QUELLO CHE I SONDAGGI NON DICONO SULLA SFIDA TRUMP-BIDEN - Gian ...

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QUELLO CHE I SONDAGGI NON DICONO SULLA SFIDA
TRUMP- BIDEN
Nelle ultime settimane sono piovuti decine di sondaggi in vista delle
presidenziali americane del prossimo novembre. Molti hanno mostrato una
grossa forbice tra Donald Trump e lo sfidante democratico Joe Biden, con
picchi che hanno superato il 10%. Tra gli addetti ai lavori c’è chi continua a
predicare cautela, tanto che alcuni analisti hanno sottolineato ironicamente
che il margine di errore più giusto andrebbe indicato come “è estate”.

I sondaggi, infatti, fotografano il momento in cui vengono svolti e dicono molto
poco rispetto a novembre. Il problema è che molto spesso la narrazione della
politica americana, e soprattutto della corsa per la Casa Bianca, si ferma a
questi numeri. La verità, come sempre, è più complessa. E quei numeri, quei
divari incolmabili per Trump, nascondo tutta una serie di fenomeni che
rimangono sotto traccia.

Lo scenario dietro agli andamenti dei sondaggi

Per capire meglio partiamo dai precedenti. Negli ultimi 25 anni quasi tutte le
elezioni sono state combattute e in un Paese sempre più polarizzato è quindi
difficile che una parte prevalga sull’altra con margini molto ampi. Dal 1996,
anno della vittoria schiacciante di Bill Clinton contro Bob Dole, il margine più
alto per una vittoria è stato quello di Barack Obama nel 2008. In tutti gli altri
casi la forchetta tra i candidati si è ridotta man mano che ci sia avvicinava al
voto di novembre.

Normalmente la distanza tra Repubblicani e Democratici nella corsa
presidenziale può essere inquadrata in due fenomeni distinti. La presenza di
un grosso evento che aiuta o danneggia un determinato candidato, o il
sentimento degli elettori influenzato dai media. Il primo caso può essere
ritrovato nella vittoria dell’ex senatore dell’Illinois spinto dalla violenta crisi
economica esplosa nell’autunno del 2008, il secondo è stato invece più
evidente nel 2016.

Tra agosto e metà ottobre Hillary Clinton ha vissuto un momentum
favorevole. Una convention dem partecipata, la sensazione di una migliore
prestazione ai dibattiti presidenziali e parallelamente una copertura dei media
sfavorevole per Trump. Poi tutto si è ribaltato col mailgate che ha coinvolto
l’ex senatrice a un clima mediatico meno favorevole.

Oggi per il presidente la situazione resta delicata. Non gode di un momento
favorevole agli occhi dei media, persino Fox News non ha fatto mancare le
sue critiche. E allo stesso tempo si trova a gestire un cigno nero
complicatissimo come l’emergenza da coronavirus. Un’emergenza che molti
americani considerano ancora prioritaria. Il punto però è che al momento non
è possibile prevedere l’andamento di economia ed epidemia nei prossimi
mesi e questo rende i sondaggi ancora più limitati.

A tutto questo va aggiunta una strategia attendista da parte di Biden. L’ex
vice presidente non può tenere comizi e interviene solo in collegamento con
tv e dirette sui social. Parte del suo momentum nei sondaggi è dettato più dal
suo restare in attesa che per meriti diretti. Come ha scritto Nate Cohn
sul New York Times se Biden dovesse uscire dall’ombra entrando sotto i
riflettori dei media – magari infilando qualche gaffe – e allo stesso tempo la
copertura negativa di giornali e tv su Trump si attenuasse, con ogni
probabilità i sondaggi si stabilizzeranno.

La mossa di Trump per risalire

Mentre sondaggi negativi piovevano da tutte le parti, il comitato per la
rielezione del presidente ha visto un avvicendamento al vertice: a metà luglio
il capo della campagna Brad Parscale è stato sostituito Bill Stepien. Molti
hanno sottolineato la mossa come se fosse il segnale di un possibile flop
elettorale. In realtà la scelta di affidare il comando a Stepien va ben oltre il
momento.

Per capirlo serve un po’ di contesto. La campagna elettorale che si
apprestano a giocare Trump e Biden sarà unica nel suo genere. Convention
ridotte all’osso, se non virtuali, impossibilità nel condurre comizi sul territorio e
necessità di combattersi in televisione e soprattutto tra digitale e social
network. Per questo la promozione di Stepien potrebbe giocare un ruolo
chiave.

L’analista 42enne, già direttore degli affari politici di Trump tra il 2017 e
2018, è noto per essere una figura riservata, disciplinata e preparata, ma
soprattutto di avere una vera e propria ossessione per i dati e la loro analisi.
Nella sua carriera di consulente, iniziata in New Jersey con deputati e
senatori e culminata con l’elezione a governatore di Chris Christie nel 2010,
ha fatto largo uso di strategie elettorali legate ai big-data, all’analisi
dell’elettorato e alla targetizzazione degli elettori con messaggi ad hoc.

La battaglia per i big-data

Le attitudini di Stepien si inseriscono in un meccanismo più grande all’interno
del partito repubblicano, una capacità del Gop nella gestione di grandi flussi
di dati e della conoscenza dettagliata degli elettori. Il Comitato nazionale
repubblicano (Rnc) ha più volte spiegato di avere a disposizione una grossa
banca dati e complessi modelli capaci di assegnare punteggi agli elettori,
tracciare le loro reazioni agli spot televisivi o sui social media e correggere
eventuali campagne. Una macchina, fanno sapere, che è stata alla base del
successo di Trump su Clinton nel 2016.

Questo complesso sistema di raccolta ed elaborazione è stato creato proprio
a partire dal 1996 e dalla sconfitta di Dole. All’epoca il partito iniziò con la
raccolta manuale dei dati, ha spiegato Ellen Bredenkoetter, responsabile dei
dati del comitato nazionale repubblicano, poi il sistema ha seguito le
evoluzioni tecnologiche arrivando al successo del 2016.

In quell’occasione, lontano dai sondaggi che davano Clinton avanti addirittura
di 8 punti all’inizio dell’autunno, la campagna del tycoon, appoggiata anche
all’infrastruttura del partito, lavorò per raggiungere piccoli gruppi di elettori sui
social facendo leva sulle loro preferenze o antipatie.

Dal 2013 il Rnc ha speso circa 350 milioni di dollari per il suo lavoro sui dati
creando un gruppo di specialisti sia a livello nazionale che statale.
Bredenkoetter ha spiegato a Roll Call che oggi il database viene nutrito
quotidianamente con dati da tutto il Paese anche grazie a volontari e attivisti
e soprattutto analisti ed esperti di rilevazioni.

I limiti della struttura dem e le responsabilità di Obama

La nomina di Stepien acquisisce quindi ancora più valore perché inserita in
un meccanismo che ha già dato i suoi frutti, anche per limiti della controparte
democratica. Dopo il 2016 il partito dell’asinello ha cercato di capire come
rifondare le sue strategie digitali cercando di superare limiti evidenti.

I problemi risalgono al 2012, anno della rielezione di Barack Obama. Parte
degli operativi del presidente dediti al comparto digitale dopo la vittoria hanno
lasciato i dem per andare a lavorare in diverse realtà della Silicon Valley o
fondando proprie compagnie. Parallelamente lo stesso Obama nel corso del
suo secondo mandato non ha mai lavorato per preparare il partito al suo
addio. Dopo la vittoria contro Mitt Romney ha addirittura lanciato un proprio
soggetto, l’Organizing for Action, e negli anni molti hanno lamentato una certa
lentezza nel fornire dati di valore e liste di contatti.

Dopo quell’esperienza i dem hanno provato a lavorare per recuperare la
distanza dai repubblicani ma i problemi non sono mancati. All’interno del
partito si è aperta una frattura tra strateghi di lunga data e funzionari storici
contro i nuovi arrivati con esperienza digitale che hanno continuato ad
insistere sulla necessità di innovare accusando la vecchia dirigenza di fare
politica con un modello inefficace.

Pur con il favore estivo dei sondaggi di dem restano indietro con
un’infrastruttura ancora incompleta e molto sfilacciata. Dopo il 2012 il partito
repubblicano ha costruito strutture per la raccolta dei dati e la micro
targetizzazione anche grazie a capitale provenienti da ricchi sostenitori
conservatori. Lo stesso non avvenuto in modo organico per i dem. Addirittura
magnati come Tom Steyer e Mike Bloomberg hanno preferito lanciare proprie
piattaforme candidandosi alle primarie dem piuttosto che finanziare il partito.

Le rilevazioni più interessanti potrebbero arrivare nelle prossime settimane,
quando la macchina elettorale dei partiti viaggerà a pieno regime. Qualche
giorno fa ha fatto scalpore la decisione del comitato di Trump di sospendere
gli spot televisivi in Michigan, uno degli stati del Midwest che gli aveva
regalato la vittoria nel 2016.

Fonti della campagna hanno raccontato a Fox News che la pausa era
obbligatoria. L’arrivo di Stepien ha rimescolato le strategie e con ogni
probabilità qualcosa cambierà, magari deviando ancora più fondi sui social
media, con pubblicità mirate a segmenti di elettori. Magari con modalità che
sfuggiranno ai sondaggi ancora una volta.
Alberto Bellotto

IL GIORNALE

9 Agosto 2020
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