Paolo Benvegnù @ Il Colle Bello, Ripatransone (AP) 26.07.2020 - Il Mascalzone
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Paolo Benvegnù @ Il Colle Bello, Ripatransone (AP) – 26.07.2020 Paolo Benvegnù continua a sondare gli abissi dell’animo umano. E’ partito dal proprio personale abisso, ormai più di sedici anni fa con il primo album solista “Piccoli fragilissimi film”, per poi gradualmente abbracciare gli abissi della lontananza, della diversità, dell’altro in senso lato. Ormai padrone di uno stile che sa essere preciso e raggelante, ma anche sciogliersi nella più pura forma di abbandono, il songwriter lombardo incanta la platea del Colle Bello di Ripatransone compiendo il miracolo che si ripete immancabilmente ad ogni suo spettacolo: far assumere alla personale verità di chi ascolta i contorni di un’irreale chiarezza. Le canzoni del nuovo album “Dell’odio dell’innocenza” offrono una chiave di lettura preziosa per orientarsi nel nostro tempo rovesciato, in particolare Pietre, un’ode alla rarità e alla durezza ascetica della poesia (“il silenzio è la verità/la verità/…/io conosco gli umani/e preferisco le pietre”), e Infinito 3, mirabile sintesi della trama amorosa che Paolo intesse sin dagli esordi (“ci sono giorni per riconoscersi/ed altri ancora per abbandonare/l’anima intera/l’anima al mondo/innamorato di te”). Man mano che le parole si sovrappongono, si accumula densità poetica e la chitarra elettrica viene scossa con
intensità crescente, il buio si riduce ad una fessura schiacciata dalla luce. La musica diventa rivelazione, anche quando i brani sono datati e si credevano già assimilati nel loro significato più intimo: accade, per esempio, con Nel silenzio, recupero da un ep del 2007, o con Simmetrie, canzone d’amore aliena ripescata dalla discografia degli Scisma, band degli anni Novanta con cui Paolo ha iniziato a tracciare la sua traiettoria artistica. Le canzoni sono essenziali nella versione voce/chitarra elettrica, sono privi di fronzoli e di autocompiacimento: Il mare verticale viene bruscamente interrotta prima del sing-along finale, Avanzate, ascoltate spogliata dell’enfasi, ridotta all’osso e lasciata nuda a galleggiare mentre la serata si avvia alla fine. Dopo la chiusura affidata ad una cover particolarmente sentita di Hurt (Nine Inch Nails / Johnny Cash), Paolo lascia il palco tra gli applausi e si riposa qualche minuto prima di essere raggiunto da alcuni valorosi che lo acclamano per il pezzo perfetto del suo canzoniere, stasera eccezionalmente assente dalla scaletta, Cerchi nell’acqua. Lui, da generoso dispensatore di bellezza e da gentiluomo qual è, imbraccia di nuovo la chitarra e regala l’ultima perla di una serata che conferma il suo posto tra i (pochissimi) giganti della nostra canzone d’autore.
Il Cagliari degli eroi. Il riscatto di una Nazione: dal tricolore alla Partita del Secolo “Il Cagliari degli eroi. Il riscatto di una Nazione” di Giovanni Giacchi e Maurizio Verdenelli Rubo il mestiere, spero non troppo impropriamente al giornalista e per amore mi azzardo in una recensione, non so quello che verrà fuori. “Il Cagliari degli eroi – Il riscatto di una Nazione: dal tricolore alla Partita del Secolo”, libro scritto dai giornalisti Giovanni Giacchi e Maurizio Verdenelli, con prefazione di Enrico Gaviano, pubblicato da Bookness in questo luglio. Ho comprato e letto immediatamente il libro almeno per un paio di motivi, il primo perché sono come tanti un appassionato di quel Cagliari tanto da costruirci uno spettacolo teatrale con il Minimo Teatro che gli autori mi fanno l’onore di citare proprio a conclusione del libro, non sono nuovo al teatro-sport: altri due
spettacoli, uno su Mariolino Corso ed uno su Manuel Fuente. Il secondo motivo è che porta la firma di Marcello Verdenelli (Giacchi mi è nuovo nella mia ignoranza, ma da questo libro in poi ci starò attento). Ora, parentesi proprio su Verdenelli , o se preferite sulla provincia che, grazie a persone come lui, talvolta diventa capitale imbattibile. Macerata, Cagliari, che cambia!? Sui film si diceva per irridere qualcuno: ma che vieni da Macerata? O i caporali dicevano ai soldatini un po’ insubordinati: “guarda che ti faccio sbattere in Sardegna!” Sì, l’hanno detto ma fine al 1970 l’anno in cui il Cagliari rese reale l’impossibile, non si trattò solo di uno scudetto ma com’è scritto nel sottotitolo del libro si trattò di “riscatto”, una squadra di calcio fece cambiare la visione della Sardegna con un manipolo di eroi garibaldini. Pardon Verdenelli volevo trattare di te e della gloriosa generazione di giornalisti maceratesi, il primo che ho incontrato fu Ugo Bellesi, grande direttore del Carlino, persona calma e colta, gli portavo i comunicati per il mio sconosciuto Minimo Teatro (era il 1982) dentro una busta con allegata una fotografia (altri tempi, fatti di carta e relazioni), lui apriva la busta e con un cenno della testa diceva sì). Verdenelli era ed è un’altra “cosa”, estroverso, spietato, se volevi sapere proprio quello che era successo in quella faccenda maceratese dovevi passare per la lettura di Verdenelli perché lui ne sapeva sempre una in più del diavolo, anzi due, una ne scriveva, una se la teneva. Ricca tradizione giornalistica quella maceratese fino ai più giovani Luca Patrassi e al mio amico Giuseppe Porzi e certo faccio torto ad altri che non cito, e per dispetto non cito i fotoreporter, chi non è maceratese se li vada a cercare perché sono loro che appartengono alla leggenda maceratese o cagliaritana (che cambia?). Ehi! Ricordatevi che è un valente maceratese, Claudio Orazi, che ha diretto l’ente lirico di Cagliari prima di passare al Carlo Felice di Genova, ha iniziato con l’Arena di Macerata, poi è passato a quella di Verona, perché a Macerata dovevano imbucare qualche nordista. Oddio! Dovrei parlare del libro! Va bene cito solo due piccoli esempi, le
sue 133 pagine sono una miniera troppo ricca per far affiorare in questo contesto la poesia in essa contenuta. E allora scelgo Comunardo Niccolai, passato alla storia come il re degli autogol, ma gli autori del libro, non cadono nel tranello del risaputo, ben sanno che senza Niccolai stopper di altissimo livello quello scudetto non si sarebbe vinto. Sì era di altissimo livello anche negli autogol, sembravano non essere incidenti ma intrusioni in campo degli dei. Il più divino dei suoi autogol ovviamente nella partita decisiva per lo scudetto, quella con la Juve. Su un cross dello juventino Furino (come fosse arrivato a fare un cross anche questo non si capisce, visto che lui era un mastino da difesa e un po’ da spinta) si vede Comunardo Niccolai svettare in volo, surclassare tutti, compagni e avversari e “insaccare” nella propria porta. Pare che per difendersi dagli improperi di un esterrefatto Albertosi e dei suoi compagni abbia pronunciato le seguenti parole: “Era un cross troppo bello per non mandarlo dentro”, ma come al solito sopra a tutti svettava il filosofo Manlio Scopigno che imperterrito disse: “ Bel gol, peccato che giochino nella stessa squadra”. E poi desidero citare Albertosi, gli autori anche in questo caso la dicono quasi chiara: “ se non fosse stato per qualche incidente di percorso, è stato il più grande di tutti”. Mi permetto di rettificare: Albertosi è stato il più grande di tutti ( dopo Lev Jaschin, s’intende, ma questi giocava su Marte). Ecco perché: Albertosi è l’unico portiere che io ricordi talmente eccellente da potersi permettere al tempo stesso di recitare anche il ruolo del portiere, insomma faceva due cose in una: era e rappresentava, ha semplicemente pagato qualche rappresentazione, ma chi come me desiderava il teatro imprevedibile desiderava Albertosi, non l’algido Zoff, quello parava e basta. Mi si è finita la pagina e questo non va bene per la sintesi giornalistica e allora: comprate il libro perché è semplicemente e veramente un libro, di quelli che è sempre più raro trovare nelle librerie. Infine segnalo un difetto del libro, se no che recensione è, costa 15 euro, il fatto è che non sono troppi, la valuta non è mai troppa quando
è superata dal valore, il fatto è che questi 15 euro ti durano poco perché il libro si legge tutto d’un fiato e come capita quando leggi una bella poesia o vedi un bel film dici: mannaggia è già finito! (nddr: mannaggia è già finita la recensione! Caro Maurizio ci stavo prendendo gusto e, in questi casi, chi se ne frega della sintesi giornalistica. Aspettiamo il secondo atto) 2020-07-23 Maurizio Boldrini Minimo Teatro Jason Isbell and The 400 Unit “Reunions” Etichetta: Southeastern / Thirty Tigers Brani: What’ve I Done To Help / Dreamsicle / Only Children / Overseas / Running With Our Eyes Closed / River / Be Afraid / St. Peter’s Autograph / It Gets Easier / Letting You Go Produttore: Dave Cobb
Jason Isbell è ormai divenuto un classico del roots-rock americano, quello che non va troppo per il sottile, quello che forse non soddisferà mai i palati più raffinati, ma che ha dalla sua delle frecce preziose, capaci di colpire nel profondo l’ascoltatore: onestà, autenticità, coerenza. Reunions è il sesto lavoro solista (Isbell è stato membro dei Drive-By Trukers dal 2001 al 2007) e molto probabilmente il suo migliore. Contiene dieci brani in cui un uomo adulto si guarda alla specchio e riesce a vedere ferite e cicatrici, l’amarezza della delusione, la forza della dipendenza e a cantarle con grande lucidità. Ma Reunions è anche un disco sui rapporti di coppia, sulle assenze, le distanze e i riavvicinamenti che si nascondono all’interno di essi. Le canzoni si collocano tutte nell’ideale crocevia tra ballate country e sanguigni rock’n’roll, con piccole sfumature che ogni volta fanno la differenza: giusto per citare i brani migliori, What’ve I Done To Help è un eccellente soul-rock, Running With Our Eyes Closed una canzone d’amore che fa pensare a Tom Petty, It Gets Easier lo schietto racconto del passato alcolismo dell’autore e delle difficoltà affrontate ogni giorno per rimanere sobrio. Le chitarre (elettriche e acustiche) sono ovviamente protagoniste, sapientemente dosate dalle mani di Dave Cobb in cabina di produzione. La voce di Isbell è sicura e percorre le emozioni della maturità senza sbavature. I paesaggi emotivi dipinti dalle canzoni sono tra i più veritieri che il rock di oggi possa offrire, eredi delle grandezze di Springsteen, del già citato Petty ma anche, in alcuni passaggi più radio-friendly, dei REM. Difficile trovare oggi un disco con questa umanità.
“Very Etnico”, ovvero Serafino prima di essere il presidente della Samb Era il 2006, Serafino pubblicava il suo album “Very Etnico” e Il Mascalzone lo recensiva con un pezzo di Simone Grasso. E’ stato lo stesso Serafino a ricordare quel pezzo sabato scorso, durante la sua prima conferenza stampa da presidente della Sambenedettese. E’ dunque un piacere ripubblicare la nostra vecchia recensione, con l’augurio che a qualcuno possa venir voglia di ascoltare il ritmo di “Very Etnico”.
A circa tre anni dal suo ultimo lavoro, Serafino, il giovane musicista rasta calabrese, esce con un nuovo album “Very Etnico” (UNIVERSAL MUSIC ITALIA – UNIVERSAL/MCA MUSIC ITALY – ETHNWORLD – M.A.& C.) che promette di stupire tutti con ritmi etno- funk che si mescolano a melodie mediorientali, toccando talvolta anche atmosfere rap. Una commistione di generi amalgamata e resa compatta dal collante dell’elettronica il cui utilizzo risulta essere alquanto discreto grazie anche al contributo di Marco Messina (99 Posse). Un lavoro ambizioso, con il quale l’artista sicuramente rischia un po’, proponendo ben 19 tracce: decisamente in controtendenza considerando quella che è la direzione oggi assunta dal mercato discografico. Ma fin dal primo brano “Very Etnico” si capisce che è un disco pieno di ritmo ed energia, di sole e di mare, che non stanca ma ravviva. Serafino sente forte il bisogno di urlare il suo essere 100% calabrese, di rivendicare le sue radici perché voglio uscire dall’eterno isolamento in ragione di un mondo ormai globalizzato. Forte è l’impegno sociale che si esprime con testi semplici eppur efficaci: dal ripudio di ogni forma di conflittualità armata in “Spara solo musica”, alla denuncia contro chi, guidato da infimi interessi economici, gestisce grandi masse di persone in “Arabica Cafe”. C’è anche un pungente riferimento ad un non meglio specificato “Nostro Presidente” e al suo fare arrogante superbioso ed indisponente perchè quando guardo te non riesco più a sorridere di
me;e quindi l’invito ad utilizzare con consapevolezza i nuovi strumenti informatici in “Naviga nella rete”, con particolar riferimento al mondo di internet e l’auspicio che tutti possano navigare nel mare della rete e non affondare mai. Ma “Very Etnico” non è solo audacia e delicatezza nel trattare scottanti temi sociali ma anche grande forza nel trattare e proporre brani molto più intimisti. Canta l’amore, Serafino. Elogia e si rivolge ad una donna ideale perché quando io scrivo ti sento accanto a me, e allora “Scrivo di te” mentre cerco “Mani tue”. Ma è anche l’amore di un figlio per un padre che da più di venti anni non si presenta più: per questo, sostiene l’autore, “Cerco Spiegazioni” pronto a perdonare questa figura in absentia che gli è ancora dentro come ossigeno. Ciò che ne esce fuori è un qualcosa che fa riflettere, toccando tematiche quanto mai attuali, e al tempo stesso si propone di divertire, di farci ballare con melodie coinvolgenti. Un lavoro impegnato che per certi versi si pone sulla stessa scia di chi, come i Negramaro o i Sud Sound System, cercano attraverso la propria musica non solo, rispolverando le parole di Lester Bangs, di esprimere emozione al massimo della potenza e della sincerità, ma anche di ribadire la fierezza delle proprie radici e della propria terra. Tracklist: 1. very etnico 2. spara solo musica 3. giorno di sole 4. arabica cafe’ 5. mani tue 6. il cinematografo 7. nostro presidente 8. meridione che bella invenzione 9. scrivo di te 10. 100% calabrese sugnu 11.conosco mustafa’ 12. follie etniche (instrumental) 13. attacca lupo 14. cerco spiegazioni 15. come mangi 16. il mio compare 17. naviga nella rete 18. a sud io migrero’ 19. edgaf (instrumental) La Samb ritorna al futuro, parola al Presidente Serafino
Scott Matthew “Adorned” Etichetta: Glitterhouse Brani: The Wish / Abandoned / Where I Come From / For Dick / German / White Horse / This Here Defeat / Ornament / The Wonder Of Falling In Love / End Of Days Chi conosce e ama la discografia dell’artista australiano avrà più di qualche difficoltà a mandare giù le riletture electro- pop dei dieci brani del suo repertorio che compongono questo nuovo “Adorned”. La musica di Scott si è sempre retta su un’emotività senza filtro e su un’intensità quasi autolesionistica. Protagonista assoluta una voce meravigliosa che vellutatamente si sovrapponeva agli accordi in minore di chitarra e ukulele esaltando l’innata tristezza delle composizioni. In queste nuove versioni, invece, è come se la tristezza venisse dissimulata, cercando di sfuggirle attraverso una sovrapposizione di suoni che non rendono giustizia alla grazia di alcune canzoni imperfettibili come White Horse, German o The Wish. Legittima la necessità dell’artista di percorrere strade nuove, dopo che per sei
album non aveva provato che minime variazioni stilistiche. Il salto di “Adorned”, però, è troppo brusco e rischia di allontanare i vecchi fan (e di non portarne di nuovi). EOB “Earth” Etichetta: Capitol Brani: Shangri-La / Brasil / Deep Days / Long Time Coming / Mass / Banksters / Sail On / Olympik / Cloak of the Night Produttore: Flood Earth è il debutto discografico di Ed O’Brien dei Radiohead con il moniker solista EOB, un disco che non tradisce le
attese dei fan della band inglese e dimostra il talento di un musicista sensibile e dotato che ha sofferto fin troppo, negli anni, dell’ombra di Thom Yorke e Jonny Greenwood. L’album può contare sulla partecipazione di ospiti eccezionali come Laura Marling, Glenn Kotche, Adrian Utley, sulla produzione di Flood (Smashing Pumpinks, PJ Harvey, Nick Cave & the Bad Seeds, Depeche Mode) e su una creatività finalmente libera di intraprendere ogni direzione consentita. Come quella contenuta in Brasil (guarda il video), otto minuti di flusso di coscienza musicale che parte da toni bucolici, attraversa una parte centrale di rock cosmico e arriva ad una coda di elettronica tropicale, senza mai perdere la bussola. Brasil, scritto mentre Ed si trovava a Rio de Janeiro con la moglie, è il brano dal quale è nata l’idea dell’intero album, ma non è il solo momento da ricordare. Deep Days, per esempio, è un tuffo in una psichedelia lounge che facilmente farà cadere l’ascoltatore vittima del suo incantesimo con una straniante filastrocca (“Where you go, I will go / Where you stay, I will stay / And when you rise, I will rise / and if you fall, you can fall on me”). Ed procede con approccio rilassato, si concede un folk agrodolce (Long Time Coming), una sfida alle porte della percezione (Mass), momenti più tipicamente Radiohead (Shangri- La, Banksters) e poi chiude il tutto con una ballata acustica cantata insieme a Laura Marling (Cloak of the Night). Tante idee, quasi tutte a fuoco. Suoni spesso dilatati, pensati e prodotti con cura certosina ma, allo stesso tempo, capaci di apparire curiosamente naturali e spontanei. Una voce sicura e funzionale alle dispersioni melodiche delle nove tracce. Ed O’Brien è un po’ il George Harrison dei Radiohead, è arrivato il momento di dargli ascolto.
M. Ward “Migration Stories” Etichetta: Anti- Brani: Migration of Souls / Heaven’s Nail and Hammer / Coyote Mary’s Traveling Show / Independent Man / Stevens’ Snow Man / Unreal City / Real Silence / Along the Santa Fe Trail / Chamber Music / Torch / Rio Drone Gli ultimi due album, More Rain (2016) e What A Wonderful Industry (2018), non erano stati all’altezza di una carriera fin lì esemplare, non perché fossero brutti lavori ma perché mostravano i primi chiari segni di stanchezza di un artista che è sempre stato maestro nel manipolare la canzone folk fino a trasformarla in una miscela originale ed esplosiva che contemplava digressioni nel pop, nel rock’n’roll, nell’indie. Migrations Stories rimette le cose al loro posto. Benché M. Ward rinunci ai suoi giochi di prestigio e l’intero lavoro si regga su un suono privo di orpelli, secco, diretto, è l’intero concept di Migration Stories a fare centro. Certo, non c’è nulla di particolarmente sorprendente – dopo dieci album è difficile sorprendere – ma una coerenza di fondo che dà forza
a ciascuno degli undici nuovi episodi. Il cantautore di Portland utilizza racconti di migranti per i propri testi, presi dai giornali, raccolti per strada o appartenenti alla propria storia familiare, e riesce a commuovere con melodie lennoniane, come accade in Real Silence, ma anche con riluttanti e polverose poesie regalate al vento, come Heaven’s Nail and Hammer. “Penso che inconsciamente la musica sia per me un filtro”, dice M. Ward, “che aiuta a trasformare tutte le brutte notizie che arrivano dal mondo in qualcosa di nuovo, qualcosa da cui ripartire”. Ecco, Migration Stories è un potenziale punto di ripartenza, per un’attualità disperata e assurda e per un’idea di folk che proprio ora merita di essere (ri)percorsa. Nadia Reid “Out Of My Province” Etichetta: Spacebomb Brani: All Of My Love / High And Lonely / Oh Canada / Heart To Ride / Other Side Of The Wheel / Best Thing / I Don’t Want to Take Anything From You / The Future / Who Is Protecting Me / Get the Devil Out
Nadia Reid è una ventinovenne cantautrice neozelandese che con “Out Of My Province” arriva all’importante traguardo del terzo album, forse il suo più compiuto e maturo. Per la prima volta pubblica con la Spacebomb, l’etichetta di Matthew E. White che sta lanciando autrici come Natalie Prass e Bedouine, e con l’occasione non stravolge una formula musicale ormai rodata ma aggiusta i vestiti delle proprie composizioni, con arrangiamenti eleganti, pieni, accoglienti. L’approccio è sempre votato all’intensità, ad una sincerità a tratti perfino autolesionista. Ogni canzone è un piccolo intervento a cuore aperto, anche quando, come in Oh Canada, apparentemente si limita a cantare le bellezze di un Paese amico. I toni confidenziali e cameristici di I Don’t Want to Take Anything From You e Get the Devil Out si accompagnano meravigliosamente all’arioso folk di All Of My Love, dove pare di sentire la migliore Cat Power. Nel suo insieme, “Out Of My Province” è un album dall’enorme potenziale, che cresce lentamente, un ascolto alla volta, e si candida sin da ora ad essere uno dei migliori lavori del 2020 in ambito cantautorale. Dopo che un’altra neozelandese di talento, Aldous Harding, l’anno scorso ha fatto il botto con “Designer”, questo sembra essere il momento giusto anche per Nadia Reid per tirarsi fuori dall’anonimato e prendersi il posto che il suo talento merita.
“Sorry We Missed You” di Ken Loach L’ultimo film di Ken Loach è spietato, crudo e vero, talmente vero che non lascia spazio ad un minimo di speranza. L’ottantatreenne regista britannico è sempre stato dalla parte degli ultimi e con “Sorry We Missed You” (il titolo riprende la frase presente sul foglietto lasciato dal corriere quando non trova in casa il destinatario) aggiorna la lezione del suo cinema alle nuove frontiere di sfruttamento (schiavitù?) lavorative create dalla globalizzazione, dalla new economy e dall’ultraliberismo irrefrenabile della nostra epoca. Ricky è un corriere che corre dentro e fuori la città con il suo furgone per quattordici ore al giorno, sei giorni su sette, senza possibilità di assentarsi nemmeno per gravi e più che giustificati motivi. Rischia la vita per consegnare in tempo pacchi e pacchetti, fa pipì in una bottiglia di plastica per non perdere secondi preziosi andando in bagno, inevitabilmente è sempre più assente da casa, dove sua moglie vende la macchina per permettergli di acquistare il furgone e lavora da assistente domiciliare muovendosi con gli autobus, dove suo figlio attraversa le intemperanze e le ribellioni dell’adolescenza a suon di graffiti e furtarelli, e la sua figlia più piccola tenta come può di tenere in piedi l’equilibrio familiare. “Sorry We Missed You” è un film bellissimo e doloroso, che non può lasciare indifferente lo spettatore, il quale si porterà dietro le sue immagini per giorni e giorni e magari troverà il modo di riflettere sulle ingiustizie create dal nuovo millennio; è un film necessario, per misurare l’orrore di tante scelte obbligate che portano a sacrificare tutto per un lavoro che non dà in cambio niente; un film sociale ma anche intimo, in linea con il precedente “Io Daniel Blake” ma capace di andare oltre, a dipingere una gara di sopravvivenza dalla
quale è impossibile uscire vincitori. Michael Kiwanuka “Kiwanuka” Etichetta: Polydor / Interscope Brani: You Ain’t the Problem / Rolling / I’ve Been Dazed / Piano Joint (This Kind of Love) Intro / Piano Joint (This Kind of Love) / Another Human Being (Interlude) / Living in Denial / Hero / Hard to Say Goodbye / Final Days / Interlude (Loving the People) / Solid Ground / Light Produttori: Danger Mouse & Inflo Michael Kiwanuka firma un altro grande album, dopo l’eccelso “Love & Hate” del 2016. Ma c’è poco da sorprendersi: parliamo di un artista di grande talento, capace di passare nel giro di pochi minuti dal soul più confidenziale al rock più ruvido, dal cantautorato tipicamente british (Van Morrison e John Martyn sono due dei suoi fari) ai cocktail sonori alla Beck.
Tutta musica retromaniaca, questo è palese, ma talmente eclettica da lasciare quasi disorientati durante i primi ascolti. Ormai nessuno parla più di Michael come del nuovo Otis Redding o dell’erede di Bill Withers, difficile incasellarlo in un genere, figuriamoci in un paragone con un singolo artista. Michael è perfettamente a proprio agio tanto con la tribalità di You Ain’t The Problem quanto con l’easy listening di Living In Denial; sa quanto accelerare e quando riposarsi, sa quando sussurrare e quando volare alto; ha, soprattutto, la capacità di fare canzoni che, una volte entrate nel cuore, non escono più. Hero, per esempio, non è un semplice singolo ma un autentico instant classic, con riverberi che nemmeno i Black Keys e un testo che rende omaggio all’attivista nero Fred Hampton, ucciso dalla polizia di Chicago nel 1969. Forse non è il brano più originale né il più coraggioso di “Kiwanuka” ma ne è il simbolo. E’ un brano che raccoglie molti dei temi sviluppati del disco, dove l’attenzione per uguaglianza, identità, ambiente è costante. Un poco alla volta, canzone dopo canzone, Michael sembra scrollarsi di dosso l’innata insicurezza e i tanti dubbi sul proprio posto nel mondo. Ne esce fuori quello che The Guardian ha definito “uno dei migliori album del decennio”: forse in Inghilterra esagerano. O forse no.
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