La memoria letteraria nel Gattopardo: echi ed influenze di Baudelaire e Stendhal nel romanzo lampedusiano

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ELISABETTA GAIA GUARASCI
                                           (Université de Strasbourg)

    La memoria letteraria nel Gattopardo: echi ed influenze di Baudelaire e
                    Stendhal nel romanzo lampedusiano

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, come è ormai noto, non ha vissuto l’attività letteraria in
maniera professionale e, complice il suo carattere riservato ed introverso anche sul piano delle
relazioni personali, è rimasto isolato dal contesto culturale italiano della sua epoca. Tuttavia, non
era estraneo all’universo letterario: i frequenti viaggi all’estero fin dalla gioventù, soprattutto in
Francia e in Inghilterra, lo avevano messo in condizione di conoscere, nelle lingue originali, i
maggiori scrittori delle letterature straniere moderne e le loro più importanti opere; di essere
informato sulle più recenti correnti letterarie europee, superando così la chiuasura e il
provincialismo attraversati in alcuni momenti dalla cultura italiana. Per dirla con le parole di
Gioacchino Lanza Tomasi, Lampedusa era «un cosmopolita letterario» (1430).
Tutte queste letture si sono sedimentate nella mente del lettore per poi riaffiorare, al momento
opportuno, nella mente dello scrittore. Esse sono l’humus di cui si è nutrita la sua fantasia, la sua
immaginazione nella ricerca di temi letterari, personaggi, intrighi; costituiscono le fondamenta su
cui sono costruite la sua scrittura e l’elaborazione delle sue tecniche narrative. Nell’opera di
Tomasi di Lampedusa rinveniamo le tracce di questo corposo patrimonio culturale individuale
attraverso le rielaborazioni nella sua opera letteraria, attraverso i riferimenti sottintesi o le
citazioni esplicite. La studiosa Ulla Musarra-Schroeder parla, per ciò, di «memoria letteraria»,
perché ciò che lo scrittore ha letto, ha meditato, ha maturato, riemerge dalla sua memoria, forse
alle volte anche inconsciamente e per involontaria associazione di idee, e si imprime nelle opere
letterarie. Tutte le esperienze di lettura, e in molti casi di rilettura, confluiscono nella sua opera,
che assume poi un carattere originale ed innovatore rispetto alla fonte cui ha attinto (89).
Questo intervento vuole sondare la memoria letteraria lampedusiana ed, in particolare, le
influenze di Charles Baudelaire, per dimostrare come alcuni aspetti tematici e linguistici delle
Fleurs du Mal ritornino nel romanzo, e di Stendhal, per analizzare piuttosto alcuni aspetti formali
e narratologici del Gattopardo (Tomasi di Lampedusa 27-268).1
Il poeta francese viene esplicitamente citato nel romanzo con i versi

1
    Per tutte le citazioni del romanzo si indica a testo il numero di pagina preceduto dalla sigla «G.».
Seigneur, donnez-moi la force et le courage
      de regarder mon cœur et mon corps sans dégoût! (G. 45)

che sono la chiusa di Un Voyage à Cythère (Baudelaire 1:117-19). Situiamo l’episodio: don Fabrizio
ricorda a memoria questi due versi (citandoli, per ciò, in maniera imprecisa) quando medita sul
suo incontro con Mariannina. Scrivendo le pagine sul Principe e la prostituta, però, l’autore non
conduce il lettore direttamente sulla scena; l’incontro mercenario, infatti, è rievocato a posteriori
durante il viaggio di ritorno in villa attraverso i sentimenti che esso ha suscitato nell’animo del
Principe, «una serenità sazia maculata di ripugnanza» (G. 44), cioè una serenità inscindibile,
tuttavia, dalla ripugnanza e dal disgusto verso se stesso e i propri atti. Come la serenità suscitata
dall’avventura amorosa di don Fabrizio si è mutata repentinamente nel ribrezzo verso se stesso,
così nella poesia di Baudelaire all’iniziale spettacolo naturale dell’isola votata alla bella e sensuale
Venere succede una visione mortuaria, macabra, che genera un ribaltamento radicale nel tono
complessivo.
Rileggiamo alcuni estratti del componimento baudelairiano, fonte di ispirazione per queste dense
pagine (vv. 9-40):

      — Île des doux secrets et des fêtes du cœur!
      De l’antique Vénus le superbe fantôme
      Au-dessus de tes mers plane comme un arome
      Et charge les esprits d’amour et de langueur.

      Belle île aux myrtes verts, pleine de fleurs écloses,
      Vénérée à jamais par toute nation,
      Où les soupirs des cœurs en adoration
      Roulent comme l’encens sur un jardin de roses

      Ou le roucoulement éternel d’un ramier!
      ………………………………….

      J’entrevoyais pourtant un objet singulier!

      Ce n’était pas un temple aux ombres bocagères,
      Où la jeune prêtresse, amoureuse des fleurs,
      Allait, le corps brûlé de secrètes chaleurs,
      Entrebâillant sa robe aux brises passagères;

      Mais voilà qu’en rasant la côte d’assez près
      Pour troubler les oiseaux avec nos voiles blanches,
      Nous vîmes que c’était un gibet à trois branches,
      Du ciel se détachant en noir, comme un cyprès.

      De féroces oiseaux perchés sur leur pâture
      Détruisaient avec rage un pendu déjà mûr,

                                                   2
Chacun plantant, comme un outil, son bec impur
      Dans tous les coins saignants de cette pourriture;

      Les yeux étaient deux trous, et du ventre effondré
      Les intestins pesants lui coulaient sur les cuisses.
      Et ses bourreaux, gorgés de hideuses délices,
      L’avaient à coups de bec absolument châtré.

      Sous les pieds, un troupeau de jaloux quadrupèdes,
      Le museau relevé, tournoyait et rôdait;
      Une plus grande bête au milieu s’agitait
      Comme un exécuteur entouré de ses aides.

La vista del corpo di un impiccato talmente straziato e dilaniato dagli animali crea
nell’osservatore una totale immedesimazione fisica, cosicché tormento del corpo e tormento
spirituale vengono a coincidere (vv. 45-60):

      Ridicule pendu, tes douleurs sont les miennes!
      Je sentis, à l’aspect de tes membres flottants,
      Comme un vomissement, remonter vers mes dents
      Le long fleuve de fiel des douleurs anciennes;

      Devant toi, pauvre diable au souvenir si cher,
      J’ai senti tous les becs et toutes les mâchoires
      Des corbeaux lancinants et des panthères noires
      Qui jadis aimaient tant à triturer ma chair.
      ……………………………

      Dans ton île, ô Vénus! je n’ai trouvé debout
      Qu’un gibet symbolique où pendait mon image...
      — Ah! Seigneur! donnez-moi la force et le courage
      De contempler mon cœur et mon corps sans dégoût!

Questi versi baudelairiani e l’immagine cruenta dell’impiccato diventano per Lampedusa un
paradigma cui attingere per introdurre un tema portante del romanzo, quello del macabro e del
mortuario, della decadenza, della malattia e della putrescenza che precedono ed accompagnano la
morte. Il fuoco sensuale provocato dalle carezze di Mariannina e il fuoco dei versi francesi, che si
agitano nella mente del Principe, si concretizzano in un’unica idea: la morte (Pagliara-Giacovazzo
31).
Il primo accenno ad essa, cioè il ricordo del ritrovamento del cadavere di un soldato nel giardino
della villa, si realizza nei toni crudi, violenti, irrispettosi di Baudelaire; non si tralasciano
particolari truculenti del cadavere martoriato del soldato tali da suscitare nel lettore, così come
era avvenuto nei personaggi del romanzo, profondo ribrezzo:

                                                 3
Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel
      vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere
      gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a
      rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo fazzolettone
      rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire
      poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando continuamente per lo schifo,
      non proprio addosso ma assai vicino alla salma. Il tutto con preoccupante perizia
      […] Era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta (G. 32).

La lirica baudelairiana è una esplicita fonte di ispirazione, di immagini, correlate non raramente
da prestiti lessicali, a cui Lampedusa attinge a piene mani per creare questa realistica
rappresentazione di morte. A legare poesia e romanzo ritorna il «sangue» nel quale è sprofondato
il viso del militare e che cosparge il corpo «dans tous les coins saignants» (v. 32) dell’impiccato
baudelairiano; ritorna il «vomito» in cui è affondata la salma, che corrisponde alla «pourriture»
(ib.) in cui si è decomposto quel «pendu déjà mûr» (v. 30); ricompaiono gli «intestini violacei»
fuoriusciti dallo «squarcio del ventre», corrispettivo degli «intestins pesants [qui] lui coulaient sur
les cuisses» (v. 34) e che sporgono appunto dal «ventre effondré» (v. 33); il «rametto» utilizzato
per respingere nel ventre bucato gli intestini penzolanti e tentare così ricomporre il cadavere altro
non è che l’«outil» (v. 31) in cui si mutano i becchi che i feroci uccelli conficcano con violenza
nel corpo sanguinante; lo stesso Russo, probabilmente, è la «plus grande bête» (v. 39) di quel
branco di quadrupedi che si aggira ai piedi della forca. Lo schifo e il ribrezzo prevalgono sulla
pietà e sulla compassione, tant’è che nella vicenda del romanzo manca quel passaggio, che è, al
contrario, nelle ultime quattro strofe del Voyage, di totale immedesimazione fisica e spirituale
dell’osservatore con l’osservato e di sofferta partecipazione fisica e spirituale per la funesta sorte
di quell’individuo sconosciuto.
Il romanziere siciliano vorrà ancora insistere su questo atteggiamento collettivo di indifferenza e
distacco; infatti, neanche la religione cristiana ed il suo pietoso culto dei morti riescono ad
infondere un barlume di umanità nei personaggi raccolti attorno a quel corpo:

      Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sì, lo avevano
      trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta
      fuori di nuovo) un De Profundis per l’anima dello sconosciuto venne aggiunto al
      Rosario serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa essendosi
      dichiarata sodisfatta (ib.).

Questo breve esame, partito dai versi del Voyage à Cythère di Baudelaire inseriti nel romanzo, ha
portato ad esaminare il tema della morte come putrescenza e corruzione, dunque il suo lato
macabro, raccapricciante, ripugnante. Tomasi di Lampedusa, rifacendosi alla produzione poetica
di questa figura capitale della letteratura francese ed europea, nonché ad una certa sensibilità
decadente, non disdegna di rendere «l’attrazione per il torbido, la compiaciuta descrizione della
putredine […] che acquista maggiore spessore nelle pagine in cui l’autore descrive il soldato
morto, o meglio quello che resta del soldato» una delle linee-guida della sua narrazione (Pagliara-
Giacovazzo 184). Eppure, nel Gattopardo il tema portante del θάνατος non assume
esclusivamente questo aspetto, ma presenta anzi altre sfaccettature.

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Prima di leggere alcuni dei brani che sono fra i punti nodali del romanzo, occorre, tuttavia,
soffermarsi su due “fiori del male”, per poter da essi proseguire l’excursus alla ricerca delle tracce
di Baudelaire in Lampedusa e poter verificare come nuove declinazioni del tema portante della
morte riemergano dalla memoria letteraria lampedusiana per imprimersi in vari luoghi del
romanzo, fra di loro legati sul piano tematico.
Ricordiamo, innanzitutto, per intero ed analizziamo brevemente la lirica À une passante
(Baudelaire 1:92-93):

      La rue assourdissante autour de moi hurlait.
      Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
      Une femme passa, d’une main fastueuse
      Soulevant, balançant le feston et l’ourlet;

      Agile et noble, avec sa jambe de statue.
      Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
      Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
      La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

      Un éclair... puis la nuit! - Fugitive beauté
      Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
      Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?

      Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
      Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
      Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

Il poeta ricorda come il suo sguardo si sia posato su un’elegante figura femminile e su alcuni suoi
gesti sensuali, quali il sollevare la gonna con la mano, che scatenano in lui una profonda
attrazione. Questa visione ha luogo in una strada dai rumori talmente assordanti da sembrare un
urlo. Tuttavia, il passaggio fulmineo della donna («une femme passa», v. 3) permette di
trasfigurarla in una bellezza ideale, quasi una dea, nonostante i suoi gesti carnali e sensuali: il
poeta, apostrofandola direttamente («Fugitive beauté», v. 9) e passando al tempo futuro del verbo
(«ne te verrai-je plus», v. 11), la invoca nella speranza di rincontrarla altrove, lontano da quel
luogo.
La seconda lirica, i cui principi compositivi si ritrovano nel Gattopardo, è Recueillement (Baudelaire
1:140-41):

      Sois sage, ô ma Douleur, et tiens-toi plus tranquille.
      Tu réclamais le Soir; il descend; le voici:
      Une atmosphère obscure enveloppe la ville,
      Aux uns portant la paix, aux autres le souci.

      Pendant que des mortels la multitude vile,
      Sous le fouet du Plaisir, ce bourreau sans merci,

                                                    5
Va cueillir des remords dans la fête servile,
         Ma Douleur, donne-moi la main; viens par ici,

         Loin d’eux. Vois se pencher les défuntes Années,
         Sur les balcons du ciel, en robes surannées;
         Surgir du fond des eaux le Regret souriant;

         Le Soleil moribond s’endormir sous une arche,
         Et, comme un long linceul traînant à l’Orient,
         Entends, ma chère, entends la douce Nuit qui marche.

Una voce narrante,2 presumibilmente maschile, se la si identifica con quella dello stesso
Baudelaire, si rivolge ad una figura femminile, apostrofata già al primo verso («ô ma Douleur») e
poi, di seguito, con una lunga serie di verbi all’imperativo, fra cui «Sois sage» e «tiens-toi» ancora
al verso iniziale. Baudelaire materializza l’astratto, personifica la sofferenza, a cui, non a caso,
viene data una iniziale maiuscola, facendone un’interlocutrice diretta, una figura amica, una
donna amata, appunto «ma Douleur» al primo verso, «ma chère» all’ultimo, «la mia Pena», «mia cara»
(corsivi nostri).
Questo procedimento retorico della personificazione raggiunge il punto estremo nella mano che
la Douleur tende fino a toccare quella del poeta, nel contatto fisico che avviene fra l’Io poetante e
la Pena stessa: «ma Douleur, donne-moi la main; viens par ici» (v. 8).
L’altra idea astratta che assume un ruolo centrale per l’interpretazione del sonetto è il Plaisir, il
Piacere, definito un «bourreau sans merci» al verso 6, un carnefice senza pietà3 che tiene
soggiogati con la sua frusta, «sous le fouet» (ib.), quella moltitudine di mortali da cui il Poeta e la
sua Pena si sono allontanati, raccogliendosi nella loro intimità. Ritroviamo, dunque, l’una accanto
all’altra, un’immagine di segno positivo ed un’immagine di segno negativo, due sentimenti, o
come dirà poi Freud, due pulsioni opposte che convivono e a volte confliggono in una battaglia
dell’animo umano. Tuttavia, Baudelaire inverte lo schema semantico consueto, dando alla Pena il
ruolo di amante ed amica e, al contrario, facendo recitare al Piacere il ruolo dell’aguzzino
impietoso: si innesca, per ciò, un cortocircuito nei sentimenti umani che spinge ad amare la
sofferenza e ad odiare il piacere; in altri termini un ossimoro.
Se andiamo ora al Gattopardo, ritroviamo moltissime pagine che riprendono, nei temi, nelle
immagini e nei principi compositivi, queste due liriche delle Fleurs du Mal, À une passante e
Recueillement. Innanzitutto al ballo, quando Tancredi dice con ironia:

         «Zione, sei una bellezza stasera […] Ma cosa stai guardando? Corteggi la morte?» (G.
         221).

2
    Cfr. per la seguente analisi di Recueillement MAGRELLI 3-31.
3
     Questa rappresentazione di segno negativo del Piacere trova il massimo compimento nel sonetto
Recueillement, ma si tratta di un’idea che pervade l’intera raccolta delle Fleurs du Mal; a titolo di esempio, si
rilegga la già citata poesia À une passante, in cui si ritrova «le plaisir qui tue» (v. 8).

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Conoscendo lo zio come un seduttore, Tancredi non può che immaginarlo nell’atto del
corteggiamento, foss’anche rivolto ad una figura femminile non sempre amata, non sempre e
non da tutti desiderata.
Al termine della festa, don Fabrizio si sofferma a guardare il cielo e ad invocare le stelle, che
rappresentano per lui una sorta di consolazione, di rifugio dal corrotto mondo terreno. La
personificazione delle stelle in una figura femminile avviene grazie a Venere, la dea dell’Amore
che diventa simbolo della Morte, mantenendo, però, i suoi caratteri di bellezza e sensualità: una
splendida donna, dunque, che egli aveva sempre osservata, attesa, desiderata; il corteggiamento
(come aveva detto Tancredi) culmina in un’invocazione ardente, una fervida preghiera, segno
della morte dell’anima:

      Venere stava lì, avvolta nel suo turbante di vapori autunnali. Essa era sempre fedele
      […] Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento
      meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne
      certezza? (G. 230).

Questa invocazione rielabora il grido finale del personaggio di À une passante di Baudelaire, che
aspira a rivedere quella donna sfuggente e si interroga, come fa don Fabrizio, su quando e dove
ciò sarà possibile; nei versi era «l’eternità», nella prosa sarà la «regione di perenne certezza»:
entrambe sono lontanissime dal mondo terreno, dalla condizione di degrado che caratterizza
l’esistenza umana, condensata, in due parole, nei «torsoli» e nel consueto «sangue».
Il condizionale passato nell’ultimo verso di Baudelaire dimostra, tuttavia, che quell’incontro tanto
bramato con la sconosciuta non è avvenuto, contrariamente a quanto Lampedusa fa accadere nel
suo romanzo. Infatti, il nuovo incontro con la passante non sarà nient’altro che l’incontro con la
Morte fisica.
La penultima sezione del romanzo costituisce un unicum, poiché è la sola ad essere occupata da
un ininterrotto paragrafo, La morte del Principe. All’avvio della narrazione, il Principe, moribondo,
si trova seduto sul balcone della maleodorante e sporca camera dell’albergo Trinacria, che, come
tutti gli alberghi, è un luogo di transito, di passaggio, in cui si svolgerà, per ciò, il momento del
trapasso, cioè il passaggio per eccellenza.
In limine mortis, il Principe è ancora lucido e cosciente, ha piena consapevolezza dell’appressarsi
della morte:

      Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo sì, la fuga decisa, lo
      scompartimento nel treno, riservato (G. 232).

Don Fabrizio ricorda i momenti pregnanti della sua vita, spaziando dagli affetti familiari ad alcuni
momenti di vita, ad alcuni oggetti, perfino

      l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla
      stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti
      di camoscio che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello
      scompartimento insudiciato. Che gridio di folla. «Panini gravidi!» «Il Corriere
      dell’Isola!» E poi quell’anfanare del treno stanco senza fiato… (G. 242).

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In questo stralcio i versi baudelairiani ritornano con la raffigurazione più dettagliata di una
situazione di vita quotidiana: una rumorosa stazione ferroviaria, il fracasso intorno al
protagonista, le urla degli strilloni, lo sbuffare del treno; la carrellata si restringe per un primo
piano su una donna in particolare, al cui passaggio don Fabrizio, come il personaggio
baudelairiano, ha prestato attenzione.
Nell’ultimo scorcio della vita del Principe, Tomasi di Lampedusa effettua un cambio di
prospettiva in senso fisico. Fino a questo momento, la sua narrazione aveva posto il lettore nella
medesima stanza d’albergo di don Fabrizio, ad osservarne, come corpo esterno, gli ultimi istanti
di vita e ad ascoltarne i più intimi pensieri. Ora il lettore non è più uno spettatore al capezzale del
moribondo, bensì è accanto a lui, nel suo stesso letto, e vede una «donna snella» che ripete gesti
simili alla figura «longue, mince» (v. 2) di Baudelaire. È la Morte che lo raggiunge, in
un’immagine incantevole e delicata, che rievoca le precedenti delle stelle, di Venere, della donna
che lo attende al treno:

      Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora: snella, con un vestito
      marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato da un velo a
      pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto.
      Insinuava una manina inguantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si
      scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo:
      strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno
      doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma
      pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli
      spazi stellari.
      Il fragore del mare si placò del tutto (G. 242-43).

Riteniamo, dunque, che Lampedusa abbia fatto propri i due principi compositivi presenti in
Recueillement, personificazione ed ossimoro, per reinventare l’immagine della morte, fino ad una
completa riformulazione del senso comune. Lampedusa l’ha ridisegnata alla luce di À une passante
di Baudelaire, rendendola una donna incontrata per caso in una stazione ferroviaria, un luogo
ordinario ed anche banale della nostra quotidianità. Tuttavia, attraverso i passaggi intermedi degli
sguardi alle stelle, della personificazione e dell’invocazione a Venere, simbolo dell’Amore, la
Morte è trasfigurata in una figura evanescente, una creatura indifesa che incarna la pudicizia,
eppure, al contempo, è pronta ad essere protetta, abbracciata, posseduta. Il tema del θάνατος
assume un differente aspetto, una connotazione nuova, inedita, generata appunto dal principio
dell’ossimoro, dell’inversione dei contrari: siamo di fronte ad un capovolgimento del sentire
comune, ad una modificazione della percezione collettiva secondo la quale la morte è un
momento di dolore fisico per chi se ne va e di dolore spirituale per chi resta. La morte, privata
della componente orrida che le era stata peculiare in altri luoghi del Gattopardo, è qui intesa non
soltanto come incontro amoroso, ma anche e soprattutto come liberazione dagli affanni, come
liberazione dalla prigione della vita.
La dicotomia romanzesca, la scissione della tematica della morte in due filoni, quello crudo e
nauseante della morte come degradazione del corpo, del marcio e della sporcizia, e quello lirico e
poetico della morte come liberazione (e, per ciò, sempre bramata), fa sì che i due temi, che si
affacciano in lungo e in largo nel corso della narrazione del romanzo, tanto da essere considerati

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portanti nella diegesi, l’amore e la morte, ἔρως e θάνατος, opposti ma complementari, siano
affrontati sia nella loro dimensione reale e fisica, corporea, che su un piano intriso di spiritualità.

Se il continuum tra il poeta francese e lo scrittore italiano si realizza, come si è visto, sul piano
lessicale e tematico, nel rapporto fra Lampedusa e Stendhal esso investe piuttosto quello
stilistico, legato alle tecniche narrative e al metodo di scrittura. Nella lezione di letteratura
dedicata al romanziere francese, ed in particolar modo analizzando uno dei suoi romanzi, Le
Rouge et le Noir, Tomasi di Lampedusa riflette su come Stendhal abbia affrontato e risolto uno dei
problemi cruciali della scrittura, «quello del narratore», che nasce dall’esigenza degli scrittori di
giustificare la propria conoscenza dei sentimenti dei personaggi (1891). Le scelte narrative,
continua Lampedusa, possono essere molteplici e varie, per esempio la forma epistolare o la
narrazione in prima persona. L’autore di Le Rouge et le Noir sceglie, invece, un altro percorso, che
Lampedusa spiega così:

         Stendhal scelse la via più breve e più orgogliosa: quella che, per semplificare, può
         definirsi il metodo di far narrare la storia da Dio. Stendhal, in veste di divinità,
         conosce i più riposti pensieri di ogni personaggio, li addita al lettore che fa partecipe
         della propria onniveggenza, non lascia nulla in ombra se non ciò che non vuole
         esprimere per ottenere un raddoppiamento dell’emozione (ib.).

Stendhal, dunque, come afferma Lampedusa, utilizza la tecnica della narrazione dal punto di vista
di Dio. L’autore è una divinità che conosce, per ciò, i sentimenti dei suoi personaggi, gli
avvenimenti oggetto del racconto ed, in più, gli avvenimenti precedenti e successivi. Lampedusa
riprende questa tecnica narrativa e nel suo romanzo agisce come un narratore-divinità: non solo
racconta gli avvenimenti che coinvolgono i membri della famiglia Salina, ma a questi fatti di vita
aggiunge i sentimenti dei personaggi che la sua onniscienza gli permette di conoscere nel
profondo; inoltre, avanza alcuni commenti sulle persone o ancora sulle situazioni che esse
vivono, nonché accenna ad altri avvenimenti che non sono strettamente oggetto del romanzo,
ma che egli stesso anticipa rispetto al tempo della cosa narrata, strizzando, in tal modo, di
continuo l’occhio al lettore e rendendolo, dunque, partecipe della propria onniscienza, proprio
come lo stesso Stendhal aveva agito nell’organizzare la narrazione di Le Rouge et le Noir. Dunque,
Lampedusa autore4 del Gattopardo non è estraneo alla sua narrazione, ma ad ogni modo resta un
narratore eterodiegetico perché non entra nelle vicende in quanto personaggio; inoltre, si pone
sempre in posizione dialogica col lettore: orientandosi, in modo tale, verso il narratario, egli
assolve quella che Genette, sulla scorta di Jakobson, chiama «funzione di comunicazione», che,
naturalmente, completa ma non prescinde da quella narrativa (303 sgg).

4
    D’ora in poi si useranno con valore sinonimico i termini di autore e narratore, extradiegetico e onnisciente,
intendendo con essi, sulla scorta di Genette, un narratore che si pone a livello narrativo extradiegetico e in
rapporto eterodiegetico rispetto ai fatti narrati (296). E ciò perché Tomasi di Lampedusa non cede a nessuno dei
suoi personaggi la funzione narrativa, ma di essi assume il punto di vista, che, in alcuni casi, orienterà la
prospettiva narrativa.

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Tutte le anticipazioni, che l’autore, con la sua consapevolezza suprema, interseca nella sua
narrazione, causano un continuo sfasamento fra la fabula e l’intreccio, con la conseguenza di
creare costanti salti cronologici e numerosi spostamenti in avanti o indietro nel tempo.5 Esse
riguardano sia la finzione romanzesca, l’invenzione letteraria ed hanno, quindi, per oggetto le
vicende dei protagonisti, sia gli eventi storico-politici siciliani ed italiani; in quest’ultimo caso, per
ciò, diventano lo strumento nelle mani dell’autore per collegare la storia passata alla sua storia
contemporanea, spesso con finalità polemica contro il degrado che lo scrittore vedeva ancora nel
presente. In numerosissimi casi, la chiave di lettura di queste considerazioni sui pensieri dei
personaggi e sulle anticipazioni degli avvenimenti è l’ironia dell’autore, sempre molto
diversificata, tanto da essere a volte caustica e corrosiva, a volte derisoria, tale da rasentare lo
humor inglese, ma anche enigmatica o allusiva.
Nel Gattopardo le inserzioni del narratore onnisciente, finalizzate a rendere partecipe il lettore dei
sentimenti dei personaggi o ad anticipare gli avvenimenti posteriori, ne percorrono le pagine nella
loro interezza; esse possono essere estese ed articolate o anche molto concise, come nei tanti casi
di frasi parentetiche; all’interno di questo insieme, se ne citerà soltanto un campione, che intende
essere esauriente ai fini della dimostrazione di questa prassi di scrittura lampedusiana, ma non
può considerarsi completo.
La protagonista su cui più frequentemente si concentrano gli interventi del narratore è Angelica; i
commenti autoriali che la riguardano hanno la funzione di sottolineare costantemente il
contrasto fra la sua apparenza ed il suo essere, quindi evidenziare la sua bellezza per dimostrarne
la caducità, nonché rivelare la vera natura del suo amore per Tancredi. Per esempio, nella Parte
IV, in occasione della prima visita di Angelica ufficialmente fidanzata alla famiglia Salina, Tomasi
di Lampedusa rivela esplicitamente il fondo di opportunismo nell’animo della giovane, cui aveva
alluso di sfuggita e in maniera più implicita in precedenza:6

5
    Allo sfasamento fra fabula ed intreccio contribuiscono anche le annotazioni del paratesto, in particolar modo le
date che l’autore appone all’inizio di ogni sezione (maggio 1860; agosto 1860; ottobre 1860; novembre 1860;
febbraio 1861; novembre 1862; luglio 1883; maggio 1910). La scansione esplicita e meticolosa del tempo della
narrazione è, innanzitutto, funzionale all’inserimento della vicenda familiare nei macroeventi che si svolgono su
scala nazionale, la spedizione garibaldina e la conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie allo Stato
sabaudo, nonché la commemorazione di questi fatti storici a cinquanta anni dal loro svolgimento. In secondo
luogo, l’autore, così facendo, mantiene il progressivo ordine cronologico degli eventi, per quanto concerne,
almeno, l’impianto generale del romanzo; tuttavia, egli si riserva appunto di giocare con l’alternanza dei piani
temporali grazie alle ellissi temporali (di cui conosciamo esattamente il tempo eliso, ancora in virtù delle date in
esergo), grazie all’inserimento di sue anticipazioni o, ancora, grazie all’inserimento di analessi, travestite spesso
da riflessioni e meditazioni del protagonista, che sfumano i contorni fra passato e presente.
6
    Quando Angelica arriva a palazzo Salina per il pranzo, la descrizione fisica della ragazza che ne fa l’autore si
fonda sostanzialmente sul suo aspetto fisico e sulla sua sensuale bellezza, che scombussolano i pensieri ed i
corpi di tutti gli uomini presenti; eppure, all’interno di questa descrizione, si inserisce, sempre attraverso un
dettaglio corporeo, questa breve nota caratteriale, di stampo negativo: «gli occhi verdi albeggiavano, immoti
come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli» (G. 89). La nota sugli occhi sarà ripresa da Cavriaghi, a cui
bontà e candore impediscono di vedere ciò che al lettore era già stato svelato: «un gioiello come la signorina

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Se da questa attitudine di Angelica si volesse dedurre che essa amava Tancredi, ci si
        sbaglierebbe: essa possedeva troppo orgoglio e troppa ambizione per essere capace
        di quell’annullamento, provvisorio, della propria personalità senza il quale non c’è
        amore […] però, pur non amandolo, essa era, allora, innamorata di lui, il che è assai
        differente (G. 146).

Angelica calcola freddamente i «vantaggi erotici ed extra-erotici» (G. 147) che avrebbe tratto dalle
nozze; inoltre, se la giovane età e la scarsa esperienza non le permettono ancora la lungimiranza
necessaria per guardare con la dovuta attenzione alla futura carriera politica del suo sposo
(sempre in cima ai pensieri di don Fabrizio, invece7), l’autore interviene a precisare, in anticipo,
che ella «nel corso degli anni, divenne una delle più viperine Egerie di Montecitorio e della
Consulta» (ib.), confermando, al contempo, le previsioni dello zio sul brillante futuro politico del
giovane Falconeri. Tancredi, al momento, le promette di essere un ottimo amante e le garantisce
l’accesso alla nobiltà siciliana, ai suoi occhi molto più desiderabile di quanto non fosse in realtà.
Allo stesso modo, in quanto narratore onnisciente, Lampedusa mostra al lettore il destino
dell’amore e dei sentimenti della giovane coppia di protagonisti. Nel paragrafo Il ciclone amoroso,
uno dei due nuclei narrativi -insieme al discorso del Principe a Chevalley- su cui si fonda la IV
Parte del romanzo, si conclude l’impeto di passione e di erotismo che aveva pervaso i primi mesi
di fidanzamento dei giovani durante l’estate di San Martino con una palinodia delle pagine lette
precedentemente: lo scrittore rivela, infatti, che la felicità di Tancredi ed Angelica sarà effimera
ed i loro sentimenti reciproci, cioè l’attrazione sessuale e le motivazioni economiche che li
spingono a sposarsi, non resisteranno alla prova del tempo:

        Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che
        dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull’inevitabile sfondo di
        dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più
        concreto benché poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono
        divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con
        rimpianto insistente: erano stati i giorni del desiderio sempre presente perché sempre
        vinto, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo
        sensuale che appunto perché inibito si era, un attimo, sublimato in rinunzia, cioè in
        vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel loro matrimonio che, anche
        eroticamente, fu mal riuscito (G. 164-65).

Angelica […] E poi non solo bella ma intelligente anche e colta; e poi buona: le si vede negli occhi la sua bontà,
la sua cara ingenuità innocente» (G. 169).
7
    Cfr. due sue battute pressoché identiche: la prima durante il colloquio con don Calogero per sancire il
fidanzamento fra i due giovani: «è ambizioso ed ha ragione di esserlo, andrà lontano; e la vostra Angelica, don
Calogero, sarà fortunata se vorrà salire la strada insieme a lui» (G. 136-37); la seconda appunto durante la prima
visita di Angelica da fidanzata: «Ha cominciato presto ed ha cominciato bene; la strada che farà è molta» (G.
147).

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Uscendo dal palcoscenico su cui si rappresenta la finzione letteraria, Tomasi di Lampedusa si cala
anche nella realtà e nella contemporaneità. Da questa immersione nel proprio tempo storico
nasce una serie di riferimenti ai fatti storico-politici, alle persone, alle invenzioni tecniche, ai
termini ed alle parole che i personaggi, per ragioni cronologiche, non possono conoscere.
Si può leggere, a titolo di esempio, una delle più significative anticipazioni degli avvenimenti
storico-politici, che oltrepassano i limiti temporali del romanzo, nella VI Parte, dedicata al ballo e
centrata sulla tematica mortuaria. Il dispetto del Principe è incolmabile; a don Calogero, uomo
vile, avido ed incontentabile, al suo «senso d’inferiorità» (G. 218), egli attribuiva la pressante
sensazione di fine, di distruzione che presagiva nei muri del palazzo, prodotti umani e, per ciò,
deperibili, come, in effetti, conferma ed anticipa l’autore. Don Fabrizio percorre il palazzo
guardando gli affreschi del soffitto dove

      gli Dei […] guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate. Si
      credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar
      loro il contrario (G. 218).

Gli avvenimenti del romanzo, come indica il paratesto, attraverso le date poste in calce ad ogni
parte, si arrestano al maggio 1910, ma, appunto nella VI Parte, che si svolge, invece, circa
cinquanta anni prima, cioè nel novembre 1862, l’autore onnisciente cita alcuni fatti della seconda
guerra mondiale, nello specifico i danneggiamenti causati dai bombardamenti degli Americani in
Sicilia nella primavera del 1943, bombardamenti preparatori allo sbarco sull’isola (l’ennesimo, a
circa ottanta anni di distanza da quello garibaldino) avvenuto nel luglio dello stesso anno. Questo
accenno ad una bomba fabbricata a Pittsburgh, accenno che si spinge cronologicamente più
lontano fra tutti quelli presenti nel romanzo, fa capire al lettore che l’autore pone esplicitamente
il tempo della narrazione nel secondo dopoguerra, quindi nel periodo in cui egli stesso matura e
scrive la sua opera letteraria.
Sebbene la finzione letteraria attribuisca questa “ferita” non ad un’abitazione della famiglia
Salina, bensì ad un altro palazzo palermitano, il palazzo Ponteleone, si tratta, tuttavia, di una
inserzione che tocca la biografia dell’autore siciliano, che ha visto il suo palazzo nel capoluogo
isolano distrutto da quegli stessi bombardamenti citati nel romanzo. È lo stesso Tomasi di
Lampedusa a rievocare questo avvenimento nel suo breve libro di memorie, Ricordi d’infanzia
(Tomasi di Lampedusa 429-85), confessando, quindi, attraverso la sua stessa penna, il valore
innanzitutto affettivo, ma anche dinastico e storico, che attribuiva a palazzo Lampedusa a
Palermo:

      Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso
      quando essa da dodici anni non è più che un ricordo. Fino a pochi mesi prima della
      sua distruzione dormivo nella stanza nella quale ero nato, a quattro metri di distanza
      da dove era stato posto il letto di mia madre durante il travaglio del parto. Ed in
      quella casa, in quella stessa stanza forse, ero lieto di essere sicuro di morire […] Sarà
      quindi molto doloroso per me rievocare la Scomparsa amata come essa fu sino al
      1929, nella sua integrità e nella sua bellezza, come essa continuò dopo tutto ad essere
      sino al 5 Aprile 1943 giorno in cui le bombe trascinate da oltre Atlantico la
      cercarono e la distrussero (437-38).

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A questo esordio, segue, nei Ricordi, una descrizione degli ambienti del palazzo in cui tanta
dovizia di particolari è solo apparentemente oggettiva e finalizzata a riprodurre la realtà quale
essa era negli anni d’infanzia dello scrittore. Infatti, più ragionevolmente, questo dilungarsi nei
dettagli cela la nostalgia, l’affetto, l’intenso legame esistente fra l’autore e la sua dimora, che
persiste nonostante la distruzione fisica di quest’ultima.
Poiché, come è chiaro, Lampedusa fu profondamente colpito da questo episodio bellico, tanto
che il 5 aprile 1943 costituisce una data spartiacque nell’esistenza dello scrittore, esso riaffiora
con insistenza nella sua opera, non solo quella biografica e non solo quella letteraria maggiore;
esso ritorna, infatti, anche nel racconto La Sirena (Tomasi di Lampedusa 492-524), al termine del
quale apprendiamo dal coprotagonista Paolo Corbera, che narra i fatti in prima persona, che la
sua casa palermitana era stata depredata dai soldati statunitensi:

      I due oggetti [la fotografia della “Corè” dell’Acropoli e il cratere greco con le figure
      delle Sirene] furono inviati da me alla mia casa di Palermo. Poi venne la guerra e
      mentre io me ne stavo in Marmarica con mezzo litro di acqua al giorno i
      “Liberators” distrussero la mia casa: quando ritornai la fotografia era stata tagliata a
      striscioline che erano servite come torce ai saccheggiatori notturni; il cratere era stato
      fatto a pezzi; nel frammento più grosso si vedono i piedi di Ulisse legato all’albero
      della nave. Lo conservo ancora (520).

Proseguendo nella lettura del Gattopardo, ma indietreggiando cronologicamente, l’autore accenna
all’altra grande guerra del XX secolo, che pure lo ha visto combattere in trincea, quando
commenta le relazioni “artificiose” che coinvolgono le due cugine, Angelica e Concetta.
Quest’ultima, già a Donnafugata, era stata costretta a fingere (ricambiata nella finzione) amicizia
nei confronti di Angelica; ora l’autore segnala che, anche a distanza di cinquanta anni (siamo,
infatti, nel 1910), i rapporti fra le due cugine erano tali:

      «Concetta cara!» «Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!» Dall’ultima visita
      erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi, ma l’intimità fra le due cugine
      (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a quella che pochissimi anni dopo
      avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle contigue trincee), l’intimità era tale che
      cinque giorni potevano veramente sembrar molti (G. 254).

Nella sua analisi narratologica, Lampedusa afferma che, per dimostrare con maggiore profondità
i sentimenti dei suoi personaggi, Stendhal si serve del monologo interiore, tecnica molto difficile
da praticare perché l’autore deve restare sempre nella pelle del suo personaggio per guardare il
mondo esteriore attraverso i suoi occhi e farne il centro dell’osservazione. I monologhi
stendhaliani sono molto corti, per dare il massimo di densità al momento psicologico (1892-93).
Lampedusa opera a sua volta allo stesso modo in molti luoghi del romanzo, spostando il punto
di vista dal narratore a don Fabrizio e agli altri personaggi. Questo espediente si estende al
massimo nella VII Parte, quella della morte del protagonista, parzialmente letta in precedenza.
Tutta la parte, nella sua integralità, si sviluppa secondo le tecniche stilistiche del monologo
interiore e del discorso indiretto libero di un personaggio, nello specifico il protagonista, che è,
per di più, in punto di morte. Questa maniera di raccontare allontana Lampedusa da Stendhal e

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dai romanzieri del XIX secolo e lo avvicina piuttosto a scrittori novecenteschi quali James Joyce
e Virginia Woolf. Inoltre, come ha scritto Francesco Orlando nel suo L’intimità e la storia. Lettura
del «Gattopardo», «affidando formalmente la specificità di questa morte a un commovente
monologo interiore, più rigoroso che dovunque altrove nel suo romanzo, Lampedusa ha dotato
d’una novità senza modelli la letteratura occidentale del Novecento» (82).

Bibliografia

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       Paris: Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade»), 1975. Print.

Genette, Gérard. Figure III. Discorso del Racconto, Torino: Einaudi, 1976. Print.

Lanza Tomasi, Gioachhino. Premessa alla Letteratura Francese, in TOMASI DI LAMPEDUSA.
       Opere.

Magrelli, Valerio. Nero Sonetto Solubile. Dieci Autori riscrivono una Poesia di Baudelaire. Roma: Laterza,
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Masi, Giorgio. Come leggere Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Milano: Mursia, 1996.
       Print.

Musarra-Schroeder, Ulla. “Memoria Letteraria e Modernità.” Nuove Effemeridi, IX. 36 (1996): 89-
      95. Print.

Orlando, Francesco. L’intimità e la Storia. Lettura del «Gattopardo». Torino: Einaudi, 1998. Print.

Pagliara-Giacovazzo, Maria. Il Gattopardo, o La Metafora Decadente dell’Esistenza. Lecce: Milella,
        1983. Print.

Tomasi Di Lampedusa, Giussepe (a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Nicoletta Polo). Opere.
      Milano: Arnoldo Mondadori Editore («I Meridiani»), V ed. accresciuta e aggiornata, 2004.
      Print.

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