PADRE PIO - SAN PIO - Nuova Puglia D'Oro

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NUOVA PUGLIA D’ORO
Progetto di valorizzazione della memoria storica pugliese                          www.nuovapugliadoro.it
a cura della Fondazione Carlo Valente

 PADRE PIO - SAN PIO

                                            Pietrelcina 25 maggio 1887 – San Giovanni Rotondo 23
                                            settembre 1968

Al secolo Francesco Forgione, sacerdote proclamato “Beato” in Piazza San Pietro il 2 maggio 1999
da Papa Giovanni Paolo II ed il 16 giugno 2002 “santo” da Papa Giovanni Paolo II.

Di biografie su Padre Pio, al secondo Francesco Forgione, sono state scritte tante da persone che
lo hanno conosciuto in vita e tutte lo definiscono: “Padre Pio riproduce nel suo fenomeno e nel
suo mistero Cristo Amore immolato per la vita degli altri” (Cardinale Pietro Parente); “Padre Pio,
difficile a dirsi, è il rappresentante stampato delle stimmate del Cristo” (Papa Paolo VI); “In lui si è
rinnovato, in quanto era possibile a chi non era Figlio di Dio, la passione di Gesù Cristo. Questo è
tutto, padre Pio da Pietrelcina sta in questa affermazione” (Cardinale Giuseppe Siri).

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Questi richiami sono contenuti nella prefazione “La grandezza di Padre Pio” di Padre Bernardino
Romagnoli da Siena, Postulatore Generale O.F.M. Cap. al libro “Padre Pio” di Dante Alimenti,
editrice Velar del 1984, che inizia con la “Cronologia della vita di Padre Pio” per fine con “Verso la
meta” l’ultimo capitolo che si chiude ricordando che “Alle 2.30 di lunedì 23 settembre (1968) piega
dolcemente la testa. Serenamente e dolcemente torna alla casa del Padre Celeste. È la fine della
straordinaria avventura terrena di un giusto che ha avuto la forza e il coraggio di imitare Cristo e
Francesco d’Assisi restando, come il Poverello, fedele alla Chiesta ed operando per rinnovarla e
purificarla”.

In questo libro sono stato attratto dal capitolo “L’infanzia” che descrive il piccolo paesino
Pietrelcina dove è nato Francesco dove la vita “scorre lentamente, ritmata dalle stagioni e
principalmente dai lavori agricoli.”

Il padre Grazio Forgione “va a Napoli, prende contatti con l’impresario che recluta contadini e
braccianti per il “nuovo mondo” e torna al borgo natio più che mai di convinto di partire. Francesco
viene affidato alle cure di Cosimo Scocca, un giovane che aveva ottenuto un traguardo molto
prestigioso per l’epoca: la licenza elementare. Con Cosimo il ragazzo comincia a distinguere le
lettere dell’alfabeto e così può leggere i libri di preghiera che trova nella parrocchiale e nella
piccola chiesa di Sant’Anna.”

Con la partenza del padre verso “un mondo nuovo” Francesco, all’inizio del nuovo secolo, ormai
alla soglia dei quindici anni, si tuffa con rinnovato vigore nello studio. “Il ragazzo avanza una
richiesta ben precisa: vuole andare al convento di Morcone dove vive quel simpatico questuante
che va in giro per rimediare un po’ di farina per la comunità. La barba di fra Camillo lo ha
affascinato e lui vuole essere operaio del Signore a fianco di quell’allegro seguace di Francesco
d’Assisi.

“Don Salvatore si informa presso i cappuccini per sapere se può mandare a Morcone il suo migliore
chierichetto.

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La risposta è negativa e al ragazzo si prospetta l’opportunità di andare in qualche altro posto,
magari in quel santuario di Montevergine che Francesco aveva visitato durante il viaggio verso
Pompei. Zio Pellegrino insiste, ma il ragazzo, nonostante goda fama di persona mite e remissiva, è
irremovibile. O i cappuccini o nulla.

Ma Don Salvatore ammicca e Francesco si rassicura.

“Basta saper attendere” gli spiega, con un filo di voce, il parroco. Ed infatti l’attesa è premiata. A
fine settembre c’è il sospirato invito a presentare i documenti di “rito”.

Il certificato di battesimo, quello della cresima, le dichiarazioni dei maestri sugli studi compiuti,
l’attestato del parroco, la composizione della famiglia.

Se ne occupano i più stretti collaboratori di Don Salvatore che però, ai primi di ottobre, blocca tutta
l’operazione. Sotto la porta della canonica ha trovato un messaggio anonimo che mette in dubbio
l’onestà di Francesco Forgione. Con qualche incertezza grammaticale e molti errori sintattici un
non meglio identificato “amico della Chiesa” informa la maggiore autorità ecclesiastica di
Pietrelcina che l’aspirante frate francescano ha “rapporti intimi” con Caterina, la figlia del
capostazione del borgo, un uomo dalle idee anarchiche che pensa più alla rivoluzione che all’unico
traballante convoglio che una volta ogni due giorni transita per il paese.

Caterina é da tutti considerata una ragazza diabolica. Ha un volto molto bello ed un corpo
armonioso. A prima vista può sembrare la figlia di un nobile o la dama di compagnia di una regina.
I ragazzi della zona sono tutti innamorati, ma, ad ascoltare i soliti bene informati, Caterina guarda
lontano e non si imbarca in avventure dai contorni indefiniti con i poveri contadini del borgo.
Francesco che ha in mente di evadere da Pietrelcina – potrebbe aver fatto breccia nel cuore della
giovane e don Salvatore é molto preoccupato anche perché l’aspirante cappuccino è più taciturno
del solito, quasi volesse nascondere qualche progetto inconfessabile.

Il parroco, come prima misura, prega Francesco di non indossare più la cotta e di non presentarsi ai
piedi dell’altare per servire la messa. Il ragazzo è esterrefatto. Non riesce a parlare e a chiedere
spiegazioni.

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Sono momenti di intensa sofferenza sia per chi ha ricevuto la pena, sia per chi l’ha inflitta.

Tutti si guardano intorno con tono interrogativo. L’unico ad ostentare grande sicurezza è un certo
Luigi, figlio di un pastore, che allegramente prende il posto dell’amico messo in disparte.

Mamma Peppa dice al figlio che se non si decide a chiedere spiegazioni sarà costretta a muoversi
in prima persona. Ma tutto cade nel vuoto. Il parroco, col passare del tempo, è sempre più convinto
di aver preso un provvedimento saggio. Non solo ha allontanato il ragazzo dal servizio durante la
messa, ma ha bloccato la pratica per il suo ingresso al convento di Morcone.

Il giovane Forgione non esce nemmeno di casa. In chiesa ci mette piede soltanto all’alba quando
uno dei sacerdoti che aiutano il parroco celebra la prima messa per i contadini che lasciano
Pietrelcina di buon’ora per andare ad arare i campi.

La natura si avvia verso il letargo e lo scenario diventa sempre più triste. (pag. 42)

Don Salvatore scopre che a scrivere l’infamante lettera è stato un altro chierichetto, geloso delle
attenzioni del parroco verso il suo amico. Luigi confessa di aver costruito l’inesistente storia
d’amore per mettere in cattiva luce Francesco che finalmente riesce a capire i motivi per i quali gli
è stato impedito di raggiungere Morcone e di servire la messa. Il giovane ha un gesto di ribellione.
Vorrebbe vendicarsi, ma poi ricorda le beatitudini. “Beati i perseguitati perché di essi è il regno dei
cieli”. “Beati gli umili” “Beati i poveri” “Beati gli afflitti”

Va a pregare sulla tomba dei suoi fratelli e chiede al Signore la forza del perdono.

Mentre la società si divide e gli uomini, anche quelli che vivono porta a porta, combattono per una
stupida supremazia, Francesco Forgione non esita ad archiviare l’episodio di cui è stato vittima.
Luigi viene perdonato. Il parroco vorrebbe allontanarlo perché lo considera pericoloso, ma la
vittima della stupida provocazione chiede clemenza ed è esaudito.

Don Salvatore si convince che Francesco è degno di essere ospitato tra i cappuccini di Morcone e
accelera i tempi della partenza.”

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Mi sono dilungato nel descrivere questa incresciosa cattiveria del giovane Luigi verso il suo amico
Francesco mosso dall’invidia proprio perché se Don Salvatore non si fosse convinto che Francesco
era degno di essere ospitato tra i cappuccini al Convento di Morcone non staremmo ora a
descrivere la vita religiosa di San Pio, al secolo Padre Pio, al secolo Francesco Forgione.

 Nota di aurelio valente
 Come commento personale non posso che credere in uno straordinario capovolgimento di un
 fatto negativo che viene appena in tempo neutralizzato in modo che sia bloccata la svolta
 negativa dei fatti, a danno della forte aspirazione di Francesco, provocata da una leggerezza del
 giovane Luigi di screditare nei confronti del parroco, con la lettera anonima, il più bravo
 chierichetto nella parrocchia.
 IN BREVE SE NON SI FOSSE AVVERATO IL RIPENSAMENTO DEL GIOVANE LUIGI E LA SUA
 CONFESSIONE AL PARROCO DON SALVATORE, CHE SI CONVINSE CHE “FRANCESCO ERA DEGNO
 DI ESSERE OSPITATO TRA I CAPPUCCINI DI MORCONE” ED ACCELERO’ “I TEMPI DELLA
 PARTENZA”, SICURAMENTE FRANCESCO NON AVREBBE INIZIATO IL NOVIZIATO E NON SAREBBE
 STATO PADRE PIO E POI SAN PIO.
 È proprio in questo passaggio, da me considerato come momento di svolta per tutto il seguito
 della grande storia religiosa di Padre Pio ora San Pio, che si è avverato l’aspetto più
 sconvolgente di tutta la testimonianza unica di Padre Pio, bersaglio prima ancora del noviziato
 dell’avversa diabolica congiura miracolosamente bloccata.

Nel libro segnalato “Padre Pio” il racconto continua “Anche le ultime foglie sono cadute dagli alberi
e i ragazzi del paese vanno già per le campagne in cerca del muschio per i presepi. Siamo alla
vigilia di un altro Natale e Francesco Forgione è felicissimo. Sa che tra poco il suo sogno sarà
coronato.”

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In effetti “Nel noviziato ci sono 28 ragazzi. E a Francesco, ultimo arrivato, viene assegnata la cella
numero 28. È una stanzetta molto piccola con una finestrella di circa un metro per due che si
affaccia sull’orto della comunità dove ci sono un paio di capre, le galline, il cane, il maiale. Si
intravedono anche alcuni alberi che dovrebbero essere da frutta, ma é difficile identificarli perché
sono completamente spogli. Dalla parte opposta c’è un chiostro con il pozzo per l’acqua e al
centro. Oltre un muraglione tufaceo si trova il cimitero dei frati. (…) (pag.50)

Per Francesco è un giorno storico; comincia per lui un’altra vita, con un nome diverso da quello di
battesimo. D’ora in avanti il giovane novizio si chiama Pio, per decisione dei superiori. L’aspirante
frate si dedica con grande passione alla vita religiosa; trascorre lunghissime ore in preghiera, parla
pochissimo, si impone digiuni e giunge persino a flagellarsi per mortificare la carne. Va sempre in
giro a piedi nudi, con l’unica tonaca che il convento gli ha messo a disposizione. Nella sua cella c’é
un letto di tavole, un inginocchiatoio, un crocifisso, un tavolo, una sedia e un armadio a muro per
conservare i pochi indumenti portati da casa ed i libri delle preghiere.

Fra Pio trascorre ore ed ore meditando sulla passione di Cristo e sul mistero della sofferenza.

Gesù é salito in croce per l’uomo, ha trovato nel martellamento dell’agonia sul Golgota la sua pace
ed ha avuto la forza di pregare per i carnefici memore del comandamento nuovo che aveva
proclamato e cioè quello dell’amore reciproco.

“Amate quelli che vi odiano”.

Fra Pio ripete spesso questo insegnamento di Gesù e gli sembra, purtroppo, di non metterlo in
pratica fino in fondo. (pag. 50)

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 Da questo momento in poi c’è la lunga vita religiosa di Padre Pio (al secolo Francesco Forgioni),
 dedicata alla preghiera che termina alle 2,30 del mattino del 23 settembre 1968, quando Padre
 Pio muore pronunciando ripetutamente i nomi di Gesù e Maria. Durante il controllo ispettivo
 sul corpo del Cappuccino, appena spirato, si scopre che le stimmate sono scomparse senza
 lasciare traccia.

 Il 20 marzo 1983, nel Santuario “Santa Maria delle Grazie” in San Giovanni Rotondo si è aperto
 ufficialmente il processo cognizionale sulla vita e le virtù di Padre Pio, al secolo Francesco
 Forgione, che si è concluso il 21 gennaio 1990 nello stesso Santuario.

 Il 12 febbraio 1990, presso la sala “San Lorenzo da Brindisi” della Curia Generale dei Frati Minori
 Cappuccini in Roma, è stato aperto il processo di beatificazione e canonizzazione ad opera di
 mons. Antonio Casieri, cancelliere della Congregazione delle Cause dei Santi.
 Il 18 dicembre 1997, nella sala del Concistoro, in Vaticano, alla presenza del Papa Giovanni Paolo
 II, è stato letto il decreto sull’eroicità delle virtù di Padre Pio, che acquista il titolo di
 «venerabile».

 Il 2 maggio 1999, in Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II ha proclamato «beato» il venerabile
 Padre Pio da Pietrelcina.
 Il 16 giugno 2002, in Piazza San Pietro, Papa Giovanni Paolo II ha proclamato «santo» il beato
 Padre Pio da Pietrelcina.

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 IL PAPA A SAN GIOVANNI ROTONDO E IN CAPITANATA
 A cura di Gherardo Leone, Edizione CASA SOLLIEVO DELLA SOFFERENZA-San Giovanni Rotondo
 – 1987
 IL PAPA TRA NOI
 “Nell’aprile 1947, dopo Pasqua, un giovane sacerdote polacco studente dei Teologia
 all’Angelicum di Roma, don Carlo Wojtyla, insieme con un collega studente, giungeva alla
 stazione di Foggia e, dopo alcune ore di viaggio, raggiungeva San Giovanni Rotondo.
 Nei primi di novembre del 1974 quel sacerdote, diventato Cardinale Arcivescovo di Cracovia,
 tornava nel Santuario di Santa Maria delle Grazie e celebrare la Santa Messa nell’anniversario
 della sua ordinazione sacerdotale e a pregare sulla tomba di Padre Pio.
 Scrissi qualche anno fa che era giusto che quel giovane sacerdote, venuto prima da semplice
 prete e poi da Cardinale, fosse tornato da Papa. Qualcuno mi disse che questo sogno poteva
 rimane un pio desiderio. Il 23 maggio 1987 quel segno è divenuto realtà. Una folla immensa e
 festante ha accolto il Papa polacco tornato per la terza volta pellegrino a San Giovanni
 Rotondo.”
 In questa introduzione del libro, che riporta l’ampia documentazione della visita del Papa a San
 Giovanni Rotondo e in Capitanata, Monsignor Riccardo Ruotolo, Presidente dell’Opera di Padre
 Pio, auspica in conclusione che “In questo programma di vita ci sia di esempio Padre Pio secondo
 le parole del Papa: “Voglio ringraziare con voi il Signore per averci donato il caro Padre, per
 averlo donato, in questo secolo così tormentato, a questa generazione. Nel suo amore a Dio e ai
 fratelli, egli è un segno di grande speranza e tutti invita, soprattutto noi Sacerdoti, a non
 lasciarlo solo in questa missione di carità”.

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 KAROL WOJTYLA E PADRE PIO STORIA DI UNA LUNGA AMICIZIA (pag. 14)

 Papa Wojtyla ha conosciuto Padre Pio fin da quando era un giovanissimo sacerdote da poco
 ordinato. È un caso forse unico nella Chiesa che un Papa abbia avuto una così lunga conoscenza
 con un religioso destinato a salire agli onori degli altari.

 Era il 1947. Karol Wojtyla si trovava a Roma, frequentava l’Università gregoriana. Lo
 interessarono molto le conferenze che era venuto a tenervi il reverendo Cardijn, promotore in
 Belgio della JOC, gioventù operaia cristiana, sul tema del suo concetto di “pastorale
 contemporanea tra i diversi strati sociali”. Lo apprendiamo dal libro “Il mio vecchio amico Karol”
 di Mieczystaw Malinski.

 Erano circa due anni che il neo sacerdote Wojtyla studiava i metodi pastorali dei vari Paesi. Era
 stato in Francia e in Belgio, prendendo contatto con le organizzazioni di apostolato, e studiando
 dal vivo i problemi di azione pastorale tra i vari strati delle popolazioni: bambini, giovani, adulti,
 studenti, lavoratori.

 Un’esperienza formidabile, che spiega tutto il Karol Wojtyla posteriore. Tutto il suo ministero.
 Da semplice sacerdote dapprima, e poi, via via, fino a vicario della diocesi di Cracovia, a Vescovo,
 a Cardinale. I suoi studi, le sue pubblicazioni. La sua dottrina. Che scava nelle cose e negli animi.
 Affonda il bisturi nei problemi d’ogni ordine, vagliandoli e dandone le soluzioni.

 I problemi del lavoro, della società umana. E anche, fondamentalmente, quelli della famiglia,
 dell’individuo. Del rapporto fondamentale tra uomo-donna, nella concezione cristiana
 dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà. La dottrina, o meglio le dottrine, che Papa Wojtyla ha
 sviluppato, e costantemente continua a sviluppare, con la sua pastorale inesausta e con i viaggi
 in tutti i Paesi del mondo.
 Quegli anni, quella sua attività iniziale di sacerdote sono fondamentali nella vita del futuro Papa.
 E proprio in quegli anni il destino, per non dire la Provvidenza, mise in contatto Karol Wojtyla

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 con Padre Pio. Circostanze fortunate lo portarono a San Giovanni Rotondo.

 La data precisa non la conosciamo. Ma fu, con molta probabilità, l’autunno del 1947. La San
 Giovanni di allora non era quella che si presenta oggi. Non c ‘erano praticamente alberghi,
 tranne uno, Villa Pia, nella zona del Convento, più varie pensioncine molto alla buona.

 Non siamo in grado di dire dove Wojtyla alloggiò, se alloggiò, e quanto tempo si trattenne.
 Sappiamo soltanto, da lui stesso, che poté avvicinare Padre Pio, confessarsi con lui, e assistere
 alla sua Messa. Altro non sappiamo.

 Può darsi che quel giovane sacerdote straniero, alto, di bell’aspetto, simpatico, aperto, sia stato
 notato dai fedeli che affluivano in gran numero in quel dopoguerra disastrato al conventino di
 San Giovanni Rotondo.

 Le file che attendevano di confessarsi da Padre Pio erano sempre molte. Patiti d’ogni genere, nel
 corpo e nello spirito, lo avvicinavano chiedendogli di pregare, supplicandolo per sé stessi e per i
 propri familiari. Un’umanità piena di sofferenze bussava ogni giorno alla porta del cuore di un
 semplice cappuccino, che si prodigava per loro nella preghiera.

 Ancora il grande sogno di Padre Pio, l’ospedale, non era sorto. Si muovevano in quei giorni i
 primi passi concreti per realizzarlo. Le prime fondamenta erano state tracciate. La montagna
 veniva sbancata ogni giorno a colpi di mina. È certo Wojtyla vide tutto questo e ne rimase
 colpito. Lui che la sofferenza già conosceva sulla propria persona, e in quella dei propri familiari
 e amici, in Polonia, la sua patria.

 Certo è che la sofferenza, la preghiera e, diciamolo pure, tutto ciò che era congeniale nel modo
 di essere di Padre Pio, lo ritroviamo in Karol Wojtyla. Sempre. Primo fra tutto l’amore alla
 Madonna. Tanto che nel suo stemma c’è esplicitamente scritto “Totus tuus”: Tutto tuo.

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 Per molti anni egli dovette portare nel cuore tutto questo, insieme con il ricordo di Padre Pio,
 della sua Messa, della confessione avuta con lui. E nel 1962, quindici anni dopo quella sua
 venuta a San Giovanni Rotondo, Karol Wojtyla, arcivescovo, vicario capitolare a Cracovia,
 trovandosi a Roma per il Concilio indetto da Giovanni XXIII, prende la penna e scrive di suo
 pugno una lettera a Padre Pio.

 L’occasione gli fu data dalla grave malattia che aveva colpito una sua concittadina, la dottoressa
 Wanda Poltawska, oltretutto vecchia amica di famiglia e sua collaboratrice nell’azione pastorale.
 La lettera la riportiamo qui accanto assieme alla relativa traduzione.
 Di farla recapitare a Padre Pio si incaricò il suo connazionale monsignor Andrea Deskur che in
 Vaticano ricopriva la carica di sottosegretario della Pontificia Commissione per le Comunicazioni
 Sociali e Vicedelegato della Filmoteca vaticana.

 Era stato suo compagno a Cracovia, in seminario. Anche lui una vocazione adulta. Aveva
 collaborato con Wojtyla e altri al “Bratniak”, cioè “Fraternale”, l’associazione universitaria nella
 quale erano rappresentate tutte le facoltà, compresa quella di Teologia. Quegli studenti, di cui
 molti malridotti, affamati, senza alloggio, reduci, sopravvissuti alla prigionia, ai campi di
 concentramento, erano dominati dalla volontà ferrea di riprendersi, andare avanti. Un pò’ come
 nel nostro dopoguerra in Italia. Monsignor Deskur sapeva che il commendator Angelo Battisti,
 funzionario della Segreteria di Stato, era procuratore di Padre Pio per il governo della Casa
 Sollievo della Sofferenza, l’ospedale sorto per opera di Padre Pio a San Giovanni Rotondo.
 Sapeva anche che ogni settimana il commendator Battisti si recava a San Giovanni Rotondo per
 esplicare i suoi compiti, e che avvicinava assiduamente Padre Pio. Gli diede cosi la lettera di
 Wojtyla pregandolo di consegnarla a Padre Pio. Incarico che Angelo Battisti adempì
 scrupolosamente.

 Ed ecco come si svolse quell’incontro, secondo il racconto fatto dallo stesso Battisti al giornalista
 Pino Aprile di “Oggi”.

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 Padre Pio mi disse di leggergli la lettera. Ascoltò in silenzio il breve messaggio in latino, poi disse:
 “A questo non si può dire no”. E in aggiunse: “Angelino, conserva questa lettera perché un giorno
 diventerà importante”.

 Passarono soltanto dieci giorni, ed ecco che monsignor Deskur consegnò a Battisti un’altra
 lettera del suo concittadino Wojtyla. Anche questa in latino, scritta a mano, datata 28 novembre
 1962. Diceva testualmente, nella sua traduzione italiana:

 «Venerabile Padre,
 La donna di Cracovia in Polonia, madre di quattro figlie, il giorno ventuno novembre, prima
 dell’operazione chirurgica, istantaneamente ha riacquistato la salute. Deo gratias. Anche a te,
 Padre, rendo devotamente e massimamente grazie a nome suo, di suo marito e di tutta la
 famiglia».
 L’indomani Battisti, a San Giovanni Rotondo, si recò, la sera, come di consueto da Padre Pio. Gli
 consegnò la nuova lettera di Wojtyla.

 Tutto finì qui. Ma per Wojtyla la storia dei suoi rapporti con Padre Pio continua. Con Padre Pio
 morto, questa volta. In data tre maggio 1972, da Czestochowa, la Conferenza Episcopale Polacca
 indirizzò una petizione al Santo Padre, chiedendo che venisse introdotta la causa di
 beatificazione e canonizzazione di Padre Pio. Quarantacinque i vescovi firmatari. Al primo posto,
 il cardinale Wyszynski, primate di Polonia. Al secondo il cardinale Carol Wojtyla, metropolita di
 Cracovia.

 Infine, nel 1974, Karol Wojtyla tornò sul Gargano. Questa volta l’occasione gli fu data dal Sinodo
 dei Vescovi, che si teneva a Roma sul tema “L’Evangelizzazione nel mondo contemporaneo”. Era
 il quarto Sinodo da quando era stato istituito. La Polonia era rappresentata da tre Vescovi,
 nominati dalla Conferenza dell’Episcopato polacco, il cardinale Wyszynski, il cardinale Wojtyla e
 il vescovo monsignor Ablewicz.

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 Ne faceva parte per nomina papale anche monsignor Andrzej Deskur.

 Fu monsignor Deskur che ancora una volta fece da tramite tra Wojtyla e Padre Pio. Nel senso
 che organizzò il ritorno di Karol Wojtyla sul Gargano dopo 27 anni dalla sua prima visita. Allora
 Padre Pio era vivo, e in piena efficienza per lanciare la sua Opera. Ora era morto e la sua tomba
 era un polo di attrazione per migliaia di fedeli.

 Certo era stato Wojtyla a pregare il suo vecchio connazionale di occuparsi di questo nuovo
 viaggio. Monsignor Deskur prese contatto con un assiduo di San Giovanni Rotondo, l’ingegner
 Pietro Gasparri, nipote del celebre cardinale, funzionario del Vaticano da lunghi anni. L’ingegner
 Gasparri si occupava anche della Casa Sollievo della Sofferenza in qualità di segretario generale,
 da quando era passato per testamento di Padre Pio alla Santa Sede.

 In breve il viaggio fu organizzato. E la sera del primo novembre in Casa Sollievo si attese l’arrivo
 del cardinale Wojtyla. I più informati sapevano che egli aveva tenuto in quei giorni
 un’importante relazione al Sinodo sui problemi teologici dell’Evangelizzazione. Il tema gli era
 stato affidato direttamente dal Papa, Paolo VI.

 Importante la relazione, e di grande interesse la discussione che ne era seguita. Ben 76 vescovi
 avevano preso la parola, altri 33 presentarono le loro opinioni per iscritto. Il tema investiva un
 po’ tutti i continenti: dall’America latina che aveva introdotto nella Chiesa il problema della
 liberazione dell’uomo. All’Africa, col dilemma delle culture e delle Chiese locali.
  All’Europa, infine, e all’America del nord con “il problema della riproposizione del cristianesimo
 in un mondo che si sta secolarizzando”. Anche queste notizie le ricaviamo dal libro di Malinski,
 già citato.

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 Era quindi un Wojtyla agguerrito da una esperienza formidabile fatta in tutti i Paesi del mondo,
 che veniva questa volta a San Giovanni Rotondo. Il sacerdote appena ordinato che si era
 confessato da Padre Pio nel lontano 1947, aveva percorso una lunga fruttuosa strada, sempre in
 ascesa, di ministero e di dottrina. Il quadro dell’evangelizzazione del mondo sulla base dei
 tantissimi problemi contemporanei gli era ben presente nella mente. Era una necessità
 impellente, balzata fuori con maggiore decisione, organicamente ormai, da quella riunione dei
 vescovi.

 Forse anche per questo Wojtyla veniva sulla tomba di Padre Pio. Nessuno di noi lo sa. Ma certo
 egli voleva pregare in quel santuario da cui era partito per la sua missione nel mondo. Questa
 volta consapevole che doveva ad ogni costo andare avanti, promuovere le sue idee
 completamente.

 Quella sera del primo novembre 1974, soltanto due o tre persone di coloro che attendevano
 Wojtyla sapevano l’importanza che egli aveva avuto qualche giorno prima al Sinodo. Per il resto
 colpiva l’immaginazione dei presenti la nazionalità del cardinale che stava per arrivare. Quella
 Polonia che era sotto il giogo comunista. Ma che tuttavia dava prova di una fede incrollabile.

 Wojtyla arrivò. Non solo. Ma con altri sette sacerdoti polacchi, tra cui anche monsignor Deskur e
 monsignor Edoardo Lubowiechki, visitatore apostolico dei polacchi in Germania. A riceverli,
 c’era il sindaco di San Giovanni Rotondo con un assessore, il maresciallo dei Carabinieri, il
 superiore del convento padre Pietro e un paio di dirigenti della Casa. L’incontro ebbe luogo in
 una saletta al piano rialzato dell’ospedale. Fu affabile e familiare. Uno scambio di saluti, senza
 nessuna pretesa di ufficialità.

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 Wojtyla e il suo seguito andarono a pernottare in un vicino albergo. L’indomani mattina, 2
 novembre, concelebrarono nella cripta di Padre Pio. Al Vangelo il cardinale Wojtyla tenne un
 breve discorso.

 Eccolo:
 “Ci troviamo all’altare di Dio per celebrare il mistero della morte e della resurrezione. Lo
 celebriamo ogni giorno e ogni ora, ma ha uno speciale significato quello di oggi, quando
 facciamo la commemorazione di ogni defunto.

 Ieri abbiamo fatto la commemorazione di ogni santo, e oggi di ogni defunto, perché i defunti
 devono essere, devono diventare santi, partecipando alla morte e alla resurrezione di Gesù
 Cristo, nostro Signore.

 È specialmente impressionante, è specialmente profondo, il fatto che celebriamo questa
 Eucarestia vicino alla tomba di Padre Pio, che predicava la passione e la morte e la resurrezione
 di Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo di tutta la sua vita.
 Speriamo che durante il santo sacrificio, durante la nostra comune preghiera, anche lui pregherà
 con noi. Amen”.

 In esso ancora non svelava la sua venuta a San Giovanni Rotondo tanti anni prima. Fu monsignor
 Deskur a rivelarlo poco dopo, nella seconda Messa, concelebrata questa volta nella chiesa
 grande del convento. Ma prima Wojtyla, rivestito ancora dei paramenti sacri, si era
 inginocchiato sulla tomba di Padre Pio. Ed ecco cosa disse monsignor Deskur:

 “Ci sono delle ricorrenze religiose, nella Chiesa cattolica, che hanno un carattere universale, e
 sono proprio quelle del primo e del due novembre: la festa dedicata ai santi e la festa dedicata a
 tutti i defunti, perché proprio a loro tutti gli uomini di ogni nazione che c’è in cielo si sentono
 veramente vicini nel loro destino. Ma non soltanto in questo triste destino di uomini soggetti alla

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 malattia e alla morte, ma in quello gioioso, pieno di letizia e di speranza: destino di essere
 chiamati tutti ad essere fratelli di Cristo e figli del nostro Padre che è in cielo; chiamati alla
 santità, al paradiso, alla glorificazione, proprio in seguito a tutte le difficoltà che incontriamo in
 questa vita mortale.

 E questa verità, cioè la grande comunità di tutti gli uomini, di tutti i cristiani del mondo, ha
 trovato pochi giorni fa una speciale espressione esterna (e voi ne avete sentito parlare): era il
 Sinodo dei vescovi. Tutti i vescovi delle più grandi diocesi del mondo si sono riuniti.
 È arrivato a questo Sinodo, chiamato appositamente dal Santo Padre per affidargli un incarico
 speciale, anche il cardinale di Cracovia, dalla lontana Polonia, così vicina all’Italia per cultura, per
 affetto, per la storia.

 E così siamo riuniti tutti: non c’è più distinzione di lingua o di frontiera intorno all’altare, a questo
 altare di San Giovanni Rotondo che ha un significato speciale. Sua Eminenza il cardinale di
 Cracovia è venuto qui a commemorare la sua ordinazione – lontana – di sacerdozio. Da giovane
 sacerdote venne qui a vedere Padre Pio; e oggi è ritornato. Perché Padre Pio ha voluto nella sua
 vita, come san Francesco, rinnovare con le sue stimmate i misteri della salvezza del mondo.
 Preghiamo insieme il Padre celeste per quelli che sono già passati, e per noi.
 Padre Pio ce lo ricorda con la sua vita piena di offerta, di sacrificio, d’immolazione di sé stesso, di
 carità di cui questa bella fondazione, questo ospedale, la Casa Sollievo della Sofferenza, è la
 testimonianza, il monumento.

 Pensate al vostro prossimo, e sarete vicini a Cristo. State vicino all’altare non dimenticando con
 che corpo e con che sangue (di Dio!) siete redenti, e il Padre vostro che è in cielo vi terrà sempre
 vicini al suo cuore.

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 Adesso siamo qui, affidati alla preghiera di Sua Eminenza il cardinale, dei sacerdoti che stanno
 insieme a lui intorno all’altare, di tutti voi, in una sola preghiera comune al Padre celeste, per la
 salvezza di tutti, perché nessuno si perda, ma tutti ci ritroviamo nella gloria del Padre. Amen”.

 Dopo le due Messe, il cardinale e il suo seguito visitarono i luoghi del convento in cui Padre Pio
 era vissuto. A sera si recarono a Monte Sant’Angelo e concelebrarono la terza Messa del giorno
 dei defunti nella grotta di San Michele.

 Ed eccoci al tre novembre mattina. Questa volta la Messa fu celebrata nella chiesetta antica del
 convento. Al Vangelo il cardinale tenne l’omelia e si svelò in pieno, con parole circostanziate,
 sulla visita che aveva compiuto 27 anni prima a Padre Pio. Ecco ciò che disse:

 “Noi sacerdoti polacchi e vescovi, tutti della diocesi di Cracovia, abbiamo ottenuto la facoltà di
 concelebrare la Messa di domenica in questa vecchia chiesa. Questa vecchia chiesa è rimasta per
 me il luogo di incontro con il servo di Dio Padre Pio.
 E dopo quasi ventisette anni ho ancora nei miei occhi la sua persona, la sua presenza, le sue
 parole, la santa Messa celebrata da lui all’altare laterale, e poi questo confessionale, dove
 andava a confessare le donne; la sacrestia, l’altare centrale dove adesso stiamo noi, e dove,
 dopo la sua Messa, lui ha distribuito la santa comunione. E tutto questo ci fa riflettere, e anche
 meglio comprendere la frase che è quasi pensiero centrale della liturgia odierna: gloria di Dio è
 l’uomo vivente.

 Dopo quasi ventisette anni, io vedo come questa verità – gloria di Dio è l’uomo vivente – si è
 ‘incarnata in un uomo.

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 Penso poi, dopo aver passato un mese ai lavori del Sinodo dei vescovi (tema del Sinodo era
 l’evangelizzazione del mondo d’oggi), penso che questa verità è anche una verità fondamentale
 della evangelizzazione del mondo di ieri e d’oggi. E per che cosa dobbiamo pregare durante il
 santo sacrificio che concelebriamo, e al quale voi partecipate, carissimi fratelli e sorelle, in
 questa vecchia chiesa ancora piena della presenza di Padre Pio? Dobbiamo pregare perché
 l’evangelizzazione si faccia per noi tutti, per ognuno di noi. E, perché si faccia, è necessario che
 ciascuno di noi sia quell’uomo vivente che è la gloria di Dio. Amen”.

 Da San Giovanni Rotondo la piccola comitiva di polacchi ripartì quella stessa mattina. Ma prima
 c’era stato un piccolo incidente che aveva infortunato Wojtyla in persona. Nell’uscire
 dall’albergo egli aveva messo inavvertitamente il piede nel vuoto di un canaletto costeggiante la
 strada. Vi era caduto dentro facendosi male a una caviglia. Una cosa fortunatamente leggera.
 Ma che richiese un intervento di pronto soccorso, con relative lastre fotografiche e cure
 immediate. Qualche giorno dopo, il 16 novembre, il Sinodo che aveva dato l’occasione a Kàrol
 Wojtyla di ritornare a San Giovanni Rotondo si chiuse. Ma non terminò lì, in quanto fu costituito
 un consiglio permanente del segretariato dello stesso Sinodo, e Karol Wojtyla ne faceva parte.
 Impegno fortissimo per la realizzazione di quanto dal Sinodo era emerso.

 Per più anni non si seppe nulla di Karol Wojtyla. Poi il 16 ottobre 1978, la sera dell’elezione del
 Pontefice, scoppiò quel nome; Wojtyla, Karol Wojtyla. Un nome che ai più non diceva nulla. Ma
 a quelli che l’avevano conosciuto a San Giovanni Rotondo a poco a poco si delineò in tutta la sua
 figura. L’entusiasmo fu grande. Si sapeva ormai che era un Papa tutto di Padre Pio.

 “Il seguito è consacrato nelle parole pronunziate ripetutamente da Papa Wojtyla nei numerosi
 incontri con i devoti di Padre Pio in udienze private e pubbliche. Lo vedremo in un capitolo a
 parte. È una storia, questa del rapporto tra Padre Pio e Wojtyla, di una lunga amicizia, tenuta nel
 segreto del cuore da parte di Karol Wojtyla. E chissà che egli, proprio a San Giovanni Rotondo,
 giusto quaranta anni fa, non abbia avuto come un presentimento di tutto quello che sarebbe
 stata la sua vita posteriore, di sacerdote e di uomo.

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 E, chissà anche, che Padre Pio, trovandosi davanti al confessionale, e poi vicino alla Messa, quel
 giovane sacerdote, provato dalla guerra ma pieno di ardore di apostolato, non abbia intuito ciò
 che era in lui: ciò che Dio gli destinava. Mi commuove pensare a questa strada della Provvidenza
 che Karol Wojtyla ha percorso dalla sua prima venuta in Italia a oggi. A questo filo, per lunghi
 anni impercettibile, che lo ha unito all’umile, semplice frate cappuccino”.
                                                                                      Gherardo Leone

 SULLA TOMBA DI PADRE PIO UN MOMENTO SUGGESTIVO LUNGAMENTE ATTESO (pag- 68)

 “Il Papa sulla tomba di Padre Pio. Un momento di grande commozione. Il Vicario di Cristo sulla
 tomba di un semplice religioso che per tutta la sua vita ha avuto un unico ideale: modellarsi
 totalmente su Cristo, prodigandosi per il bene dei fratelli fino all’ultimo respiro. È un fatto unico
 nella storia che un Papa abbia reso omaggio alla tomba di un uomo non ancora santificato, di
 cui è in corso il processo di beatificazione. Un attestato clamoroso di ammirazione per le virtù
 umane e sacerdotali di un figlio fedele della Chiesa. Sempre obbediente. Anche quando gli è
 costato sacrificio.

 [1] Nota di Aurelio Valente
 Ho evidenziato la chiusura di questa “storia del rapporto tra Padre Pio e Wojtyla, di una lunga
 amicizia, tenuta nel segreto del cuore di Karola Wojtyla”, perché mi ha molto commosso come
 ha detto l’autore Gherardo Leone a proposito di “questo filo, per lunghi anni impercettibile, che
 ha unito Karol Wojtyla all’umile, semplice frate cappuccino”.

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 È questo l’insegnamento che Padre Pio ha inculcato in tutti i suoi figli. Inginocchiato dinanzi alla
 sua tomba, il Papa ha certo ricordato l’unico incontro avuto con lui. Il suo viso pensoso tradiva
 l’interna commozione.

 L’umanità e la santità di un frate (pag. 37)

 Storia di un’anima e di un corpo squarciati dalla sofferenza
 A leggerla attentamente la biografia di Padre Pio è un susseguirsi di affanni e malattie, che
 colpivano ora il corpo ora lo spirito, ma che spesso andavano di pari passo. Come se le
 sofferenze materiali fossero la manifestazione tangibile del travaglio di un animo inquieto.

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 Sembra quasi premonitrice la frase che scrisse egli stesso sull’immaginetta ricordo, il 10 agosto
 1910, quando fu ordinato sacerdote: “Gesù, mio sospiro e mia vita, oggi che trepidante ti elevo
 in un mistero di amore, con te io sia per il mondo via, verità, vita e per te sacerdote santo,
 vittima perfetta”.

 Andando a ritroso nel tempo, la sua vita si apre all’insegna delle difficoltà, dal momento che il
 suo paese natale, Pietrelcina, era senza acqua, luce, strade, medico e scuola. Per quanto piccoli
 possidenti, i genitori non poterono offrirgli che una vita umile; ma la loro viva religiosità e
 paziente sopportazione, costituirono, nei momenti più terribili e nelle prove più laceranti, una
 fonte di fede e di luce.

 Sin da piccolo mostrò i segni precoci della sua vocazione, se si pensa che a 5 anni ebbe le prime
 apparizioni e cresceva in lui l’amore per la Madonna della Libera, patrona del Sannio. Quando
 nel 1896 il padre lo portò al santuario di San Pellegrino ad Altavilla Irpina, fu colpito dall’umanità
 dolorante che riempiva il tempio e da quel momento la sua vita cambiò. Al tumulto religioso si
 affiancò una terribile bronchite, con febbri altissime, che probabilmente aveva contratto nel
 luogo umido in cui si recava per pregare.

 Quando, nel 1903, entrò nel convento di Morcone, piccolo e austero, luogo dell’anima sola,
 della forza sublime, della terribilità del mistero, l’incessante battaglia era cominciata. Francesco,
 da allora, novizio col nome di Padre Pio, sognava le lance e gli scudi, una grande croce, sputi,
 frustate e insulti. I digiuni, le mortificazioni, le flagellazioni, però, minarono la sua fibra.
 Avvertiva, spesso, dolori atroci al petto ed era colto da febbri violente. Pallido ed esile, aveva gli
 occhi ardenti di quel “fuoco che lo logorava notte e giorno”. Fu trasferito a Sant’Elia a Pianisi.

 I dolori non cessavano, anzi si aggiungevano ad essi paurose e demoniache visioni, che
 assediavano la sua giovane mente.

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 Tra il 1906 e il 1907 fu prima trasferito a San Marco la Carola, poi a Serracapriola, a Vico del
 Gargano e a Montefusco. In quei luoghi condusse i suoi studi di filosofia e teologia, ma le sue
 condizioni di salute peggiorarono tanto che frequenti furono i ritorni a Pietrelcina.

 Nel 1908, in concomitanza con gli ordini ricevuti, sembrò essergli tornata anche la salute e il
 buonumore, ma col ritorno a Montefusco la situazione precipitò tra febbri, dolori al torace e
 svenimenti. Tornò ammalato a Pietrelcina, dove rimase dal 1909 al 1916.
  Cresceva in lui il disagio di non potersi liberare da un male ostinato. Era troppo malato, stanco,
 povero, per potersi procurare le medicine care e introvabili. Il padre provinciale gliele procurava
 come poteva.

 In prossimità dell’ordinazione, tanto attesa, il suo pensiero era rivolto alla morte, l’unica che
 potesse liberarlo dai lacci del corpo.

 Il 10 agosto fu ordinato sacerdote, ma ai fortissimi dolori del capo si aggiunsero insoliti dolori
 alle mani e ai piedi. I suoi mali avevano sempre meno una spiegazione scientifica. Di notte si
 facevano frequenti le apparizioni diaboliche, fino al settembre 1911, quando comparvero strani
 rossori sulle mani e sotto i piedi. I dolori non gli permettevano nemmeno di celebrare la messa.
 Un anno dopo ancora scriveva: “Il cuore, le mani e i piedi sembrano trapassati da una spada,
 tanto è il dolore che sento”. Lo stesso Padre Pio non capiva cosa significasse tutto questo,
 questa sua malattia irreale che lo sospendeva e lo teneva prigioniero.

 Il 1913 fu un anno di intensi colloqui con Dio, durante i quali l’anima si raccoglieva in una pace e
 tranquillità difficili da esprimere e i sensi restavano sospesi.

 Il 6 novembre 1915 fu incorporato nella X Compagnia di Sanità militare di stanza a Napoli. Anche
 qui, ammalatosi gravemente ai polmoni, restò poco, passando da un ospedale militare all’altro,
 tra ambasce e privazioni grandissime.

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 Il 21 luglio 1916 giunse nel convento di San Giovanni Rotondo. Il paese poverissimo, così come il
 convento, piacquero a Padre Pio. Qui, sentendosi meglio, si tuffò in una frenetica vita spirituale,
 contravvenendo ai consigli dei medici e così il suo corpo e la sua anima, fiaccati da un nuovo
 malanno, sembravano ormai cedere. Vinse anche questa battaglia e, il 20 settembre 1918, Dio
 impresse il suo sigillo con le stimmate. Lui parlava ai suoi confessori del suo tormento, del suo
 amore e della sua morte.

 Negli anni che seguirono crescevano attorno a lui curiosità, antipatia e maldicenze, che mai
 erano mancati nei momenti cruciali della sua vita. Ma i suoi occhi rimasero stupiti ed assorti a
 scoprire e spiare dentro di sé i mille aspetti incomprensibili e multiformi di Dio. Anche quando
 nel 1923 furono decretati una serie di divieti a suo carico e furono prese misure severe e
 umilianti contro di lui, restò, ubbidiente, meravigliato.

 Di lui scrisse Antonio Baldini, in un articolo per il : “[…] La figura del
 povero Padre Pio mi parve in una luce che non era più quella del miracolo, ma già un po’ quella
 del martirio”. Nel 1931 fu riabilitato e il 16 luglio 1933, visibilmente commosso, celebrò la
 messa, dopo dieci anni. Crebbe la sua fama, ma lui non smise di combattere, non contro la
 società, ma contro i peccati di ogni uomo gli si avvicinasse.

 Alla fine degli anni cinquanta, tra successi ed ombre, fu colto da nuovi malesseri. Nel maggio del
 1967 passò l’ottantesimo compleanno nell’intimità di pochi amici, sempre più malato. Il 23
 settembre 1968 morì, dopo attacchi di asma terribili, sereno, con la corona del rosario in mano.
 Le piaghe, anacronistica e ultima manifestazione del suo calvario, rimarginarono. “Non
 cerchiamo di capire, perché il destino di certi santi da vivi, è tra i misteri più oscuri della Chiesa
 (Ignazio Silone, “Avventura di un povero cristiano”).
 Un Santo, un Uomo (pag. 40)
 Mentre scrivo, si rafforza in me una strana sensazione, che deriva dalla consapevolezza di
 parlare di un santo nostro contemporaneo. Voglio dire che, forse, sarebbe più facile parlare di
 un grande uomo di fede del passato, perché sicuramente intorno a lui si muoverebbero le fila di

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 una impeccabile ed anche rassicurante agiografia, pronta ad edulcorare e smussare quelle
 asprezze ed incongruenze insite nel personaggio. Parlare, invece, di chi, in qualche modo, si è
 avuta la fortuna di conoscere è più complesso, perché da un lato scocca la scintilla dell’orgoglio
 che deriva dall’appartenere alla generazione di chi può dire “io l’ho conosciuto, l’ho sentito
 parlare, l’ho visto pregare”, dall’altro s’insinua il dolore di aver assistito ad un turbinio di
 calunnie, di scoop giornalistici e di accuse che non solo hanno poco a che fare col sacro, ma
 tendono a depauperare l’immagine di un grande uomo di fede. Certo è che i risultati più fulgidi
 sono passati per sentieri accidentati e che le difficoltà misurano il polso della santità, oltre al
 fatto che, nell’immaginario dei proseliti, le persecuzioni rendono ancora più amabile la vittima.
 Ma sarebbe indubbiamente più confortante sapere che nel destino di un uomo votato alla
 preghiera ci fossero solo meditazione e ascesi.
 Anche San Francesco, un uomo mite che amava la natura tutta, trovò proprio tra gli uomini della
 Chiesa i suoi massimi detrattori. Ma a quei tempi la Chiesa era rigorosa e così poco incline
 all’indulgenza, perché doveva ancora rinsaldare il suo potere e definire il suo destino.
  Forse anche per queste somiglianze biografiche, oltre che per un certo modo di vivere la
 comunione con Dio, quella di Padre Pio è stata considerata da alcuni una santità arcaica. Ma per
 molti è anzitutto un dono che Dio ha fatto alla Chiesa e all’umanità, un dono nel quale è fusa
 l’antica essenza della cristianità e la nuova traduzione del messaggio di Cristo. La santità dalle
 forti tinte soprannaturali diventa una risposta ai bisogni del nostro tempo chiuso ad ogni
 trascendenza. Con la sua preghiera e il disprezzo per tutte le cose del mondo, “fino a preferire la
 povertà alle ricchezze, l’umiliazione alla gloria, il dolore al piacere” Padre Pio è entrato di diritto
 a far parte di quella categoria di mistici dell’espiazione che hanno preso silenziosamente su di sé
 il peccato e le sofferenze del mondo. “Per l’anima infiammata di divina carità, il sovvenire alle
 necessità del prossimo è una febbre che la va lentamente consumando”, amava dire.
 Voleva essere solo “un frate che prega e consumò la sua vita nel donare pax et bonum. È per
 questo che il mondo lo ha sempre osannato, perché ha intuito che non sarà né la tecnica con le
 sue risorse, né la scienza con le sue promesse, a salvarci, ma solo l’amore e la santità. La santità
 di un uomo come Padre Pio appunto, severo nelle cose di fede e di morale, carismatico, ma
 soprattutto uomo semplice, che parlava alla gente di cose semplici, come l’amore per Dio e la

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 preghiera: “Nell’orazione ti metterai alla presenza di Dio per due principali ragioni: per rendergli
 l’onore e l’ossequio che gli dobbiamo; per parlargli e sentire la sua voce per mezzo delle sue
 ispirazioni e illuminazioni interne”.
 Così si è congedato da noi L’ULTIMA MESSA (pag. 56)
 Padre Pio si presentò sull’altare portato in carrozzella. Aveva avuto l’autorizzazione anche a
 celebrare seduto. Ogni parola, ogni gesto, ogni intonazione dei cantigli costavano enormi sforzi.
 Alla fine della messa gli applausie le grida “viva Padre Pio” avevano rotto il silenzio ed erano
 suonato come un commiato. Il sacerdote si alzò per lasciare l’altare, ma vacillò, stava addirittura
 per cadere, se non l’avessero prontamente soccorso e portato verso la sacrestia sulla sedia a
 rotelle. Mentre usciva dalla Chiesa rivolse un ultimo sguardo, con gli occhi pieni di pianto, ai suoi
 figli, sbigottiti e sconvolti. Per tutti, quella è stata una esperienza irripetibile e indimenticabile, a
 prescindere dal fatto singolare che Padre Pio, in quella messa, non avesse più le stimmate.

 La notizia qualche anno dopo, in seguito ad uno scoop giornalistico, è diventata di dominio
 pubblico e, alcuni anni fa, si è venuti a conoscenza anche del fatto che, quel famoso giorno, sul
 palmo della mano sinistra fosse visibile ancora l’ultima piaga, che si sarebbe rimarginata al
 momento della morte. Non v’è dubbio che questi fatti e i documenti che li accertano provano la
 santità di Padre Pio e testimoniano come la sua missione terrena si chiudesse sull’altare quella
 domenica mattina del settembre del 1968, ma è un peccato che quel 23 settembre sia balzato
 agli onori della cronaca e debba essere ricordato più per il suo valore documentaristico che per
 essere stato l’atto finale di una vita irta di difficoltà, vissuta in pienezza.
 Il Frate taumaturgo (pag. 57)
 Aveva 81 anni quando è morto e ai suoi funerali c’erano persone giunte da ogni parte d’Italia,
 non solo cattolici, ma anche laici e persino agnostici. Dalla sua scomparsa sono passati più di
 trent’anni, anni densi di avvenimenti politici, sociali, che hanno sconvolto il nostro Paese,
 l’Europa, il mondo intero, eppure la tomba di Padre Pio e i luoghi dove egli è vissuto sono meta
 quotidiana di folle di pellegrini, che aumentano sempre più. Cosa susciti tanto interesse resta un
 mistero, che via via è interpretato ora come bisogno di una figura carismatica in tempi di
 confusione, ora come rinata spiritualità che beffa il cinismo dilagante.

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NUOVA PUGLIA D’ORO
Progetto di valorizzazione della memoria storica pugliese                          www.nuovapugliadoro.it
a cura della Fondazione Carlo Valente

 Certo è che la vicenda umana, ma ancora di più l’aspetto mistico e taumaturgico, hanno fatto di
 lui una testimonianza unica nella storia religiosa del nostro secolo.

 L’esistenza terrena di Padre Pio è stata un continuo susseguirsi di avvenimenti drammatici, ma
 anche di situazioni contorte, che hanno sedotto i biografi, perché offrivano loro una
 straordinaria possibilità di raccontare vicende di dolori, persecuzioni, condanne. Ma dare ampio
 spazio soprattutto o solo alle vicende rocambolesche che hanno travagliato l’esistenza terrena
 del religioso stigmatizzato sarebbe riduttivo. Egli era un uomo che viveva a contatto con
 dimensioni a noi sconosciute e, come certi santi del Medio Evo, operò svariati miracoli, grazie ai
 “carismi” e ai “doni straordinari” che gli erano stati regalati dal cielo.
 E noi, con occhio profano e curioso, cerchiamo di accostare il mistero e gettare uno sguardo
 “nell’incredibile”, che sfugge al controllo razionale. Quell’incredibile segno e sostegno della fede
 è un dono di Dio, ma anche una forza motrice che impegna l’intelligenza e sollecita la volontà.
 La verità rivelata, la prova esteriore della Rivelazione, il miracolo, cioè, è “segno certissimo della
 divina Rivelazione e motivo di credibilità”, spiega la Chiesa. I miracoli sono, quindi, indispensabili
 alla fede, perché, per loro tramite, l’uomo riesce a credere e a rivolgere l’attenzione verso
 l’Assoluto, ma sono fondamentali anche per capire la grossa portata spirituale di Padre Pio. Il
 fatto che Dio avesse posto il suo sguardo su di lui, lo avesse scelto per portare agli uomini i
 propri messaggi, significa che Gli era gradito, che era speciale, eletto. Più grandi e frequenti
 sono stati i prodigi che Dio ha compiuto attraverso di lui, maggiore appare la sua santità, perché
 grande è stata la “confidenza” con Dio.

 Più che di miracoli, in senso stretto, parlerei, a proposito di Padre Pio, di segni del
 soprannaturale, documentazione di una presenza continua del divino e delle entità che
 popolano il mondo invisibile.

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Progetto di valorizzazione della memoria storica pugliese                         www.nuovapugliadoro.it
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 Certo, il dato più tangibile, il primo miracolo, è rappresentato dalle stigmate, ritenute dalla
 tradizione cristiana e dalla pietà popolare, prima ancora che dalla Chiesa, segni indiscutibili
 dell’intervento divino.

 Molti prima di lui i casi e molte le riserve del mondo ecclesiastico, che guarda a questo
 argomento con circospezione, ma anche forti i dubbi del mondo scientifico, secondo il quale le
 piaghe possono essere frutto di isterismo o di autosuggestione, in una parola “ideoplasi”.

 Eppure le testimonianze dei confratelli, ma ancor di più del padre superiore provinciale,
 ruppero, in quei giorni di eclatanti manifestazioni il rigoroso riserbo ed il prudente silenzio che la
 Chiesa adotta nei confronti di fatti così scomodi. Il padre superiore generale poi affermò “Non
 sono macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani ed i piedi. Quella del costato è un
 vero squarcio, che dà continuamente sangue o sanguigno umore”.
 Polemiche, conversioni, primi miracoli attribuiti al frate, profonda ammirazione nei suoi
 confronti, carosello di perizie mediche: fu quello che seguì. E così “miracolo” fu anche la
 capacità che Padre Pio ebbe di superare i cicloni che lo investirono; accuse dettate da una
 esasperata cultura positivistica, esperimenti, contraddizioni, dichiarazioni sui limiti della scienza
 e suoi misteri, osannazione di quelle “luci della fede” capaci di confutare qualsiasi dotta teoria,
 ma soprattutto, valutazioni e giudizi negativi e sulla natura delle stigmate e sulla figura stessa
 del frate. Per cinquant’anni, quelle piaghe che destarono tanto interesse e provocarono tanti
 dolori al cappuccino, restarono vive, sanguinanti, inalterate; non guarirono, non cicatrizzarono,
 non degenerarono mai. Mistero indecifrabile, in contrasto con tutte le leggi della natura,
 sparirono, senza lasciare alcuna traccia, alcuna cicatrice, alla sua morte.

 Con l’impressione delle stigmate, Padre Pio era un uomo segnato da Dio. Una creatura di questo
 mondo sulla quale era stato impresso un marchio divino, con un significato ben preciso: indicare
 che quella persona era stata scelta per partecipare al mistero della Redenzione di Cristo
 attraverso la sofferenza.

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