Maniera di pensare e girare il cinema di genere italiano

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Maniera di pensare e girare il cinema di genere italiano
Il talento del Calabrone: il thriller che ci
racconta, prima di tutto, una nuova
maniera di pensare e girare il cinema di
genere italiano

  Conoscete la storia del paradosso del Calabrone?

  Beh, penso proprio di sì, perché non solo è attribuita ad Albert Einstein, ma anche
  perché molto diffusa in rete ed infine perché molto abusata da vari coach e formatori in
  vari corsi di self help e miglioramento personale, comunque per chi non la conoscesse ve
  la riassumo brevemente:

  Secondo le leggi dell’aerodinamica, visto il rapporto superficie alare – massa corporea, il
  calabrone non potrebbe volare, eppure lo fa. Come è possibile che questo insetto violi le
  leggi della fisica?

  Allora, fatemi fare brevemente il debunker di questa “ennesima bufala” (collaborando
  con Armando De Vincentiis alla rubrica “Il sonno della Ragione” ci ho preso gusto). Tre,
  fra le altre, sono le inesattezze di questa vera e propria leggenda metropolitana:
  1. la definizione non è di Albert Einstein, ma sembra contenuta negli studi di un entomologo
     francese, tale Antoine Magnan, che la enunciò negli anni ‘30 del secolo scorso, per poi rifare i
     calcoli e scoprire che erano sbagliati.
  2. la traduzione di calabrone è sbagliata, l’insetto protagonista di questa leggenda è il Bombo
     (Bombus terrestris), che è un imenottero della famiglia degli Apidi che in inglese si
     chiama/scrive “bumblebee”; la parola calabrone (Vespa crabro) in italiano invece designa un
     insetto della famiglia dei Vespidi sul quale non c’è mai stato alcun dubbio sul fatto che potesse
     volare.
  3. un recente studio ha dimostrato, attraverso una serie di riprese ad alta velocità sulla
     meccanica alare, che il Bombo vola ad una velocità pari a 230 battiti d’ali al secondo, molto più
     veloce, per capirci, sia di quello di altri insetti, sia di quello di un colibrì, ed è questa
     caratteristica che gli permette appunto di volare.

Ma perché vi sto parlando di questo paradosso, anzi pseudo-paradosso?

Perché questo stesso paradosso è alla base della trama del film “Il talento del Calabrone”
un’Amazon Exclusive che, dallo scorso 18 novembre 2020, è disponibile sulla piattaforma Amazon
Prime Video.

Cominciamo subito con il dire che, nonostante qualche problema nella sceneggiatura, il film ci è
piaciuto.

Primo lungometraggio del 43enne Giacomo Cimini, talentuoso regista romano con molti anni di
esperienza all’estero che, dopo aver studiato filmmaking alla New York Film Academy (e dopo
essere rientrato in Italia, ed aver lavorato per la televisione e diretto qualche spot e videoclip), a
trent’anni si trasferisce a Londra per frequentare la London Film School, dove si diploma nel 2009.
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Ed il “Talento del Calabrone” risente di questa esperienza internazionale per diversi motivi:
innanzitutto per il genere, il film infatti è un thriller poliziesco, come se ne vedono pochissimi in
Italia, che da sempre vede una tradizione cinematografica più incentrata sulla commedia o il genere
drammatico. Poi, ed è questo che rende il film ancora più interessante, “Il talento del Calabrone” è
girato utilizzando tecniche ed effetti speciali che sono una vera rarità per il nostro cinema, da
sempre innamorato del “vero” sia per le scenografie, comprese le ambientazioni, che per la messa in
scena in generale, che fa scarso uso di “effetti speciali”.

Prendiamo ad esempio l’ambientazione: il film si svolge in una splendida e notturna Milano, ma in
realtà è stato girato interamente a Roma negli studios sulla Tiburtina (e sul terrazzo del Palazzo
della BNL, sempre a Roma, per le pochissime scene all’aria aperta), dove è stata realizzata una
gigantesca piattaforma rialzata che sorreggeva il finto studio radiofonico di “Radio 105”, nel quale
si svolge gran parte del film e dove opera il giovane Dj Steph (un Lorenzo Richelmy perfettamente
a fuoco in questo ruolo), che conduce un programma notturno molto seguito.

L’altra principale location, l’interno della macchina del potenziale suicida dinamitardo, il
Calabrone/Carlo De Mattei (uno straordinario ed intensissimo Sergio Castellitto, che
rappresenta il vero motore di questo film) in realtà non esiste, o meglio ne esistono solo i pochi pezzi
inquadrati, ed anche questa è pressoché una novità per il nostro cinema.

Quindi sono già due le anomalie rispetto al cinema italiano: innanzitutto le location sono state
“ricreate” e non “cercate”; secondo, invece di usare il chroma key, Cimini ha preferito utilizzare
una tecnica molto più “classica” (risale agli anni ’70) e spettacolare, infatti la pedana rialzata del set
serviva a nascondere dei potenti videoproiettori, più potenti di quelli utilizzati nelle sale IMAX, che
su degli schermi tutto intorno proiettavano i fondali e le scenografie del film. Quindi gli attori
recitavano vedendo già i fondali e non dei semplici panni verdi o blu come quelli utilizzati nel
chroma key, dove solo in fase di post produzione si inseriscono i fondali.

Ma, senza volervi svelare troppo di quest’opera togliendovi il gusto di vederla, vogliamo dirvi ancora
due cose, una negativa e l’altra positiva.

Cominciamo da quella negativa: come abbiamo detto il film risente di una sceneggiatura davvero
debole, con diversi buchi e con molti nonsense ai quali non sempre la bravura del cast riesce a
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sopperire, un cast che vede, oltre a Lorenzo Richelmy e Sergio Castellitto, anche la splendida
Anna Foglietta nel ruolo del tenente colonnello dei Carabinieri Rosa Amedei, tostissima e
determinata, fino a rasentare il cinismo, incaricata delle indagini su questo caso. Il personaggio della
Foglietta, ci dispiace dirlo, è quello che funziona meno ed appare il più stereotipato del film. Tutta
colpa di una sceneggiatura debole, come detto, che tratteggia più degli stereotipi che dei veri
personaggi e che mette in secondo piano pure il soggetto del film stesso che, si capirà solo alla fine,
è non solo molto attuale, ma anche socialmente rilevante.

La cosa forse più positiva, almeno a nostro parere, è che questo film fa un interessante lavoro di
meta-cinema, mostrandoci attraverso tutto il suo svolgimento una serie di trucchi della messa in
scena, Un viaggio dietro lo schermo, potremmo dire, che ci s-vela, è proprio il caso di dirlo, il
funzionamento di quella machina meravigliosa che è il cinema, che rende vere ed autentiche visioni
che possono essere false e artificiali, ma non per questo meno emozionanti ed immersive per lo
spettatore.

Un discorso, quello sulla realtà delle nostre esperienze non solo visive, quanto mai attuale in un
mondo in cui il progresso tecnologico, ma questa volta principalmente informatico, crea una “post-
verità” troppe volte non solo più vera, ma anche più attraente – e quindi più pericolosa – della
realtà.

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lm: Lorenzo Richelmy, Sergio Castellitto e Anna Foglietta.

Quindi, concludendo, noi vi invitiamo a guardare “Il talento del Calabrone” e successivamente ad
approfondire le informazioni disponibili su questo film, che alla fine rappresenta una ventata di
freschezza nel nostro panorama cinematografico e dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, che il
nostro cinema, nonostante quest’anno disastroso all’insegna del Covid-19, è vivo più che mai e lotta
insieme a noi.
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La Luna e il Cinema
Fin dall’antichità la Luna, il nostro fedele satellite, ha ispirato poeti e artisti, e come tale il Cinema
non poteva rimanere insensibile di fronte al fascino, alla magia, al sogno e al mistero che la avvolge.
La Luna ha un ascendente enorme sulla nostra fantasia e come tale ha avuto le sue esperienze
cinematografiche. Già dagli albori, il cinema si è interessato ad essa, e ben presto il rapporto Luna-
Cinema è diventato epocale. L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la
navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per
pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il
viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di
fantascienza della storia. Se i fratelli Lumière, gli inventori “ufficiali” del cinema, filmavano quasi
solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che
il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Méliès è ricordato come “il creatore della
spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento
fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo
internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo
proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al
romanzo Dalla Terra alla luna di Jules Verne in tutta la prima parte, quella relativa alla
progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta
all’immaginazione del regista. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo
seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi
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atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere
sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale
“cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un
kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli
acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le
copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne
sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi.

Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un
secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta
famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del
film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue
pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’
più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la
navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti
dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo,
ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta
del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema
nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è
oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si
capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di
un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta,
di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di
tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma
ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo
dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla
Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I
Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece
azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due
pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e
talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra
Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne
inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre.

Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà
aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va
sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di
essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento
molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di
questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri
“alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso
regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo
stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti
sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo
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la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario,
dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e
persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per
una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che
aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi
volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat
Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova
atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri
telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra.

Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo
Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e
anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è
strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira
per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che
vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce,
Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e
dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un
racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene
ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai
viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla
missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile
di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della
fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello
stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui
celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla
Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel
quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è
abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni
giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in
California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto
poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962),
ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle
vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto
nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter
finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco –
come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la
spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per
satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma
è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene
interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da
attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori,
lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick
per il suo Dottor Stranamore.
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Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di
fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le
Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello
noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in
una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli
siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di
cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della
superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai
non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un
grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film
modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert
Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman.

Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non
ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune
scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base
statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla
base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla
Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione
dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo
genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era
quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale
e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa
a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si
occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri
già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del
2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu
pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal
cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro
(un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle
sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua
produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in
tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla
trama alla recitazione.

Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà
solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione.
In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute,
extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due
astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché
una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto
dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le
colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del
buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe
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migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato
a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire
espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri
film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello
spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999).

Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che
peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto
impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso
“ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller
molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini
(Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon
Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006),
dove viene comunque “ricostruita”.

Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e
Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla
sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla
stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si
estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come
unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire
ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di
se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo
momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre
più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano
altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce
di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di
fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza
essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato.

Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna
nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando
l’interesse del pubblico di tutte le generazioni.

The Matrix – Il Film
È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli
Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli
argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate.

Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo
conosciamo oggi. In esso vi erano poco più di 200 milioni di utenti collegati ad internet e non
esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete
internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come
Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della
mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati
di tutto il mondo.

Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e
terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software
presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di
notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e
conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico.

L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è
abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono
collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una
amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli
esseri umani.

Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di
scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale.

Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il
mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che
misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire,
cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le
innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo
dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus.
Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e
complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14
bozze e che gli storyboard furono più di 600.

Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della
caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di
Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini
della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran
parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne
imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto
che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche
del film.

A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale,
l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep,
Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla
fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner
Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si
pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu
Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e
Darth Vader.

Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e
precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi.
Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si
voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel
1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto
che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da
sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le
scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le
sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal
film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le
simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale
per rappresentare tutte quelle simulazioni non ordite dalle macchine ma create dagli uomini per
sconfiggerle.

Il film immaginò anche un abbigliamento ed uno stile molto dark: tutti i protagonisti del film,
maschili e femminili, sono fasciati in lunghi capotti neri ed attillate tutine di PVC. Per i costumi Kym
Barrett, per via del budget limitato, fece di necessità virtù, realizzando il costume di Trinity con
PVC a basso costo e il cappotto di Neo con una stoffa che costava 3 dollari al metro. Altro
trattamento fu riservato per gli splendidi occhiali da sole dei protagonisti, che sarebbero diventati
un must della moda di quegli anni. Fu una piccola azienda artigianale, la Blinde, che vinse la gara
contro colossi come Ray-ban e Arnette, che decise di realizzare gli occhiali basandosi sull’inusuale
nome dei personaggi. Richard Walker, fondatore dell’azienda, disegnò e realizzò degli occhiali
molto avveniristici soprattutto per il modello di Morpheus, che era privo di stanghette e che si
reggeva sul naso con una speciale clip brevettata.

Ma Matrix è passato alla storia soprattutto perché ha aperto nuove frontiere nella tecnica
cinematografica, a partire dal “bullet time”. Un effetto speciale che, sfruttando simultaneamente
un gran numero di fotocamere, disposte intorno ad un oggetto o una persona, permette di
ricostruire, frame dopo frame, la medesima scena e riprodurla al rallentatore. Questa tecnica,
insieme alla computer grafica 3D e al chroma key, ha reso leggendaria e citatissima la scena di Neo
intento a schivare i proiettili.

Insomma un film epico, anzi un franchise multimediale, composto da altri due film, un videogioco,
un fumetto ed una serie di cortometraggi di animazione “Animatrix”, media diversi che a detta
degli autori e dei registi dovevano essere fruiti e visti tutti per ampliare e comprendere meglio
l’universo narrativo del film. E, a proposito di fumetti e spunti narrativi, Matrix ha rischiato anche
una denuncia di plagio.
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ione dell’effetto “bullet time”.

Nel 1992 Stefano Disegni e Massimo Caviglia avevano creato “Razzi Amari”. Si trattava di un
fumetto multimediale da leggere insieme a una musicassetta realizzata dalla band Gruppo Volante
dello stesso Disegni. La storia era incentrata su un futuro allucinato, in cui la popolazione era sotto il
giogo di una dittatura dispotica creata dalle macchine. Le macchine controllavano le persone tramite
un chip, installato nella loro mente appena nati, che proiettava l’illusione di vivere in un mondo
perfetto. Anche nel fumetto di Stefano Disegni c’era una resistenza che si era organizzata e
combatteva le macchine. Insomma una storia molto simile a quella del film, che spinse i creatori del
fumetto a contattare un avvocato che ravvisò gli estremi per una causa di plagio, ma alla fine i
fumettisti desistettero perché la causa contro la Warner Bros sarebbe stata proibitiva.

Per concludere, The Matrix (o Matrix nella traduzione italiana), è un film assolutamente da vedere
perché come tutta la miglior fantascienza ci racconta chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo
andando e, siccome il film ha già 20 anni, il futuro immaginato da Matrix è il nostro presente e, per
dirla con Morpheus:

                                    “Benvenuti nel deserto del reale!”
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