Quel sottile filo che lega i fatti di Bibbiano alla dell'Affidamento - Itali@ Magazine
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Quel sottile filo che lega i fatti di Bibbiano alla Riforma dell’Affidamento Condiviso I fatti di Bibbiano hanno reso pubblico ciò che tante associazioni denunciano da anni: il pericolo rappresentato dalla possibilità che si creino relazioni di interesse fra i giudici e le case famiglia. In alcuni distretti giudiziari non a caso il tasso di collocamenti extrafamiliari induce a qualche riflessione. Ma cosa lega questi fatti alla riforma dell’affidamento condiviso? Ne parliamo con Vittorio Vezzetti, fondatore dell’International Council on Shared Parenting- Dott. Vezzetti, come si spiega che possano accadere fatti come quelli oggetto dell’indagine giudiziaria sugli affidi della Val d’Enza? Fatti di questo genere possono verificarsi e perpetuarsi solo in assenza di chiare linee guida e di validi meccanismi, anche statistici, di controllo. Mi spiego meglio: già nel 2012 pubblicai una importante ricerca che evidenziava come in Italia, nel campo dell’affido di minori a comunità, esistesse una situazione a macchia di leopardo. In pratica evidenziai fra Regione e Regione delle variazioni percentuali di minori affidati a comunità così evidenti e statisticamente significative che non potevano dipendere da realtà sociali locali ma solo da scuole di pensiero e procedure molto diverse. Portai questo studio in audizione presso la Commissione Infanzia e Adolescenza ma, come spesso accade, non successe nulla. L’introduzione di linee guida chiare può essere d’aiuto? Certamente perché le linee guida evitano che il destino dei
minori possa soggiacere all’arbitrio degli operatori. Non dimentichiamo lo scandalo di qualche anno fa quando vennero messe in risalto le relazioni di interesse fra molti giudici e numerose case famiglia. Inoltre un’analisi statistica può evidenziare facilmente se in una certa area c’è un tasso di collocamenti extrafamiliari abnorme e indurre il sospetto che qualcosa non funzioni a dovere, innescando così tempestivamente una doverosa attività di verifica. Sulla base dei dati che raccolsi, io potei solo confrontare il comportamento di Regioni e Province Autonome ma sicuramente esistevano ed esistono tuttora aree all’interno della stessa Regione con tassi di affido extrafamiliare significativamente diversi fra loro. Insomma, una specie di anarchia dove il più forte può fare i propri interessi, non necessariamente economici ma anche solo ideologici. La situazione è comparabile con quella dell’affidamento condiviso in caso di separazione e divorzio? Direi proprio di sì. Anche qui la legge attuale è piuttosto vaga in quanto definisce solo la necessità di tempi equilibrati e continuativi da trascorrere con ciascuno dei genitori ma, di fatto, se uno si trova nel Distretto di Brindisi vede tradotta questa locuzione in termini di equipollenza temporale mentre se si trova del Distretto giudiziario della quasi totalità degli altri Tribunali deve soggiacere a distribuzioni temporali del 20% versus 80 con notevoli varietà da Tribunale a Tribunale ed anche da giudice a giudice e da perito a perito nell’ambito del medesimo Tribunale. In pratica si avverte anche qua la necessità di linee guida ponderate e da aggiornare costantemente da cui derogare solo in presenza di validi e obiettivi motivi. Troppo spesso, come stiamo vedendo, l’autonomia professionale viene confusa con l’arbitrio e l’anarchia. E’ invece vero il contrario: la professionalità degli operatori, quelli validi, verrebbe valorizzata dall’introduzione di precise linee guida. Funziona ormai così in tantissimi settori: dalla Medicina
all’Aeronautica e i risultati sono tangibili. (https://it.wikipedia.org/wiki/Linea_guida) Quindi secondo lei esiste un sottile filo ideologico che collega i fatti di Bibiano (ma anche quelli del Forteto o dei Diavoli della Bassa Modenese e chissà quant’altri) alle resistenze alla riforma dell’affidamento condiviso? Certamente e non è un caso che le forze e le associazioni che cercano di minimizzare i fatti di Bibiano o che addirittura li hanno favoriti creando il giusto clima politico coincidono in larga parte o facciano rete con i movimenti contrari alla riforma dell’affidamento condiviso. Questa è ormai l’Italia degli slogan e delle ideologie. Lo studio e la ricerca vengono dopo e spesso danno fastidio. Ma esiste una letteratura scientifica di riferimento in questo specifico settore dell’affidamento dei figli? Certo. Ormai negli ultimi lustri è stato possibile, grazie alla diffusione dell’affido materialmente condiviso (shared parenting), effettuare molteplici studi comparativi su larga scala e le conclusioni sono sostanzialmente univoche. A tempi di frequentazione equivalenti corrispondono bambini e adulti in media più sani. Poiché la giurisprudenza prevalente ignora questo aspetto, è giusto che il Contratto di Governo abbia focalizzato questo obiettivo. di Mario Masi Vi presento l’homo social di Miriam Terzanota Il tipo social è la versione 2.0 dell’uomo che si aggira per i
giardinetti con l’impermeabile.Non sai mai cosa possa nascondersi sotto o, almeno, speri di non scoprirlo mai. Indossa la sua pic migliore (una foto risalente a un decennio prima, nella migliore delle ipotesi; nella peggiore si avvale della foto di Brad Pitt, scaricata da google immagini, nella speranza che nessuno se ne accorga). Foto in primo piano se ha il panzone; con la testa “tagliata” (che manco Maria Antonietta) se è calvo; con l’amico figo di fianco (creando quella speranza, puntualmente disattesa, che dopo 4999 richieste di amicizia finalmente ha iniziato a seguirti un uomo che non ha lo stesso sex appeal del ragionier Ugo Fantozzi) se il chirurgo estetico gli ha consigliato di andare a Lourdes. Non esiste però un solo tipo. Abbiamo così tante specie di homo social che Alberto Angela ne farebbe un’intera stagione di “Ulisse-Il dispiacere della scoperta”. Ma studiamoli più da vicino. 1. Il portinaio: quello che saluta sempre. “Buongiornissimo” al mattino, “buonanottissima” la sera. Ogni volta che entri o esci da Facebook, lui sarà sempre lì pronto a salutarti. 2. Il pescatore: quello che pratica pesca a strascico. Non importa se tu sia bella o brutta, stupida o intelligente, simpatica o antipatica…l’unica cosa che per lui conta è il respiro. Se ancora non è stata dichiarata l’ora del tuo decesso, hai la speranza di imbatterti in lui. Scrive messaggi in cui esalta le tue doti, soprattutto quelle che non hai, ti riempie di complimenti, facendoti sentire l’unica donna al mondo e poi…invia a tutte. 3. L’amico: quello che non hai mai visto né sentito, quello a cui hai accettato la richiesta di amicizia perché stavi cercando di togliere la nutella scivolata sul display del tuo smartphone. Quello che esordisce con fare talmente confidenziale da insinuare in te il dubbio che sia un ex compagno delle elementari che ha subito un trapianto facciale. 4. Il commentatore seriale: colui che non è riuscito a far
parte del pubblico della De Filippi e prova la scalata verso il successo, fatta di codici sconto e pubblicità a fitvia, facendo gavetta sulla tua bacheca. Non si fa mai trovare impreparato sull’argomento del giorno perché lui, se in difficoltà, risolve tutto con un emoji, con un commento fuori luogo come un congiuntivo a “uomini e donne” e non manca mai di farti sentire la sua presenza. 5. Lo psicologo: quello che sulla base dei tuoi post riesce a stabilire il tuo umore, capisce i tuoi problemi, vuole aiutarti a risolverli…e magari tu hai postato una frase di Marquez prima e una di Luca Giurato, poi. 6. Il cicerone: colui che esce di casa solo per fare la spesa, quello il cui viaggio più avventuroso è consistito nel trasferimento dal divano al bagno, quello il cui unico ristorante che conosce è la cucina di sua mamma…ti invita a visitare la sua città, offrendosi di fare da Cicerone…per attraversare la strada. 7. Il risorto di figa: colui che scredita tutti gli altri, appellandoli come defunti dell’apparato sessuale femminile, mettendone in mostra i difetti e prendendone le distanze mentre nel frattempo ci sta provando anche con lo scaldabagno. Il suo iter è un calvario; sembra morire mentre cerca di dissimulare il suo vero interesse attraverso: poesie, citazioni colte, ricercata ironia…per poi risorgere al primo accenno di tette. Cosa non si fa per la figa?! 8. Il polemico: è il Vittorio Sgarbi dei social. Se tu sostieni A, lui sostiene B, se tu sei vegana, lui è carnivoro, se tu sostieni la pace nel mondo, lui ti fa la guerra, se tu gli dai ragione, lui cambia versione…è quello che non è riuscito ad avere attenzione nemmeno il giorno del suo compleanno e cerca rivalsa sui social. 9. Il social venditore: è il Giorgio Mastrota di internet; quello che ti contatta per mettere un like alla sua pagina, ascoltare un suo pezzo, leggere un suo libro, vedere un suo film, comprare un set di pentole, un materasso e una bici con cambio shimano. 10. Lo gne gne gne: quello che ti lascia il suo numero, ti
chiede il tuo, ottiene un due di picche e, piuttosto che darsi al solitario, rilancia con un maturo “gne gne gne” e insulti a raffica, fino alla frase finale a effetto, con la quale vorrebbe ferirti o dichiarare la sua integerrimità, asessualità…”ma io sono felicemente sposato”, una volta uscito dal programma “non sapevo di avere una moglie”. 11. Il selfatore: quello che passa il tempo a corteggiare se stesso e a farsi più foto di quante ne scattino alla Gioconda. 12. Il prostatore: quello che ti scambia per un andrologo, allegandoti la foto del suo cervello basso. 13. Il pensionato: quello che ti segue, post dopo post, così come si seguono i lavori di un cantiere. 14. L’ufficio di collocamento: quello che esalta le tue doti fisiche, intellettive, morali… e ti propone di lavorare per lui che sono anni che è in cassa integrazione. 15. L’uomo pagine bianche: quello che nel vano tentativo di raccogliere numeri di telefono di donne avvenenti (ma anche non avvenenti; basta che respirino), ti lascia il suo, ovviamente non richiesto, come se fossi un cesso dell’autogrill. 16. Il giocatore di poker: quello che reagisce a un due di picche con la stessa pacatezza e calma con la quale Enrico Varriale reagisce alle parole di Walter Zenga. Ai suoi occhi, ti trasformi da Cindy Crawford a Gegia in una frazione di secondo, senza l’impiego di filtri ma grazie al potere taumaturgico di un “no”. Le tipologie non sono solamente queste ma spesso tutte sono accomunate da un unico denominatore: dimenticano che ciò che gli viene data è un’amicizia virtuale, non la confidenza.
Cosa fa soffrire i figli di genitori separati? di Annabell Sarpato Cosa fa soffrire i figli di genitori separati? La separazione è un evento che ha un forte impatto su tutta la famiglia. Essa riguarda in primis la coppia genitoriale, ma inevitabilmente ha ricadute sull’intero sistema familiare, in particolar modo sui figli. Spesso i genitori mi chiedono se la separazione di per sé può causare conseguenze negative sui figli. In realtà non è così. Quando mamma e papà si separano, infatti, i bimbi inevitabilmente sperimentano sentimenti forti e contrastanti. Dolore, rabbia, senso di impotenza, tristezza, paura e senso di colpa sono emozioni fisiologiche che i bambini sperimentano di fronte alla comunicazione della separazione. Queste emozioni, con il tempo, però, tendono a sfumare. I bambini, infatti, elaborano la sofferenza e la possono tradurre in punti di forza. Attivano, così, la loro capacità di resilienza. Non è la separazione in sé a causare conseguenze negative a lungo termine sui bambini. La separazione è un vero e proprio lutto e, come tale, deve essere elaborato. Cosa fa soffrire i figli di genitori separati, dunque? Oltre alla sofferenza fisiologica a seguito di una separazione, infatti, possono esserci delle situazioni che esacerbano questi sentimenti e li mantengono nel tempo, non permettendo una elaborazione della separazione di mamma e papà. Di seguito, alcune riflessioni su cosa fa soffrire i figli di genitori separati e rischia di causare malessere e disagio nei bimbi.
COSA FA SOFFRIRE I FIGLI DI GENITORI SEPARATI? IL CONFLITTO ESPERITO CONFLITTO. Sono molte le ricerche che evidenziano che non è la separazione in sé a sviluppare conseguenze negative sui figli, ma il livello di conflittualità che viene esperito durante la separazione. Se anche dopo la decisione di andare a vivere in due case separate le liti sono molto frequenti, i bambini assorbono quest’atmosfera ostile, sviluppando sentimenti di tristezza e rabbia, con il rischio di rispondere a questa situazione con comportamenti sintomatici. Ricordiamo che la conflittualità non è solo quella esplicita, caratterizzata da urla e gesti plateali, ma anche quel continuo battibeccare latente, basato su ripicche e giochi subdoli di potere. STRUMENTALIZZAZIONE DEI BAMBINI. I bambini sono inevitabilmente coinvolti nella separazione di mamma e papà. La situazione, però, si aggrava nel momento in cui i bimbi vengono coinvolti nelle discussioni dei genitori, assumendo il ruolo di strumento per attaccare o ferire l’altro genitore. Anche i continui litigi sulle questioni dei bambini, sulla loro educazione dopo la separazione e sulla loro gestione, pone i piccoli al centro del conflitto, accrescendo il loro senso di colpa. COSA FA SOFFRIRE I FIGLI DI GENITORI SEPARATI? L’IMPORTANZA DEL RISPETTO IL GENITORE FANTASMA. Anche se ci si separa, mamma e papà continuano a essere e fare i genitori. Questo è un diritto e un dovere dei genitori. Ci possono essere due situazioni altamente pericolose. Quando un genitore si
allontana dalla vita del bimbo in modo volontario e quando uno dei due coniugi fa di tutto per isolare l’altro genitore, impedendogli di avere rapporti con il piccolo. Situazioni di questo tipo possono essere molto gravi per l’intero sistema familiare, perché trasmettono il messaggio che la separazione non riguarda solo mamma e papà, ma anche il legame genitoriale. E’ molto importante evitare questo tipo di situazioni, perché le uniche vittime sono i bimbi. MANCANZA DI RISPETTO. I bimbi, non dimentichiamolo, sono persone. Hanno sentimenti, emozioni, soffrono e gioiscono come i grandi. Non è vero che i bimbi non si accorgono di nulla. I piccoli, spesso, sono molto più ricettivi degli adulti e hanno la capacità di cogliere cosa sta succedendo intorno a loro in maniera molto più sensibile dei grandi. Per questo è sempre importante basare il rapporto sul dialogo e sul confronto, parlando con i propri figli in maniera sincera e aperta. Questo non vuol dire sobbarcare i piccoli dei propri problemi o affidando a loro responsabilità che non gli spettano. Ciò, invece, significa parlare loro di quello che sta succedendo e di come si possono affrontare insieme le difficoltà che si incontrano. Ovviamente, tenendo conto dell’età e del livello di sviluppo del piccolo. Cos’è l’idoneità genitoriale di Maria Bernabeo Una coppia in separazione molto spesso a causa del conflitto si trova a sostenere una CTU in cui il giudice chiede la
valutazione dell’idoneità genitoriale. In tantissime CTU si assiste ad un indagine di personalità dei genitori molto approfondite, alla ricerca di quegli elementi che rilevano la capacità /incapacità di padre e madre di svolgere adeguatamente la funzione genitoriale. Durante le CTU vengono somministrate una quantità di test psicologici con l’intento di avere un profilo chiaro della personalità dei genitori. E poi? Come può essere correlato la struttura di personalità alla capacità genitoriale? Al giudice poco interessa se il genitore abbia tratti narcisisti oppure l’altro presenti comportamenti di tipo passivo-aggressivo. Non è comprensibile basare gran parte della consulenza su questi aspetti, anche attraverso l’analisi di risultati dei test psicologici. Al tribunale necessitano risposte concrete: i genitori come si comportano nei confronti della prole? L’art. 337 ter Codice Civile decanta: “ Il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo, con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione , istruzione e assistenza morale da entrambi i genitori, mantenere i rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” Ciò che decanta l’art. 337ter è l’idoneità genitoriale ed è ciò che in CTU in caso di separazione conflittuale dovrebbe essere valutata. Non si chiede il profilo di personalità dei genitori, test psicologici ecc.
Come fa il CTU a correlare la personalità dei genitori alla loro capacità genitoriale? Il più delle volte nelle conclusioni della CTU rimane vago sulla idoneità genitoriale suggerendo trattamenti psicologici. Come fa il CTU a correlare la personalità dei genitori alla loro capacità genitoriale? Il più delle volte nelle conclusioni della CTU rimane vago sull’idoneità genitoriale suggerendo trattamenti psicologici. Non bisogna dimenticare che l’idoneità genitoriale è rappresentata dalla capacità di ciascun genitore di rispettare e garantire il diritto del figlio di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con parenti di ciascun ramo parentale, ed è esattamente questo che chiede il quesito del CTU non un profilo di personalità. v Perdono: ricollocare il passato nel passato di Giorgia Belardini Quando si parla di perdono sorge immediatamente un pre- giudizio, considerandolo di matrice religiosa.
Oggi, invece, numerosi studi sostengono il perdono come una forma di terapia, utile all’interno di un percorso di sostegno psicologico, per eliminare atteggiamenti disfunzionali in favore di sentimenti benevoli, a beneficio del sé. Possibili reazioni alle offese Reazioni naturali sono emozioni e sentimenti di incredulità, odio, rabbia, tristezza, senso di colpa, paura, disorientamento e autosvalutazione. In seguito, modalità di reagire possono dividersi in: Desiderio di vendetta. Funziona come deterrente per future potenziali aggressioni e gratifica nell’immediato, ma ci sono delle conseguenze paradossali: non c’è una vera chiusura psicologica a seguito della vendetta, più facilmente vengono innescate nuove ritorsioni, incrementando la paura, e se sono presenti ruminazioni diventa alquanto tossica. Evitamento. Viene messo in atto per la preoccupazione della propria incolumità fisica e/o psichica o per non andare incontro all’opinione negativa degli altri; spesso può servire allo scopo di vendetta, nel momento in cui l’offensore traeva benefici dalla relazione. Perdono. E’ una via di uscita dalla sofferenza. Cosa NON è il perdono Non è dimenticare. Per perdonare dobbiamo ricordare, ma in modo diverso; sarebbe impossibile far cadere nell’oblio un ricordo in modo volontario. Il perdono è un percorso che trova un senso, aumenta la comprensione in favore di una crescita personale. Non è riconciliazione.
Il perdono non prevede necessariamente la riconciliazione, soprattutto perché potrebbe mettere a rischio il benessere psico-fisico: la riconciliazione avviene dopo un percorso di perdono e contempla un processo bilaterale in cui l’offensore è parte attiva, dimostrando di essere cambiato e cercando di riguadagnare la fiducia. E ancora… Non è un atto di sottomissione, non è negare la gravità, non è non volere una giustizia. Ma che cos’è il perdono? Perdonare significa concedere un dono. È una SCELTA, un percorso unilaterale che richiede tempo e prevede cambiamenti emotivi, cognitivi, motivazionali e comportamentali verso l’offensore. Per perdonare è importante prima impegnarsi ad elaborare i propri vissuti e la propria rabbia, comprendere le motivazioni ed empatizzare con l’offensore, lasciar andare sentimenti negativi e ruminazioni in favore di sentimenti benevoli. Il primo passo? Differenziare il danno diretto da quello secondario (ruminazioni, autocritiche, decisioni prese pensando di non avere libertà di scelta): tutto quello che è successo non determina necessariamente che vada in quel modo. Vuoi che quella persona continui ad avere tutto questo potere? “Raptus” – Anteprima Giovedì 7 febbraio 2019 a Milano –
Disordini da dipendenza virtuale e perdita di capacità di controllo di Lara Ferrara All’interno di “Virtus – La connessione tra il reale e il virtuale” Direzione artistica di Antonietta Campilongo, promossa dall’Associazione Neworld, Nwart, con il patrocinio del Comune di Milano nell’ambito del progetto Spazi al Talento. Anteprima video:”Raptus” – Giovedì 7 febbraio 2019 alle ore 19.30 – Fabbrica del Vapore, Comune di Milano Partiamo dal fatto degli impulsi, della flessibilità cognitiva e della capacità di assumere decisioni in base all’appagamento. Bisogna accettare l’idea che la tecnologia non sia affatto neutra ma possa produrre effetti sulla mente largamente indipendenti dalla consapevolezza e razionalità di chi li subisce, e tanto più insidiosi perché si presentano sotto una forma accattivante e seducente. La dipendenza da informazioni,la paura di essere tagliati fuori, ciò che colpisce di più è che questa fenomenologia è legata a trasformazioni delle parti del cervello preposte al controllo di questa funzione. I disturbi cognitivi e comportamentali affondano le radici in trasformazioni organiche e sviluppano propensioni genetiche addirittura. Il tema delle malattie mentali scatenate da un cattivo utilizzo del virtuale è un argomento al centro di tantissimi dibattiti su diversi piani e livelli. Non solo in Italia, ma in tutto mondo, la comunicazione sociale non ha potuto evitare di metterci mano in modo più o meno diretto ed esplicito. Di seguito l’idea di realizzarne un
opera di video arte che rappresentasse lo scatenarsi di un di raptus causato dal mal funzionamento di un computer. Ideazione ed interpretazione video: Lara Ferrara Per la regia di: Juan Diego Puerta Lopez Direttore della fotografia e montaggio: Andrès Arce Maldonado “Raptus” è stato interamente girato nella struttura del ex manicomio Santa Maria della Pietà di Roma. https://www.aslroma1.it/polo-museale/santa-maria-della-pieta Si ringrazia la ASL Roma 1 per la gentile concessione. https://www.aslroma1.it/ Informazioni evento: VIRTUS La connessione tra il reale e il virtuale A cura di Antonietta Campilongo http://www.antoniettacampilongo.it/ /www.facebook.com/events/2503488966333109/
Dal 7 al 12 febbraio 2019 Fabbrica del Vapore – Spazio The Art Land – lotto 10 Giovedì 7 febbraio 2019 alle ore 18.00, dopo il MACRO di Roma si inaugura, presso la Fabbrica del Vapore – Spazio The Art Land – lotto 10 a Milano, la mostra dal titolo: Virtus | La connessione tra il reale e il virtuale Con la direzione artistica di Antonietta Campilongo, è promossa dall’Associazione Neworld, Nwart, con il patrocinio del Comune di Milano nell’ambito del progetto Spazi al Talento. Bullismo e cyberbullismo: facciamo chiarezza di Giorgia Belardini COME AGISCONO DI SOLITO I BULLI? L’aggressività è diretta, impulsiva; nel bullismo c’è una intenzionalità e una persistenza nel tempo che può essere a livello fisico (sottrazione di oggetto o violenza fisica), a livello verbale (tramite continue offese), ma anche in modo indiretto, attraverso l’esclusione del gruppo o la diffusione di pettegolezzi, tipica del bullismo femminile. OGGI CON L’ARRIVO DEI CELLULARI CI SONO ANCHE MESSAGGI OFFENSIVI… Ormai avanza sempre più il fenomeno del cyberbullismo, fatto di messaggi offensivi che raggiungono la vittima dove col bullismo tradizionale non poteva essere raggiunta. Il cyberbullismo è proprio un atto aggressivo, intenzionale,
condotto da un individuo o un gruppo di individui attraverso varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può difendersi. QUALI SONO I CAMPANELLI D’ALLARME? Si comincia con l’isolare una vittima, quindi la si fa sentire sola, vulnerabile, in pericolo. La percezione è che non puoi parlarne con nessuno, altrimenti ti si ritorce contro e le violenze saranno ancora peggiori. Da fuori si notano cambiamenti di umore, la vittima non vuole più andare a scuola o fare quello che prima gli piaceva, dorme male, parla poco e spesso ha disturbi psicosomatici. COME SI FA’ AD INDIVIDUARE IL BULLO? Un bullo è una persona che si è creata una corazza, una identità aggressiva che offende gli altri e spesso si trova in compagnia di vari aiutanti e sostenitori che aumentano la sua forza. Naturalmente l’interazione tra bullo e vittima è asimmetrica (squilibrio di potere tra le parti) che può essere per età, grandezza fisica o per atteggiamento mentale; proprio per questo è importante indagare e far capire cosa si nasconde dietro l’aggressività del bullo. IN CHE MODO LE VITTIME DEL BULLISMO ESCONO DAL TUNNEL? Le vittime spesso hanno conseguenze sia a breve che a lungo termine, con disturbi fisici, del sonno, ansia e bassa autostima; soprattutto si vergognano e si sentono in colpa per quella situazione, quindi è molto difficile che chiedano aiuto e riescano da soli ad uscirne. È importante quindi come genitori, come insegnanti e come amici fare attenzione ai cambi di umore improvvisi e ai piccoli segnali che vengono mandati dalla vittima. UN GENITORE COME PUO’ CONTROLLARE IL PROPRIO FIGLIO/FIGLIA?
Controllarlo è diventato quasi impossibile oggi, tra porte delle stanze chiuse e cellulari, i ragazzi sono molto più esposti. Quello che si può fare è insegnare ai propri figli il dialogo, quindi parlare con loro ascoltandoli attivamente, senza esprimere giudizi; interessarsi, comprendere e condividere le loro emozioni; essere un punto di riferimento, cercando di incrementare la loro autostima e le loro potenzialità; creare una rete tra casa e scuola che possa far sentire il ragazzo protetto e supportato. La mediazione familiare a tutela dei minori: intervista
a Monica Gioscia di Mario Masi Il dibattito che sta seguendo al DDL 735, proposto dal Senatore Simone Pillon si sta concentrando in particolar modo sulla figura del mediatore familiare sugli aspetti psico- educativi della mediazione familiare a tutela della bigenitorialità. Ne parliamo con la dott.ssa Monica Gioscia, educatore professionale, mediatore familiare e counselor. Di cosa di occupa il mediatore familiare? Mi occupo di conflitti familiari, sostegno alla genitorialità e coppie in separazione già da tempo; mai come in questo periodo sociale percepisco però la necessità di utilizzare lo strumento della mediazione familiare nell’interesse delle persone come prevenzione della violenza e gestione alternativa del conflitto. Il conflitto nella coppia, è il terreno all’interno del quale si muove e si anima la nostra professione. Come la mediazione aiuta i genitori? Lo scopo della mediazione è consentire ai coniugi che hanno deciso di porre fine al loro matrimonio di raggiungere in prima persona degli “accordi di separazione” e di essere gli artefici della riorganizzazione familiare che andrà a regolare la loro vita futura e dei loro figli , seguendo il concetto delle bigenitorialità partendo dal presupposto che la responsabilità genitoriale debba essere esercitata da entrambi i genitori . Attualmente il nuovo disegno di Legge Pillon/735 sostiene e legittima i bisogni dei figli in separazione ad essere accompagnati da entrambi i genitori nella crescita, garantendo la bigenitorialità. Come ne beneficiano i figli?
Noi mediatori abbiamo una grande responsabilità di tutela nei riguardi dei minori: ne assumiamo la rappresentanza, assumiamo il loro punto di vista, portiamo in primo piano i loro bisogni, cerchiamo di lavorare per la continuità degli affetti. I bambini non soffrono la separazione in sé, ciò che li traumatizza è il conflitto, la violenza. L’effetto devastante sul bambino si verifica laddove esista un’alta conflittualità , dove è strumentalizzato, laddove il bambino subisce la perdita di uno dei due genitori o non riesce a comprendere ciò che sta accadendo. In mediazione troviamo un modo giusto ,a seconda dell’età del bambino per far parlare i genitori con i figli di quello che sta succedendo. Aiutiamo i genitori a rassicurarli che la separazione dei loro genitori non implicherà il sacrificio degli affetti, nè la rottura dei legami. Come interviene il mediatore nel conflitto di coppia? Individuando e agendo sulle “posizioni” e sui veri “bisogni” di una persona. In una coppia che litiga emergono subito le posizioni, il mediatore individua dietro la rigidità di un’idea (posizione) il bisogno di ognuno dei coniugi, il sentimento che procura quella rigidità, il malessere, le ferite. Lasciamo che la coppia litighi di fronte a noi per creare quel “raffreddamento emotivo” che ci darà la possibilità di aiutarli a leggerlo meglio e a gestirlo diversamente. In questo modo, aiutiamo i genitori a rientrare nuovamente in contatto con la capacità della propria mente di pensare a quello che sta accadendo a loro e ai propri figli. Quando si può dire che un incontro sta funzionando? Quando l’incontro di mediazione si sta rivelando efficace si percepisce che le due menti della coppia “pensano insieme”, si allontanano dallo schema amico-nemico, e inizia ad emergere la
consapevolezza del ruolo che ognuno di loro deve svolgere nella vicenda che riguarda il piano genitoriale. Il lavoro sul conflitto è condizione necessaria e indispensabile in mediazione familiare. Due persone che stanno attraversando una crisi coniugale, sono arrabbiate, a volte si odiano e perdono di vista i bisogni dei figli, perché vivono una situazione di angoscia legata alla separazione, è consequenziale che resta loro difficile poter lavorare su un progetto educativo per i figli che porta a distinguere la relazione di coppia da quella genitoriale. Come viene gestito il conflitto? In mediazione dobbiamo fare in modo che il conflitto si esprima, emerga, che i sentimenti di rabbia si affievoliscano quasi come in una “camera di decompressione”, mi piace usare questa metafora, questo perché le coppie che hanno ancora sentimenti di rabbia inespressi strumentalizza e spesso ostacola o getta discredito sull’altra figura genitoriale. Da più parti si sta facendo strada l’idea che gli eccessi di azioni giuridiche contro l’altro genitore sia la manifestazione di un disagio relazionale di uno dei due genitori, che si esprime nell’incapacità di dialogare e coordinarsi con l’altro. Il procedimento giuridico a mio avviso impedisce l’immediatezza e favorisce la cronicizzazione di situazioni non equilibrate. Ecco che la mediazione familiare diventa anche un forte strumento di prevenzione per evitare l’alienazione genitoriale, lavorare sulla coppia elaborando il conflitto e i sentimenti di rabbia facilita il raggiungimento dell’obiettivo iniziale quello di creare una sintonia tra gli ex partners sul piano genitoriale, non più una coppia coniugale ma una coppia genitoriale. La mediazione familiare è un grande strumento di tutela per i minori nella misura in cui offre l’opportunità alla coppia di “ammorbidire il conflitto”, di sostenere il legame di mamma e papà in nome della bi-genitorialità, ripristinare la
comunicazione, favorendo la creazione di rapporti e contatti duraturi e funzionali di entrambi i genitori con i figli. Mediare una coppia in separazione non è cosa di poco conto, è come stare in un mare in tempesta dove i naviganti hanno perso i punti di riferimento, oltre a pensare che si lavora sul “non-amore”. Credo che la dimensione affettiva spesso, sia una spinta propulsiva insieme alla passione che determina una motivazione a gestire un cambiamento e a trovare soluzioni. Far rinascere una coppia di genitori in mediazione, al termine di una relazione coniugale, dà la possibilità di far riemergere quell’amore, in un’altra dimensione relazionale, l’amore per i propri figli che nonostante tutto non deve e non finirà mai. La violenza non ha sesso di Maria Bernabeo Quando parliamo di violenza domestica, ci viene da a pensare a quella che le donne subiscono da generazioni. VIOLENZA DOMESTICA SILENZIOSA Le vittime di sesso maschile, che vengono uccise dalle loro compagne, hanno una media di 45 anni. Il più delle volte gli uomini non sporgono denuncia, un po’ per vergogna o per difficoltà psicologica ( tipica di chi subisce violenza).
Il più delle volte l’elemento frenante è la paura, le persone che subiscono maltrattamenti hanno paura, indipendentemente dal sesso di chi subisce il maltrattamento. Gli uomini che subiscono violenza domestica oltre a quella psicologica, vengono picchiati e gli vengono lanciati oggetti. Come le donne presentano escoriazioni, lividi su diverse parti del corpo. Non importa se sono forti o se sembra inverosimile anche loro sono vittime di violenza domestica. LA VIOLENZA DI GENERE Uomini e donne subiscono minacce, ma la minaccia subita dall’uomo non viene perseguita come un reato penale ma un reato lieve, se la donna fa una denuncia di minaccia la sua denuncia apre un procedimento penale Ma ci viene da dire una minaccia è un reato sia se chi la riceve è un uomo o una donna. Oggi più che mai occorre fare un riesame di tutto questo chiedendo agli uomini che la subiscono tacitamente di farsi coraggio e di chiedere aiuto e denunciare. Quel veleno chiamato alienazione parentale di Silvia Marchi Parlare oggi di alienazione parentale sembra essere diventato
impossibile, se non scegliendo per forza una delle due vie maestre contrapposte che vedono di qua la diagnosi medica che etichetta il tutto come sindrome e ne fa quindi un gruppetto variegato di sintomi associabili ad essa ma anche ad altro, e di là la sentenza comune e inappellabile che dice che l’alienazione parentale non esiste. Eppure una strada di mezzo c’è e, contro ogni aspettativa, è la strada più semplice e peraltro già abbondantemente battuta. Proviamo per un attimo a staccarci dalla terminologia infelice e se vogliamo anche un po’ strumentale con cui si denomina questo spauracchio pedagogico e caliamolo nella vita di tutti i giorni, in esempi di condotte abituali facilmente riscontrabili e purtroppo frequentemente catalogate come situazioni di scarsa rilevanza educativa. Poniamo la seguente situazione: il bambino è a casa del papà. La mamma lo chiama per salutarlo e per sapere come sta e nel corso della telefonata gli chiede del tutto innocentemente “ti manco?”. Dico del tutto innocentemente poiché la situazione è più che verosimile e presumibilmente è capitato a molte mamme o a molti papà di assistervi o di trovarvisi. La pedagogia chiama questo tipo di conversazione comunicazione paradossale poiché mette il bambino in una condizione di indecidibilità. Ovvero: qualsiasi risposta lui dia alla domanda, sarà una risposta sbagliata. È evidente che al bambino in quel momento la mamma non manchi affatto, altrimenti le avrebbe telefonato lui, dunque la sua risposta dovrebbe tranquillamente essere “no”, eppure difficilmente dirà la verità poiché la natura fuorviante della domanda porta con sé un sostrato emotivo a lui estremamente chiaro, e cioè che se dirà alla mamma che non gli manca, lei ci rimarrà male. Una comunicazione di questo tipo ha principalmente due effetti, entrambi dannosi: il primo è che obbliga nei fatti il bambino a mentire e lo costringe a privilegiare il ragionamento funzionale a scapito del suo percepito emozionale (ti dico quello che è meglio dire e non ti dico quello che provo perché fare felice te è più importante di quello che sento io), con un conseguente e
naturale senso di colpa dovuto al malessere di qualcosa che è andato storto (ho detto una bugia e le bugie non si dicono, eppure mi sembra che questa bugia abbia fatto felice la mamma) e alla confusione generata dal non aver assolutamente chiaro il perché. Il secondo effetto altrettanto dannoso è che una comunicazione siffatta ribalta un assioma che per il bambino è inviolabile: se io sono felice, la mamma è felice; viceversa se io sono triste, la mamma è triste. Tutto crolla quando il bambino risponde di sì a quel “ti manco?”, poiché lo stato emotivo in cui sentiamo che qualcosa ci manca, è tutt’altro che uno stato emotivamente positivo, eppure la mamma ne è felice. Poniamo un’altra situazione, anch’essa estremamente verosimile: il papà va a prendere il figlio a casa della mamma. La mamma esce imbronciata, non lo saluta, non lo guarda se non in cagnesco, abbraccia il bambino e dice: “fai il bravo e sii educato con papà”. Questo tipo di comunicazione è simile alla precedente con la sola differenza che il paradosso si innesca tra il dire e il fare. E’ necessario tenere presente che per i bambini, il comportamento dei genitori è legge, non a caso emulano fuori dalle mura domestiche ciò che vedono fare a mamma e papà, sia nelle espressioni che nei modi di dire o di comportarsi. Un’affermazione di questo tipo getta il bambino in una condizione di disarmante insicurezza: se “sarà educato” e “farà il bravo” (entrambe le scelte linguistiche sono infelici, ma ahimè assai comuni, questo poiché entrambe hanno una connotazione del tutto soggettiva e mai oggettiva), di fatto sbaglierà poiché andrà contro quello che la mamma ha appena fatto. Viceversa se si comporterà come si è comportata la mamma, di fatto disobbedirà a quanto lei gli ha appena richiesto a parole, trovandosi anche in questo caso nella condizione di sbagliare. Ecco che, una volta sviscerati questi presupposti, possiamo provare ad addentrarci un po’ di più in un’ulteriore situazione verosimile e purtroppo assai attuale: il papà sta
per arrivare e il bambino dice che non vuole andare da lui. Sostenere a prescindere che questo tipo di richiesta rispecchi il reale stato emotivo del bambino è un approccio non solo superficiale, ma anche nei suoi confronti emotivamente disconfermante. Il genitore competente è quello che immediatamente si chiede se per caso non abbia involontariamente dato un messaggio comunicativo contraddittorio. Qualche esempio: “quando si tratta di arrivare in orario, tuo padre proprio non ce la può fare” oppure “nei giorni in cui deve stare con te va a lavorare. Quello lavora sempre!”. Queste frasi all’apparenza magari non amorevoli ma tutto sommato innocue hanno in realtà un’immediata potenza distruttiva. Esse costruiscono su una peculiarità non necessariamente negativa (pensiamo per esempio a quante volte, da innamorati, abbiamo trovato divertente il fatto che il partner fosse un ritardatario) o addirittura su un aspetto totalmente indipendente dal proprio volere (per quanto lavorare possa essere piacevole, sfido chiunque a dire che preferisce quello all’idea di passare del tempo al parco con il proprio figlio) una correlazione emotiva per cui il bambino sente immediatamente di non essere importante abbastanza da meritare un atteggiamento diverso. Ora, un bambino che sa di non essere importante per un genitore, sarà inevitabilmente terrorizzato all’idea di poter non esserlo più neanche per l’altro e cercherà con le unghie e con i denti di ancorarsi a ciò che gli sembra più saldo. Questi sono tutti esempi di atteggiamenti pedagogicamente distruttivi estremamente comuni e sottovalutati. Parlare di alienazione parentale è fuorviante nella misura in cui rende astratto e difficile da capire ciò che invece non è altro che un insieme di atteggiamenti di tutti i giorni, una modalità educativa fallimentare e potenzialmente squalificante per il bambino ma talmente comune da non essere quasi più visibile. Il bambino, messo di fronte all’ipotesi di fare del male a un genitore, sceglierà sempre l’alternativa di squalificare se stesso e ciò che prova, con il conseguente rifiuto delle
proprie emozioni e l’incapacità di costruire una propria immagine identitaria chiara e indipendente. Ed è fondamentale, in questo senso, un’ultima precisazione. È vero che le situazioni di cui sopra sono plausibili anche a ruoli invertiti, ma è necessario riconoscere che, per essere introiettata, una modalità educativa così dannosa necessita di essere reiterata e vissuta dal bambino per la maggior parte del suo tempo. Dunque il potere disconfermante di un padre che vede il figlio 6 giorni (o meno) al mese non potrà mai essere lo stesso rispetto a quello di una madre che lo vede 24 giorni. Allo stesso modo, però, le possibilità di un padre disconfermato di vedersi riabilitato agli occhi del proprio bambino grazie alla quotidianità e al proprio agire intenzionale si riducono praticamente a zero se consideriamo la norma corrente che vuole questa suddivisione totalmente sbilanciata dei tempi di frequentazione. Viene anche da questa constatazione, insieme alle altre, la presa d’atto della necessità che una riforma efficace nella materia delle separazioni e degli affidi dei minori non solo contenga dispositivi disincentivanti i comportamenti di alienazione parentale, ma stabilisca come principio di base, equilibratore e calmierante, la piena parità dei tempi di frequentazione di madre e padre (e della rispettiva cerchia parentale) da parte del fanciullo.
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