SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO DOSSIER PER IL CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA 2018-19

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SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO DOSSIER PER IL CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA 2018-19
SCUOLA SECONDARIA DI II GRADO
      DOSSIER PER IL CONCORSO DI SCRITTURA CREATIVA 2018-19

                    “In viaggio verso le proprie radici. Scrivi una storia”
TESTI

    1. A casa, per recuperare le proprie radici.

Nel romanzo L’aggancio del 2001, la scrittrice sudafricana Nadine Gordimer, premio Nobel per la Letteratura
nel 1991, racconta la storia di un giovane arabo, emigrato in Sudafrica, che rientra a casa dopo essere stato
espulso dal paese, accompagnato da sua moglie, una sudafricana bianca che non è mai stata in un paese arabo.
In questo brano si descrive quanto sia difficile il recupero delle proprie radici da parte di chi, per migliorare la
propria sorte e quella della sua famiglia, è vissuto così a lungo altrove.

Irahim ibn Musa.
Indugia ai piedi della scaletta dove l’aereo ha portato giù dai cieli il suo carico umano. Pieno di
bagagli a mano e sacchetti, si gira ad aspettare che Julie scenda dietro di lui.
‘E tornato a casa. ‘E come se la vedesse per la prima volta. Il caldo è come un tampone che preme
contro il naso e la bocca. Non ci sono palme.
Irahim ibn Musa. Hanno percorso a fatica il ghiaino scricchiolante del campo d’aviazione tra le
spallate degli altri, sono entrati in un brusio rimbombante in cui movimento e suono si fondono in
un’unica confusione, e adesso aspettano davanti al banco del controllo passaporti. Un uomo dietro il
vetro appone il timbro. Irahim ibn Musa.
Il visto di lei richiede un istante di più di controllo. La moglie. Irahim ibn Musa.
Tutto qui, fatto.
Nei paesi come questo un aeroporto è un’ondeggiante, mutevole massa umana, dove tutto
l’individualismo si riduce nel suo contrario. Le vecchiette accovacciate (..) le donne coperte di veli
neri che sgomitano, le bocche che masticano cibo, i pancioni di uomini appesantiti dagli anni sotto
tuniche bianche, il viavai di bambini, le trame intricate di discorsi, risate, esasperazione, litigi,
cumuli di bagagli, residui di vite dove nessuno ha nome.
Lui si mostrò molto efficiente, esprimendosi nella propria lingua, chiedendo informazioni, recuperò
l’elegante valigia e la borsa di tela e tra le spinte e le grida aprì la portiera di un taxi prima che gli
altri riuscissero ad avvicinarsi.
Il tragitto dall’aeroporto alla periferia della capitale su una strada asfaltata tutta buche fu una gara
con gli altri veicoli che si accalcavano per superarsi a vicenda, come cavalli sulla dirittura d’arrivo
di una corsa.
(…)
“Non ci fermiamo in città. Adesso andiamo direttamente alla stazione delle corriere. Non ci sono
molte corriere per il posto in cui dobbiamo andare.”
La stazione delle corriere alla periferia della città era una versione ridotta del terminal
dell’aeroporto. Con la differenza che qui c’erano gabbie di polli in mezzo ai fagotti, che
contenevano gli averi di una vita. Lui la scoraggiò dall’andare al gabinetto. “Questo posto è sporco.
Aspetta. In fondo a questa strada c’è un locale dove possiamo prendere un caffè; potrai andare là,
sarà meglio.
 (…)
Li aveva preparati o avvisati. Stava per tornare e non come il figlio che aveva avuto successo e si
era conquistato una vita migliore, la versione televisiva della vita occidentale, portandone una fetta
per loro in tasca e nella propria persona, bensì come un reietto, con nient’altro che una moglie
straniera.
Se non altro lei aveva un po’ di danaro ma le basteranno per pagare da mangiare per sé e per me,
mentre è qui. Ecco quello che io, il figlio, porto per provvedere alla vecchiaia dei miei, alle mie
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sorelle e al futuro dei loro figli, e al mio fratello minore, che spera di seguire la strada aperta dal
maggiore, lontano da qui.
Quando si rese conto che si stavano avvicinando al villaggio e immaginò la famiglia che li
aspettava, la squadrò da capo a piedi, in un modo che la fece voltare con un sorriso interrogativo.
“Hai qualcos’altro da metterti? In una delle borse?”
“Da mettermi? Come?”
Lui si portò la mano allo sterno, sotto il collo aperto della camicia. “Qui, per coprirti”.
“Ma fa tanto caldo..Non sto bene così?”
“Uno scialle, o qualcosa del genere”.
Adesso non era più a casa sua; aveva fatto di tutto per venire qui, in questo posto. E questo posto
aveva le sue regole, era stata lei a decidere.
(…)
Erano arrivati. Nella mente di Hibrahim. La madre, per la quale avrebbe voluto risparmiare i soldi
dell’officina e portarla via dalla schiavitù dei fardelli domestici di questo sporco posto, dalla
sporcizia della politica dei ricchi, dalla sporcizia della povertà. Il padre, sempre con le mani
ciondoloni e semichiuse di uomo che vive solo delle aspettative riposte in quelli che ha generato
( devono vivere la vita che lui non ha mai avuto) i fratelli lasciati a casa, le sorelle di cui una, come
sempre, avrebbe avuto il ventre ingrossato da una gravidanza, i bambini, neonati quando era partito,
che ormai sarebbero stati alti e magri, lo zio, i vicini, testimoni reciproci di ogni accadimento della
vita, accorsi per vedere cosa ha portato quel figlio dal mondo, i suoi bagagli e la sua strana moglie.
Ibrahim ibn Musa. Il suo viso si sollevò in una smorfia di dolore e di rabbia per le condizioni in cui
vivevano, ma i suoi occhi, neri come i loro, inondarono di lacrime quella visione dei suoi.

                                                                    Nadine Gordimer, L’aggancio, Feltrinelli, 2003

    2. Nel paese dell’infanzia a ritrovare il modello ideale del genere umano
       perduto.
Nel romanzo Conversazione in Sicilia, scritto nel 1938-39, Elio Vittorini descrive, proiettandosi in un
personaggio che è il suo alter-ego, una crisi esistenziale che provoca in lui un arresto dell’azione e dei sentimenti,
avvolgendolo in un’atmosfera di inutilità e di morte. Da questo stato d’animo riesce ad emergere grazie al
ritorno in Sicilia, suo paese d’origine. Nel viaggio assumono un’importante funzione alcuni personaggi, come la
madre e un siciliano incontrato sul piroscafo, che Vittorini chiama “Il gran Lombardo”, riferendosi ad una
citazione di Dante (Paradiso XVII) in cui il Gran Lombardo , in quel caso Bartolomeo della Scala, signore di
Verona, sarà il primo rifugio, il primo ostello per il poeta esule. Questo personaggio rappresenta quindi l’intero
popolo siciliano e la sua ricchezza interiore, a cui l’autore aspira di attingere per ritrovare se stesso e uno scopo
di vita più alto.

 Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a
raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il
genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali
squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una
parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo
una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le
scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri
sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo
sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere
umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con
lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi
importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me
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lo stesso; e uscire e vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero
come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come
se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da
ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza
avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei
figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto
un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per
astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola
agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
(…)
Poi viaggiai nel treno per le Calabrie, ricominciò a piovere, a esser notte e riconobbi il viaggio, me
bambino nelle mie dieci fughe da casa e dalla Sicilia, in viaggio avanti e indietro per quel paese di
fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al
mare, a nomi da sogni antichi, Amantèa, Maratèa, Gioia Tauro. Così un topo, d’un tratto, non era
più un topo in me, era odore, sapore, cielo e il piffero suonava un attimo melodioso, non più
lamentoso. Mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a
bordo del battello-traghetto per la Sicilia.
(…)
E il Gran Lombardo disse: “Che fa uno quando si abbandona? Quando si butta via per perduto? Fa
la cosa che più odia di fare...” (…)
 Avrebbe voluto avere una coscienza fresca, così disse, fresca, e che gli chiedesse di compiere altri
doveri, non i soliti, altri, dei nuovi doveri, e più alti, verso gli uomini, perché a compiere i soliti non
c’era soddisfazione e si restava come se non si fosse fatto nulla, scontenti di sé, delusi. “Credo che
l’uomo sia maturo per altro,” disse. “Non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per
essere buon cittadino... Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri. È questo che si
sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose, da compiere... Cose da fare per la nostra
coscienza in un senso nuovo.”

                                 Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia 1937 - 1939, 2077, Rizzoli editore, Milano

3. Il terzo in piedi da sinistra.
In questo breve racconto si narra della storia straordinaria di due gemelli, abbandonati alla nascita, in luoghi
diversi, dai propri genitori, che il destino fa incontrare, quando ormai adulti avevano rinunciato a cercare
l’identità dei genitori naturali. Una piccola storia commovente, che parla del dolore di chi non conosce le proprie
radici familiari e della gioia che prova nel ritrovarle.

Vincenzo sapeva di non essere più solo. Lo era sempre stato ma ora, su quella panchina della stazione ad
aspettare il treno per il ritorno a Bologna, sapeva di poter condividere con qualcuno quella storia incredibile.
La sua solitudine iniziò insieme alla sua vita: fu abbandonato subito dopo la nascita. Non conobbe mai chi lo
aveva messo al mondo e questo era il suo cruccio più grande. Visse i primi anni in orfanotrofio, i suoi
genitori erano le suore dell’istituto; si fanno chiamare “madre” senza conoscere la maternità, non sanno cosa
significhi avere un figlio, non lo possono sapere! Gli altri sventurati ospiti dell’orfanotrofio erano i suoi
fratelli, certo non biologici, ma ugualmente fratelli: condividevano con Vincenzo la stessa terribile
esperienza di non avere una famiglia. Dopo la scuola media, frequentata in un tristissimo collegio-caserma,
di quelli che andavano tanto di moda negli anni Sessanta, entrò in seminario. (…) Comunque voleva resistere
per concludere gli studi liceali. E ci riuscì brillantemente (…)
Qualche mese dopo la sua uscita dal seminario, con un nuovo lavoro e una nuova abitazione, Vincenzo
cominciò a vivere. Aveva fatto alcune ricerche ed era riuscito a trovare gli indirizzi di alcuni vecchi
compagni dell’orfanotrofio con i quali si mise in contatto e inoltre si era fatto nuove amicizie: tutto sommato,
non se la passava male.(…) La sua esistenza così tranquilla e irreprensibile era sempre stata accompagnata
da un grande desiderio: Vincenzo avrebbe tanto voluto conoscere i suoi genitori. Qualche anno dopo aver
lasciato il seminario fece un tentativo presso il vecchio orfanotrofio. Le suore di allora non c’erano più, solo
una era rimasta in vita: madre Annarita. Vincenzo era andato a parlarle ma non riuscì a sapere più di quanto
conosceva già. Madre Annarita gli confermò solo che lo avevano trovato davanti al portone dell’orfanotrofio
una mattina di ottobre del 1951 avvolto in una coperta e posato in una culla di fortuna. Dei suoi genitori
nessuna traccia! Le indagini condotte da carabinieri e polizia non portarono a niente. Né ospedali né medici
avevano avuto notizie del parto. Gli fu attribuita la data di nascita del 10 ottobre 1951, giorno del suo
ritrovamento, e fu registrato all’anagrafe con il nome di Vincenzo Trovato.
(…)
Una mattina, aprendo la posta dell’ufficio, trovò una richiesta di quelle che tanto gli piacevano: una ricerca
d’archivio. Un tale Achille Brancati cercava notizie dei suoi compagni del liceo: nel quarantesimo
anniversario della maturità voleva organizzare una cena-amarcord e chiedeva se fosse possibile avere
l’elenco degli alunni della 5a B anno scolastico 1969/70: avrebbe poi pensato lui stesso a rintracciare e
contattare i vecchi compagni. Il pomeriggio del giorno successivo Vincenzo andò giù in archivio alla ricerca
della 5a B di quell’anno. Non trovò particolari difficoltà a reperire l’elenco della classe ma voleva fare di
più. Sapeva che a quei tempi veniva pubblicato, ad uso interno dell’istituto, un giornalino scolastico e
l’ultimo numero dell’anno riportava anche le fotografie di classe. “Sarebbe carino procurare al signor
Brancati anche la foto della sua classe!”, pensava Vincenzo mentre stava scannerizzando la pagina con
l’elenco da allegare alla mail. Così, quando riportò in archivio il registro si mise a cercare la rivista. Non fu
facile: i giornalini non erano catalogati ma erano stati accatastati alla rinfusa su uno scaffale. Vincenzo non
era nemmeno sicuro della presenza su quel ripiano del numero che gli interessava, inoltre molti fascicoli
erano strappati, mancanti di copertina e di pagine intere. Volle tentare lo stesso. Dopo un paio d’ore si era
quasi stufato e stava pensando di rinunciare ma: “Ho fatto trenta, devo fare trentuno!”, disse tra sé. Continuò
a sfogliare i giornalini, ne mancavano pochi quando si trovò tra le mani un foglio singolo: la pagina che
riportava la foto della 5a B dell’anno scolastico 1969/70! La portò subito in ufficio per farne una scansione,
migliorò la definizione e ne fece una stampa ingrandita e poi si fermò, soddisfatto a guardare l’immagine.
“Non è possibile. Io non ho mai frequentato questa scuola!” Il terzo alunno da sinistra in piedi era lui! O, per
lo meno, uno che gli assomigliava molto. Vincenzo, sempre più incuriosito, ingrandì ulteriormente
l’immagine e la ristampò. La sera, a casa, andò a recuperare nella sua scatola dei ricordi le foto della sua
classe dell’anno della maturità: 1969/70. Lui era il terzo in piedi da sinistra! Ed era uguale al terzo in piedi da
sinistra della foto della classe del signor Brancati. Una semplice coincidenza? Un’incredibile coincidenza?
La mattina dopo Vincenzo si recò in ufficio mezz’ora prima, accese il pc e, col cuore in gola, aprì il file con i
dati degli alunni. Scorse l’elenco, naturalmente non poteva abbinare i nomi ai volti ma trovò un nome:
Fortunato Campari, nato il 10 ottobre 1951. Lo stesso giorno in cui era nato lui. Una semplice coincidenza?
Un’incredibile coincidenza? O che altro? Vincenzo era turbato. (…) Non voleva però aspettare di avere
notizie dal Brancati e di mise all’opera autonomamente, aveva fretta. A Bologna non c’era nessuno con quel
nome, cercò nel sito internet “Pagine Bianche” ma tutti i Fortunato Campari che riuscì a trovare non erano la
persona giusta; qualcuno rispondendo seccato gli disse che non era il primo a rompergli le scatole in quei
giorni. Eh già, c’era anche il Brancati che stava organizzando la sua cena! Benché non sopportasse i social
network, Vincenzo si iscrisse a Facebook e a Twitter alla ricerca del suo uomo. Invano. Si ricordò allora di
un vecchio investigatore, lo contattò e gli chiese se potesse dargli una mano. Non ci volle molto: dopo una
settimana Vincenzo ebbe l’indirizzo, il numero di telefono e qualche sommaria notizia sulla vita di
Fortunato. Viveva a Roma, lavorava al CONI, era sposato e aveva due figli.
(…)
Infine si decise e chiamò Fortunato. Gli chiese se fosse disponibile per un incontro perché doveva verificare
un’ipotesi un po’ fantasiosa sulla sua famiglia. Fortunato rimase ovviamente sorpreso ma nello stesso tempo
incuriosito e accettò di vederlo il sabato successivo. E il sabato successivo Vincenzo prese il Frecciarossa per
Roma. Nel luogo fissato per l’appuntamento non faticarono a riconoscersi: erano identici! Per Vincenzo non
fu una sorpresa, se lo immaginava. Fortunato invece ebbe un sussulto. Quando, seduti al tavolino di un bar
con vista sul Colosseo, Vincenzo tirò fuori il suo dossier e gli mostrò le foto delle due classi, una proveniente
dal seminario di Bergamo e l’altra da una scuola di Bologna, con il terzo alunno in piedi da sinistra cerchiato
di rosso rimase di sasso. “Come è possibile?”, sussurrò. Una semplice coincidenza? Un’incredibile
coincidenza? O che altro? Vincenzo raccontò di essere stato abbandonato subito dopo la nascita davanti al
portone di un orfanotrofio … Fortunato raccontò di aver saputo dai suoi genitori adottivi che la sera del 10
ottobre 1951 fu visto un uomo, con il volto coperto, abbandonare un bambino davanti ad un ospedale di
Bologna. Quel bambino era lui. Fu raccolto da un medico e aveva avuto le prime cure nel reparto maternità
di quell’ospedale dove gli fu dato il nome di Fortunato. In seguito era stato adottato dalla famiglia Campari
dalla quale prese il cognome. Si erano trasferiti da Bologna a metà degli anni Settanta e si erano fermati a
Roma, sede di lavoro definitiva di suo padre. Anche lui aveva fatto ricerche per avere notizie dei suoi
genitori naturali. Un avvocato, amico di famiglia, aveva condotto indagini in ogni direzione ma senza esito.
Come l’investigatore di Vincenzo aveva desistito: i genitori non avevano lasciato alcuna traccia. Vincenzo e
Fortunato erano fratelli gemelli, non c’erano dubbi, non serviva nemmeno la prova del DNA!
Abbandonati lo stesso giorno in due città diverse, uno dalla madre e uno dal padre con lucida
premeditazione. I loro genitori evidentemente non volevano che vivessero insieme; fecero in modo che non
si incontrassero mai, desideravano tenere nascosta questa triste storia. Abbandonare un figlio dopo la nascita
deve essere una decisione dettata dalla disperazione più profonda: la loro era doppia! Per questo li avevano
separati? Forse sì, ma ormai che importava? Vincenzo e Fortunato adesso erano lì, insieme. Guardavano due
fotografie vecchie di quarant’anni mentre si raccontavano le proprie storie. Avevano tutto il diritto di
prendersela con i loro genitori ma non serbavano alcun rancore nei loro confronti, anche adesso che la verità
era evidente. L’importante era che si fossero trovati. Senza cercarsi si erano trovati! Il destino aveva previsto
per loro esistenze diverse ma con un punto di convergenza: il terzo in piedi da sinistra!

                                      Roberto Pozzi , Storie della Bassa e altri racconti, 2013, Loquendo, Mortara

4. Il grido della madre ritrovata.
Il romanzo Vai e vivrai racconta la storia di un bambino etiope di nove anni, di religione cristiana, che la madre
è riuscita con uno strattagemma ad inserire in un gruppo di ebrei etiopi che fra il 1984 e il 1985 sono stati salvati
dalle forze speciali israeliane e portati in Israele, con un programma chiamato L’operazione Mosè. Avevano
raggiunto a piedi il Sudan, per sfuggire alle stragi di cristiani e alla tragica carestia. Il piccolo Shlomo ha dovuto
separarsi dalla madre e camuffarsi da ebreo per tutta la vita. Solo alla vigilia del matrimonio decide di rivelare il
suo segreto alla famiglia adottiva e alla futura sposa. Nel finale del libro Shlomo, medico e ormai padre, torna in
Etiopia e, in un campo profughi, incontra la vecchia madre, che aveva accettato di perderlo per salvarlo.

Sulle portiere davanti e sul tetto della Land Rover bianca è dipinto il logo di Medici senza Frontiere. Il
pesante veicolo è bloccato nel deserto. Il terreno arido è coperto da una sottile polvere giallastra. Una
desolazione, senza un albero, senza nemmeno un cespuglio.
Shlomo esce dalla cabina del fuoristrada. Calca il suolo dell’infanzia. In ginocchio, bacia la terra sterile. Poi
si alza, osserva l’orizzonte vuoto. Un vento secco gli sferza il viso. Chiude gli occhi. Il ritorno alla terra gli
causa gioie e dolori.
L’autista africano, al volante, nella cabina, non osa interrompere quel momento di grazia.
‘E un campo di rifugiati preso in custodia da Medici senza Frontiere. Con addosso una sahariana ocra
Shlomo è assalito da un nugolo di bambini. Capisce il loro desiderio, tutti mimano il gesto di scrivere. Hanno
fame ma vogliono scrivere. Quei bambini lo commuovono, li sente suoi, anche se lo chiamano dottore, come
se fosse uno straniero, un bianco.
Qualche giorno dopo, mentre visita un bambino, lo sguardo di Shlomo è attratto da un riflesso del sole sulla
superficie di un contenitore di alluminio che rotola nella sabbia. Un giocattolo di fortuna per tre bambini.
Quel riflesso illumina una forma, una sagoma accovacciata, appena protetta dal riparo di una tela. ‘E una
donna vecchissima. Il cuore di Shlomo sembra fermarsi…egli riconosce in quei tratti di una dignità assoluta
Kidane, sua madre!
Lei lo osserva, non osa chiamarlo. Distoglie il viso, lo copre con un lembo del velo. Vuole risparmiargli la
vergogna d essere la madre tanto povera di un medico tanto grande.
Ma Shlomo si toglie le scarpe, avanza a piedi nudi sulla sabbia cocente. Si siede davanti a lei a gambe
incrociate, la osserva a lungo. Lei tenta ancora di nascondersi ma lui toglie la stoffa con dolcezza e i loro
occhi si incontrano.
Le braccia della madre si aprono sul figlio, le mani si aggrappano a lui. Allora un lamento sfugge e si
amplifica,si alza. Un grido insieme di rivolta e di felicità. Un urlo trattenuto per diciassette anni in fondo allo
stomaco. Kidane libera finalmente quel grido che un giorno ha preso il posto di suo figlio.

                                          Radu Mihaileanu e Alain Dugrand: Vai e vivrai, Feltrinelli, 2005
5. Radici.

Alda Giuseppina Angela Merini (Milano,1931 –2009) è stata una importante poetessa italiana. Ha cominciato a
pubblicare poesie negli anni ’50 ed ha scritto fino alla sua morte. Il tema della vita, delle sue passioni, dei suoi
dolori e delle sue profonde radici nella carne e nell’anima scandisce tutte le sue composizioni poetiche.

Le mie radici sono ben salde anche se lontane dalla propria terra.
Le mie radici sono come legni d’ulivo
con le braccia protese
quasi a voler accarezzare la rossa e argillosa terra che li accoglie.
Le mie radici sanno di polvere di tufo
di mandorlo in fiore
di giardini coltivati.
Storia e profumi si fondono nella mia terra, sprigionando sensazioni
di pace e tranquillità, dove il mare e il cielo
si sposano in un unico colore.
Nelle campagne si affacciano come grandi signore i bagli antichi
lì il tempo si è fermato
cammino nella mia terra,
ogni volta è una sorpresa,
mi ritrovo
sorrido e gioisco di tanta bellezza.

                    Alda Merini, Il suono dell'ombra. Poesie e prose 1953-2009, Mondadori, Milano, 2010

6. Radici di cielo e di ghiaccio.

Questo romanzo, vincitore del Premio Strega 2017, ha come protagonista Pietro, un ragazzino di città. La madre
lavora in un consultorio di periferia, il padre è un chimico che torna a casa ogni sera carico di rabbia. Ma sono
uniti da una passione comune: la montagna. Ogni estate Pietro passa le vacanze nel paesino di Graines in Val
d'Ayas, dove c’è ad aspettarlo Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma si
occupa del pascolo delle vacche. Con il passare degli anni le strade di Pietro e Bruno si separano ma la comune
passione per la montagna li tiene legati con un filo invisibile.

Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un
paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene. La sua era senz'altro il bosco dei 1500 metri, quello di abeti
e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli. Io ero più
attratto dalla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d'alta quota, bestie al pascolo.
Ancora più in alto la vegetazione scompare, la neve copre ogni cosa fino all'inizio dell'estate e il colore
prevalente è il grigio della roccia, venato dal quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava il
mondo di mio padre. Dopo tre ore di cammino i prati e i boschi lasciavano il posto alle pietraie, ai laghetti
nascosti nelle conche glaciali, ai canaloni solcati dalle slavine, alle sorgenti di acqua gelida. La montagna si
trasformava in un luogo più aspro, inospitale e puro: lassù lui diventava felice. Ringiovaniva, forse, tornando
ad altre montagne e altri tempi. Anche il suo passo sembrava perdere peso e ritrovare un'agilità perduta..
(…) Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite
esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla
montagna che sta al centro di tutte le altre e all'inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le
otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico.
(…) Non ricordavo bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né che cos'altro avessi amato quando
non amavo più lei, ma mi sembrava, risalendola ogni mattina in solitudine, di farci lentamente la pace.
(…) L’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiaccio è la neve degli inverni lontani, è
un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato.
Ed era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla
ogni volta che ci tornavi.
                                                                    Paolo Cognetti , Le otto montagne, 2016

7. La luce di una stella.
Sullo sfondo delle Leggi razziali una famiglia ebrea di Genova aspetta fino all’ultimo prima di lasciare la sua
città. Costretta ad una precipitosa fuga, raggiunge con fatica la Svizzera ma deve dimostrare di essere ebrea per
poter essere accolta dopo aver fatto di tutto per nascondere e cancellare le sue origini.

L’ufficiale non lo guarda più, è con i genitori che vuole riaprire il discorso. D’accordo, adesso si è
convinto che sono davvero ebrei, ma non ci si può basare solo su una sensazione, lui deve
rispondere ad un comando, occorre presentare prove concrete, non stati d’animo.
“Il mio passaporto inglese è depositato presso la vostra Legazione di Genova. Mandatelo a
cercare!”. Marc è balzato in piedi, ha di nuovo luce negli occhi.
“Davvero credete che non abbiamo nient’altro di cui occuparci?”. L’espressione del tenente è
amara, sfiduciata. Lui intendeva cose immediate, reali, un vecchio documento rimasto nel fondo
della valigia, un quaderno di scuola del figlio con il cognome vero.
E’ il figlio adesso a balzare in piedi. Si è tolto cappotto e giacca, ha gli occhi fiammeggianti, sembra
un invasato mentre grida: “datemi delle forbici”. L’ufficiale si fa cauto, quel ragazzetto non vorrà
mica inscenare un suicidio, ma è la madre ad aver afferrato di scatto il paio di forbici appoggiato
sulla scrivania. Ora la signora si è comodamente seduta con in grembo la giacca un po’ consumata
che ha raccolto da terra, comincia assorta a scucirne una spalla. Si ferma. Le forbici brandite a
mezz’altezza sembrano la spada di un angelo giustiziere. Il figlio le si precipita accanto, poi solleva
verso il cielo lei, la catenina dorata che sua nonna Rachele un giorno gli aveva voluto regalare.
La stella ebraica, cesellata a rilievo sulla medaglia dorata, continua imperturbabile a lanciare i suoi
bagliori anche in terra straniera.
“Telefona a Chiasso” mormora l’ufficiale al suo sottoposto. “Di’ che gliene stiamo mandando altri
tre”.

                                                                     Lia Levi, Questa sera è già domani, 2018

8. La madre interiore.
Con un viaggio nella memoria sotto forma di lettera una nonna racconta alla nipote partita per gli Stati Uniti il
difficile rapporto avuto con la figlia Ilaria, fatto di incomprensioni, silenzi e segreti. Il confronto con le sue
origini, il modello di madre che ha avuto, le permettono di sviluppare una sua personalità in opposizione e
antitesi.

Mia madre aveva un carattere forte, ad esempio, era sicura di ogni sua azione e non c’era niente,
assolutamente niente, che potesse incrinare questa sua sicurezza. Io ero il suo esatto contrario.
Nella vita di ogni giorno non c’era una sola cosa che mi provocasse trasporto. Davanti ad ogni
scelta tentennavo, indugiavo così a lungo che alla fine chi mi era accanto, spazientito, decideva per
me.
Non credere che sia stato un processo naturale lasciare la personalità per fingere un carattere.
Qualcosa in fondo a me continuava a ribellarsi, una parte desiderava continuare ad essere me stessa,
mentre l’altra, per essere amata, voleva adeguarsi alle esigenze del mondo. Che dura battaglia!
Detestavo mia madre, il suo modo di fare superficiale e vuoto. La detestavo, eppure lentamente e
contro la mia volontà stavo diventando proprio come lei. Questo è il ricatto grande e terribile
dell’educazione, quello a cui è quasi impossibile fuggire. Nessun bambino può vivere senza amore.
Susanna Tamaro Va’ dove ti porta il cuore, 1994

9. La rivelazione.
Dopo aver ascoltato il racconto del viandante senza essere a conoscenza della sua vera identità il vecchio padre di
Odisseo si commuove. A questo punto l’eroe greco, che una volta tornato ad Itaca ha tenuto nascosto le sue
“radici” per paura di essere ucciso, decide di rivelarsi.

…. Ed ecco il padre
come rapito da una torbida nube di dolore,
grattare manciate di fumigante spessa cenere
e buttarsela sopra il capo grigio, e singhiozzare
a dirotto. Odisseo sentì il cuore tumultuare,
e scorrere per le nari con una frizzante veemenza
l’emozione, mentre fissava in volto così il padre.
Allora d’un balzo gli fu addosso, lo abbracciò,
lo strinse, lo baciò, quindi esclamò: “Padre mio,
sono io, colui che tu cerchi. Sono qui sulla terra
nostra, dopo vent’anni! Basta, basta, non piangere
più! Devo parlarti, devo dirti tutto, e bisogna
fare in fretta (…)”

                                      Odissea, libro XXIV

IMMAGINI

1. L’Albero della Vita

Questo simbolo ha rappresentato in ogni contesto storico e geografico il principio vitale, l’energia e la
rigenerazione, un archetipo nella foresta dei simboli con cui l’uomo ha interpretato il proprio destino. Nutrito
dalla terra, attaccato saldamente alle proprie radici, proteso energicamente verso l’alto, sottoposto ai mutamenti
atmosferici e stagionali, l’albero sfiora nel cielo l’infinito. Così fa l’uomo, che nasce dalla terra e si eleva con
l’anima fino a Dio.
Nel Medioevo è stato rappresentato con la figura centrale di un Cristo-albero da cui si diramano gli episodi
biblici come percorso necessario per raggiungere Dio ma anche nell’età moderna è fonte di ispirazione.
 Gustav Klimt, nel fregio di palazzo Stoclet a Bruxelles realizzato fra il 1905 e il 1909 , lo ripropone in versione
laica, come soggetto centrale fra una coppia di amanti, che simboleggiano l’amore e la vita.
L'albero di Jesse è un motivo frequente nell'arte cristiana tra l'XI e il XV secolo: rappresenta una
schematizzazione dell'albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare
importanza nelle tre religioni abramitiche, l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam.

L'albero di Jesse, immagine popolare in tutta Europa, si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il
modello degli alberi genealogici e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali
come quella francese, qui sotto rappresentata.
La cosmologia dell'universo rappresentata dall'albero cosmico dell'Yggdrasil, che ha radici nella
materia terrestre e si innalza verso il cielo del trascendente. Il tronco rappresenta il visibile quotidiano
e segna il cammino che conduce al Mondo Superiore liberandosi dal vincolo della materia.

UN FILM

“Lion – La strada verso casa” (2017) è il primo lungometraggio del giovane regista australiano Garth
Davis. Il film ha riscosso notevole successo ottenendo 6 candidature a Premi Oscar.Il film è tratto da
una storia realmente accaduta. Nella metà degli anni’80 tra l’India e l’Australia il piccolo Saroo a soli
5 anni si ritrova lontano da casa. Accolto in un orfanotrofio di Calcutta viene adottato da una famiglia
australiana: per lui inizia una nuova vita ma, una volta diventato adulto, vorrà riscoprire le proprie
radici per rivisitare la sua storia.

https://www.youtube.com/watch?v=-RNI9o06vqo
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