Maniera di pensare e girare il cinema di genere italiano
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Il talento del Calabrone: il thriller che ci racconta, prima di tutto, una nuova maniera di pensare e girare il cinema di genere italiano Conoscete la storia del paradosso del Calabrone? Beh, penso proprio di sì, perché non solo è attribuita ad Albert Einstein, ma anche perché molto diffusa in rete ed infine perché molto abusata da vari coach e formatori in vari corsi di self help e miglioramento personale, comunque per chi non la conoscesse ve la riassumo brevemente: Secondo le leggi dell’aerodinamica, visto il rapporto superficie alare – massa corporea, il calabrone non potrebbe volare, eppure lo fa. Come è possibile che questo insetto violi le leggi della fisica? Allora, fatemi fare brevemente il debunker di questa “ennesima bufala” (collaborando con Armando De Vincentiis alla rubrica “Il sonno della Ragione” ci ho preso gusto). Tre, fra le altre, sono le inesattezze di questa vera e propria leggenda metropolitana: 1. la definizione non è di Albert Einstein, ma sembra contenuta negli studi di un entomologo francese, tale Antoine Magnan, che la enunciò negli anni ‘30 del secolo scorso, per poi rifare i calcoli e scoprire che erano sbagliati. 2. la traduzione di calabrone è sbagliata, l’insetto protagonista di questa leggenda è il Bombo (Bombus terrestris), che è un imenottero della famiglia degli Apidi che in inglese si chiama/scrive “bumblebee”; la parola calabrone (Vespa crabro) in italiano invece designa un insetto della famiglia dei Vespidi sul quale non c’è mai stato alcun dubbio sul fatto che potesse volare. 3. un recente studio ha dimostrato, attraverso una serie di riprese ad alta velocità sulla meccanica alare, che il Bombo vola ad una velocità pari a 230 battiti d’ali al secondo, molto più veloce, per capirci, sia di quello di altri insetti, sia di quello di un colibrì, ed è questa caratteristica che gli permette appunto di volare. Ma perché vi sto parlando di questo paradosso, anzi pseudo-paradosso? Perché questo stesso paradosso è alla base della trama del film “Il talento del Calabrone” un’Amazon Exclusive che, dallo scorso 18 novembre 2020, è disponibile sulla piattaforma Amazon Prime Video. Cominciamo subito con il dire che, nonostante qualche problema nella sceneggiatura, il film ci è piaciuto. Primo lungometraggio del 43enne Giacomo Cimini, talentuoso regista romano con molti anni di esperienza all’estero che, dopo aver studiato filmmaking alla New York Film Academy (e dopo essere rientrato in Italia, ed aver lavorato per la televisione e diretto qualche spot e videoclip), a trent’anni si trasferisce a Londra per frequentare la London Film School, dove si diploma nel 2009.
Ed il “Talento del Calabrone” risente di questa esperienza internazionale per diversi motivi: innanzitutto per il genere, il film infatti è un thriller poliziesco, come se ne vedono pochissimi in Italia, che da sempre vede una tradizione cinematografica più incentrata sulla commedia o il genere drammatico. Poi, ed è questo che rende il film ancora più interessante, “Il talento del Calabrone” è girato utilizzando tecniche ed effetti speciali che sono una vera rarità per il nostro cinema, da sempre innamorato del “vero” sia per le scenografie, comprese le ambientazioni, che per la messa in scena in generale, che fa scarso uso di “effetti speciali”. Prendiamo ad esempio l’ambientazione: il film si svolge in una splendida e notturna Milano, ma in realtà è stato girato interamente a Roma negli studios sulla Tiburtina (e sul terrazzo del Palazzo della BNL, sempre a Roma, per le pochissime scene all’aria aperta), dove è stata realizzata una gigantesca piattaforma rialzata che sorreggeva il finto studio radiofonico di “Radio 105”, nel quale si svolge gran parte del film e dove opera il giovane Dj Steph (un Lorenzo Richelmy perfettamente a fuoco in questo ruolo), che conduce un programma notturno molto seguito. L’altra principale location, l’interno della macchina del potenziale suicida dinamitardo, il Calabrone/Carlo De Mattei (uno straordinario ed intensissimo Sergio Castellitto, che rappresenta il vero motore di questo film) in realtà non esiste, o meglio ne esistono solo i pochi pezzi inquadrati, ed anche questa è pressoché una novità per il nostro cinema. Quindi sono già due le anomalie rispetto al cinema italiano: innanzitutto le location sono state “ricreate” e non “cercate”; secondo, invece di usare il chroma key, Cimini ha preferito utilizzare una tecnica molto più “classica” (risale agli anni ’70) e spettacolare, infatti la pedana rialzata del set serviva a nascondere dei potenti videoproiettori, più potenti di quelli utilizzati nelle sale IMAX, che su degli schermi tutto intorno proiettavano i fondali e le scenografie del film. Quindi gli attori recitavano vedendo già i fondali e non dei semplici panni verdi o blu come quelli utilizzati nel chroma key, dove solo in fase di post produzione si inseriscono i fondali. Ma, senza volervi svelare troppo di quest’opera togliendovi il gusto di vederla, vogliamo dirvi ancora due cose, una negativa e l’altra positiva. Cominciamo da quella negativa: come abbiamo detto il film risente di una sceneggiatura davvero debole, con diversi buchi e con molti nonsense ai quali non sempre la bravura del cast riesce a
sopperire, un cast che vede, oltre a Lorenzo Richelmy e Sergio Castellitto, anche la splendida Anna Foglietta nel ruolo del tenente colonnello dei Carabinieri Rosa Amedei, tostissima e determinata, fino a rasentare il cinismo, incaricata delle indagini su questo caso. Il personaggio della Foglietta, ci dispiace dirlo, è quello che funziona meno ed appare il più stereotipato del film. Tutta colpa di una sceneggiatura debole, come detto, che tratteggia più degli stereotipi che dei veri personaggi e che mette in secondo piano pure il soggetto del film stesso che, si capirà solo alla fine, è non solo molto attuale, ma anche socialmente rilevante. La cosa forse più positiva, almeno a nostro parere, è che questo film fa un interessante lavoro di meta-cinema, mostrandoci attraverso tutto il suo svolgimento una serie di trucchi della messa in scena, Un viaggio dietro lo schermo, potremmo dire, che ci s-vela, è proprio il caso di dirlo, il funzionamento di quella machina meravigliosa che è il cinema, che rende vere ed autentiche visioni che possono essere false e artificiali, ma non per questo meno emozionanti ed immersive per lo spettatore. Un discorso, quello sulla realtà delle nostre esperienze non solo visive, quanto mai attuale in un mondo in cui il progresso tecnologico, ma questa volta principalmente informatico, crea una “post- verità” troppe volte non solo più vera, ma anche più attraente – e quindi più pericolosa – della realtà. I p r o t a g o n i s t i d e l f i lm: Lorenzo Richelmy, Sergio Castellitto e Anna Foglietta. Quindi, concludendo, noi vi invitiamo a guardare “Il talento del Calabrone” e successivamente ad approfondire le informazioni disponibili su questo film, che alla fine rappresenta una ventata di freschezza nel nostro panorama cinematografico e dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che il nostro cinema, nonostante quest’anno disastroso all’insegna del Covid-19, è vivo più che mai e lotta insieme a noi.
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atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale “cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi. Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’ più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo, ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta, di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre. Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri “alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo
la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario, dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra. Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce, Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962), ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco – come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori, lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick per il suo Dottor Stranamore.
Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman. Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del 2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro (un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla trama alla recitazione. Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione. In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute, extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe
migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999). Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso “ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini (Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006), dove viene comunque “ricostruita”. Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato. Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando l’interesse del pubblico di tutte le generazioni. The Matrix – Il Film È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli
argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate. Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo
conosciamo oggi. In esso vi erano poco più di 200 milioni di utenti collegati ad internet e non esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati di tutto il mondo. Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico. L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli esseri umani. Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale. Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire, cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus.
Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14 bozze e che gli storyboard furono più di 600. Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche del film. A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale, l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep, Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e Darth Vader. Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi. Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel 1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale
per rappresentare tutte quelle simulazioni non ordite dalle macchine ma create dagli uomini per sconfiggerle. Il film immaginò anche un abbigliamento ed uno stile molto dark: tutti i protagonisti del film, maschili e femminili, sono fasciati in lunghi capotti neri ed attillate tutine di PVC. Per i costumi Kym Barrett, per via del budget limitato, fece di necessità virtù, realizzando il costume di Trinity con PVC a basso costo e il cappotto di Neo con una stoffa che costava 3 dollari al metro. Altro trattamento fu riservato per gli splendidi occhiali da sole dei protagonisti, che sarebbero diventati un must della moda di quegli anni. Fu una piccola azienda artigianale, la Blinde, che vinse la gara contro colossi come Ray-ban e Arnette, che decise di realizzare gli occhiali basandosi sull’inusuale nome dei personaggi. Richard Walker, fondatore dell’azienda, disegnò e realizzò degli occhiali molto avveniristici soprattutto per il modello di Morpheus, che era privo di stanghette e che si
reggeva sul naso con una speciale clip brevettata. Ma Matrix è passato alla storia soprattutto perché ha aperto nuove frontiere nella tecnica cinematografica, a partire dal “bullet time”. Un effetto speciale che, sfruttando simultaneamente un gran numero di fotocamere, disposte intorno ad un oggetto o una persona, permette di ricostruire, frame dopo frame, la medesima scena e riprodurla al rallentatore. Questa tecnica, insieme alla computer grafica 3D e al chroma key, ha reso leggendaria e citatissima la scena di Neo intento a schivare i proiettili. Insomma un film epico, anzi un franchise multimediale, composto da altri due film, un videogioco, un fumetto ed una serie di cortometraggi di animazione “Animatrix”, media diversi che a detta degli autori e dei registi dovevano essere fruiti e visti tutti per ampliare e comprendere meglio l’universo narrativo del film. E, a proposito di fumetti e spunti narrativi, Matrix ha rischiato anche una denuncia di plagio.
I l s e t p e r l a r e a l i z z a z ione dell’effetto “bullet time”. Nel 1992 Stefano Disegni e Massimo Caviglia avevano creato “Razzi Amari”. Si trattava di un fumetto multimediale da leggere insieme a una musicassetta realizzata dalla band Gruppo Volante dello stesso Disegni. La storia era incentrata su un futuro allucinato, in cui la popolazione era sotto il giogo di una dittatura dispotica creata dalle macchine. Le macchine controllavano le persone tramite un chip, installato nella loro mente appena nati, che proiettava l’illusione di vivere in un mondo perfetto. Anche nel fumetto di Stefano Disegni c’era una resistenza che si era organizzata e combatteva le macchine. Insomma una storia molto simile a quella del film, che spinse i creatori del fumetto a contattare un avvocato che ravvisò gli estremi per una causa di plagio, ma alla fine i fumettisti desistettero perché la causa contro la Warner Bros sarebbe stata proibitiva. Per concludere, The Matrix (o Matrix nella traduzione italiana), è un film assolutamente da vedere perché come tutta la miglior fantascienza ci racconta chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando e, siccome il film ha già 20 anni, il futuro immaginato da Matrix è il nostro presente e, per dirla con Morpheus: “Benvenuti nel deserto del reale!”
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