiso, dal Weisshorn alla Dent Blanche, dallo Zinalrothorn
all’Obergabelhorn, dalle varie punte del Monte Rosa al Dom, dall’Alphubel allo Stralhorn
all’Allalaninhorn, ma tutto ciò era avvenuto qualche anno fa, e per giunta ero venuto a sapere
che con i miei 56 anni compiuti sarei stato il “nonno” del gruppo.
       Inoltre era possibile che, almeno per alcuni dei partecipanti, la meta si ampliasse per
includere altri due obbiettivi, la cima secondaria del Kilimangiaro, il Mawenzi, alto 5150 metri e
tecnicamente più interessante, con vie di secondo-terzo grado, e il M.Kenya, decisamente più
difficile. Se fossi stato bene, almeno una di queste alternative mi tentava molto.
      Il 2001 era stato per me un anno di lavoro particolarmente intenso e non avevo avuto
tempo per allenarmi come si deve, però la data fissata per la partenza – il 7 gennaio 2002 – mi
avrebbe consentito una mossa strategica. Avrei preso due settimane di ferie fra Natale e
l’Epifania, e ne avrei approfittato per allenarmi e soprattutto per acclimatarmi. Sapevo che a
questo fine quello che conta soprattutto è dormire in quota: ebbene avrei lasciato la famiglia nei
comodi letti del nostro residence e sarei andato a dormire al rifugio Lagazuoi che, con i suoi
2750 metri è il posto più alto agibile d’inverno nella zona di Cortina. Dicono che basta dormire
10 notti a 3000 metri per essere pronti per i 6000. Io sono riuscito a salire al Lagazuoi solo tre
sere con le pelli di foca sotto gli sci e a pernottare lì: non sarà stato sufficiente ma è stato certo
meglio che restare alla mia quota abituale, vicino alla riva del Tevere.
      Altri, come Gerardo Corigliano, hanno forse avuto più difficoltà di me per allenarsi e
acclimatarsi, fra Vesuvio e Monte Faito, ma la volontà può molto, e aiuta a trovare occasioni utili
nelle circostanze più impensate.
     Molti dei partecipanti si sono riuniti in autunno per un’escursione sulle Pale di San
Martino, ma il grosso della preparazione è stato lasciato all’iniziativa dei singoli.
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       Alla partenza il gruppo DIsK
risultava così costituito: 11 persone con
diabete di tipo-1, cinque medici e un…
marito. Uno dei medici, Marianna,
anestesista era la moglie di uno dei
diabetici. L’altro medico, Paola Pavan,
medico dello Sport, senza esperienza di
montagna, si era aggregata all’ultimo
momento con l’obiettivo di raggiungere
quota 5000, per vedere come si sarebbe
comportata a una quota analoga a quella
del campo base di un 8000, dove sarebbe
stata presto inviata per condurre una
ricerca sul metabolismo in alta quota.
      Delle persone con diabete, due (Marco e Vittorio) erano forti alpinisti, Luca era un forte
arrampicatore con poca esperienza di alta montagna, Mauro era un forte fondista, ma anche
corridore e ciclista in montagna, Alberto un ex maratoneta dall’eccezionale curriculum, e gli altri
sei (Andrea, Cristina, Daniele, Fabio, Ilaria e Pietro) erano persone “normali”, cioè sportivi e più
o meno amanti della montagna, ma a livello dei comuni mortali.
Insieme verso la cima
      Il Kilimangiaro è un enorme rilievo vulcanico, lungo circa 50 chilometri e largo 20, che si
erge per più di 4000 metri dai 1800 metri dell’altopiano della Tanzania. Molto è stato scritto
sulla sua cima coperta da ghiacciai eterni, costituita da un enorme cratere di più di 2 chilometri
di diametro.
      Durante le sei ore di autobus dall’aeroporto di Nairobi, attraverso il confine tra Kenia e
Tanzania, fino a Moshi siamo tutti ansiosi di vedere la nostra meta, di misurarci con lei, ma
resteremo delusi: come accade la maggior parte del tempo, la metà superiore della montagna
resta nascosta fra le nuvole e non ci resta altro che tentare di indovinare dove sarà la cima,
prolungando con l’immaginazione i due profili inferiori dei fianchi della montagna.
      Il mattino del 9 gennaio, dopo un’abbondante colazione, a bordo di tre fuori-strada,
raggiungiamo il Marangu Gate, da dove inizia la prima delle quattro tappe che ci porteranno in
cima. La via di Marangu, detta anche CocaCola Route, è la più comoda delle numerose vie che
                                                percorrono i versanti della montagna, ed è
                                                l’unica attrezzata con veri e propri rifugi il cui
                                                comfort decresce mano a mano che cresce la
                                                quota. La via è costituita da una comoda
                                                stradina      in   terra     battuta,   percorsa
                                                incessantemente da turisti provenienti da ogni
                                                parte del mondo e dai portatori che
                                                trasportano sulla testa il grosso dei bagagli dei
                                                clienti, fino a un massimo di 20-25 Kg.
                                                         La prima tappa è lunga 12 km e ci porta
                                                    dal Marangu Gate, 1800 m, attraversando la
                                                    zona della foresta tropicale, ai 2700 m del
                                                    Rifugio Mandara. Qui un minaccioso cartello
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ammonisce a non insistere verso la cima se si è ammalati o esausti, e vieta il proseguimento ai
bambini di meno di 10 anni. Siamo alloggiati in comode stanze a 4 cuccette e, dopo una sosta e
un ristoro, molti di noi si avventurano a esplorare i dintorni, sperando di vedere la cima, che però
è sempre fra le nuvole e ci si svelerà solo l’indomani.
                                                         10 gennaio. Ci aspetta una tappa di 15
                                                   chilometri che, finita la foresta tropicale si
                                                   svilupperà per intero nella fascia vegetale
                                                   chiamata savana, portandoci ai 3720 m del
                                                   rifugio Horombo. Qui le camere sono a sei
                                                   cuccette e i bagni sono decisamente più
                                                   spartani. Il prezzo delle bottiglie di acqua
                                                   minerale, l’unica potabile, aumenta dai due ai
                                                   tre dollari a bottiglia.
                                                        Poco prima di giungere a Horombo, un
                                                  curioso spettacolo ci coglie di sorpresa, tanto
                                                  che quasi nessuno di noi fa in tempo a
                                                  documentarlo con una foto: quattro portatori
accompagnano correndo in discesa una barella sostenuta da una ruota di motorino fissata al
centro sotto di essa. Nella barella è disteso un uomo, che si difende dagli scossoni tenendo la
testa un po’ sollevata. Questo ci consente di vedere che ha un buon aspetto: si tratta del primo
caso di mal di montagna di cui siamo testimoni, e i portatori stanno curandolo nel modo più
efficace, cioè facendogli perdere quota il più presto possibile. Di altri cinque casi saremo
testimoni prima della fine della spedizione e uno di questi riguarderà un membro del nostro
gruppo. Inoltre assisteremo anche alla discesa di una barella che trasporta un morto, che
apprenderemo essere un uomo svedese di 40 anni, verosimilmente colpito da edema cerebrale da
alta quota.
       Proprio per prevenire il mal di
montagna il nostro programma, a differenza di
altri organizzati da compagnie turistiche di
tutto il mondo, prevede una “pausa” di un
giorno a metà salita, o meglio una breve
escursione     seguita   da   un     secondo
pernottamento nello stesso rifugio a quota

                                                   3720 m.
                                                         11 gennaio. Con Marco, Vittorio e Mauro
                                                   avevo programmato di approfittare di questa
                                                   pausa per tentare la salita ai 5150 m. del M.
                                                   Mawenzi, e così facciamo, dopo avere a lungo
                                                   contrattato con la guida, che – in base alla legge
                                                   locale – ci impone la “guida” di un paio di
                                                   indigeni. Arrivati nell’anfiteatro pietroso che
                                                   conduce alla via rocciosa che viene considerata
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la “normale” per la vetta, scopriamo con
sorpresa che di notte sono caduti alcuni
centimetri di neve che hanno imbiancato il
paesaggio. Le “guide” ci mollano all’attacco
della parete e si posizionano per aspettarci al
ritorno. Noi proseguiamo fino a quota 5010 in
un canalino roccioso sempre più pieno di
ghiaccio mano a mano che si sale. A questo
punto la prudenza prevale e decidiamo di
rinunciare, con il disappunto di avere
fiduciosamente      lasciato     in     albergo
l’attrezzatura da ghiaccio… ma anche con il
sollievo di Mauro che era al suo primo
contatto con la roccia. Grazie alla mia corda
di 20 m e ad alcune fettucce trovate in parete, Marco può assicurarci per una discesa più veloce sulle
rocce ancora coperte da un sottile strato di neve e, ritrovate le “guide” che ci aspettavano sul sentiero,
torniamo al rifugio Horombo.
          12 gennaio. Si parte tutti insieme da Horombo (3720 m) per i 10 Km che ci condurranno
   all’ultimo rifugio: il Kibo (4703 m), che è il più spartano di tutti, situato proprio alla base del
   cono sommitale del vulcano. Lì finisce la stradina e inizia il ripido sentiero dove dovremo
   incamminarci durante la notte. L’itinerario finale prevede di procedere lungo la massima
   pendenza fino al bordo del cratere sommitale (il cosiddetto Gilman’s Point, 5675 m) e quindi di
   percorrere per circa 1,5 Km il bordo del cratere, guadagnando altra quota fino alla vetta
   (chiamata Uhuru Peak, 5896 m).
          Finalmente il freddo giustifica
   l’utilizzo dei pesanti sacchi a pelo che
   abbiamo portato e, dopo una rapida cena
   andiamo molto presto a tentare di dormire.
         13 gennaio. A mezzanotte, dopo una
   prima colazione contro-voglia, l’uscita dal
   rifugio ci offre una sorpresa: la pioggia che
   ci ha accolto ieri pomeriggio ed è continuata
   per tutta la sera, durante la notte si è mutata
   in neve, e ora uno strato di 10-15 centimetri
   riveste tutto il cono sommitale, a partire dal
   rifugio, facendolo biancheggiare alla luce
                                                     della luna. La temperatura di 20° sotto zero, il
                                                     passo molto lento imposto dalla guida, e la
                                                     necessità di fermarci ogni tanto per verificare la
                                                     glicemia, fanno sì che alcuni di noi soffrano
                                                     molto il freddo. Lungo il pendio quattro diabetici
                                                     e un accompagnatore sono costretti a rinunciare
                                                     per il freddo e la fatica in due diversi momenti.
                                                     Ogni volta il capo-guida Wilson li fa scortare da
                                                     una giovane “guida” al rifugio Kibo, dove
                                                     incontreranno Paola che è rimasta ad aspettarci.
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      Giunti al Gilman’s Point godiamo
dello spettacolo dell’alba e proseguiamo
verso ovest lungo il bordo del cratere. Alle
6:30, dopo esattamente sei ore e mezza dalla
partenza, raggiungiamo la vetta in 7
diabetici e 4 medici e, dopo le reciproche
congratulazioni e le foto di rito, ci
incamminiamo per la discesa.
      Poco prima di giungere al Gilman’s
Point ci accorgiamo che il giovane Andrea
parla lentamente e interrompe qualche frase
a metà. Mi basta uno sguardo con Marianna
per condividere un sospetto che è quasi una
certezza: HACE (High Altitude Cerebral Edema) o edema cerebrale da alta quota! Con la
prontezza tipica degli anestesisti-rianimatori, Marianna gli infila un ago-cannula in una vena del
braccio e gli inietta una fiala di cortisone, come da protocollo. Solo in seconda battuta gli
controlliamo la glicemia per escludere la possibilità di un’ipoglicemia inavvertita: il valore di
170 mg/dl conferma la correttezza della nostra diagnosi. A questo punto Wilson decide di
mandare a valle il grosso della comitiva accompagnato da una delle tre “guide” rimaste con noi:
con Andrea restiamo solo Marianna e io, oltre a Wilson e agli ultimi due indigeni a disposizione.
La cura principale per il mal di montagna è perdere quota rapidamente, quindi appena Andrea è
in grado di alzarsi i due ragazzi locali lo sostengono per le braccia e si avviano quasi
trascinandolo verso il Gilman’s Point, che per fortuna è vicino. Lungo la discesa Andrea
migliora rapidamente e in prossimità del rifugio Kibo è già in grado di camminare da solo.
Tuttavia Wilson, forte della sua esperienza, dispone che sulla stradina che scende al rifugio
Horombo, verso il quale ripartiamo immediatamente, Andrea sia trasportato in barella.
                                                             14 gennaio. Si parte subito dopo
                                                      colazione per completare la discesa fino al
                                                      Marangu Gate. Sono 1920 metri di
                                                      dislivello che percorriamo agevolmente
                                                      tutti, compreso Andrea che sta di nuovo
                                                      benissimo. L’unico fastidio è la pioggia
                                                      battente che ci accompagna per tutta
                                                      l’ultima ora, e che ci fa apprezzare quanto
                                                      siamo stati fortunati con il meteo nei giorni
                                                      precedenti.
                                                              Ci attende il trasferimento, in fuori-
                                                       strada e in autobus, ad Arusha, dove
                                                       incontriamo i rappresentanti dei diabetologi
                                                       della Tanzania, ai quali facciamo dono di
materiali vari per la cura e il monitoraggio del diabete. Il giorno seguente ci spostiamo all’Hotel
Hilton di Nairobi, dove avremo un paio di giorni per fare i turisti, prima del volo di ritorno a
Roma. Marco e Vittorio, invece, proseguono per il M. Kenya, che riusciranno a scalare per una
via lunga e difficile… ma questa è un’altra storia, e chi è interessato può leggerne il resoconto di
Marco Peruffo.
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Conoscenza e condivisione
      Tutte le sere, nell’ora che precede la cena, ho organizzato una riunione del gruppo durante
la quale ho intervistato due partecipanti, con l’idea di far raccontare a ciascuno che cosa avesse
rappresentato nel passato e significasse nel presente per lui o per lei convivere con il diabete.
Calcolando il fatto che le riunioni sono cominciate solo a marcia iniziata, quindi nel primo
“lodge”, e che in alta quota quando le condizioni logistiche e climatiche erano più disagevoli un
paio di riunioni sono saltate, sono riuscito appena a intervistare tutti una volta.
      All’inizio ciascuno si è presentato con i suoi dati anagrafici da cui è emerso che le età
andavano dai 25 ai 54 anni, mentre l’età di insorgenza del diabete andava dai 2 ai 34 anni, con
durata del diabete da 2 a 33 anni (durata media 16,4 ± 8,8 a).
      Qui di seguito, una selezione di frammenti di storie di vita che i partecipanti – rispondendo
alle mie domande aperte – hanno voluto condividere con il gruppo, contribuendo così
grandemente a creare quel senso di reciproca comprensione e vicinanza, che per alcuni si è
trasformato nel tempo in autentica amicizia.
Domanda: Come è avvenuta la scoperta del diabete?
☞ “In un anno ho perso 12 Kg, poi insulina: ho pianto per una settimana senza farmi vedere
da marito e figlio. Quando ho ripreso il peso e stavo bene l’ho accettato e abbiamo voluto una
figlia.”
☞ “Sono autonomo dall’età di 7, dopo un campo-scuola.”
☞ “All’inizio grave cheto-acidosi con perdita di 12 Kg: aiutato dalla compagna e dal figlio,
mentre i miei genitori sono andati in crisi.”
☞ “Mi sono fatto fare le iniezioni dalla mamma fino a 16 anni (avvento delle penne).”
☞ “Astenia intensa per 1 anno con tante indagini anche psichiatriche… Poi glicemia a 200:
cercavo di andare sotto a un’auto. Presto ho iniziato sport: bici, sci-alpinismo.”
☞ “All’epoca arrampicavo e ho cominciato ad avere spesso traumi muscolari o articolari;
poi ho iniziato a perdere peso… e arrampicavo meglio. Dopo la diagnosi ho avuto un iniziale
rifiuto per l’insulina.”
☞ “Dopo una mononucleosi ho perso 15 Kg in 45 giorni, finché ho trovato la glicemia a
700. Trauma psicologico attutito per la presenza del diabete in famiglia: in particolare mio padre,
che mi ha imposto fin da subito l’auto-iniezione. Dopo un anno ho avuto un coma IPO… e mia
madre è crollata.”
☞ “Esordio durante l’ultimo anno di università, mi ha fatto perdere un anno. In casa c’è stata
confusione: nessun problema con la fidanzata, poi moglie, ma i genitori sentono di avere un
figlio malato. Nel 1° anno ho avuto varie IPO gravi e ciò mi ha dato ansia fino a crisi di panico.
Poi ho imparato a essere più elastico e dopo un anno ho cominciato ad avvertire le IPO.”
☞ “Ho perso 11 Kg in 3 settimane. In arrampicata preparavo il grado 8a ed ero contento di
essere più leggero… fino alla chetoacidosi. Appena fatta l’insulina sono rinato, e in arrampicata
sono diventato più cattivo, aggressivo.”
☞ “Lavoravo, ero sposato con un figlio, non praticavo sport. Durante un periodo a casa,
fame e debolezza con calo di 10 Kg, fino alla chetoacidosi (glicemia 600). Dopo il ricovero mi
curavo con 1 iniezione di insulina lenta al dì, ma avevo la fobia dell’ago e ho sospeso l’insulina;
quindi secondo ricovero e passaggio a 2 iniezioni. Il medico mi ha consigliato l’attività fisica e a
30 anni ho iniziato con tennis, piscina e palestra, ma andavano male gli orari. Poi un amico mi ha
portato a correre… Da allora ho corso 70-80 maratone (con un personale di 2h 50’), quattro ‘50
Km’ e tre ‘100 Km’.”
☞ “Ho tre casi di diabete in famiglia, ma la mia diagnosi è stata lenta a causa dell’estate:
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andavo in bici bevendo un l di acqua all’ora. Dopo un calo di vari Kg in un mese, sono andato in
remissione per 7-12 mesi. Sono seguito molto dai miei genitori, che a volte mi hanno difeso
anche da consigli sbagliati. Come sport, ho iniziato presto il fondo, ma poi a 12-13 anni mi sono
stufato. Dopo alcuni anni ho avuto occasione di accompagnare la nazionale russa di fondo e lì è
nata la passione, che ha trasformato la fatica in divertimento, e spinta verso un obiettivo.
Domanda: Qual è l’aspetto più negativo del diabete per te?
☞ La rinuncia ai dolci! Faccio attività fisica anche per mangiarli.
☞ L’ignoranza degli altri. Al 1° colloquio di lavoro mi hanno scartato per il diabete.
☞ Cambiare lo stile di vita per l’insulina. E se venisse a mio figlio…
☞ Limitazioni varie: p.es. dover programmare; il sub, lo judo.
☞ Precarietà, cioè risposta dell’organismo variabile (e imprevedibile).
☞ Valore aggiunto agli altri problemi (‘una rottura’).
☞ Limiti nelle prestazioni. Necessità di programmare.
☞ La preoccupazione delle complicanze.
☞ Devi sempre avere qualcuno che ti segue, che sa dove sei (per timore di IPO gravi).
Domanda: Un aspetto positivo?
☞ Ho imparato ad accettare gli eventi spiacevoli.
☞ È un aiuto per capire la gente. L’evoluzione nella cura: oggi i bambini stanno meglio di
come stavo io.
☞ Mi ha fatto capire la fragilità umana e maturare più in fretta. Mi ha reso solidale con gli
altri.
☞ Ho imparato a mangiare bene (e anche mio fratello!)
☞ Ha rappresentato una soglia di cambiamento mentale nei miei rapporti (+ sensibilità).
☞ Grossa opportunità: mezzo di autopromozione sociale (conferenze).
☞ Vedere la vita in modo diverso. Capire la gente.
☞ Mi ha avvicinato al bisogno degli altri. Non vado a casa a mangiare per aiutare gli altri
nell’associazione.
☞ Ho capito meglio il funzionamento del corpo. Da 1 anno, il microinfusore mi consente di
non programmare la giornata dal mattino.
A domande varie…
☞ In casa facciamo da mangiare a turno: tutti evitano i fritti. La paura delle complicanze mi
condiziona un po’. Più di tutto mi preoccupa che venga il diabete a mia figlia.
☞ Non ho mai smesso di dirlo, ma faccio di tutto (anche il DisK) per dimostrare agli “altri”
che con il diabete si fa di tutto. Gli “altri” sono soprattutto le leggi discriminatorie: mai avuto
problemi con i concittadini.
☞ Ho fondato un gruppo di volontariato per aiutare le persone con handicap (Down). Ho
finito gli studi in fretta e ho fatto tanti sport.
☞ Abbastanza osservante come adolescente. Cercavo di nascondere il diabete con i coetanei,
però se necessario lo ammettevo. Sto cominciando a capire la gestione al 100% solo adesso.
☞ Ho un carattere avventuroso, ma la necessità di programmare non mi pesa. Non ripenso a
che vita avrei senza diabete. Non concepirei una vita senza attività fisica.
☞ Da subito il buon controllo è stato finalizzato a ottenere le migliori performances. In casa
l’ambiente deve essere favorevole. Quello che voglio fare è divertirmi nell’ambiente che
preferisco. Contatto con i medici: il medico di famiglia mi chiede le novità sul diabete; con il
diabetologo mi sento ogni tre mesi. Non poter andare più in montagna? Per me è inconcepibile.
☞ Non ho problemi con i genitori ma con gli amici (mai detto, tranne che a due o tre). Buon
autocontrollo in coincidenza con inizio della montagna. Lo sport mi ha dato equilibrio.
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☞ Discussione in casa: avere figli o no? Dubbi per l’alta frequenza del diabete in famiglia.
La passione di mio padre non ha condizionato molto le mie scelte di montagna. Non poter andare
più in montagna? Buona domanda! Fino a poco tempo fa sarebbe stato inconcepibile; ora potrei
parlarne con mia moglie.
☞ Buona convivenza con il diabete: ho molto scrupolo per la cura. Faccio 2-3 U d’insulina
alle h 4:20 tutte le notti. L’ho sempre detto agli altri. A parte l’escursionismo, altre forme di
attività fisica le faccio per dovere, per una cura migliore.
☞ Problemi con gli amici di arrampicata, che non hanno capito i miei problemi; quindi ho
cambiato amici. Se non posso più arrampicare, vado a nuotare. Sono arrivato così presto
all’autocontrollo grazie all’aiuto degli altri, e anche perché osservo tutti e “rubo” da tutti, anche
qui. Filtraggio delle informazioni? Da solo.
☞ Volevo un 2° figlio ed è andata bene (ha 24 anni). Mi ero convinto di voler guarire,
nonostante ogni evidenza. Il figlio: ‘Papà, quand’è che guarisci?’ Cosa mi aspettavo quando ho
buttato siringhe e insulina? Nulla, è stata una reazione di rabbia durata 2-3 giorni… passata con
l’aiuto di mia moglie. Prima facevo attività fisica per cura.; poi ho visto la cura in funzione della
corsa. Facevo poche glicemie perché mi regolavo bene da solo… avevo tutto in una
“cartucciera”, ma non serviva. Un figlio è istruttore di alpinismo; l’altro è arbitro di calcio. Se il
diabete venisse a loro, la prenderei malissimo.
☞ Nel 1993 sono stato 54° al Camp. Naz. Juniores di fondo. A 17 anni, passione anche per la
corsa: 1994, 36 Km di corsa in montagna con 800 m di dislivello: 3h 10’. Ho anche fatto molta
bici: 10 gg, 1100 Km, dislivello tot 23-24 Km. L’ho sempre detto a tutti. Ho messo il
microinfusore non per fare meno iniezioni: faccio in media 8 glicemie al giorno.
Conclusione: lo sport è una cura?
      Oggi conosciamo bene i benefici fisici e psicologici di un’attività fisica regolare, e
l’escursionismo in montagna è fra le attività più salutari, purché attuato con le debite
precauzioni.
       L’esperienza DIsK ha mostrato, sia nei risultati biomedici, sia nelle testimonianze dei
partecipanti, che anche attività molto impegnative, come l’alpinismo in alta quota, non solo sono
possibili a chi ha il diabete tipo-1, ma possono essere svolte senza compromettere il buon
controllo, e possono diventare scuola di vita e di cura, sia per l’esperienza maturata su di sé, sia
per il confronto continuo con gli altri partecipanti.
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