Urbano troppo urbano. Vivere e morire a SimCity (2)

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Urbano troppo urbano. Vivere e morire a SimCity (2)
Urbano troppo urbano. Vivere e morire a SimCity (2)
Matteo Bittanti
mbittanti@libero.it

   [Una versione leggermente differente di questo saggio è stata pubblicata in Matteo Bittanti (a cura
di) SimCity. Mappando le città virtuali, che sarà disponibile a partire dal 5 settembre 2004 da
Edizioni Unicopli nella collana “Ludologica. Videogames d’Autore”. Ulteriori informazioni sono
disponibili sul sito www.ludologica.com.]

4. Le sei dicotomie di SimCity

   In aggiunta alle quattro dinamiche sottese alla pratica ludica, possiamo individuare almeno
sei dicotomie che informano il discorso critico su SimCity, così come si è svolto dal 1989 ad
oggi. Queste antinomie logiche sono: Realismo vs Fantasia; Storie vs simulazione; Gioco
solitario vs Gioco cooperativo; Educazione vs disimpegno; Costruzione vs Distruzione e
Immersione vs Distacco. Vediamole brevemente.

4.1 Realismo vs Fantasia

   La Città del Mondo di Stone è insieme “immaginaria” e “realistica” (Auster, 1990: 85).
SimCity è ugualmente paradossale. Nelle recensioni dei titoli SimCity, grande attenzione
viene dedicata all’evoluzione in senso “realistico” del gioco. A ben vedere, la retorica
giornalistica tende a far coincidere in modo sorprendentemente ingenuo il concetto di
“realismo” con quello di riproduzione mimetica dell’iconografia urbana (un’iconografia urbana
a sua volte fortemente mediatizzata). In realtà, se è pur vero che le simcities si sono via via
arricchite di dettagli, sono a tutt’oggi (SimCity 4) scevre di marchi, loghi e simboli, catene
commerciali, manifesti pubblicitari, insomma tutti quegli elementi che da più di mezzo secolo
ormai, definiscono il landscape urbano. La sorprendente assenza di riproduzioni virtuali di
punti vendita McDonalds’, Starbucks, IKEA, Benetton, Pizza Hut e stazioni Shell conferisce al
surrogato elettronico un aspetto di finzione totale. Ha dunque perfettamente ragione Barry
Atkins (2004) quando, nel saggio contenuto in questo volume, paragona la cosmesi di SimCity
a quella dei cartoni animati – non tanto per analogie iconografiche, ma perché l’animazione
per bambini resta uno dei pochissimi spazi dell’immaginario relativamente spoglio di brand e
messaggi dichiaratamente promozionali1.

1
  Eccezion fatta, beninteso, per tutte quelle produzioni animate che sono, per loro stessa natura, messaggi promozionali di brand di
successo, da Pokémon a Transformers.
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L’innovazione tecnologica e le richieste dei fans, hanno favorito un’evoluzione di SimCity in
senso ‘realistico’: le ultime versioni presentano elementi sempre meno astratti2 (vedi Figure 5,
6, 7 e 8). Sono rimaste pressoché invariate, tuttavia, le logiche di funzionamento della
simulazione.

                                                             Figg. 5 e 6

                                                                Fig. 7

2
  Sull’estetica di SimCity, cfr. “Art Imitating Life” di David Israels, Plaything, 11 febbraio 1999. Disponibile online:
[http://www.sfweekly.com/extra/plaything/playpen/021199.html].
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Fig. 8

   Detto altrimenti, SimCity consente solo di modificare gli aspetti di superficie della
simulazione (gli edifici piuttosto che al struttura dei sistemi di trasporto), ma non quelli
profondi (i modelli su cui tale simulazione poggia). In altre parole, le richieste di Steven B.
Johnson (cfr “SimCity Redux”, 27 gennaio 2003) non sono ancora state soddisfatte:

            Sarebbe bello poter sperimentare con modelli urbani radicalmente diversi
         (progettare, ad esempio, una città di Segways e pedoni, dove la circolazione delle auto
         non è possibile), oppure incoraggiare tipologie di business differenti in specifici
         quartieri o formare nuove forme di amministrazione urbana. Il gioco è ormai maturo
         per sfumature di carattere storico: i palazzi invecchiano e si deteriorano man mano che
         si gioca, ma non è possibile costruire una cittadella medioevale o una città industriale
         del diciannovesimo secolo 3 [...] Modificare le regole sottese alla base della simulazione è
         quello che desidero. Il gioco permetterebbe così di sperimentare differenti teorie
         sull’evoluzione e la crescita delle città4.

3
 In originale: “You should be able to experiment with radically different models of urban design (a city of Segways and pedestrians,
where cars are forbidden); you should be able to encourage different kinds of businesses in specific neighbourhoods; you should be
able to create new forms of urban government. […] The title is also ripe for historical nuance: the buildings age architecturally as you
play the game, but there's no way to build a medieval citadel, or a 19th-century Coketown” (Steven Jonhson).

4
  In originale: “Being able to modify the automata rules is exactly what I'd like to be able to do! That would really let you explore
different theories about how cities evolve and grow...”
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A mio avviso, l’esito necessario di SimCity non è il realismo, bensì l’iperrealismo 5. Quando
mi immagino SimCity 5 nella mente mi si apre una finestra su un’opera dell’artista James
Doolin, “Shopping Mall” (1973). Si tratta di una riproduzione della Third Street Promenade di
Santa Monica, California che condivide la medesima prospettiva a volo d’uccello di SimCity
(vedi Figura 7). L’iperrealismo – che ha ispirato l’estetica di SimCity – è insieme punto di
partenza e punto di arrivo della simulazione.

4.2 Storie vs simulazione

    SimCity viene generalmente eletto a modello del videogioco anti-narrativo. Le simulazioni
elettroniche, insistono Juul (2002) e Arseth (1997), non prevedono alcuna trama. E tuttavia, se
è vero che SimCity non incorpora una struttura narrativa tradizionalmente intesa (di tipo
lineare o sequenziale), il gioco stimola e sollecita forme di narrazione alternative. SimCity non
racconta storie. Ma i giocatori sì. In rete sono disponibili centinaia di “diari” di architetti e
sindaci virtuali con riportano con maniacale minuziosità l’evoluzione delle ‘loro’ città: è questa
la vera narrativa postmoderna. Non solo. I fans di SimCity amano scambiarsi “cartoline”
virtuali delle metropoli che stanno costruendo e amministrando. I loro frammenti iconografici
raccontano dunque più “storie”: quella del progettista e quella del frammento stesso, che vaga
nella rete in cerca di destinazione. SimCity rappresenta inoltre un esempio emblematico di
quello che Salen & Zimmermann (2003) chiamano “retelling play”, ovvero la narrativizzazione
dell’esperienza ludica da parte dei giocatori, che condividono le esperienze di gioco e le
raccontano come se le avessero vissute in ‘prima persona’ (“Ieri ho costruito un aeroporto, ma
non ho fatto i conti con il budget e per evitare la bancarotta ho dovuto tagliare i fondi
all’educazione, ma così facendo i miei sims sono scesi per le strade a protestare, gettando la
città nel caos più totale”).
    Il gemello diverso di SimCity è Le Città Invisibili di Italo Calvino (1972). Se il non-gioco di
Wright è la narrazione di una simulazione, il non-romanzo di Calvino è la simulazione di una
narrazione. Le due opere infatti sono accomunate da elementi chiave: ludus e digit. Ludus,
perché Le Città Invisibili formano una scacchiera ideale di 64 caselle (55 città, incasellate nel
piano individuato dai due assi della divisione in capitoli – nove, aperti e chiusi dalla cornice –
e della suddivisione in categorie tematiche – undici, da “Le città e la memoria” a “Le città
nascoste” – e nove dialoghi tra Marco Polo e Kublai Khan), ma anche per via dello
stratagemma usato da Marco Polo per riferire i suoi viaggi a Gengis Khan, che è in qualche
modo l'archetipo del gioco degli scacchi: tutt’altro che esperto della lingua del Khan, Marco
Polo colloca gli oggetti raccolti da distanti contrade sulle mattonelle bianche e nere del
pavimento in maiolica, con un ordine preciso; muovendoli via via con mosse astute inizia un
muto resoconto delle sue peripezie, impegnando il Khan (e il lettore) in un'ardua
decodificazione dei segni. Digit nel senso di cifra – la struttura profonda delle due opere è fatta
di numeri e stringhe alfanumeriche – il linguaggio del numero e quello della macchina,
rivestito di tracce ed immagini. Infine, le città virtuali sono, per definizione, invisibili nel
senso che la loro visibilità non supera gli angusti confini dello schermo6.

4.3 SimCity, da soli e in compagnia

                            “Hide the geek. That’s what is was about. Adulthood was about hiding the geek.
                                                           And reclaiming it. I’d been hiding it at Harward.
                  But in our room Tom and I could get back. […] We got into SimCity and flight simulators.
                                         The point was to play together. That was the key thing. Together.”
                                                                           (David S. Bennhaum, 1988: 217)

5
  Mi riferisco all’iperrealismo artistico, affermatosi negli anni ’70 negli Stati Uniti, che persegue un ritorno alla raffigurazione della
realtà nei suoi dettagli minuziosi e a una riproduzione fedele dell'immagine del mondo, anzi più fedele. La ricerca della mimesi totale
dell’arte iperrealistica è ricercata attraverso la mediazione della fotografia, che produce la vera “immagine”. Photoshop, i videogiochi
e le opere di artisti contemporanei come Mauro Ceolin hanno raccolto l’eredità dell’iper-realismo.
6
  Per ulteriori informazioni sulla struttura ‘matematica’ de Le Città Invisibili cfr. Claudio Milanini, L’utopia discontinua, Garzanti,
Milano, 1990.
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Pur essendo stato concepito per una fruizione individuale e offline, SimCity ha sfruttato, sin
dall’inizio, le possibilità del gioco collettivo offerte dalla rete. Come nota lo stesso Wright, poco
dopo l’introduzione dell’originale SimCity, “i giocatori uploadavano le loro città su American
On-Line e se le scambiavano tra di loro. C’erano sezioni intere dedicate al commercio delle
città. Compuserve è stato il primo luogo in cui ampie collezioni di città hanno fatto la loro
apparizione” (Rouse, 2000: 440)7. È in rete che “I giocatori condividevano strategie di gioco,
discutevano di teorie urbane e si scambiavano le città, postando online i loro files in modo tale
che altri utenti potessero scaricarli” (King & Borland, 2003: 84)8.
    Per promuovere l’interazione tra i fans e favorire la creazione di contenuti aggiuntivi,
Maxis introduce nei primi anni ’90 un’espansione di SimCity 2000, SimCity Urban Renewal
Kit (SCURK). Questo add-on consentiva agli utenti di disegnare edifici personalizzati e
collocarli nelle loro città virtuali. A pochi mesi dalla sua introduzione, SCURK diventa una
parte integrante dell’esperienza di gioco: gli utenti producono una quantità sorprendente di
elementi, scambiandoseli tra loro e usando la rete per esibire i risultati del loro lavoro. Questa
tipologia di produzione viene definita “fanarch”, contrazione di “fans’ architecture” 9. È anche
per questo motivo che lo spazio sociale di SimCity appare dunque tutt’altro che semplice da
mappare: la comunità che si è creata attorno al simulatore urbano di Wright si è evoluta in
modo ancora più fulmineo e imprevedibile del gioco stesso. Alcuni dei più abili architetti
virtuali – come Wren Weburg – sono stati in seguito assunti da Maxis. Altri, come Lee Sojot
sono diventati architetti tout court. La produzione dei fans si fa ancora più sofisticata con
l’introduzione di editor per SimCity 3000 come Building Architect Tool (BAT), Building
Architect Plus (BAP) e, soprattutto, Sim City 3000 Unlimited Rendering Kit (immediatamente
rinominato SC3URK). Con l’arrivo di SimCity 4, la produzione e fruizione collettiva del gioco è
stata ulteriormente ampliata grazie a SimCityscape, che permette ai giocatori di scegliere una
città di una regione disponibile in rete, modificarla e quindi farla circolare nuovamente per
permettere ad altri utenti di manipolarla10. Pur lavorando in modo indipendente, gli architetti
virtuali cooperano alla costruzione di spazi virtuali collettivi.
    Per quanto un’analisi completa della produzione di città virtuali costruite dai fans
trascenda gli obiettivi di questo saggio, è comunque possibile osservare che la fruizione di
SimCity oscilla inevitabilmente tra due poli: l’utopia e la mimesis. Da una parte, le simcities
presenti in rete attestano la volontà dei fans di edificare la città ideale, l’isola che non c’è.
Dall’altra, esprimono il desiderio di duplicare gli spazi urbani “reali”. In altre parole, SimCity
oscilla dunque tra interiorità ed esteriorità: lo schermo del computer diventa lo strumento
attraverso il quale il giocatore ricrea la città vista che vede (o che vorrebbe vedere) dalla
finestra del proprio appartamento.
    Se la televisione era la “finestra sul mondo”, SimCity è “Windows (r) sul mondo”.

4.4 Simcity tra educazione e disimpegno

   SimCity è stato uno dei primi videogiochi ad essere usato per scopi pedagogici ed educativi.
Nei primi anni ’90, la simulazione di Wright entra in oltre 10.000 scuole statunitensi (fonte:
sito Maxis, 2004). In realtà, l’efficacia pedagogica di SimCity è stata aspramente contestata
sin dall’inizio. Alcuni dei saggi raccolti in questo volume, mettono in primo piano le distorsioni
ideologiche e culturali sottese alla simulazione di Wright. Altri, come Martin Lister (2002:
274), ridimensionano l’efficacia pedagogica dei giochi Sims, insistendo sulla sua finalità ludica:

7
  In originale: “Even before we had a website, people were already uploading their cities to AOL and trading them. There were big
sections with hundreds of cities trading. Compuserve was the first place were large collections of cities started to appear” (Rouse,
2000: 440).
8
  In originale: “People there talked strategies, talked urban theory, and actually swapped cities, posting their files online so other
people could download them” (King & Borland, 2003: 84).
9
  Uno degli esempi più interessanti è http://freechinataiwan.tripod.com/cosmopolis/cosmopolishome.html.
10
   In originale: “SimCityscape™ offers SimCity™ 4 players the chance to grab cities from a region game board, play them, and then
upload them to the board for the next Mayor to develop or evolve. Players work independently from each other on their cities in
Mayor Mode, and by participating you will contribute to the collective picture of the region game board” (sito Maxis, 2004, ultimo
accesso: maggio 2004).
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“Né Monopoly né SimCity sono modelli accurati dei complessi sistemi urbani o del mercato
immobiliare. Sono – e restano – dei giochi.”
   Per altri, compreso chi scrive, SimCity è uno svago travestito da edutainment. Giocare a
SimCity vuol dire smarrirsi negli spazi virtuali e affogare in un flusso di immagini. Qui devo
aprire una parentesi personale. Gioco a SimCity soprattutto di notte con il risultato che gli
‘immaginaggi’ sono ormai diventati i miei sogni lucidi: ludico e onirico 11 tendono a sovrapporsi.
SimCity è, a ben vedere, soporifero: il suo ritmo lento, l’atmosfera rilassante, la muzak di
romeriana memoria lo rende l’equivalente ludico del cinema Béla Tarr: in entrambi i casi, il
regime temporale è così dilatato che la distrazione non solo è tollerata ma sembra addirittura
incoraggiata12. SimCity è un’esperienza ipnotizzante, in questo senso non è molto diverso dalle
sostanze stupefacenti descritte da Stanislaw Lem ne Il congresso di Futurologia. Nel futuro
distopico immaginato dallo scrittore polacco, gli esseri umani consumano dosi massicce di
psicofarmaci che alterano la percezione sensoriale, trasformando una realtà infernale in una
fantasia idilliaca. Guardacaso, una delle droghe più diffuse permette a chi la assume di
costruire scenari virtuali:

             Il figlio maggiore era un architetto con un avvenire molto promettente, il minore era
          un poeta. Il primo, da progetti reali che non lo soddisfacevano, è passato all’urbafantina
          e al costruttol: ora costruisce intere città del tutto immaginarie [...] I sogni hanno
          sempre la meglio sulla realtà, se glielo si concede (Lem, 1972: 99).

     4.5. Immersione vs distacco

              “Each painter can view the city from only one standpoint at a time, so he will move about the
                 place, and paint it from a hilltop on one side, then a tower on the other, then from a grand
                 intersection in the middle – all on the same canvas. When we look at the canvas, then, we
              glimpse in a small way how God understands the universe – for he sees it from every point of
            view at once. By populating the world with so many different minds, each with its own point of
                                         view, God gives us a suggestion of what it means to be omniscient.”
                                                                           (Neal Stephenson, 2003: 265-266)

   In fondo, il fascino di SimCity è inspiegabile. Il gameplay di SimCity non è frenetico e
ansiogeno come quello di uno sparatutto in soggettiva nel quale un nano-secondo di
distrazione determina il game over. SimCity, al pari di The Sims, prevede una modalità di
gioco “acquario”, di pura osservazione. Il ritmo di gioco non è intenso al punto da costringermi
a seguire con la massima attenzione la più impercettibile variazione. Non a caso, la Herz
paragona SimCity al giardinaggio, definendolo “la scatola digitale di chi passa l’esistenza
osservando il monitor di un computer e non ha la pazienza per dedicarsi al ‘vero’ giardinaggio”
(p. 214). Anche molti appassionati di videogame non nascondono la loro profonda antipatia per
la simulazione di Wright. Tra questi spicca il giornalista Steven Poole (2000), che la liquida –
insieme ai God game in generale – come un “passatempo tedioso”. Secondo Poole, l’unica
attrattiva del gioco si riduce alla possibilità di “osservare il mondo per un periodo di tempo più
lungo di quanto possa fare un essere umano”. SimCity attribuisce al giocatore “un potere

11
   Il fenomeno, a quanto pare, è tutt’altro che raro tra i giocatori e, non a caso, è un tema ricorrente nel cinema tecnologico. Si pensi
ad un film come Brainscan (John Flynn, 1994), che racconta la storia di un videogioco che, almeno in apparenza, è capace di
ipnotizzare gli utenti, spingendoli a commettere crimini efferati. L’esperienza, in realtà, si rivela un semplice sogno, o meglio,
incubo. Per ulteriori informazioni, vedi Bittanti (2003).
12
   Trivia: il SimCinema par excellence è Gerry (1999) di Gus Van Sant. Non solo e non tanto perché è una simulazione di un’opera
di Bela Tarr, quanto piuttosto per il dialogo solo in apparenza critpico tra i due Gerry del titolo (Matt Damon e Casey Affleck). Persi
nel deserto (del reale), i due ragazzi scambiano una manciata di battute che hanno lasciato interdetti la maggior parte degli spettatori.
A un certo punto, Affleck racconta a Demon di “essere riuscito a conquistare Tebe”, ma di aver fallito perché non aveva “abbastanza
marmo per costruire un santuario” e a quel punto, “Demetrio ha contaminato i raccolti, e l’addestramento dei cavalli non è andato a
buon punto”. Il senso del dialogo è sfuggito persino a Steven Holden, illustre critico del New York Times, che l’ha liquidato come
“un’allegoria da quattro soldi”. In realtà, Affleck stava parlando di un videogioco: Zeus: Master of Olympus (1988, Sierra On-Line),
una variante mitologica di SimCity. A quanto pare, l’unico modo di sopravvivere al deserto (del reale) è condividere esperienze
videoludiche...
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infinito” che controbilancia “la sua relativa insignificanza nel mondo ‘reale’” (p. 49)13. Ora, gli
studiosi di videogame, Poole compreso, fanno coincidere la libertà d’azione offerta al giocatore
con il concetto di interattività. Il videogioco “migliore” è dunque quello più “interattivo”. Così
facendo, tuttavia, non risolvono il problema, ma lo spostano solamente. Anzi, lo complicano,
dato che il termine “interattività” è un concetto ambiguo e spesso frainteso.
    Pietro Montani (cit. in Canova, 2004: 52-53) distingue cinque livelli di interattività:
l’interattività procedurale (la navigazione in internet, l’uso di un word processor, etc),
l’interattività ludica (dal videogame alle pratiche degli hackers), l’interattività didattica
(enciclopedia multimediali piuttosto che CD-Rom interattivi), l’interattività artistica (qual è,
ad esempio, l’opera di Paolo Rosa e di Studio Azzurro) e l’interattività vera e propria, capace di
“introdurre modifiche non reversibili nella matrice del programma” (p. 53). Montani, in altre
parole, riduce l’interattività del videogame ad una semplice prova di abilità (“Il videogiocatore
gode nel mostrare a se stesso che sa dominare il testo. Tutto finisce lì”, ibidem). In realtà,
molti videogiochi offrono un’interattività ben più sofisticata, dato che si lasciano manipolare a
livello di codice (si pensi alle ‘total conversion’ degli FPS, alla trasformazione di Half-Life in
Counter-Strike, etc.). SimCity presenta un tipo di interattività ambigua: da una parte infatti
offre al giocatore la possibilità di personalizzare i singoli parametri di gioco. Dall’altra, come
abbiamo visto, inibisce l’alterazione dei presupposti o principi di base.
    Il fascino di SimCity è da ricercare altrove. Non nella logica, ma nella fenomenologia.
SimCity non un buon esempio di interattività. Rappresenta, invece, la quintessenza
dell’interpassività, ovvero “l’altro lato dell’interattività” (Zizek, 1997: 111-117).
L’interpassività prevede che “l’oggetto stesso si ‘goda lo spettacolo’ al mio posto, liberandomi
dall’imperativo del super ego di godere” (ibidem). Secondo Zizek, “perché io sia un soggetto
attivo, devo liberarmi – e trasferire all’altro – la passività inerte che contiene la densità del
mio essere sostanziale” (Zizek, 1997:116). Detto altrimenti, giocare a SimCity mi rende
interpassivo: il computer infatti gode per me, amministra la città anche quando mi assento per
qualche minuto. L’interpassività mi consente di delegare al computer l’onere e il piacere di
giocare a SimCity mentre faccio altre cose, come correggere i compiti dei miei studenti o
verificare la congruenza delle fonti in un saggio che sto scrivendo. Occasionalmente, guardo lo
schermo per vedere se “succede qualcosa”. Il giocatore di SimCity, dunque, oscilla tra uno stato
di immersione e distacco. Questa liminalità rende SimCity appetibile ad un pubblico
eterogeneo, che spazia dagli undicenni ai docenti universitari, che giocano e,
contemporaneamente, non giocano. La fruizione di SimCity cancella con un colpo di spugna la
stigma dell’attività ludica, esemplificata dall’interpellanza retorica “Non mi dire che trovi
anche il tempo di giocare?” e accompagnata da classico sorriso di accondiscendenza di chi
considera il medium un passatempo per mentecatti. L’interpassività di SimCity genera, com’è
facilmente intuibile, una serie di aporie: Chi è il vero giocatore? Io, oppure il computer che
‘gioca’ per me e amministra la città anche quando io sono andato in cucina a preparami un
caffè (“Il caffè fa bene, il caffè mi aiuta a pensare”, dice Nicholas Cage in Adaptation)? Forse
aveva ragione Mel Brooks quando affermava che “i videogiochi non sono stati creati per noi: il
loro scopo è divertire la televisione”.
    SimCity, come la Città del Mondo di Stone, privilegia dunque il distacco rispetto
all’immersione, la “distrazione attenta” rispetto al “coinvolgimento completo”. Allo stesso
tempo, tuttavia, è evidente che il gioco vorrebbe immergere il giocatore negli spazi urbani
simulati. Quando Flower illustra a Jim e Jack il plastico cittadino, l’Architetto insiste su un
dettaglio in particolare:

            Se guardate con attenzione, vedrete che in realtà molte delle figure rappresentano
         Willie stesso. Lì, nel giardinetto, lo vedete bambino. Più avanti, eccolo da adulto che
         mola lenti nel suo negozio. Là, nell’angolo della strada, vedete noi due che compriamo il
         biglietto della lotteria [...] Questo è quello che si potrebbe chiamare lo sfondo privato, il
         materiale personale, l’elemento intimo. Ma tutte queste cose sono inserite in un
         contesto più ampio. Sono un mero esempio, l’illustrazione del viaggio nella città del
         mondo (Auster, 1990: 84).

13
  In originale, “[Games like SimCity] are not primarily about cities or tribes or any of the putative content […] Perhaps, the fantasy
appeal is really about a chance to observe the world over a longer, more sober chronological span than that of a single human life
[…] Such games offer you a position of infinite power in order to whisper the argument that, as an individual in the world, you have
none at all” (Poole, 2000: 49).).
L’evoluzione di SimCity conferma questa tensione verso l’“immersione” completa. Gli indizi
non mancano. Per cominciare, la visuale è progressivamente cambiata. La plongeé
dell’originale ha lasciato spazio a una prospettiva sempre più ravvicinata: in SimCity 4, il
giocatore ha la possibilità di zoomare a livello della strada. Non solo. Nell’ultima versione,
l’integrazione tra The Sims e SimCity si è fatta strettissima, al punto da consentire al
giocatore di trasportare la famiglia ‘simulata’ all’interno della città14. Infine, con l’introduzione
di Rush Hour (settembre 2004), il primo expansion pack di SimCity 4, al giocatore è chiesto
non solo di gestire il sistema dei trasporti, ma anche i singoli mezzi. Di scendere per strada, in
altre parole 15. Può, ad esempio, controllare un camion dei pompieri rimasto incastrato nel
traffico oppure acciuffare un gruppo di malviventi in fuga in autostrada, ‘pilotando’ un
elicottero della polizia.
    Riprendendo la fortunata distinzione di de Certeau (2001), l’evoluzione della serie attesta la
volontà da parte di Maxis di abbandonare la logica della “città-concetto” per abbracciare quella
della “città delle pratiche”. Ma perché la “città delle pratiche” si realizzi veramente è
necessario che il giocatore possa introdursi, come Willie Stone, all’interno della fantasia
stessa, accedere alla simulazione, vivere nel modello. Willie – e sottolineo Willie! – è come la
statuina del Cristo bambino che il giorno di Natale viene finalmente collocata nel presepe per
dare un senso ultimo alla rappresentazione. Ma in SimCity, questo desiderio resta inappagato.
Come nel cinema di Buñuel, anche qui il godimento è sempre posticipato, rimandato,
contestato. La simulazione genera distacco, non immersione. Questo vale anche per Rush
Hour, la cui struttura “sequenziale” mal si sposa alla natura aperta e a-lineare di SimCity.
    In conclusione, SimCity è God game sui generis. Il sindaco virtuale è figlio di un Dio minore.
Uno straniero in terra straniera che amministra tutto da lassù, come il Christof di The
Truman Show, ma è impossibilitato a vivere all’interno del mondo da lui creato, perché ciò
vorrebbe dire abbandonare per sempre il suo stato di demiurgo. Perché la città-concetto
diventi la città-delle-pratiche è necessario che SimCity diventi Vice City. In SimCity, la
trascendenza non è un’opzione, ma un pre-requisito. Come scrive la Steward (1994: 68):

   Oggi troviamo la miniatura collocata al punto di origine (l’infanzia del sé o persino il
plastico o il prototipo di un prodotto esibito in vetrina o in una hall) e al punto di fine (le
produzioni dell’hobbysta; gli articoli casalinghi collezionati dalle anziane signore, o i modellini
dei treni creati dagli ingegneri in pensione); ed entrambe le locazioni sono viste da una
posizione trascendente, una posizione che è sempre il punto di vista della realtà vissuta al
presente e che, di conseguenza, si distanzia sempre nostalgicamente dal suo oggetto16 (enfasi
mia).

 4.6 Costruzione vs Distruzione

                                   “Siamo come bambini lasciati troppo a lungo nella stanza dei giochi.
                                Dopo un po’ dobbiamo rompere i giocattoli, anche quelli che ci piacciono”
                                                                      (J.G.Ballard, Millennium People)

  Se è vero che SimCity sollecita, promuove e incoraggia la costruzione, non andrebbe
dimenticato che la distruzione è inerente alla simulazione. Gli indizi si sprecano: dalla

14
   Senza dimenticare spin-off come The Urbz (Electronic Arts), annunciato per la fine del 2004, che sposta il setting di The Sims da
‘Simburbia’ a SimCity.
15
   Maxis ci aveva già provato con Streets of SimCity (1997), un clamoroso insuccesso commerciale e ludico, che lo stesso Wright ha
più volte sconfessato.
16
   In originale: “Today we find the miniature located at a place of origin (the childhood of the self, or even the advertising scheme of
a company’s earliest product is put on display in a window or a lobby) and a t a place of ending (the productions of the
hobbyist: knickknacks of the domestic collected by elderly women, or the model trains built by the retired engineer);
and both locations are viewed from a transcendent position, a position which is always within the standpoint of present
lived reality and which thereby always nostalgically distances its object” (Stewart, 1993: 69).
copertina dell’originale SimCity, decorata da un Godzilla pronto a distruggere la città17, alla
facilità con la quale è possibile abbattere interi quartieri con la famigerata opzione “bulldozer”,
criticata da Kolson, o con disastri e catastrofi18. Le città di SimCity sono come dei castelli di
sabbia: per quanto appaiano resistenti e compatte, basta un’onda (per tacere di una tsunami
modello Deep Impact o L’alba del giorno dopo) per spazzarle via. Le simcities sono fragili e
vulnerabili: un colpo di clic cancella il lavoro di mesi19.
   Un’ipotesi affascinante, specie in quest’era di incertezza e di inquietudine diffusa, è l’ipotesi
inversa, ovvero quella che il modello, la simulazione, possa diventare memento, documento
storico (vedi Figura 9).

                                                                Fig. 9

   Il che spiegherebbe, ad esempio, la maniacalità con la quale alcuni giocatori si servono di
SimCity per ricostruire virtualmente gli spazi urbani in cui risiedono (o sognano di risiedere),
come se volessero preservare, almeno iconograficamente, la loro città (figure 10 e 11) da un
possibile annientamento (una bomba sporca deflagrata da un gruppo di terroristi? Una
catastrofe ambientale simile a quella descritta da film come A.I. Artificial Intelligence o
Armageddon?).

17
   ...E per la quale Maxis non aveva pagato i diritti al legittimo proprietario, la nipponica Toho che ha prevedibilmente fatto causa,
vincendola.
18
   Si veda, a questo proposito, le osservazioni di Mizuko Ito (1996) sugli “usi e sovversioni” di SimCity 2000.
19
   Parafrasando Baudrillard (2002), se è vero che la distruzione delle Torri Gemelle era de facto inscritta nell’acciaio e nel vetro
stesso che formavano la loro struttura (e che la fiction ha raccontato, preparato e mediatizzato a lungo prima della loro effettiva
distruzione), allora l’annientamento totale è inscritto nel codice sorgente delle simcities.
Fig. 10

                                             Fig. 11

   Su questa inquietante ipotesi, Edward Carey ha costruito uno splendido sim-romanzo, Alva
e Irva. Le gemelle che salvarono una città (2003). Carey narra la storia di due gemelle
identiche, Alva e Irva Dapps, che abitano nella città di Entralla. La prima è disinvolta e
spigliata: passa il tempo davanti alle ambasciate straniere e a leggere dépliant turistici, e si
tatua segretamente il corpo con una mappa del mondo. La seconda, timida e affetta da
agorafobia, passa le sue giornate chiusa in casa a riprodurre la città in forma di miniatura,
Alvairvalla, seguendo le indicazioni e le suggestioni di Alva. Quando un terremoto rade al
suolo Entralla, i sopravvissuti useranno il plastico costruito da Irva e Alva come modello per
ricostruire la città.
    Così come la morte è, secondo Heidegger, l’estrema possibilità dell’uomo, analogamente la
distruzione non è l’antitesi della costruzione nei giochi Sim, bensì l’estrema forma di
costruzione 20. Questa apparente contraddizione è ravvisabile anche nelle narrative della
simulazione di immaginari attigui a quello videoludico. Si pensi, ad esempio, a Mille pezzi di
un delirio (Track 29, 1988) di Nicolas Roeg. Il film mette in scena una doppia simulazione.
Una coppia vive due ossessioni: lei, Carolina Linda (Theresa Russell), non ha mai superato il
trauma dello stupro e si immagina un figlio virtuale (Gary Oldman), con la quale ha un
rapporto al limite dell’incestuoso. Lui, Henry (Christopher Lloyd), è un medico che ha una
passione maniacale per i trenini elettrici21 e per le sculacciate. Arriva al punto da trasformare
la sua villetta in un colossale plastico, con i trenini che attraversano a folle velocità le stanze 22.
Il film mette a tema la finzione/funzione del “modello”, “cose che occupano lo stesso tempo e lo
stesso spazio” (come sentiamo da un dialogo televisivo all’inizio del film) pur non esistendo
“realmente”. Come le città di SimCity, che non esistono ‘realmente’ nel tempo e nello spazio,
pur condividendo il tempo e lo spazio (mentale, se non altro) del giocatore. Un secondo tema è
quella della fuga dalla realtà, dall’illusione che acquista valore epistemologico prima e
consistenza ontologica poi. Man mano che il film prosegue, gli adulti finiscono per regredire
allo stadio infantile: Henry spende sempre più tempo in compagnia dei suoi amati trenini,
Carolina si rinchiude nella sua camera da letto piena di bambole e persino Gary Oldman,
l’allucinazione di Carolina, si comporta come se fosse un bambino. Inevitabile, quasi
prevedibile, l’implosione del trittico che comporta l’esplosione e la distruzione del plastico.
    Del resto, anche nel “doppio” di SimCity, il modellino di Stone, aleggia un senso di
apocalisse incombente: “Nonostante tutto il calore e il sentimento profusi nel plastico,
l’atmosfera predominante era intrisa di terrore, di sogni oscuri che si aggiravano per le strade
alla luce del sole” (Auster, 1997: 96)23.
    Ancora una volta, il luddismo è l’esito necessario del ludico.

20
   Il fenomeno apparentemente concerne anche le “vere” città simulate come Las vegas, cfr. Mike Davis, Dead Cities and Other
Tales, New Press, New York, 2003.
21
   Park sottolinea come l’introduzione di Rush Hour potrebbe trasformare SimCity in un colossale plastico per trenini elettrici:
“Maxis espects that some players may use the new train options […] to turn the game into nothing more than a glorified train-set, if
they so choose” (Andrew Park, “SimCity 4: Rush Hour Preview”, Gamespot, 16 settembre 2003, disponibile online:
www.gamespot.com/pc/strategy/simcity4rushhour/preview_6074988.html)
22
   Al cinema e in televisione, la passione per i trenini elettrici è spesso indice di follia. Si pensi, ad esempio, al plastico di Gomez ne
La Famiglia Addams, quasi un adattamento della serie di Railroad Tycoon.
23
   In originale: “For all the warmth and sentimentality depicted in the model, the overriding mood was one of terror, of dark dreams
sauntering down the avenues in broad daylight. A threat of punishment seemed to hang in the air – as if this were a city at war with
itself, struggling to mend its ways before the prophets came to announce the arrival of a murderous, avenging God” (Paul Auster, The
Music of Chance, p. 96).
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