MARCO MENDENI DE ORACULIS NOVIS - Area35 Art Gallery
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“Mendeni non realizza semplici opere. Crea interi mondi. Nel ruolo di demiurgo postmoderno, introduce nuove rego- le fisiche e metafisiche, bucando gli schermi, rompendo gli schemi “
Marco Mendeni De Oraculis Novis Area35 Art Gallery Via Vigevano 35, Milano 24 Ottobre 2017 - 11 Gennaio 2018 mostra a cura di Arianna Grava Testi di Matteo Bittanti, Elena Giulia Abbiatici, Federica Patti,Valentino Catricalà, Pietro Gorgazzini Immagini Valerio Ferrario, Marco Mendeni Comunicazione Irma Bianchi Communications In copertina “r_lightTweakSunlight_09” , 2017. cm 100 x 150. Olio su tela Copyright Marco Mendeni per i testi , gli autori Volume finito di stampare nel mese di dicembre 2017 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore
IL VATICINIO DEI NUOVI ORACOLI di Matteo Bittanti Il dialogo tra le arti tradizionali e quelle digitali ha una lunga tradizione. Tale conversazione segue spesso la logica della traduzione. È il caso dell’artista cinese Feng Mengbo che nel 1995 ha riprodotto su tela quattro scene ispirate al celebre picchiaduro nipponico Street Fighter . Solitamente, la trasposizione intermediale comporta un tradimento : in questo caso, Feng Mengbo trasforma il combattente nipponico Ryu in Wang. Nonostante le superficiali affinità, i due perso- naggi ideologicamente differenti. Wang indossa infatti un berretto delle Guardie Rosse: è di nazionalità cinese. Come osserva Philip Sharp, “Feng Mengbo mette a tema l’identità nazionale nobilitando un’arte minore, bassa, riconducendola nell’alveo dell’arte contemporanea. Anche se la sua scelta ricade su un picchiaduro di fama mondiale, questa strategia conferma la partecipazione dell’artista a una sottocultura. Detto altrimenti, Feng Mengbo muove una critica agli effetti dello svago elettronico, riconoscendone nel contempo l’enorme impatto culturale.” (2018, p. 59). L’appropriazione del vi- deogioco e la sua ricontestualizzazione sotto forma di quadro da parte di Mengbo innesca un cortocircuito ermeneutico. Negli stessi anni, l’artista di origini greche Miltos Manetas proponeva una penetrante riflessione sull’influenza delle tecno- logie ricreative attraverso il medium della pittura: è il caso delle serie Point of View (1997–2007), Peripherals (1997–2007) e Playing Videogames (1997–2005). In queste opere il videogioco rimanda a una precisa modalità di visione e a una pra- tica sociale. Come un etnografo, l’artista documenta i nuovi riti e paesaggi creati dalla proliferazione di protesi artificiali, soffermandosi su posture, modi di vedere ma anche di relazionarsi a dispositivi, apparecchiature e interfacce. Allo stesso tempo, Manetas inventa un nuovo tipo di video arte – il machinima – attraverso l’appropriazione di titoli di successo, come Super Mario e Tomb Raider (Bittanti e Lowood, 2013). Il modus operandi di Mendeni è molto differente rispetto a quello di Mengbo e Manetas, a livello processuale e formale. Per cominciare, l’artista italiano non utilizza di videogiochi commerciali, ma manipola il CryEngine 3, un software profes- sionale usato per animare gli ambienti virtuali dei video game . Come un chirurgo, Mendeni interviene direttamente sul co- dice creando risultati inaspettati. Tra questi spicca r_lightTweakSunlight , un artefatto nonché la documentazione di una pratica creativa. Detto altrimenti, Mendeni non tratta il videogioco come un soggetto da riprodurre bensì come oggetto di riflessione, metonimia della tecnologia digitale e, più in generale della tecnologia tout court . r_lightTweakSunlight è il nodo di un rizoma e, al tempo stesso, un oggetto ibrido che tuttavia rivendica una propria autonomia. È causa ed effetto, premessa e promessa realizzata, implicazione e conseguenza. Nell ’oeuvre di Mendeni, il videogioco – già sottoposto a un processo di astrazione – è sempre mezzo, non fine. r_lightTweakSunlight frantuma la coerenza pseudo-naturalistica della simulazione per rendere manifesto il sotteso artificio, dando visibilità a ciò che normalmente sfugge all’occhio uma- no. In questo senso, Mendeni dialoga in modo asincrono con il tardo Harun Farocki, che con Parallel I–IV (2008–2012) porta in primo piano le intrinseche contraddizioni della logica simulacrale. A differenza di Farocki, tuttavia, Mendeni solle- cita lo spettatore a contemplarla. Per farlo, eleva il bug , l’errore di visualizzazione, a marca di riconoscimento del digitale. In r_lightTweakSunlight, il bug non è un errore bensì una caratteristica formale. A feature not a bug . È una proiezione, nel doppio senso di trasmissione di un’immagine sullo schermo e di vaticinio, predizione. Mendeni illustra la progressiva ludicizzazione del reale. Con De Oraculis Novis , l’immagine animata, fluida e cangiante del machinima subisce un’ulteriore trasmutazione, fissan- dosi sulla tela: quasi un freeze frame . Questo passaggio comporta una ridefinizione della logica dell’attenzione nonché delle modalità di interazione con l’artefatto da parte dello spettatore. Sarebbe tuttavia ingenuo affermare che il cerchio si chiude poiché non si tratta di un cerchio. Semmai, di un nastro di Möbius. Mendeni (di)mostra che l’arte contemporanea ha un solo lato e un solo bordo: tra il digitale e l’analogico c’è una continuità. Non vi è rottura, né tantomeno contrap- posizione. Seguendo l’itinerario intermediale proposto dall’artista – che parte dallo schermo per raggiungere la tela – si scopre che il viaggio è più lineare del previsto. Si tratta di un percorso ricorsivo, certo: il deja vu della matrice. Ma tutt’altro che frammentato. Mendeni s’inabissa nei recessi dell’immagine elettronica – erroneamente liquidata come superficiale – invitandoci a seguirlo. Come insegna Edgar Allan Poe, magistralmente reinterpretato dal Marshall McLuhan (1964) di Understanding Media , lottare contro le onde del maelstrom condurrebbe alla debacle .
È dunque fondamentale farsi trasportare dalla corrente per stare a galla senza annegare. Per quanto elettronici, gli am- bienti modellati da Mendeni si rifanno a un immaginario innegabilmente “naturale”: sono cavernosi, celestiali, abissali, rocciosi. Paesaggi post–pastorali, frutto di una sequela di trattamenti, passaggi e iterazioni. Si parte dall’acqua simulata per giungere all’olio su tela: l’elemento liquido che fa da leit–motiv anche nelle manifestazioni più recenti, la realtà virtuale, il cui utilizzo consiste, non a caso, in un’ immersione. In un certo senso, il viaggio suggerito da De Oraculis Novis ripercorre le tappe evolutive di Mendeni, formatosi all’Acca- demia di Belle Arti di Brera prima in pittura e successivamente in Nuove Tecnologie per l’arte. Un’autobiografia a rebours : qui si parte dalle Nuove Tecnologie dell’arte (l’ engine ) per fare ritorno alla pittura. Ma si tratta di un ritorno a sua volta integrato dalle nuove ( seminuove ) infrastrutture della visione, come la summenzionata realtà virtuale, che introducono un ulteriore livello di mediazione e impongono inedite modalità di fruizione. Alla contemplazione dell’opera auratica si affianca dunque l’esperienza immersiva nel mondo simulato. Parlando della differenza tra pittura e cinema nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Walter Benjamin scriveva: Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si e gia modificata. Non può venir fissata. (p. 43) Il confronto regge, ma richiede un aggiornamento: negli spazi videoludici, l’oggetto guardato è spesso consapevole di essere guardato e, come tale, reagisce di conseguenza. L’algoritmo è tutt’altro inerte. Come osservava Kevin Kelly (2008) un decennio fa, i quadri del ventunesimo secolo – altrimenti noti come schermi – sono dotati di occhi, per cui vedere si- gnifica al tempo stesso essere visti. L’immagine fissata ci fissa a sua volta. Il risultato è una visione post–umana, machine vision , un video/gioco di sguardi fortemente oggettivante. Mendeni riflette sulle trasformazioni del regime scopico e, al tempo stesso, è lui stesso il riflesso di profondi cambiamenti percettivi e fenomenologici avvenuti negli ultimi decenni. Questa dialettica sviluppa una poetica che è anche un tutorial per navigare uno spazio dalle peculiari coordinate. Illustra inoltre il binomio tra liscio-striato concettualizzato da Gilles Deleuze e Felix Guattari (1980). In Millepiani , i due filosofi francesi indicano infatti due modalità spaziali: esempi di spazi lisci sono i deserti, i mari, le steppe, i ghiacci – non a caso, i paesaggi rappresentati in r_lightTweakSunlight – spazi senza ostacoli o divisioni nette. Spazi che scorrono in perfetta autonomia di fronte ai nostri occhi, amorfi, incontenibili. Quello liscio è uno spazio aptico anziché ottico e gli spazi videoludici sono essenzialmente tattili. È lo spazio dell’intensità, dei suoni e dei rumori. È inoltre vettoriale anziché metrico: non a caso, qui parliamo di poligoni, forme geometriche, linee. Quello liscio è uno spazio per nomadi, per chi preferisce attraversare anziché risiedere, come gli utenti che passano ore sugli schermi, anziché negli schermi. Si spostano, senza andare da nessuna parte. Lo spazio liscio è segnato dal movimento – anche se simulato – dei nuovi nomadi. Quello striato è invece uno spazio fondato sull’idea di divisione, disposizione, unità discreta, come può esserlo una tela o una scultura, nella sua irriducibile concretezza ed intelligibile omogeneità formale. Lo spazio striato – sedentario per definizione – rappresenta il tentativo disperato di fissare ciò che scorre e sfugge, contenere i flussi, rallentare la trasformazione. Ma in quanto tecnologici gli spazi videoludici presentano caratteristiche matematiche, quantitative anziché qualitative. E questa caratteristica è tipica dello striato. Si noti che per Deleuze e Guattari “I due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato; lo spazio striato è costantemente trasferito restituito a uno spazio liscio” (p. 693). Lo spazio è dunque bucato ed è proprio questo buco, questo orifizio, questo interstizio a mettere in comunicazione liscio e striato. Quel buco è l’arte. Mendeni non realizza semplici opere. Crea interi mondi. Nel ruolo di demiurgo postmoderno, introduce nuove regole, fisiche e metafisiche, bucando gli schermi, rompendo gli schemi.
Opere citate Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino 2011. Bittanti M. e Lowood, H. (a cura di), Machinima! Teorie, pratiche, dialoghi, Milano, Edizioni Unicopli 2013. Deleuze, G. e F. Guattari, Mille piani , Castelvecchi, Roma 2010 (1980). Kelly, K., “Becoming Screen Literate ” , The New York Times , 21 novembre 2008, disponibile su h t t p : / / w w w . n y t i m e s . c o m / 2 0 0 8 / 1 1 / 2 3 / m a g a z i n e / 2 3 w w l n – fu t u r e – t . h t m l McLuhan, M. Gli strumenti del comunicare , Il Saggiatore, Milano 2001 (1964). Sharp, P. “Dal peep–show al pixel: una storia alternativa degli spazi videoludici”, in M. Bittanti e E. Gandolfi, Giochi video. Performance, spettacolo, streaming , Milano, Mimesis Edizioni 2018, pp. 41–61.
Sometimes I think the reality, sometimes I just dream on it Di Elena Giulia Abbiatici Sometimes I think the reality, sometimes I just dream on it. And what if there was no beginning?” –– Dr. Hyun J. Park “You’re always at the beginning and always at the end.” — Ray Brassier La verità è che abitiamo una grande confusione. Faccio sempre di più sogni alla Black Mirror. Se avessi affermato così prima del 2011 (quando sono state lanciate le puntante della prima serie), nessuno avrebbe compreso a cosa mi riferivo. Avrebbero forse pensato ad un espediente di magia nera, capace di infiltrarsi nelle mie notti oniriche. Ora, nel 2017, nei giorni in cui Netflix ha rilasciato la quarta serie per scuoterci un po’ la coscienza di intrigo e spavento, mi avete capito. Black Mirror è divenuto ormai uno stereotipo linguistico, funzionale a creare nella mente di chi ci ascolta un immaginario distopico ben percepibile nella sostanza e diverso nella forma a seconda dei dati tecnologici che più ci assillano o ossessionano. Dacché l’uomo esiste, porta con sé un carico di paure e di zone a sé misteriose, indecifrabili. Sono quelle zone che prima confluivano nel territorio naturale del mito, delle divinità, poi della religione e da qualche de- cennio si riversano nel delta della virtualità. Nata sulla fenice del mito, la realtà virtuale e/o aumentata ne ha preso il posto dotandosi di sistemi operativi che hanno superato il primo nell’onniscienza in cui rifugiarsi e trovare risposte. Onniscienza, onnipresenza, immortalità, reattività, infinitezza, onnibenevolenza, imparzialità di credo, abbondanza: esi- stono numerose prove che Google sia Dio. (http:// www.thechurchofgoogle.org/proof-google-is-god/) Sa tutto e si (mi) ricorda sempre tutto, mi notifica i promemoria e gli appuntamenti presi. Non devo aspettare la domenica per celebrarlo, ma l’ho sottomano ogni giorno. A volte è una segretaria super efficiente, a volte un maestro che risponde ad ogni mio quesito, a volte un amico tanto generoso che mi offre musica nuova ed edizioni rarissime, streaming che mi delocalizzano con scioltezza. Nel mentre la memoria del cervello umano si fa frammentata e si definisce una nuova specie: quella dell’Homo Deus, l’uo- mo del futuro fatto di carne metallo e codici, che abbraccia e introflette la divinità, superando l’homo Sapiens Sapiens e la sua eccessiva fiducia nelle proprie facoltà. Eppure fino a quando il ricorso alla tecnologia e alla robotica verrà temuto ci obbligheremo a considerare giusta l’alienazione del tempo della vita, ci costringeremo alla superstizione del lavoro come una unica forma di sopravvivenza condannandoci ad una schiavitù travestita da unica matrigna. L’errore del socialismo, su cui tuttora ci muoviamo, è stato quello di non considerare la tecnologia un proprio partner. Scrive Franco Berardi in ritorno a RITORNO A ZIMMERWALD, ovvero RIPENSARE L’INTERNAZIONALISMO1 : “Nella congiuntura che chiamiamo ’68 la coscienza sociale avrebbe potuto e dovuto prendere il controllo sul mutamento tecnico e dirigerlo verso il bene comune. Ma invece è accaduto il contrario: i partiti della sinistra e i sindacati hanno considerato la tecnologia come un pericolo piuttosto che come un’opportunità da governare e da sottomettere all’interesse sociale. La liberazione dal lavoro fu vista come disoccupazione e la sinistra si impegnò a contrastare l’inarrestabile trasformazione tecnica”. In altre parole è quello che sostiene il Manifesto dell’accelerazionismo di Alex Williams e Nick Srnicek, quando afferma che le “folk politics”- strategie come sciopero, manifestazioni, occupazione e i movimenti anti globalizzazione – non sono in errore, ma in un’epoca completamente guidata dal “realismo capitalista” (espressione di Mark Fischer) è necessario costruire una nuova egemonia, avere una profonda conoscenza dei meccanismi capitalisti e delle strategie di comunicazione internet. Anche perché: “faccio sogni sempre più alla Black Mirror” - scrivevo. Il nostro inconscio percepisce la virtualità degli schermi come entità reale, mentre razionalmente stiamo – ancora – qui a interrogare il fittizio che si sovrappone al reale. Quell’orlo su cui camminavamo è affondato e ci ha condotto ad uno scompaginamento dei piani, ad entrare nel tempio di Delfi con la possibilità di conoscere se stessi – in un moto orizzontale, non più verticale. Ciò significa che l’io cerca risposte non più nell’oracolo della Pizia, ma navigando costruisce il suo mondo insieme a paesaggi fantascientifici. Fino all’età sumera An (Cielo) e Ki (Terra) erano la stessa cosa. Posti uno accanto all’altro, compartecipavano ad una realtà caotica e non definita, quando Enlil (Dio) staccò il cielo dalla Terra, lo fece – scrisse Gilgamesh nella sua Cosmo-
logia – per il suo profitto. Ad Enlil viene fatta risalire la costruzione della città di Sumer con tutti i suoi impianti e strutture gerarchiche sociali. Potremmo dire che Enlil è il Dio padre del Capitalismo, di una mentalità in cui l’io si separa dalla comunità, come la terra si separa dal cielo. Ora, il cielo e la terra sono di nuovo insieme (l’io è parte di nuovo di una co- munità) e si parlano attraverso degli schermi: si guardano a vicenda, come degli eterni Palomar che guardano e vogliono essere guardati. Marco Mendeni li fa dialogare combinando la generazione di immagini video ludiche all’atto divino della creazione, inter- venendo sulle leggi fisiche di paesaggi digitali e immortalando alcuni frame nella pratica sacra della pittura. I paesaggi della serie video “r_lightTweakSunlight”, sembrano prodotti dal glitch dei file e ambientati fra grotte di mare o montagna,i cui piani spaziali fluttuano su un cielo che ha l’aspetto di mare e terra. In un’esplorazione radente tesa alla generazione dello spazio, l’artista crea spazi vettoriali nel vuoto, come nuove costellazioni e sceglie un sound scape sospeso e mistico, a partire da registrazioni online dello tsunami di Fukushima e droni in Afghanistan. La morte diviene meraviglia e ricombina i piani. I dipinti ad olio, infine, della stessa serie, finiscono per essere delle simulazioni di un paesaggio virtule creato con Cryen- gine3 engine, software per videogame. L’analogico è divenuto la lingua feriale, scelto da pochi e venerato come il mito: storia vera, più vera degli accadimenti del presente. Il velo di Maya è stato disvelato. Hyperstition. Entità fittizie che rendono se stesse reali. Il mondo è, in buona sostanza, tutta una proiezione. 1.Saggio scritto per la rivista inglese online “Crisis and Critique”.
OPERE
“Come un chirurgo, Mendeni interviene direttamente sul codice creando risultati inaspettati.”
R_LIGHTTWEAKSUNLIGHT_21_OLIO SU TELA_115CMX165CM_2017
“Mendeni (di)mostra che l’arte contemporanea ha un solo lato e un solo bordo: tra il digitale e l’analogico c’è una continuità. “
R_LIGHTTWEAKSUNLIGHT_15_OLIO SU TELA_200CMX140CM
“Per quanto elettronici, gli ambienti modellati da Mendeni si rifanno ad un immaginario innegabilmente naturale: sono cavernosi, cele- stiali,abissali,rocciose.”
R_LIGHTTWEAKSUNLIGHT_16_OLIO SU TELA_220CMX160CM_2017
“Mendeni non tratta il videogioco come un soggetto da riprodurre bensì come un oggetto di riflessione.”
GOLD XVI - 2017 - OIL ON CANVAS - CM 40 X 60
R_LIGHTTWEAKSUNLIGHT_01_OLIO SU TELA_220CMX160CM
“Mendeni mette a nudo i processi di creazione di mondi immaginari...”
GOLD XVIII - 2017 - OIL ON CANVAS - CM 35 X 45
“Alice came to a fork in the road. ‘Which road do I take?’ she asked. ‘Where do you want to go?’ respon- ded the Cheshire Cat. ‘I don’t know,’ Alice answered. ‘Then,’ said the Cat, ‘it doesn’t matter.”
MARCO MENDENI, DE ORACULIS NOVIS Di Pietro Gorgazzini Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, chi lavora nel digitale per un certo periodo di tempo (oltre 5 anni, nel mio caso) tende a non acquisire una prospettiva privilegiata su questo mondo, tutt’altro, ci si perde dentro! Da alcuni anni a questa parte, tuttavia, il fenomeno innescato dalla full-immersion digitale non si limita più a tecnici infor- matici, startupper e nerd: il boom degli smartphone e dei vari dispositivi mobili ha connesso a internet il mondo. Solo in Italia, ogni giorno, oltre 20 milioni di persone accedono alla rete secondo Audiweb e molte di queste, millennials in testa, si connettono anche per 4h+ sommando il tempo speso tra social network, contenuti digitali e gaming. Non credo, quindi, di risultare iperbolico se affermo che una significativa parte della nostra vita viene vissuta in un uni- verso virtuale, stringendo relazioni virtuali con persone che, forse, non incontreremo mai al di fuori di forum e social, alimentando la nostra curiosità attraverso contenuti virtuali la cui corrispondenza con la realtà, in fondo, non ci importa davvero, generando ricordi altrettanto virtuali, che svaniscono in poche ore insieme alla cronologia del browser. Marco ha raccolto la sfida di fissare attraverso le sue opere ricordi, visioni e vissuto virtuale sulla materia fisica, tangibile. Il cemento, ad esempio, come il più iconico simbolo di concretezza e “peso fisico”, l’esatto opposto di tutto quello che è etereo, volatile. Sembra quasi che, attraverso il suo progetto artistico, voglia restituirci quella prospettiva sepolta dalle tonnellate di gigabyte di selfie, post e note vocali. Marco non si limita a raccontare il digitale esistente, ma arriva a costruire interi ambienti virtuali ispirati e suggestioni naturali che poi riporta nel reale per fermare i frame salienti: fra tutti, quella manciata di pixel che hanno lasciato in lui qualcosa, un segno che altrimenti andrebbe perso come, del resto, l’intera creazione digitale.
“EXTRA|ORDINARY WORLD” Di Federica Patti Nel Ventunesimo secolo l’influenza ideologica del gaming non si attiene più esclusivamente al solo contesto videoludico o di entertainment . La Gamification è attualmente l’approccio politico e di marketing più diffuso e impattante a livello socio culturale, traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni ed ovviamente dai principi alla base del concetto stesso di divertimento. La quotidiana percezione spazio/temporale, i ritmi narrativi e di fruizione, finanche alla personale coscienza identitaria: il videogame ha talmente influenzato le abitudini da accelerare il processo di compene- trazione - e confusione - fra reale e virtuale, fra vero e falso. Marco Mendeni da anni usa il bacino stilistico e tecnico dell’ambiente gaming come strumento artistico e campo espres- sivo per avviare una riflessione critica ed estetica a cavallo tra concreto e digitale, simulazione ed astrazione. Ne trasmuta la funzionalità originaria attraverso il senso di détournement creato dai bug , trasportando lo spettatore da dimensioni ludiche verso isole di inquietante ipnoticità; virtualità e realtà, presenza e assenza, tradizione e innovazione sono alcune delle coppie antinomiche su cui si basa la sua pratica. Nei suoi lavori, il game si svela per quello che è: una realtà sospe- sa, “altra”, da esplorare, che assume molteplici - a volte inquietanti - significati, a diversi livelli, riferimenti alla dimensione spuria verso cui stiamo migrando. Sperimenta il crossover e la contaminazione tra materia, computer animation e produ- zione in 3D, con un focus particolare: quello sul processo che porta questo medium a diventare un strumento di azione sociale. “ Marco Mendeni gioca con gli errori di un mondo che sembra non averne. Gli ambienti di programmazione dei videogame sono alla continua ricerca della mimesi, ci stupiscono con somiglianza e fruizione sempre più dettagliate. Mendeni sovverte questa percezione, ci mostra un mondo, per assonanza il nostro, che aspetta conturbante .(1)” Per la mostra “DE ORACULIS NOVIS”, Mendeni presenta una nuova evoluzione del progetto r_lightTweakSunlight: un unicum artistico, un’operazione di rimediazione che incentra la propria identità intorno alle possibilità di ibridazione e im- plementazione fra i supporti pittorico e digitale, in un clash di diversi ritrovati stilistici, tecnici e tecnologici. La superficie dipinta ha sempre rappresentato per lo spettatore una sorta di “realtà virtuale”, ma cosa succede se, grazie ad uno smar- tphone e ad un visore, diventa possibile entrare in maniera immersiva e attiva dentro questa realtà virtuale? Mendeni ha scelto un visore quale risorsa fondamentale del processo artistico, decisione perfettamente in linea con il proprio tempo; un gesto centrato e audace, considerando invece la diffidenza e il consistente ritardo accusato dalla produzione artistica contemporanea (New Media Art compresa) rispetto alla creazione e all’utilizzo di contenuti in realtà aumentata e virtuale, invece protagonisti ormai da anni in settori creativi narrativi come cinema, social media, entertainment . Non a caso in- fatti il settore storicamente più fertile per la realtà virtuale è stato quello del gaming , e negli ultimi anni anche quello dello storytelling: il cinema soprattutto ha trovato in questa dimensione nuovi sviluppi narrativi - e commerciali. Dalla sperimentazione cinematografica derivano le prime macchine per la visione stereoscopica.(2) L’evoluzione dei visori per la fruizione di realtà virtuale ha subíto un’importante accelerazione a partire dagli anni Sessanta; è nel 1963 che lo scienziato informatico Ivan Sutherland, uno dei padri della computer graphic , sviluppa Sketchpad , il software precur- sore dei moderni programmi CAD; nel 1968, insieme a Bob Sproull, crea il primo sistema di realtà virtuale con visore, il famoso prototipo denominato “ Sword of Damocle ”. Il trisavolo degli HMD usava già trasmettitori ultrasonici per tracciare il movimento, due tubi a raggio catodico ed elementi ottici per proiettare le immagini generate dal computer negli occhi dell’operatore. Un sistema meccanico e ad ultrasuoni consentiva di rilevare il movimento della testa e di inviare i dati relativi alla direzione dello sguardo al computer, che ridisegnava in tempo reale la scena dall’esatto punto di vista.(3) La maggior parte dei visori e dei sistemi di proiezione virtuale sono stati introdotti sul mercato di massa a partire dagli anni Novanta. Uno dei primi head-mounted display HMD disponibili in commercio è stato il Forte VFX-1, rilasciato 1 Michela Malisardi, testo critico dal catalogo di ROBOT 05, 2012 2 Dall’idea di cinema come esperienza sinestetica nacque il “Sensorama” di Morton Heilig nel 1957, una macchi- na da intrattenimento pioneristica composta da: immagini stereo 3D, vibrazioni, vento, manubrio direzionale, sensazione tattile di movimento, audio stereofonico, sistema per riprodurre i profumi. 3 The Rise and Fall and Rise of Virtual Reality https://www.theverge.com/a/virtual-reality/oral_history
nel 1995; era composto da un casco con doppio display LCD a colori, un controller palmare e una scheda di interfaccia ISA ed era dotato di speaker audio e eye-tracking. Attualmente i dispositivi più diffusi sono appunto HMD come il Sam- sung Gear, gli Oculus Rift e i Google glass. Il classico HMD è costituito da uno o due piccoli display con lenti e specchi semitrasparenti incorporati in un casco, occhiali o visiera. Se ne distinguono due macro tipologie: una visualizza un’im- magine generata da computer o cellulare, generalmente indicata come immagine virtuale; l’altra combina quest’ultima con dati provenienti dal mondo reale, creando una realtà aumentata. Il vero boom si avverte con la nascita di Google Glass e Google X e con l’acquisizione della Oculus da parte di Facebo- ok nel 2014; l’ormai epica conferenza stampa in realtà aumentata tenuta da Zuckerberg per la presentazione di Oculus Connect risale a esattamente un anno fa - ottobre 2016. Il processo di progressiva normalizzazione dello strumento è cominciato, accompagnato da una sempre maggiore attenzione circa la qualità dei contenuti.(4) “Carne y Arena” di Alejandro Iñárritu, attualmente esposto a Fondazione Prada, Milano, si sta rivelando un caso eclatan- te, sia in termini di entusiasmo generale sia per la natura stessa del progetto: una narrazione in realtà virtuale immersiva, realizzata da uno dei registi più famosi e premiati al mondo, presentata all’interno di uno degli spazi espositivi più presti- giosi a livello internazionale. Fondazione Prada non è l’unico spazio espositivo ad aver acceso i riflettori sull’esperienza in realtà virtuale come stru- mento artistico per il Ventunesimo secolo. In prima fila nella diffusione di questo linguaggio troviamo, fra gli altri, MOMA di New York, ZKM di Karlsruhe e soprattutto Hek di Basilea, che nel gennaio di quest’anno ha presentato “The Unframed World”, una panoramica di progetti artistici internazionali basati sul medium VR. Il più recente endorcement verso l’unicità dell’esperienza virtuale arriva da Laurie Anderson, che dichiara: “ this techno- logy enables you to fly, like in your dreams. I feel now that everything that I have ever done is about one thing: disembo- diment. In virtual reality, this is even more evident, as you become the ultimate viewer, who has amazing abilities such as flying. My goal is to make an experience that frees you .” (5) I molteplici linguaggi delle arti elettroniche hanno assorbito tutte le soluzioni formali novecentesche per riproporle nella videoinstallazione, nell’animazione e nel live media , combinandole al suono e dotandole di movimento. Composta tra- mite software di simulazione grafica che consentono di alterare e sovvertire le leggi fisiche che comunemente agiscono sulle nostre azioni quotidiane(6), e più in generale di rimescolare secoli di logica e cultura visiva antropocentrica per otte- nere elaborati fantasiosi, alieni, ma pur sempre verosimili,(7) anche la realtà virtuale sembra così essere potenzialmente quel territorio in cui il linguaggio visionario e precursore delle Avanguardie trova finalmente realizzazione e compimento. La fruizione in isolamento visivo e acustico amplifica il senso di disorientamento e sorpresa: l’opera virtuale si dispiega allora secondo infinite combinazioni imprevedibili, attraverso la fruizione personale attiva svolta dallo spettatore, libero di muoversi spostando continuamente il proprio punto di vista a 360°. L’arte diviene pura esperienza emozionale e plurisen- soriale: una creazione che porta lo spettatore sempre più al di là del supporto oggettivo e della propria consapevolezza razionale.(8) Sia sulla tela che nel visore, anche “r_lightTweakSunlight” propone il collasso delle coordinate cartesiane: una vertigo spaziale, corporea, multimediale, la vanificazione dei confini dimensionali reali e virtuali. Una soluzione artistica coraggio- sa e felice che riconosce alla tecnologia VR l’unicità di permettere una composizione polidimensionale fatta di assurde aberrazioni prospettiche geometricamente sensate, sospensioni logiche e temporali a completamento della metafora bidimensionale. 4 Riva, Giuseppe; Mantovani, Fabrizia; Capideville, Claret Samantha; Preziosa, Alessandra; Morganti, Francesca; Villani, Daniela; Gaggioli, Andrea; Botella, Cristina; Alcañiz, Mariano (February 2007). “Affective interactions using virtual reality: the link between presence and emotions”. Cyberpsychology & Behavior: the Impact of the Internet, Multimedia and Virtual Reality on Behavior and Society. 5 https://issuu.com/massmoca/docs/laurie-anderson-gallery-guide-print/2 6 Interessante articolo di V. Heffernan sulla vertigine - e sulla nausea - che si prova durante la fruizione di realtà virtuale tramite visori VR: https://nyti.ms/2kpc7oT ; e The Impact of Virtual Reality on Chronic Pain http://jour- nals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0167523
“Alice came to a fork in the road. ‘Which road do I take?’ she asked. ‘Where do you want to go?’ responded the Cheshire Cat. ‘I don’t know,’ Alice answered. ‘Then,’ said the Cat, ‘it doesn’t matter.”(9) 7 http://dragons.org/what-is-vr/ 8 Cline, Mychilo Stephenson (2005). Power, Madness, & Immortality: the Future of Virtual Reality. 9 Lewis Carroll, Alice in Wonderland, 1865
Passaggi /Paesaggi. L’esperienza contemplativa nell’opera di Marco Mendeni Di Valentino Catricalà Il febbrile movimento di un’immagine. È questo ciò che appare in prima battuta nel video “r_lightTweakSunlight”. Un’immagine prodot- ta al computer, un videogame, un paesaggio: un’immagine che rimanda alla mente tante immagini che abbiamo visto, usato, interagito. Ma è un rimando circondato da una strana sensazione. Sembra proprio che le immagini in apparenza familiari appaiano in una nuova forma, una forma nella quale l’atteggiamento attivo e deterministico del videogame – l’arrivare a un punto attraverso una serie di azioni – è qui ribaltato in un atto passivo, contemplativo. Dal “passaggio” al “paesaggio”, verrebbe da dire. Dal passaggio di un personaggio determinato da azioni, a un paesaggio da guardare nella sua efficacia contemplativa: la nascita di un Oraculum Novus. Ed è proprio l’atteggiamento contemplativo che caratterizza il percorso espositivo della mostra De Oraculis Novis, a cura di Arianna Grava. Una contemplazione che si struttura su diversi piani e diverse piattaforme esperienziali. Perché, se il video “r_lightTweakSunli- ght” è la matrice primaria dalla quale le altre opere sono scaturite, è anche vero che tale matrice acquisisce di volta in volta differenti forme e modalità di presentazione: il video, l’immersività, lo still frame, la pittura ad olio. Forme che si sovrappongono e si dividono, che dialogano e che si separano. È qui che l’azione di Mendeni si carica di una forza quasi religiosa. Mendeni ci apre a una mistica della contemplazione che in appa- renza sembra molto lontana dall’ambiente tecnologico che stiamo vivendo ma che si presenta assolutamente necessaria oggi. Non è un caso che l’unico atteggiamento che possiamo avere di fronte a “r_lightTweakSunlight” è quello di perdersi in un paesaggio/passaggio, in un movimento senza meta. Paesaggio creato da bug all’interno del software. Così come l’atteggiamento che assumiamo nella realtà immersiva dell’Oculus Rift. Ed è ancora questo l’atteggiamento che assumiamo di fronte ai quadri, pitture che riprendono immagini del video sopramenzionato, alle quali viene aggiunta la mano: la pittura ad olio che l’artista ha meticolosamente dispiegato sulla tela. Video, Oculus, pittura, sono tutti processi di creazione immaginifica. Immagini che simulano, ricreano, inventano mondi. È questa una cifra caratteristica della nostra epoca e su questo si basa l’operazione dell’artista. Nel ritrovare un atteggiamento contemplativo, quasi mistico, del nostro rapporto con la tecnologia, Mendeni mette a nudo i processi di creazione di mondi immaginari, i processi che sottendono le logiche produttive, concettuali e filosofiche dell’attuale nostro universo tecnologico. Ci rende spettatori, contemplatori di queste. Ne riconosciamo le logiche, ne captiamo i linguaggi, le sensazioni. Il tutto attraverso un atto contemplativo, fascinatorio. Il suo mettere a nudo non si basa, tuttavia, sulla semplice dimostrazione del linguaggio macchina, o sulla semplice critica documentaria alla tecnologia. Il suo è un atteggiamento che pone lo spettatore di fronte a una sensazione di piacevolezza fascinatoria nei confronti di tali processi. Lo spettatore non perde il piacere di guardare. Egli è attratto dalle immagini esattamente come è attratto dalle immagini e dai processi tecnologici attivati dal mercato, ribaltandone però i presupposti, rendendole degli oracoli: qualcosa da guardare e da contemplare. Solo così la nostra consapevolezza può emergere.
COMPUTER VISION Accade ora che il controllo dell’artista sulla propria opera venga delegato al controllo di un braccio meccanico. Viviamo forse in una società in cui il nostro immaginare, quindi rappresentare, non è filtrato da algoritmi a noi oscuri ma decisivi? Sono tali le questioni indagate e poste dai lavori pittorici e scultorei di Marco Mendeni, il quale si avvale di macchine a controllo numerico, di software come Google Deep Dream e delle avventu- re virtuali di DayZ per rielaborare immagini che possano dare la misura dei mash-up mentali che traghettano la rappresentazione artistica. Ne risultano tavole ad olio che chiudono a cerchio lo spazio del tempo, in una matrice stilistica fra l’essenzialità primitiva del tratto e la trascendenza onirica e arabeggiante delle forme di Google Deep Dream. Il segno incisivo e incandescente della macchina ha fatto il resto. Se da un lato gioiamo per –finalmente – la relativizzazione dell’uomo come centro e metro di misu- ra e azione sul mondo, quanto ci rende perplessi il perfezionamento dell’uomo per la macchina e non viceversa? Elena Giulia Abbiatici
INTERVISTA Di Arianna Grava Marco, ci puoi raccontare come è iniziata la tua esperienza artistica? Mi sono laureato all’Accademia di Belle Arti di Brera in pittura, con una tesi sull’influenza degli universi videoludici nell’ar- te, successivamente il mio interesse per i nuovi media è cresciuto e ho deciso di frequentare il biennio specialistico al dipartimento di nuove tecnologie per l’arte. Quegli anni mi hanno permesso di affinare di molto la mie conoscenze teoriche e pratiche sperimentando l’utilizzo delle nuove tecnologie comunicative e mediali in termini di nuove possibi- lità espressive. Ho concluso il biennio con una tesi che affrontava il dibattito sui confini e le interferenze videoludiche nell’era mediale. La mia duplice formazione, tradizionale da una parte e dall’altra legata alla scoperta di nuove forme di espressione mi ha spinto a ricercare un equilibrio possibile nella fusione di tutti quegli elementi che caratterizzano l’uno e l’altro aspetto della realtà. Questa ricerca è diventata con il tempo la sintesi del mio lavoro. Alcuni lavori della serie “Concrete Works” ad esempio sono realizzati con una tecnica antica per poter spostare il dipinto realizzato su muro da una città all’altra . Io ho solo cambiato i soggetti sostituendo la maternità con screenshot di Half-Life o DOOM . Nel mio lavoro cerco di sfruttare diverse tecniche espressive per poter raccontare la trasformazione del reale messa in atto dalle nuove tecnologie e constatare come il videogioco sia uno strumento molto efficace e uno dei sintomi più significativi per la rappresentazione dell’uomo nell’era digitale. Hai vissuto per diversi anni a Berlino, pensi che questa città abbia influenzato in maniera incisiva la tua arte di oggi? Se sì, come? Non so se abbia influenzato la mia ricerca in modo incisivo ma sicuramente Berlino ha il potere di donarti un’energia rara, non so da cosa dipenda. Per quanto mi riguarda mi ha permesso di sperimentare molto senza preoccuparmi troppo del risultato. Ci sono generi e modi di espressione diversi nelle tue opere, si passa dal digitale alle opere in cemento, a quali ti senti più vicino? Ad entrambi in modo diverso, ho una tendenza innata a voler sperimentare strade ed esperienze diverse, lo faccio nella vita e naturalmente anche nel mio lavoro. Avere una visione il più multidisciplinare possibile mi permette di sperimentare aspetti molto diversi tra loro. Quali sono le modalità produttive delle tue opere? Le modalità sono stratificate, quasi ogni progetto prende forma all’interno di un computer, passo molto del mio tempo sul software, ho bisogno di un’immersione personale e totale con la macchina, solo successivamente mi dedico al “corpo” del lavoro, alla sua fisicità, che può essere un’ installazione, una lastra in cemento, in marmo o un dipinto. Un’altro aspet- to importante del mio processo produttivo è l’utilizzo a volte inappropriato di macchine specifiche come laser o frese a controllo numerico che ho imparato ad utilizzare per incidere le lastre di cemento o marmo. Non so il mio è un processo che passa veramente da molte dinamiche di produzione.
Nella mostra personale “In De Oraculus Novis” lo spettatore si ritrova a vivere due esperienze, quella virtuale del video e quella reale della tela dipinta ad olio, ce le descrivi? Si, la volontà del progetto è proprio di far convivere nello stesso luogo il medesimo soggetto su media differenti in modo da dare allo spettatore una scossa percettiva, nello specifico in “De Oraculus Novis” video installazione, dipinti ad olio e realtà virtuale. L’incipit è un lavoro video che ho iniziato nel 2014 “r_lightTweakSunlight” nato da un software per creare videogame e scaturito da un bug che ha dato vita a luoghi suggestivi, una sorta di documentazione esplorativa all’interno della mac- china. Quando è nato il progetto “r_lightTweakSunlight” il mio intento era quello di indurre la macchina a generare un mondo senza il mio intervento, agire sul software col fine di farlo funzionare in autonomia, solo questo, volevo che la mia influenza non modificasse in alcun modo il risultato finale. E’ stato sorprendente. La scelta di realizzare dei dipinti ad olio ispirati da quei mondi di linee e colori non è stata casuale, ma l’effettiva volontà di sottolineare l’importanza che tali mondi rivestono oggi per noi, sono i nostri nuovi paesaggi, il luogo che abitiamo nel tentativo di scappare dal nostro, sono ciò che oggi suggestiona il nostro immaginario profondo. La tela dipinta mi per- mette di rendere tutto questo più reale e tangibile. Il titolo scelto per la mostra invita ad un riflessione, nuovi oracoli, le nostre meravigliose illusioni composte da BIT dove ogni giorno ci rifugiamo e che appaiono ai nostri occhi più vere della realtà stessa, che danno sicurezza e conforto, che ci illudono di contenere innumerevoli sfuggenti significati. Milano, Ottobre 2017
Artista il cui linguaggio multidisciplinare, esito di un approccio ibrido, libero ed estremamente personale, genera una visione in continua evoluzione. Attingendo da ambiti differenti – dalla scienza alla musica, dall’ar- cheologia ai new media –Mendeni infatti, nelle sue opere predispone sempre lo spettatore a riformulare i co- dici narrativi e conoscitivi abituali che, tra finzione e ricordo, fantasia e memoria, evocano quelle suggestioni che, tramite i suoi vari interventi, dalle video- installazioni alle performance, dalla fotografia al disegno, alla pittura , riportano l’uomo ad interessarsi di un mondo invisibile. Mendeni vive tra Milano e Berlino collabora con alcune gallerie tra cui; Team Titanic Gallery, Berlino; Spaghetty Party, Udine; Area 35 Gallery, Milano; Theca Gallery, Svizzera. AmyD, Milano Il lavoro di Mendeni è stato esposto a livello internazionale fra cui; Off Biennale Cairo, Cairo, Egypt, GAME VIDEO/ART. A SURVEY, XX1T Triennale, Milano; Ende Tymes IV, New York U.S.A; Museo Pecci, Milano; Team Titanic, Berlin; MIA The Armory Center for the Arts, California U.S.A ; FILE ,San Paolo Brasile; Cultural Center of Novi Sad, Serbia; ATHENS SLINGSHOT, Georgia,U.S.A; DIGITALGRAFFITI ArtTechnology, Florida U.S.A; Museo Civico, Campione d’Italia, Switzerland; MART, Trento Italy
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