Paolo Benvegnù @ Il Colle Bello, Ripatransone (AP) 26.07.2020 - Il Mascalzone

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Paolo Benvegnù @ Il Colle Bello, Ripatransone (AP) 26.07.2020 - Il Mascalzone
Paolo Benvegnù @ Il Colle
Bello, Ripatransone (AP) –
26.07.2020
Paolo Benvegnù continua a sondare gli abissi dell’animo umano.
E’ partito dal proprio personale abisso, ormai più di sedici
anni fa con il primo album solista “Piccoli fragilissimi
film”, per poi gradualmente abbracciare gli abissi della
lontananza, della diversità, dell’altro in senso lato. Ormai
padrone di uno stile che sa essere preciso e raggelante, ma
anche sciogliersi nella più pura forma di abbandono, il
songwriter lombardo incanta la platea del Colle Bello di
Ripatransone compiendo il miracolo che si ripete
immancabilmente ad ogni suo spettacolo: far assumere alla
personale verità di chi ascolta i contorni di un’irreale
chiarezza. Le canzoni del nuovo album “Dell’odio
dell’innocenza” offrono una chiave di lettura preziosa per
orientarsi nel nostro tempo rovesciato, in particolare Pietre,
un’ode alla rarità e alla durezza ascetica della poesia (“il
silenzio è la verità/la verità/…/io conosco gli umani/e
preferisco le pietre”), e Infinito 3, mirabile sintesi della
trama amorosa che Paolo intesse sin dagli esordi (“ci sono
giorni    per   riconoscersi/ed     altri    ancora    per
abbandonare/l’anima intera/l’anima al mondo/innamorato di
te”). Man mano che le parole si sovrappongono, si accumula
densità poetica e la chitarra elettrica viene scossa con
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intensità crescente, il buio si riduce ad una fessura
schiacciata dalla luce. La musica diventa rivelazione, anche
quando i brani sono datati e si credevano già assimilati nel
loro significato più intimo: accade, per esempio, con Nel
silenzio, recupero da un ep del 2007, o con Simmetrie, canzone
d’amore aliena ripescata dalla discografia degli Scisma, band
degli anni Novanta con cui Paolo ha iniziato a tracciare la
sua traiettoria artistica. Le canzoni sono essenziali nella
versione voce/chitarra elettrica, sono privi di fronzoli e di
autocompiacimento: Il mare verticale viene bruscamente
interrotta prima del sing-along finale, Avanzate, ascoltate
spogliata dell’enfasi, ridotta all’osso e lasciata nuda a
galleggiare mentre la serata si avvia alla fine.

Dopo la chiusura affidata ad una cover particolarmente sentita
di Hurt (Nine Inch Nails / Johnny Cash), Paolo lascia il palco
tra gli applausi e si riposa qualche minuto prima di essere
raggiunto da alcuni valorosi che lo acclamano per il pezzo
perfetto del suo canzoniere, stasera eccezionalmente assente
dalla scaletta, Cerchi nell’acqua. Lui, da generoso
dispensatore di bellezza e da gentiluomo qual è, imbraccia di
nuovo la chitarra e regala l’ultima perla di una serata che
conferma il suo posto tra i (pochissimi) giganti della nostra
canzone d’autore.
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Il Cagliari degli eroi. Il
riscatto di una Nazione: dal
tricolore alla Partita del
Secolo
“Il Cagliari degli eroi. Il riscatto di una Nazione” di
Giovanni Giacchi e Maurizio Verdenelli

Rubo il mestiere, spero non troppo impropriamente al
giornalista e per amore mi azzardo in una recensione, non so
quello che verrà fuori. “Il Cagliari degli eroi – Il riscatto
di una Nazione: dal tricolore alla Partita del Secolo”, libro
scritto dai giornalisti Giovanni Giacchi e Maurizio
Verdenelli, con prefazione di Enrico Gaviano, pubblicato da
Bookness in questo luglio. Ho comprato e letto immediatamente
il libro almeno per un paio di motivi, il primo perché sono
come tanti un appassionato di quel Cagliari tanto da
costruirci uno spettacolo teatrale con il Minimo Teatro che
gli autori mi fanno l’onore di citare proprio a conclusione
del libro, non sono nuovo al teatro-sport: altri due
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spettacoli, uno su Mariolino Corso ed uno su Manuel Fuente. Il
secondo motivo è che porta la firma di Marcello Verdenelli
(Giacchi mi è nuovo nella mia ignoranza, ma da questo libro in
poi ci starò attento). Ora, parentesi proprio su Verdenelli ,
o se preferite sulla provincia che, grazie a persone come
lui, talvolta diventa capitale imbattibile. Macerata,
Cagliari, che cambia!? Sui film si diceva per irridere
qualcuno: ma che vieni da Macerata? O i caporali dicevano ai
soldatini un po’ insubordinati: “guarda che ti faccio sbattere
in Sardegna!” Sì, l’hanno detto ma fine al 1970 l’anno in
cui il Cagliari rese reale l’impossibile, non si trattò solo
di uno scudetto ma com’è scritto nel sottotitolo del libro si
trattò di “riscatto”, una squadra di calcio fece cambiare la
visione della Sardegna con un manipolo di eroi garibaldini.
Pardon Verdenelli volevo trattare di te e della gloriosa
generazione di giornalisti maceratesi, il primo che ho
incontrato fu Ugo Bellesi, grande direttore del Carlino,
persona calma e colta, gli portavo i comunicati per il mio
sconosciuto Minimo Teatro (era il 1982) dentro una busta con
allegata una fotografia (altri tempi, fatti di carta e
relazioni), lui apriva la busta e con un cenno della testa
diceva sì). Verdenelli era ed è un’altra “cosa”, estroverso,
spietato, se volevi sapere proprio quello che era successo in
quella faccenda maceratese dovevi passare per la lettura di
Verdenelli perché lui ne sapeva sempre una in più del diavolo,
anzi due, una ne scriveva, una se la teneva. Ricca tradizione
giornalistica quella maceratese fino ai più giovani Luca
Patrassi e al mio amico Giuseppe Porzi e certo faccio torto ad
altri che non cito, e per dispetto non cito i fotoreporter,
chi non è maceratese se li vada a cercare perché sono loro che
appartengono alla leggenda maceratese o cagliaritana (che
cambia?). Ehi! Ricordatevi che è un valente maceratese,
Claudio Orazi, che ha diretto l’ente lirico di Cagliari prima
di passare al Carlo Felice di Genova, ha iniziato con l’Arena
di Macerata, poi è passato a quella di Verona, perché a
Macerata dovevano imbucare qualche nordista. Oddio! Dovrei
parlare del libro! Va bene cito solo due piccoli esempi, le
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sue 133 pagine sono una miniera troppo ricca per far affiorare
in questo contesto la poesia in essa contenuta. E allora
scelgo Comunardo Niccolai, passato alla storia come il re
degli autogol, ma gli autori del libro, non cadono nel
tranello del risaputo, ben sanno che senza Niccolai stopper
di altissimo livello quello scudetto non si sarebbe vinto. Sì
era di altissimo livello anche negli autogol, sembravano non
essere incidenti ma intrusioni in campo degli dei. Il più
divino dei suoi autogol ovviamente nella partita decisiva per
lo scudetto, quella con la Juve. Su un cross dello juventino
Furino (come fosse arrivato a fare un cross anche questo non
si capisce, visto che lui era un mastino da difesa e un po’ da
spinta) si vede Comunardo Niccolai svettare in volo,
surclassare tutti, compagni e avversari e “insaccare” nella
propria porta. Pare che per difendersi dagli improperi di un
esterrefatto Albertosi e dei suoi compagni abbia pronunciato
le seguenti parole: “Era un cross troppo bello per non
mandarlo dentro”, ma come al solito sopra a tutti svettava il
filosofo Manlio Scopigno che imperterrito disse: “ Bel gol,
peccato che giochino nella stessa squadra”. E poi desidero
citare Albertosi, gli autori anche in questo caso la dicono
quasi chiara: “ se non fosse stato per qualche incidente di
percorso, è stato il più grande di tutti”. Mi permetto di
rettificare: Albertosi è stato il più grande di tutti ( dopo
Lev Jaschin, s’intende, ma questi giocava su Marte). Ecco
perché: Albertosi è l’unico portiere che io ricordi talmente
eccellente da potersi permettere al tempo stesso di recitare
anche il ruolo del portiere, insomma faceva due cose in una:
era e rappresentava, ha semplicemente pagato qualche
rappresentazione, ma chi come me desiderava il teatro
imprevedibile desiderava Albertosi, non l’algido Zoff, quello
parava e basta. Mi si è finita la pagina e questo non va bene
per la sintesi giornalistica e allora: comprate il libro
perché è semplicemente e veramente un libro, di quelli che è
sempre più raro trovare nelle librerie. Infine segnalo un
difetto del libro, se no che recensione è, costa 15 euro, il
fatto è che non sono troppi, la valuta non è mai troppa quando
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è superata dal valore, il fatto è che questi 15 euro ti durano
poco perché il libro si legge tutto d’un fiato e come capita
quando leggi una bella poesia o vedi un bel film dici:
mannaggia è già finito! (nddr: mannaggia è già finita la
recensione! Caro Maurizio ci stavo prendendo gusto e, in
questi casi, chi se ne frega della sintesi giornalistica.
Aspettiamo il secondo atto)

2020-07-23

Maurizio Boldrini

Minimo Teatro

Jason Isbell and The 400 Unit
“Reunions”
Etichetta: Southeastern / Thirty Tigers

Brani: What’ve I Done To Help / Dreamsicle / Only Children / Overseas / Running With

Our Eyes Closed / River / Be Afraid / St. Peter’s Autograph / It Gets Easier /

Letting You Go

Produttore: Dave Cobb
Paolo Benvegnù @ Il Colle Bello, Ripatransone (AP) 26.07.2020 - Il Mascalzone
Jason Isbell è ormai divenuto un classico del roots-rock
americano, quello che non va troppo per il sottile, quello che
forse non soddisferà mai i palati più raffinati, ma che ha
dalla sua delle frecce preziose, capaci di colpire nel
profondo l’ascoltatore: onestà, autenticità, coerenza.
Reunions è il sesto lavoro solista (Isbell è stato membro dei
Drive-By Trukers dal 2001 al 2007) e molto probabilmente il
suo migliore. Contiene dieci brani in cui un uomo adulto si
guarda alla specchio e riesce a vedere ferite e cicatrici,
l’amarezza della delusione, la forza della dipendenza e a
cantarle con grande lucidità. Ma Reunions è anche un disco sui
rapporti di coppia, sulle assenze, le distanze e i
riavvicinamenti che si nascondono all’interno di essi. Le
canzoni si collocano tutte nell’ideale crocevia tra ballate
country e sanguigni rock’n’roll, con piccole sfumature che
ogni volta fanno la differenza: giusto per citare i brani
migliori, What’ve I Done To Help è un eccellente soul-rock,
Running With Our Eyes Closed una canzone d’amore che fa
pensare a Tom Petty, It Gets Easier lo schietto racconto del
passato alcolismo dell’autore e delle difficoltà affrontate
ogni giorno per rimanere sobrio. Le chitarre (elettriche e
acustiche) sono ovviamente protagoniste, sapientemente dosate
dalle mani di Dave Cobb in cabina di produzione. La voce di
Isbell è sicura e percorre le emozioni della maturità senza
sbavature. I paesaggi emotivi dipinti dalle canzoni sono tra i
più veritieri che il rock di oggi possa offrire, eredi delle
grandezze di Springsteen, del già citato Petty ma anche, in
alcuni passaggi più radio-friendly, dei REM. Difficile trovare
oggi un disco con questa umanità.
“Very    Etnico”,     ovvero
Serafino prima di essere il
presidente della Samb
Era il 2006, Serafino pubblicava il suo album “Very Etnico” e Il Mascalzone lo

recensiva con un pezzo di Simone Grasso. E’ stato lo stesso Serafino a ricordare

quel pezzo sabato scorso, durante la sua prima conferenza stampa da presidente della

Sambenedettese. E’ dunque un piacere ripubblicare la nostra vecchia recensione, con

l’augurio che a qualcuno possa venir voglia di ascoltare il ritmo di “Very Etnico”.
A circa tre anni

                                                                 dal    suo     ultimo

                                                                 lavoro,      Serafino,

                                                                 il           giovane

                                                                 musicista          rasta

                                                                 calabrese,          esce

                                                                 con un nuovo album

                                                                 “Very        Etnico”

                                                                 (UNIVERSAL         MUSIC

                                                                 ITALIA                 –

                                                                 UNIVERSAL/MCA

                                                                 MUSIC        ITALY     –

                                                                 ETHNWORLD – M.A.&

                                                                 C.)    che   promette

                                                                 di    stupire      tutti

                                                                 con    ritmi       etno-

                                                                 funk         che     si

                                                                 mescolano              a

                                                                 melodie

mediorientali, toccando talvolta anche atmosfere rap. Una commistione di generi

amalgamata e resa compatta dal collante dell’elettronica il cui utilizzo risulta

essere alquanto discreto grazie anche al contributo di Marco Messina (99 Posse).

Un lavoro ambizioso, con il quale l’artista sicuramente rischia un po’, proponendo

ben 19 tracce: decisamente in controtendenza considerando quella che è la direzione

oggi assunta dal mercato discografico. Ma fin dal primo brano “Very Etnico” si

capisce che è un disco pieno di ritmo ed energia, di sole e di mare, che non stanca

ma ravviva.

Serafino sente forte il bisogno di urlare il suo essere 100% calabrese, di

rivendicare le sue radici perché voglio uscire dall’eterno isolamento in ragione di

un mondo ormai globalizzato. Forte è l’impegno sociale che si esprime con testi

semplici eppur efficaci: dal ripudio di ogni forma di conflittualità armata in

“Spara solo musica”, alla denuncia contro chi, guidato da infimi interessi

economici, gestisce grandi masse di persone in “Arabica Cafe”. C’è anche un pungente

riferimento ad un non meglio specificato “Nostro Presidente” e al suo fare arrogante

superbioso ed indisponente perchè quando guardo te non riesco più a sorridere di
me;e quindi l’invito ad utilizzare con consapevolezza i nuovi strumenti informatici

in “Naviga nella rete”, con particolar riferimento al mondo di internet e l’auspicio

che tutti possano navigare nel mare della rete e non affondare mai. Ma “Very Etnico”

non è solo audacia e delicatezza nel trattare scottanti temi sociali ma anche grande

forza nel trattare e proporre brani molto più intimisti. Canta l’amore, Serafino.

Elogia e si rivolge ad una donna ideale perché quando io scrivo ti sento accanto a

me, e allora “Scrivo di te” mentre cerco “Mani tue”. Ma è anche l’amore di un figlio

per un padre che da più di venti anni non si presenta più: per questo, sostiene

l’autore, “Cerco Spiegazioni” pronto a perdonare questa figura in absentia che gli è

ancora dentro come ossigeno.

Ciò che ne esce fuori è un qualcosa che fa riflettere, toccando tematiche quanto mai

attuali, e al tempo stesso si propone di divertire, di farci ballare con melodie

coinvolgenti.

Un lavoro impegnato che per certi versi si pone sulla stessa scia di chi, come i

Negramaro o i Sud Sound System, cercano attraverso la propria musica non solo,

rispolverando le parole di Lester Bangs, di esprimere emozione al massimo della

potenza e della sincerità, ma anche di ribadire la fierezza delle proprie radici e

della propria terra.

Tracklist:

1. very etnico         2. spara solo musica    3. giorno di sole       4. arabica
cafe’    5. mani tue        6. il cinematografo 7. nostro presidente             8.
meridione che bella invenzione       9. scrivo di te    10. 100% calabrese sugnu
11.conosco mustafa’       12. follie etniche (instrumental)     13. attacca lupo
14. cerco spiegazioni          15. come mangi 16. il mio compare       17. naviga
nella rete      18. a sud io migrero’   19. edgaf (instrumental)

  La Samb ritorna al futuro, parola al Presidente Serafino
Scott Matthew “Adorned”
Etichetta: Glitterhouse

Brani: The Wish / Abandoned / Where I Come From / For Dick / German / White Horse /

This Here Defeat / Ornament / The Wonder Of Falling In Love / End Of Days

Chi conosce e ama la discografia dell’artista australiano avrà
più di qualche difficoltà a mandare giù le riletture electro-
pop dei dieci brani del suo repertorio che compongono questo
nuovo “Adorned”. La musica di Scott si è sempre retta su
un’emotività senza filtro e su un’intensità quasi
autolesionistica. Protagonista assoluta una voce meravigliosa
che vellutatamente si sovrapponeva agli accordi in minore di
chitarra e ukulele esaltando l’innata tristezza delle
composizioni. In queste nuove versioni, invece, è come se la
tristezza venisse dissimulata, cercando di sfuggirle
attraverso una sovrapposizione di suoni che non rendono
giustizia alla grazia di alcune canzoni imperfettibili come
White Horse, German o The Wish. Legittima la necessità
dell’artista di percorrere strade nuove, dopo che per sei
album non aveva provato che minime variazioni stilistiche. Il
salto di “Adorned”, però, è troppo brusco e rischia di
allontanare i vecchi fan (e di non portarne di nuovi).

EOB “Earth”
Etichetta: Capitol

Brani: Shangri-La / Brasil / Deep Days / Long Time Coming / Mass / Banksters / Sail

On / Olympik / Cloak of the Night

Produttore: Flood

Earth è il debutto discografico di Ed O’Brien dei Radiohead
con il moniker solista EOB, un disco che non tradisce le
attese dei fan della band inglese e dimostra il talento di un
musicista sensibile e dotato che ha sofferto fin troppo, negli
anni, dell’ombra di Thom Yorke e Jonny Greenwood. L’album può
contare sulla partecipazione di ospiti eccezionali come Laura
Marling, Glenn Kotche, Adrian Utley, sulla produzione di Flood
(Smashing Pumpinks, PJ Harvey, Nick Cave & the Bad Seeds,
Depeche Mode) e su una creatività finalmente libera di
intraprendere ogni direzione consentita. Come quella contenuta
in Brasil (guarda il video), otto minuti di flusso di
coscienza musicale che parte da toni bucolici, attraversa una
parte centrale di rock cosmico e arriva ad una coda di
elettronica tropicale, senza mai perdere la bussola. Brasil,
scritto mentre Ed si trovava a Rio de Janeiro con la moglie, è
il brano dal quale è nata l’idea dell’intero album, ma non è
il solo momento da ricordare.

Deep Days, per esempio, è un tuffo in una psichedelia lounge
che facilmente farà cadere l’ascoltatore vittima del suo
incantesimo con una straniante filastrocca (“Where you go, I
will go / Where you stay, I will stay / And when you rise, I
will rise / and if you fall, you can fall on me”).

Ed procede con approccio rilassato, si concede un folk
agrodolce (Long Time Coming), una sfida alle porte della
percezione (Mass), momenti più tipicamente Radiohead (Shangri-
La, Banksters) e poi chiude il tutto con una ballata acustica
cantata insieme a Laura Marling (Cloak of the Night).
Tante idee, quasi tutte a fuoco. Suoni spesso dilatati,
pensati e prodotti con cura certosina ma, allo stesso tempo,
capaci di apparire curiosamente naturali e spontanei. Una voce
sicura e funzionale alle dispersioni melodiche delle nove
tracce. Ed O’Brien è un po’ il George Harrison dei Radiohead,
è arrivato il momento di dargli ascolto.
M. Ward “Migration Stories”
Etichetta: Anti-

Brani: Migration of Souls / Heaven’s Nail and Hammer / Coyote Mary’s Traveling Show

/ Independent Man / Stevens’ Snow Man / Unreal City / Real Silence / Along the Santa

Fe Trail / Chamber Music / Torch / Rio Drone

Gli ultimi due album, More Rain (2016) e What A Wonderful
Industry (2018), non erano stati all’altezza di una carriera
fin lì esemplare, non perché fossero brutti lavori ma perché
mostravano i primi chiari segni di stanchezza di un artista
che è sempre stato maestro nel manipolare la canzone folk fino
a trasformarla in una miscela originale ed esplosiva che
contemplava digressioni nel pop, nel rock’n’roll, nell’indie.
Migrations Stories rimette le cose al loro posto. Benché M.
Ward rinunci ai suoi giochi di prestigio e l’intero lavoro si
regga su un suono privo di orpelli, secco, diretto, è l’intero
concept di Migration Stories a fare centro. Certo, non c’è
nulla di particolarmente sorprendente – dopo dieci album è
difficile sorprendere – ma una coerenza di fondo che dà forza
a ciascuno degli undici nuovi episodi. Il cantautore di
Portland utilizza racconti di migranti per i propri testi,
presi dai giornali, raccolti per strada o appartenenti alla
propria storia familiare, e riesce a commuovere con melodie
lennoniane, come accade in Real Silence, ma anche con
riluttanti e polverose poesie regalate al vento, come Heaven’s
Nail and Hammer.
“Penso che inconsciamente la musica sia per me un filtro”,
dice M. Ward, “che aiuta a trasformare tutte le brutte notizie
che arrivano dal mondo in qualcosa di nuovo, qualcosa da cui
ripartire”. Ecco, Migration Stories è un potenziale punto di
ripartenza, per un’attualità disperata e assurda e per un’idea
di folk che proprio ora merita di essere (ri)percorsa.

Nadia   Reid                               “Out                Of            My
Province”
Etichetta: Spacebomb

Brani: All Of My Love / High And Lonely / Oh Canada / Heart To Ride / Other Side Of

The Wheel / Best Thing / I Don’t Want to Take Anything From You / The Future / Who

Is Protecting Me / Get the Devil Out
Nadia Reid è una ventinovenne cantautrice neozelandese che con “Out Of
My Province” arriva all’importante traguardo del terzo album, forse il
suo più compiuto e maturo. Per la prima volta pubblica con la
Spacebomb, l’etichetta di Matthew E. White che sta lanciando autrici
come Natalie Prass e Bedouine, e con l’occasione non stravolge una
formula musicale ormai rodata ma aggiusta i vestiti delle proprie
composizioni,   con   arrangiamenti   eleganti,   pieni,   accoglienti.
L’approccio è sempre votato all’intensità, ad una sincerità a tratti
perfino autolesionista. Ogni canzone è un piccolo intervento a cuore
aperto, anche quando, come in Oh Canada, apparentemente si limita a
cantare le bellezze di un Paese amico. I toni confidenziali e
cameristici di I Don’t Want to Take Anything From You e Get the Devil
Out si accompagnano meravigliosamente all’arioso folk di All Of My
Love, dove pare di sentire la migliore Cat Power. Nel suo insieme,
“Out Of My Province” è un album dall’enorme potenziale, che cresce
lentamente, un ascolto alla volta, e si candida sin da ora ad essere
uno dei migliori lavori del 2020 in ambito cantautorale. Dopo che
un’altra neozelandese di talento, Aldous Harding, l’anno scorso ha
fatto il botto con “Designer”, questo sembra essere il momento giusto
anche per Nadia Reid per tirarsi fuori dall’anonimato e prendersi il
posto che il suo talento merita.
“Sorry We Missed You” di Ken
Loach
L’ultimo film di Ken Loach è spietato, crudo e vero, talmente
vero che non lascia spazio ad un minimo di speranza.
L’ottantatreenne regista britannico è sempre stato dalla parte
degli ultimi e con “Sorry We Missed You” (il titolo riprende
la frase presente sul foglietto lasciato dal corriere quando
non trova in casa il destinatario) aggiorna la lezione del suo
cinema alle nuove frontiere di sfruttamento (schiavitù?)
lavorative create dalla globalizzazione, dalla new economy e
dall’ultraliberismo irrefrenabile della nostra epoca. Ricky è
un corriere che corre dentro e fuori la città con il suo
furgone per quattordici ore al giorno, sei giorni su sette,
senza possibilità di assentarsi nemmeno per gravi e più che
giustificati motivi. Rischia la vita per consegnare in tempo
pacchi e pacchetti, fa pipì in una bottiglia di plastica per
non perdere secondi preziosi andando in bagno, inevitabilmente
è sempre più assente da casa, dove sua moglie vende la
macchina per permettergli di acquistare il furgone e lavora da
assistente domiciliare muovendosi con gli autobus, dove suo
figlio attraversa le intemperanze e le ribellioni
dell’adolescenza a suon di graffiti e furtarelli, e la sua
figlia più piccola tenta come può di tenere in piedi
l’equilibrio familiare.

“Sorry We Missed You” è un film bellissimo e doloroso, che non
può lasciare indifferente lo spettatore, il quale si porterà
dietro le sue immagini per giorni e giorni e magari troverà il
modo di riflettere sulle ingiustizie create dal nuovo
millennio; è un film necessario, per misurare l’orrore di
tante scelte obbligate che portano a sacrificare tutto per un
lavoro che non dà in cambio niente; un film sociale ma anche
intimo, in linea con il precedente “Io Daniel Blake” ma capace
di andare oltre, a dipingere una gara di sopravvivenza dalla
quale è impossibile uscire vincitori.

Michael Kiwanuka “Kiwanuka”
Etichetta: Polydor / Interscope

Brani: You Ain’t the Problem / Rolling / I’ve Been Dazed / Piano Joint (This Kind of

Love) Intro / Piano Joint (This Kind of Love) / Another Human Being (Interlude) /

Living in Denial / Hero / Hard to Say Goodbye / Final Days / Interlude (Loving the

People) / Solid Ground / Light

Produttori: Danger Mouse & Inflo

Michael Kiwanuka firma un altro grande album, dopo l’eccelso
“Love & Hate” del 2016. Ma c’è poco da sorprendersi: parliamo
di un artista di grande talento, capace di passare nel giro di
pochi minuti dal soul più confidenziale al rock più ruvido,
dal cantautorato tipicamente british (Van Morrison e John
Martyn sono due dei suoi fari) ai cocktail sonori alla Beck.
Tutta musica retromaniaca, questo è palese, ma talmente
eclettica da lasciare quasi disorientati durante i primi
ascolti. Ormai nessuno parla più di Michael come del nuovo
Otis Redding o dell’erede di Bill Withers, difficile
incasellarlo in un genere, figuriamoci in un paragone con un
singolo artista. Michael è perfettamente a proprio agio tanto
con la tribalità di You Ain’t The Problem quanto con l’easy
listening di Living In Denial; sa quanto accelerare e quando
riposarsi, sa quando sussurrare e quando volare alto; ha,
soprattutto, la capacità di fare canzoni che, una volte
entrate nel cuore, non escono più. Hero, per esempio, non è un
semplice singolo ma un autentico instant classic, con
riverberi che nemmeno i Black Keys e un testo che rende
omaggio all’attivista nero Fred Hampton, ucciso dalla polizia
di Chicago nel 1969. Forse non è il brano più originale né il
più coraggioso di “Kiwanuka” ma ne è il simbolo. E’ un brano
che raccoglie molti dei temi sviluppati del disco, dove
l’attenzione per uguaglianza, identità, ambiente è costante.
Un poco alla volta, canzone dopo canzone, Michael sembra
scrollarsi di dosso l’innata insicurezza e i tanti dubbi sul
proprio posto nel mondo. Ne esce fuori quello che The Guardian
ha definito “uno dei migliori album del decennio”: forse in
Inghilterra esagerano. O forse no.
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