Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA

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Le sindromi demenziali

Vincenzo MANNA
Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta
Direttore f.f. UOC SPDC DSM ASL ROMA 6
vincenzo.manna@uniroma1.it
cell. +39 333 36 25 218

L’aspettativa di vita nel corso dell’ultimo secolo è nettamente aumentata. Nelle società industriali d’occidente e in Italia,
in particolare, essa è passata dai 40-50 anni degli inizi del ’900 agli oltre 75 anni attuali. Si è triplicato, nel corso
dell’ultimo secolo, il numero di soggetti anziani, con più di 65 anni, limite convenzionale della senilità. Gli anziani, nel
’900 erano intorno al 4% della popolazione generale, oggi rappresentano oggi circa il 20% della popolazione occidentale
e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Secondo le proiezioni degli esperti, raggiungeranno, in Europa, il 30%
nel 2020. Poiché l’età è considerata tra i principali fattori di rischio per la patologia demenziale, si può prevedere, per il
futuro, un aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia.

L’invecchiamento cerebrale è un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono variamente molteplici
fattori, endogeni ed esogeni. Pur non essendo corretto stabilire un’equivalenza tra senilità e demenza, è noto che la
maggior parte delle demenze si manifesta in età senile. Secondo le stime più attendibili, le sindromi demenziali
colpiscono dal 5 al 15% dei soggetti con più di 65 anni d’età, oltre il 20% di quelli con più di 80 anni e più del 50% di
quelli con età superiore ai 95 anni.

In realtà, le sindromi demenziali si manifestano con incidenza esponenziale nelle varie fasce d’età, a partire dall’età
puberale. I deficit intellettivi congeniti o insorti in età prepuberale, invece, vengono descritti come oligofrenia, come
frenastenia, oppure come insufficienza mentale, congenita o/o acquisita. Negli ultimi 25-30 anni, quello delle demenze è
diventato un problema non soltanto medico, ma anche, e soprattutto, sociale.

La demenza non è una entità nosografica, propriamente detta, ma un aggregato sindromico, un gruppo di condizioni
cliniche, caratterizzate da una sorta di progressiva perdita “a ritroso” delle acquisite competenze bio-psico-sociali
dell’individuo, che può regredire sino a livelli di funzionamento quasi neonatale. Questo processo può essere considerato
esclusivamente intrapsichico solo nella sua prima parte. Con il suo progredire, la sintomatologia demenziale si esprime
in termini più propriamente neurologici ed internistici.

Le demenze si collocano tra le poche condizioni psico-morbose nelle quali è compiutamente validato, in psichiatria, il
concetto di “malattia”, cioè d’insieme di segni e sintomi con chiari correlati fisiopatologici cerebrali. Lo studio delle
demenze permette il superamento del dualismo psiche/soma, dimostrando, inequivocabilmente, che il comportamento
umano, normale o patologico, ha il suo substrato nell’attività cerebrale. Il termine “malattia mentale”, se implicitamente
contrapposto a “malattia organica”, e, quindi, espressione del dualismo mente/corpo, è da considerarsi ormai
anacronistico e riduttivo.

La ricerca e la clinica, in psichiatria, tende da decenni al superamento del dualismo mente/corpo ed all’affermazione,
invece, della loro indiscutibile unitarietà. L’integrazione della psichiatria e della neurologia può portare ad una migliore
comprensione, ad una più accurata definizione diagnostica e ad un miglior trattamento, delle malattie mentali, non più
fittiziamente distinte in “funzionali” ed “organiche”.

In psichiatria, ma anche in ogni altra branca medica, resta, comunque, criticabile il limitare la terapia ad interventi
puramente biologici. Se l’uomo è un’unità bio-psico-sociale, se la salute è benessere bio-psico-sociale, come sostiene
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualsiasi approccio terapeutico, a qualsiasi malattia, dovrebbe sempre essere
integrato, con interventi non solo medico-biologici, ma anche di tipo psicoterapeutico e socio-riabilitativo. Le demenze, in
quanto malattie acquisite del cervello, con chiari correlati sia neurobiologici sia psicopatologici, sono emblematiche di
questo più corretto approccio integrato alla vita mentale, in termini non solo teorici e diagnostici, ma soprattutto clinici e
terapeutici.

Invecchiamento e demenza
L’invecchiamento si accompagna a modificazioni caratteristiche nella fisiologia degli organismi viventi. I meccanismi
molecolari dell’invecchiamento sono probabilmente modulati da fattori genetici, all’interno di un più vasto programma
evolutivo. Allo stesso modo in cui alcuni geni selezionano le varie fasi dello sviluppo, altri sembrano programmare i
processi d’involuzione della cellula, sino alla sua morte.
L’età cronologica di un individuo non corrisponde necessariamente alla sua età biologica e non è possibile individuare
un’età precisa, che faccia da discrimine fra l’età matura e la senescenza. L’invecchiamento è un fenomeno rilevante sul
piano psico-socio-relazionale. Esso si associa, spesso, ad impoverimento economico, solitudine, progressiva perdita dei
ruoli sociali e familiari, oltre che alla consapevolezza dell’inevitabile e progressiva riduzione delle aspettative di vita. Con
l’invecchiamento, il cervello va incontro a modificazioni anatomo-funzionali anche rilevanti, non molto dissimili sul piano
qualitativo, ma non quantitativo, da quelle che si osservano nella demenza d’Alzheimer (AD).

Il peso ed il volume cerebrale si riducono con l’invecchiamento. Il peso si riduce a partire dai 55 anni e verso gli 80 anni
la riduzione di volume è dell’ordine del 10-15%. Il sistema ventricolare si dilata. I solchi corticali si allargano e si
approfondiscono. Le circonvoluzioni cerebrali, soprattutto a livello frontale e temporale, si assottigliano. Il cervello va
incontro a fenomeni complessivi d’atrofia, che interessa prima la sostanza grigia, poi anche quella bianca. La dilatazione
ventricolare e l’allargamento dei solchi sembrano correlati più con l’età che con il decadimento mentale.

La perdita neuronale tipica della senescenza cerebrale è di circa il 10-20%, verso gli 80 anni, per raggiungere il 40%
verso i 90 anni. Essa interessa, in varia misura, le diverse aree cerebrali, in particolare la corteccia frontale e temporale,
interessando prevalentemente i neuroni più piccoli. Nella demenza d’Alzheimer, invece, la perdita neuronale è d’entità
maggiore e riguarda, soprattutto, i neuroni più grandi. Nell’AD si ha, inoltre, riduzione dell’arborizzazione dendritica con
fenomeni degenerativi.

Le placche senili e le degenerazioni neurofibrillari, sono le due lesioni microscopiche, descritte da Alois Alzheimer, che
caratterizzano la malattia che da lui prende l’eponimo. Tali degenerazioni si possono evidenziare anche nell’involuzione
senile fisiologica, ma con minor numero di placche e degenerazione neurofibrillare, solitamente, circoscritta al solo
ippocampo. Altri aspetti neurodegenerativi, correlati all’età, sono: 1. la degenerazione granulo-ventricolare; 2. i corpi di
Hirano; 3. i corpi di Lewy. Queste lesioni sono presenti nel cervello, già a partire dai 20-30 anni. Esse aumentano di
numero, con il passare degli anni.

A parità d’età, sono nettamente più numerose nei soggetti affetti da AD. In varie regioni del cervello si evidenziano,
inoltre, con l’avanzare dell’età: 1. aumento e ipertrofia delle cellule neurogliali; 2. riduzione del liquido extracellulare; 3.
disfunzioni neuroenergetiche neuronali e metaboliche; 4. alterazione della permeabilità della barriera ematoencefalica.
Nella senescenza si evidenzia, inoltre, un aumento del contenuto in gliofibrille negli astrociti, a livello dello strato
molecolare della corteccia (gliosi marginale di Chardin).

Nella demenza d’Alzheimer tale aspetto neurodegenerativo è diffuso anche agli altri strati corticali. Il circolo cerebrale, in
senescenza, subisce delle alterazioni caratterizzate da spiralizzazione e tortuosità vasale, con allungamento delle arterie
perforanti, con irregolarità del calibro delle arteriole intracerebrali e ridotta vascolarizzazione degli strati più profondi della
corteccia cerebrale.

I principali livelli neurotrasmettitoriali risultano ridotti negli anziani, rispetto ai soggetti più giovani. Paradossalmente,
almeno in alcuni casi, la senescenza fisiologica si accompagna a riduzioni dei diversi toni neurotrasmettitoriali, più
accentuati rispetto a quelli presenti nei soggetti con AD. Il sistema colinergico, funzionalmente implicato nel controllo
dell’apprendimento, della memoria, della cognitività e di alcuni aspetti del comportamento, risulta essere deficitario
durante l’invecchiamento cerebrale.
La colin-acetil-transferasi (ChAT) e l’acetil-colin-esterasi (AchE), enzimi responsabili della sintesi e del catabolismo
dell’acetilcolina (Ach), si riducono progressivamente con l’avanzare dell’età. Nell’AD la riduzione dell’attività colinergica è
collegata alla degenerazione neuronale del nucleo basale di Meynert, da cui partono i due principali sistemi colinergici
cerebrali. Nell’invecchiamento fisiologico, la compromissione del tono colinergico cerebrale risulta essere prevalente a
livello corticale.

Il sistema dopaminergico presenta, nella senescenza, una perdita neuronale età-dipendente, con conseguente riduzione
dell’attività pre e post-sinaptica e con deficit degli enzimi implicati nella sintesi della dopamina (DA). Il deficit
dopaminergico induce, nell’anziano, alterazioni tipiche del tono muscolare e della postura, in rapporto a deficit funzionali
localizzati a livello del nucleo striato, dell’ippocampo, del nucleo accumbens e della sostanza nera. Nei gangli della base
e nel liquor dei pazienti con AD, ma non in quelli con demenza vascolare o nei controlli sani, l’acido omovanillico (HVA),
il principale metabolita della DA, risulta ridotto, in misura proporzionale alla gravità del quadro demenziale.

La noradrenalina (NA) regola l’umore, l’attenzione ed il ritmo sonno-veglia. Facilita il consolidamento delle tracce
mnesiche. Condivide con la DA gli enzimi di sintesi e di catabolismo. La NA presenta, con l’invecchiamento, una
riduzione che è più marcata nelle aree ipotalamiche. Il metabolita finale della NA (3-metossi-4-idrossi-fenil-glicole =
MHPG) risulta aumentato nei pazienti con AD, rispetto ai controlli di pari età.

Con l’invecchiamento non sembra ridursi, nel cervello, il contenuto di serotonina (5HT). Ciò induce uno sbilanciamento
del rapporto 5HT / catecolamine, tuttavia il metabolita della 5HT (acido 5-idrossi-indol-acetico = 5HIAA) risulta ridotto nel
liquor, dei pazienti con AD, rispetto a soggetti di pari età.
Il livello cerebrale delle monoaminossidasi (MAO), che intervengono nel catabolismo delle catecolamine (MAO-b) e della
5HT (MAO-a), in particolare delle MAO-b, aumenta con l’età.

Le concentrazioni d’acido gamma-amino-butirrico (GABA) e di glutammico-decarbossilasi, l’enzima responsabile della
sua sintesi, nell’invecchiamento fisiologico e, in misura nettamente maggiore, in quello patologico, si riducono,
soprattutto a livello talamico, con perdita delle capacità d’integrazione delle informazioni e di controllo inibitorio dei
comportamenti involontari e stereotipati.
Con l’avanzare dell’età si assiste ad un progressivo e generale deterioramento delle funzioni neurofisiologiche e
neuropsicologiche. I tempi di reazione si prolungano. Le capacità percettive, nei confronti degli stimoli sensoriali, si
riducono.

Le velocità di conduzione delle fibre nervose subisce una graduale diminuzione, con una sorta di “ritardo sinaptico” di
trasduzione dell’informazione sensoriale e motoria, a livello periferico e centrale. I potenziali evocati subiscono un
aumento delle latenze e una riduzione dell’ampiezza. Le modificazioni neurofisiologiche dell’invecchiamento si
accompagnano a modificazioni neuropsicologiche, di cui sono spesso causa. La rapidità d’esecuzione motoria di molte
attività tende a ridursi.

La capacità d’apprendimento di nuove conoscenze e di nuove abilità manuali diminuisce. Negli anziani è ridotta
l’attenzione e la capacità d’esecuzione di compiti nuovi e complessi. Talora si conservano gli interessi, ma si perde la
capacità di soddisfarli. Le capacità di far fronte, adeguatamente, a situazioni inusuali diminuisce e declina la creatività. Si
riduce la capacità di fissazione di nuovi engrammi mnesici. La memoria a breve termine si riduce, prima e più
rapidamente, della memoria a lungo termine.

Si perde progressivamente, con l’età, la capacità di rievocare contenuti mnesici scarsamente utilizzati, ma restano a
lungo conservate le memorie operative, correlate alle capacità prestazionali del soggetto, nelle sue attività professionali
e quotidiane. Si ha sempre minore capacità di prestare attenzione a più fonti d’informazione, contemporaneamente
attive. L’anziano tende, così, a sottrarsi all’effetto disturbante e distraente d’altre fonti.

Ciò induce sia una ridotta capacità d’analisi degli stimoli sia una memorizzazione lacunosa ed imprecisa. Le attività
mentali tendono al restringimento, alla cristallizzazione ed alla stereotipia del pensiero. L’esperienza viene letta ed
interpretata in senso sempre più generale, secondo categorizzazioni sempre più rigide, che sfociano talora nel
dogmatismo. Quanto deleteria può essere ogni forma di gerontocrazia è facile estrapolare. I tratti caratteriali e
comportamentali degli individui tendono ad esasperarsi, fino a livelli patologici. Il parsimonioso diventa avaro. Il soggetto
deciso diviene testardo.

L’insicuro diviene ansioso e timoroso. Il possessivo diventa francamente geloso. D’altro canto, gli anziani, nella nostra
società, presentano notevoli difficoltà nel trovare ruoli, che li gratifichino. La voglia di socializzare, il bisogno di una vita
affettiva e sessuale degli anziani vengono, spesso, negati, derisi e/o condannati dalla nostra società, per assurdi
preconcetti. In realtà la senescenza patologica può indurre un indebolimento delle capacità di critica e di giudizio, con
perdita del controllo sulla vita istintuale e pulsionale.

In questi casi, possono verificarsi comportamenti abnormi, non solo sul piano sessuale. L’equilibrio psico-emotivo
nell’anziano è più fragile. Traumi e stress, che in altri epoche di vita non avrebbero provocato effetti negativi di rilievo,
possono avere conseguenze gravi, facilitando la regressione verso livelli di funzionamento mentale più primitivi.
Nell’esperienza clinica, a volte, piccoli cambiamenti del ruolo familiare o sociale, delle condizioni economiche,
dell’abitazione (talora anche della stanza nella stessa casa), possono indurre uno scompenso, in rapporto alla scarse
capacità di adattamento dell’anziano.

Traumi, disturbi somatici ed eventi psicosociali avversi possono svolgere il ruolo di fattori di scatenamento, della
sintomatologia demenziale, sino a quel momento, clinicamente latente. Nell’insorgenza della demenza di Alzheimer si
evidenziano, più che nella demenza vascolare, condizioni psicosociali critiche quali: 1. vedovanza (86% vs 28%); 2.
condizioni economiche precarie (79% vs 32%); 3. deficit di integrazione sociale (85% vs 23%). Gli eventi bio-psico-
sociali stressanti, potendo precipitare una demenza latente, vanno opportunamente contenuti, in un’ottica di prevenzione
della patologia.

Aspetti epidemiologici delle sindromi demenziali

I dati epidemiologici relativi alle demenze soffrono di molteplici limiti. La quasi totalità degli studi riguarda le demenze
insorte nella senilità. Ben poche sono le informazioni epidemiologiche relative alle demenze, che insorgono in età più
giovanile, sicuramente in aumento, in seguito alla comparsa, relativamente recente, del cosiddetto AIDS-Dementia
Complex.

Manca un’unitarietà terminologica e diagnostica, condivisa a livello internazionale. Basti pensare che, ancora oggi, non
tutti accettano l’idea di considerare unitariamente la “malattia di Alzheimer”, cioè la forma presenile della malattia, e la
“demenza senile di tipo Alzheimer”, che, già nel 1909, Kraepelin sosteneva essere identiche, sul piano anatomo-
patologico. Inoltre, la gravità della demenza si colloca lungo un continuum e mancano criteri univoci in base ai quali
considerare i singoli pazienti sani oppure affetti da una forma più o meno grave della malattia.
Gli studi, presenti in letteratura scientifica, utilizzano differenti criteri di inclusione, che influiscono sensibilmente sui
risultati. Le prestazioni cognitive, inoltre, cambiano in base al livello socio-culturale del soggetto e, più in generale, in
rapporto alla varietà ed intensità degli stimoli, presenti nell’ambiente, nel quale egli vive.

Secondo alcune indagini epidemiologiche i quadri demenziali conclamati, cioè giunti all’osservazione del medico,
colpiscono il 2,3% dei soggetti fra i 65 ed i 69 anni, passano al 2,8% nell’intervallo 70-74 anni, ed al 5,5% nell’intervallo
75-80 anni d’età, per raggiungere il 22% oltre gli 80 anni. In pratica, quindi, un ultraottantenne su cinque sarebbe
demente. In media, perciò, i dementi conclamati rappresenterebbero il 6% degli ultrasessantacinquenni, con variabilità
dal 5 al 15%, nei diversi studi. Se alle demenze conclamate si aggiungono anche quelle subcliniche e/o latenti, cioè
quelle per cui non è stato richiesto un intervento socio-sanitario, si raggiungono valori di prevalenza percentuale molto
più elevati.

L’esordio subdolo, di molte forme demenziali, rende difficile stabilire, con precisione, l’inizio della malattia. Non
meraviglia che gli studi sul tasso d’incidenza delle demenze siano pochi. È stato, comunque, calcolato un tasso di 2,4
nuovi casi l’anno ogni 100.000 persone d’età compresa fra 40 e 60 anni e 127 ogni 100.000 persone d’età superiore a 60
anni. Per i soggetti d’età superiore a 65 anni, è stata calcolata un’incidenza di 1,5-5 nuovi casi l’anno ogni 1.000 soggetti.
I dati disponibili indicano che le demenze senili rappresentano oltre l’85% di tutte le demenze.

È generalmente accettato che le demenze dell’età senile siano rappresentate per il 55% da AD, per il 20% da demenza
vascolare (DV), per il 20% da forme miste (AD/DV) e per il restante 5% da forme ad eziologia diversa. Diverse
osservazioni cliniche hanno confermato l’esistenza di un alto grado di comorbidità tra diverse forme di demenza
degenerativa e di queste con le demenze vascolari.

La sindrome demenziale nel suo complesso sembra essere più frequente nella popolazione femminile, forse, in rapporto
anche alla larga preponderanza di donne anziane, nella popolazione generale. E’ stata evidenziata, in realtà, una
maggiore prevalenza della DV nel sesso maschile, mentre i dati di prevalenza nel sesso femminile dell’AD sono tuttora
controversi. Diversi fattori socio-ambientali, come il livello socioeconomico, l’ambiente di vita (città/campagna), l’attività
lavorativa, non risultano indurre un diverso rischio per la demenza, ma incidono sui livelli cognitivi appresi, raggiunti e
residui.

La forma presenile della AD ha un’età media di insorgenza intorno ai 60 anni, con un’aspettativa di vita che si riduce da
23 a 7 anni. La forma senile di AD presenta un’età di esordio intorno ai 74 anni e l’aspettativa di vita si riduce da oltre 9
anni a 5. La demenza vascolare ha un’età media d’esordio di circa 67 anni, con un’aspettativa di vita che scende da 14 a
meno di 4 anni.

La sopravvivenza, dopo la diagnosi d’AD, è più lunga nelle donne. Ciò potrebbe dipendere dalle diverse abitudini
dietetiche e voluttuarie, nonché dai diversi contesti di vita e di lavoro, che rendono potenzialmente più precarie le
condizioni fisiche generali degli uomini. Le demenze senili, negli USA, sono al quinto posto tra le cause postnatali di
morte e salgono addirittura al quarto, se si esclude la mortalità giovanile per cause traumatiche.

Quadro sindromico
La patologia demenziale si esprime clinicamente come compromissione globale delle funzioni cognitive (memoria,
orientamento, linguaggio, prassie, gnosie, astrazione), come declino delle capacità intellettive ed attentive, con
conseguente compromissione della vita di relazione e della capacità d’adattamento, alle molteplici e mutevoli esigenze
della vita quotidiana.
Sulla base del decorso clinico e, soprattutto, in rapporto alla patologia cerebrale, di cui è espressione clinica, la sindrome
demenziale può essere descritta come:
1.acuta, subacuta o cronica;
2.regolarmente progressiva, irregolarmente progressiva o non progressiva;
3.reversibile, parzialmente reversibile o irreversibile.

Le sindromi demenziali includono numerosi disturbi ad eziopatogenesi eterogenea, che presentano un quadro clinico
caratterizzato da tre elementi fondamentali. Il deficit delle funzioni intellettive ed attentive è caratterizzato dal passaggio
da un certo livello di performance, precedentemente raggiunto, a livelli più bassi (al contrario di quanto si osserva nelle
insufficienze mentali, nelle quali il deficit è presente fin dall’età infantile).

La compromissione complessiva delle funzioni cognitive coinvolge la memoria e l’orientamento, le capacità fasiche,
prassiche e gnosiche, nonché la possibilità di pensiero astratto. Ciò distingue le demenze da altri disturbi
neuropsicologici, con compromissione isolata di singole funzioni, come i disturbi afasici, nei quali è compromesso solo il
linguaggio, o la sindrome di Wernicke - Korsakoff, in cui è alterata, soprattutto, la memoria.

L’assenza di disturbi del livello di coscienza, nonostante la compromissione cognitiva, distingue le demenze da altre
patologie neurologiche, quali delirium e coma, in cui l’alterazione delle funzioni mnesiche, cognitive ed intellettive è
secondaria al disturbo di coscienza.

I criteri diagnostici delle sindromi demenziali sono sostanzialmente sovrapponibili nei due principali sistemi diagnostico-
classificatori (ICD-X dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed il DSM-IV TR dell’American Psychiatric Association).
In particolare, l’ICD-X, a differenza del DSM IV TR: 1. indica come parte integrante del quadro clinico e dei suoi prodromi
la compromissione del controllo emotivo, del comportamento o delle motivazioni; 2. non considera tra i criteri diagnostici
la compromissione delle capacità socio-lavorative, perché legate al contesto socioculturale; 3. richiede una durata dei
sintomi di almeno 6 mesi per poter porre la diagnosi.

L’approccio diagnostico multiassiale, proposto dal DSM-IV TR, orienta il clinico a prendere in considerazione,
globalmente, la realtà bio-psico-sociale del demente, consentendo una visione della patologia, nelle sue diverse
implicazioni. È inaccettabile oggi, infatti, che una generica diagnosi di “demenza” sia posta senza che siano state
espletate tutte le indagini diagnostiche opportune, al fine di escludere i quadri demenziali potenzialmente reversibili o,
comunque, arrestabili.

E’ inaccettabile che la prognosi sia formulata sulla base della sola diagnosi clinica, senza che siano state valutate tutte le
variabili psicosociali e/o le condizioni generali del soggetto. La gestione di un paziente demente è estremamente
onerosa, necessitando spesso, in fase di invalidità avanzata, di una assistenza continuativa, talora per 24 ore al giorno.

Non è raro che il miglioramento clinico, di alcuni sintomi disturbanti, come l’inversione del ritmo sonno-veglia, l’agitazione
e/o i disturbi ideativi e percettivi (nei quadri più gravi non sono infrequenti le allucinazioni complesse ed i deliri bizzarri),
nonché la gestione di altri aspetti rilevanti sul piano clinico, quali i disturbi dell’alimentazione o del controllo sfinterico,
possano fortemente migliorare la qualità della vita del paziente e dei suoi care givers.

Secondo la definizione proposta dal Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians (1981) «la demenza
consiste in una compromissione globale delle funzioni corticali superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far
fronte alle richieste della vita quotidiana e di svolgere le prestazioni percettivo-motorie, già acquisite in precedenza, di
conservare un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive; tutto ciò in
assenza di compromissione dello stato di vigilanza».

Questa definizione commisura l’importanza e l’entità del decadimento demenziale al tipo di richieste dell’ambiente socio-
relazionale, nel quale l’individuo vive la sua quotidianità. La diagnosi, come sempre in clinica, deve privilegiare, perciò,
l’anamnesi e l’osservazione del paziente, nel suo ambiente relazionale. Il quadro clinico delle sindromi demenziali è
complesso e mutevole, lungo il decorso della malattia, in rapporto al diverso manifestarsi, per tipo e gravità, dei sintomi
deficitari cognitivi e delle risposte d’adattamento psico-emotive, che ne conseguono.

Il paziente con progressivo decadimento mentale demenziale può mantenere a lungo una certa competenza cognitiva,
tale da consentirgli, sia pure in modo progressivamente decrescente, di conservare per lungo tempo consapevolezza
della propria identità, un sufficiente controllo delle proprie azioni, e, talora, qualche capacità di svolgere attività routinarie,
in relativa autonomia. Vengono perse prima le competenze apprese più tardivamente e meno utilizzate nel corso della
vita, anche se il progredire della malattia, nel tempo, può rendere sempre più problematica la possibilità di svolgere, in
modo autonomo, anche le più semplici attività della vita quotidiana.

La sintomatologia demenziale può dipendere da differenti condizioni patologiche, con danni cerebrali più o meno diretti,
più o meno reversibili, più o meno estesi, diversamente localizzati. L’evoluzione clinica e la prognosi, di ogni singolo
quadro clinico, dipende, però, non solo alla natura della sottostante patologia cerebrale, ma anche alle diverse condizioni
premorbose ed al contesto ambientale psico-socio-relazionale.

E’ ovviamente necessario identificare il processo patologico, sottostante al quadro demenziale, attraverso lo studio
dell’evoluzione della sintomatologia, l’obiettivazione di segni e sintomi neurologici, eventualmente presenti, nonché
mediante opportune indagini di laboratorio, neuropsicologiche, elettrofisiologiche e di brain imaging. Particolare
attenzione va posta all’andamento nel tempo della sintomatologia demenziale, che può fornire importanti indizi circa
l’etio-patogenesi del quadro demenziale.

Un andamento regolarmente progressivo è, infatti, indicativo di un’eziologia atrofico-degenerativa, mentre un andamento
irregolare, a scalini, con peggioramenti improvvisi e/o fluttuanti, è più caratteristico delle forme vascolari.

Inquadramento diagnostico delle sindromi demenziali

Nella pratica clinica il termine “demenza” assume significati diversi e viene utilizzato indistintamente per indicare una
sindrome caratterizzata da deterioramento mentale, una condizione morbosa specifica o ancora una perdita più o meno
completa delle abilità cognitive. Le demenze rappresentano una descrizione sindromica, non una malattia, caratterizzata
dalla compromissione di più funzioni cognitive, in assenza di un disturbo dello stato di coscienza. Il deficit cognitivo
richiede l’evidenza, nel paziente, di una regressione, rispetto alle abilità precedentemente sviluppate, con un’entità tale
da interferire sulle attività lavorative e/o sociali, nonché sulla quotidianità.

Gli elementi fondamentali del processo diagnostico sono: 1. l’identificazione della sindrome; 2. la verifica delle sue
cause. Una diagnosi di demenza richiede in primo luogo l’esclusione di una condizione di ritardo mentale e di delirium. Il
concetto di demenza, come sindrome, presuppone etiologie multiple, a diversa espressione ed evolutività clinica. Sono
state identificate oltre settanta diverse condizioni patologiche, che possono essere causare demenza. La maggior parte
dei quadri demenziali è, di fatto, irreversibile e cronica.

Le demenze, però, non necessariamente presentano una tale negativa evolutività. Il decorso e la prognosi della
demenza dipendono, infatti, dalla natura della patologia, cerebrale o extracerebrale, etiopatogeneticamente responsabile
del quadro sindromico demenziale. Se tale patologia è reversibile, se, la diagnosi è precoce e se l’intervento terapeutico
è tempestivo, l’evoluzione e la prognosi della demenza possono essere più favorevoli o meno severe.

In tabella 1, sono elencate le patologie, per le quali è stata individuata una possibile correlazione etiologica, con la
demenza. Per motivi di spazio si rimanda ad altri trattati, per una descrizione dettagliata, di ognuna delle numerose e
diverse patologie elencate.

Tabella 1 - Classificazione etiopatogenetica delle demenze

Demenze Primarie o Degenerative
- Demenza Degenerativa Primaria Tipo Alzheimer o malattia d’Alzheimer (AD)
- Malattia di Pick
- Malattia a corpi di Lewy
- Corea di Huntington
- Malattia di Parkinson
- Paralisi sopranucleare progressiva
- Malattia di Hallervorden-Spatz
- Degenerazione spinocerebellare
- Epilessia mioclonica progressiva
Demenze Secondarie

Demenze vascolari
1. Demenza multi-infartuale
2. Malattia di Binswanger
3. Infarti cerebrali di grosse dimensioni in sedi strategiche
4. Malformazioni artero-venose
5. Vasculiti (panarterite, lupus sistemico)
Demenze tossiche
1. Atrofia cerebrale alcolica
2. Intossicazione cronica da farmaci
3. Metalli pesanti: piombo, mercurio, manganese
4. Composti organici (nitrobenzeni, organofosforici)

Demenze endocrino-metaboliche
1. Ipotiroidismo
2. Ripetuti episodi d’ipoglicemia
3. Deficienza di vitamina B12, acido folico
4. Encefalopatia post-anossica
5. Epatite cronica o encefalopatia da shunt porto-sistemico
6. Encefalopatie mitocondriali (malattia di Wilson)
7. Uremia
8. Effetti non metastatici del carcinoma (sindrome paraneoplastica)
9. Alterazione delle paratiroidi
10. Leucodistrofie
11. Sindrome di Cushing
12. Malattie lisosomiali

Demenze meccaniche
1. Demenza post-traumatica
2. Idrocefalo: ostruzione, infezione subaracnoidea, emorragia
3. Idrocefalo normoteso
4. Ematoma subdurale cronico

Demenze infettivo-infiammatorie
1. Paralisi progressiva (neurolue)
2. Meningiti croniche (tubercolare, micotica)
3. Encefalopatia da AIDS (AIDS Dementia Complex)
4. Sclerosi multipla
5. Malattia di Creutzfeldt-Jakob (ed altre affezioni da virus lenti)
6. Ascessi cerebrali
7. Encefaliti
8. Leucoencefalopatia multifocale progressiva
9. Panencefalite sclerosante subacuta
10. Kuru

Demenze neoplastiche
1. Meningioma
2. Glioma
3. Tumori ipofisari
4. Tumori metastatici
Altre demenze
1. Distrofia muscolare
2. Malattia di Whipple
3. Calcificazione familiare dei nuclei della base.

Semeiotica clinica - Le sindromi demenziali
Considerata l’eterogeneità etiopatogenetica delle demenze e la conseguente variabilità di decorso e di esito, per dare un
senso clinico, diagnostico e terapeutico a quest’eterogeneità, è necessario raccogliere, quanto più ampliamente
possibile, i segni ed i sintomi della malattia, così come tutte le informazioni anamnestiche e strumentali ottenibili, in modo
da poter disporre di tutto ciò che può consentire di giungere ad una diagnosi etiopatogenetica, eventualmente, di mettere
in atto con tempestività i provvedimenti terapeutico-riabilitativi più efficaci.

Una diagnosi etiopatogenetica prevede un iter diagnostico, con una serie d’indagini e d’approfondimenti, che vanno
dall’indagine anamnestica all’esame obiettivo e dalle indagini strumentali all’inquadramento neuropsicologico. Una
diagnosi accurata e tempestiva permette una corretta gestione clinica tanto delle demenze secondarie, talora reversibili,
quanto l’attuazione di tutti quegli interventi terapeutico-riabilitativi necessari per garantire al paziente, con demenza
primaria, il più alto livello possibile di qualità della vita.

1. Esame clinico

Raccogliere l’anamnesi direttamente dal paziente è spesso difficile, se non impossibile. E’ necessario, perciò, intervistare
accuratamente i familiari ed i conoscenti, per ottenere informazioni attendibili e significative. Va indagata accuratamente
l’anamnesi familiare al fine di evidenziare, nel gentilizio, disturbi psichiatrici, neurologici e/o somatici, che possano
essere, in qualche misura, correlati, direttamente o indirettamente, con la patologia demenziale. L’anamnesi fisiologica
consente di escludere insufficienze mentali, congenite o acquisite o ritardi dello sviluppo psicomotorio, oppure di
valutarne l’effettiva entità, rispetto alla patologia attuale.

E’ importante raccogliere informazioni circa il livello di scolarità, il curriculum studiorum, la formazione lavorativa e la
storia occupazionale, nonché le abitudini dietetiche e voluttuarie. L’anamnesi patologica remota potrà fornire informazioni
su malattie neurologiche, psichiatriche o somatiche, traumi cranici ed altre condizioni morbose, che, in qualche modo,
possono aiutare ad un migliore inquadramento della patologia demenziale in atto. Particolare attenzione deve essere
posta alla patologia endocrina e neurologica, ma anche all’esposizione ad agenti neurotossici. Informazioni di particolare
rilievo clinico derivano dall’anamnesi patologica prossima.

Va indagato, accuratamente, l’esordio del quadro clinico e la sua evoluzione. E’ importante rilevare l’eventuale
manifestarsi, in coincidenza con l’esordio della demenza, di segni e sintomi neurologici. È necessario, inoltre, acquisire
un quadro, il più possibile esauriente, della personalità premorbosa, dello stile comportamentale del soggetto, del livello
di adattamento sociale, del livello di integrazione sociale, poiché le prime ipotesi diagnostiche possono essere formulate
in base alle modificazioni del comportamento, in ambito familiare, lavorativo e sociale, nonché in base a significative
variazioni dei tratti di personalità.

Si dovrà indagare come e in quale misura sono cambiati interessi e abitudini, il tipo e l’entità del deficit mnesico, attentivo
ed intellettivo, del linguaggio, delle gnosie, delle prassie, l’eventuale presenza di disorientamento temporo-spaziale e/o
d’episodi confusionali, con o senza agitazione psicomotoria, la comparsa d’alterazioni dell’alimentazione, del ritmo
sonno/veglia, della sessualità e dell’igiene personale.

A questo scopo, può essere utile l’impiego di strumenti standardizzati di valutazione, che possono fornire una guida per
un’indagine più completa. Importante è il colloquio con il paziente, dal quale un clinico esperto può trarre numerose e
preziose informazioni, su tutti gli aspetti neurocognitivi e psicopatologici essenziali. Il colloquio può consentire anche di
valutare le capacità di giudizio, di ragionamento e d’astrazione del soggetto.

Quando il paziente giunge all’osservazione, nelle fasi iniziali della malattia, l’inquadramento diagnostico può rivelarsi
difficile ed è allora opportuno far ricorso alla valutazione neuropsicologica, che consente, mediante l’impiego di strumenti
standardizzati di rilevazione, di evidenziare deficit mnesico-cognitivi più fini.

2. Esame obiettivo generale e neurologico

Con l’esame obiettivo generale si verificano le condizioni generali del soggetto, nel tentativo di evidenziare eventuali
segni e/o sintomi di malattie sistemiche, che possano essere in qualche maniera correlate, in senso etiopatogenetico, al
quadro demenziale. Non entreremo nel dettaglio dell’esame obiettivo generale e neurologico per brevità.

L’esame neurologico può evidenziare segni e sintomi di una patologia cerebrale potenzialmente dementigena, anche
nelle fasi precoci del disturbo, fornendo informazioni essenziali sul piano diagnostico, prognostico e terapeutico. Nelle
fasi più avanzate dell’AD, sono normalmente evidenziabili segni neurologici di “liberazione”, per danno delle strutture
corticali di controllo inibitorio, cioè automatismi motori arcaici sottocorticali, presenti nel bambino, prima del
completamento della mielinizzazione cerebrale, come il riflesso palmo-mentoniero, il riflesso glabellare, il riflesso del
muso di Epstein, il riflesso di suzione, il grasping reflex. Segni neurologici sono anche i disturbi che riguardano la
mimica, l’atteggiamento, la postura, l’andatura, la presenza d’eventuali movimenti involontari, come quelli di suzione o di
masticazione, nonché stereotipie, ecc.

La valutazione del tono muscolare può evidenziare ipertonie extrapiramidali e/o oppositive, non di rado deficit della
coordinazione motoria, nonché segni d’eventuali disprassie, quando il paziente è incapace di eseguire la sequenza
motoria, che gli è descritta e mostrata.

3. Valutazione neuropsicologica

La valutazione neuropsicologica è indispensabile, per ottenere una determinazione obiettiva delle risorse cognitive
residue, in funzione dell’impostazione d’interventi terapeutico-riabilitativi più mirati e, quindi, potenzialmente più efficaci.
Numerosi sono gli strumenti d’indagine volti alla valutazione delle funzioni cognitive e della gravità della demenza, tra gli
strumenti più semplici e più diffusi, ricordiamo il Mini Mental State (MMSE), l’Alzheimer’s Disease Assessment Scale
(ADAS) e lo Short Portable Mental Status Questionnarie (SPMSQ).

Particolarmente importanti, nella diagnosi differenziale tra modificazioni cognitive senili e demenziali, sono i test
neuropsicologici, propriamente detti. L’accertamento del deterioramento demenziale dovrebbe prevedere test esploranti
la memoria, le funzioni strumentali e quelle di controllo. In ogni caso è necessario che i test somministrati siano tarati,
per definire un’eventuale compromissione di performance, alla prova specifica. Per poter seguire nel tempo l’evoluzione
del quadro clinico dei soggetti, con diagnosi accertata di deterioramento demenziale, sono utili le scale di valutazione
della gravità e del comportamento, fra cui le più diffuse sono la Clinical Dementia Rating (CDR) e la Global Deterioration
Scale (GDS).

Le scale di valutazione comportamentale esplorano diverse aree della vita quotidiana del paziente e sono usate per
evidenziare i problemi, che il paziente incontra nello svolgimento delle attività quotidiane. Una delle più diffuse è la
Dementia Scale (DS). Altre scale di valutazione comportamentale sono: il Neuropsychiatric Inventory (NPI), la
Behavioural Pathology in Alzheimer’s Disease Scale (BEHAVE-AD), l’ADAS noncognitive subscale, la Behaviour Rating
Scale for Dementia of the Consortium to Establish a Registry for Alzheimer’s Disease (CERAD BRSD), il Cohen –
Mansfield Agitation Inventory (CMAI), la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS), la Cornell Scale for Depression In
Dementia.

L’utilizzo di scale comportamentali, come strumenti di diagnosi della demenza, è spesso fonte di confusione e comporta
il rischio d’imprecisioni e d’errori, con ripercussioni anche gravi, nella pratica clinica. Nei trial farmacologici vengono, di
solito, impiegati anche altri stumenti, con il fine di valutare l’eventuale variazione di alcuni parametri funzionali, tra cui le
scale che valutano il cambiamento clinico globale, come la Clinical Global Impressions (CGI) e la Clinicians Interview
Based Impression of Change (CIBIC). Molti test e scale di gravità e di comportamento richiedono tempi di
somministrazione molto lunghi, anche di diverse sedute, di diverse ore ciascuna.

A scopi clinici può essere utile l’impiego d’interviste strutturate, più brevi e facilmente somministrabili, che evidenziano le
principali informazioni rilevanti per la diagnosi, anche differenziale, e per la quantificazione del danno demenziale. Alcuni
di tali strumenti sono il GMS (Geriatric Mental State Examination), il CAMDEX (Cambridge Mental Disorders of the
Elderly Examination) e il SIDAM (Structured Interview for the diagnosis of Dementia of the Alzheimer type, Multi-infarct
dementia and dementias of other aetiology according to ICD-10 and DSM-III-R).

Semeiotica strumentale

L’esame clinico va integrato con gli esami strumentali generali e specifici. E’ ovviamente necessario valutare i principali
esami di laboratorio. L’esame del liquor viene consigliato, in presenza di demenza ad esordio precoce, per la possibilità
di infezioni e tumori, malattie autoimmunitarie e idrocefalo normoteso. Markers per l’Alzheimer in fase di studio sono: 1. il
dosaggio nel liquor della proteina tau e beta amiloide; 2. lo studio del metabolismo dei fibroblasti. E’ necessario ricercare
altre cause patologiche del decadimento mentale, valutando attentamente la funzione epatica e renale, ma anche
dosando per esempio la vitamina B12 o facendo la sierodiagnosi per lue e HIV. E’ necessario valutare i principali
parametri cardiologici e vascolari, per evidenziare eventuali fattori d’ipoperfusione ematica cerebrale, su base
aritmogenetica e/o aterosclerotica, effettuando per esempio un eco-color-doppler dei tronchi arteriosi sovraortici.
Particolare rilievo assume l’esplorazione elettrofisiologia del SNC e le più complesse tecniche di brain imaging.
1. Neurofisiologia delle demenze

Le indagini elettrofisiologiche, quali l’elettroencefalogramma (EEG) ed i potenziali evocati, hanno contribuito alla
comprensione dei correlati neurofunzionali di queste patologie. Nei pazienti con demenza, di qualsiasi origine, è
evidenziabile un’alterazione più o meno marcata dell’attività bioelettrica cerebrale. L’EEG rappresenta la somma delle
differenze di potenziale, esistenti tra diverse aree cerebrali, corticali e sottocorticali. L’assetto neurofunzionale della
demenza è studiato, soprattutto, mediante i potenziali evocati ed in particolare, con la valutazione delle loro componenti
più tardive, maggiormente influenzate da fattori cognitivi.

1 a. Elettroencefalogramma

Anomalie EEG, con un diffuso rallentamento dell’attività di base, sono state evidenziate in pazienti dementi, già nel 1937,
agli albori della neurofisiologia clinica. Ulteriori studi hanno confermato queste prime osservazioni, rilevando un
rallentamento della frequenza del ritmo alpha e la maggior presenza d’attività theta e delta. Le ricerche successive non
hanno permesso di identificare anomalie qualitative e/o quantitative del pattern EEG, che fossero specifiche della
patologia demenziale.

L’EEG classico è un mezzo diagnostico efficace nell’evidenziare i segni d’encefalopatia organica diffusa, ma con scarsa
specificità nella diagnostica differenziale. L’introduzione dei calcolatori digitali, nell’ambito della neurofisiologia clinica, ha
permesso la trasformazione del segnale EEG da analogico in digitale. Ciò ha consentito diversi tipi d’analisi matematica
del segnale, allo scopo di identificare parametri quantificabili dell’attività bioelettrica cerebrale.

E’ stato possibile elaborare, così, gli spettri di potenza, derivati dall’analisi di frequenza (trasformata di Fourier) che
determinano, per ciascun intervallo di frequenza, il livello d’energia bioelettrica registrata, in una specifica derivazione
cerebrale, in un definito intervallo di tempo. Con l’elaborazione computerizzata topografica è stato possibile avere una
rappresentazione spaziale (mappe EEG) di distribuzione di tale attività bioelettrica, nelle diverse aree cerebrali. Gli studi,
con queste tecniche d’analisi quantitativa dell’EEG, hanno confermato, nelle demenze, il decremento del ritmo alpha e
l’aumento diffuso delle frequenze theta e delta.

Hanno localizzato tali anomalie, talora focali, in prevalenza in sede fronto-temporale, soprattutto nell’emisfero di sinistra.
Sono stati condotti studi che hanno evidenziato una correlazione tra deterioramento cognitivo e diversi parametri EEG,
ma non sono state identificate alterazioni specifiche, per i pazienti affetti da demenza. L’EEG quantitativo può essere un
ausilio nella conferma della diagnosi di demenza di tipo Alzheimer, ma la sua validità nel processo diagnostico
differenziale è piuttosto limitata.

Alcuni studi hanno sottolineato l’utilità di un approccio combinato con EEG quantitativo e tecniche di neuro-imaging
(RMN – TAC - PET) nell’identificare anomalie morfofunzionali, in pazienti con un quadro subclinico ed iniziale di
demenza di tipo Alzheimer. Secondo alcuni Autori, nelle forme ad esordio presenile, sono riscontrabili alterazioni
localizzate, prevalentemente, in corrispondenza delle regioni temporali posteriori dell’emisfero sinistro, mentre nei casi
ad esordio più tardivo le alterazioni prevalgono a livello delle regioni medio-frontali e frontali anteriori, di entrambi gli
emisferi.

Nei pazienti affetti da demenza multinfartuale (MID) le anomalie EEG sono localizzate, di solito, nelle zone di sofferenza
vascolare. Nei pazienti affetti da morbo di Parkinson, con un quadro clinico di demenza, l’EEG quantitativo ha mostrato
anomalie bioelettriche non specifiche. L’EEG resta molto utile nel porre diagnosi di demenza di Creutzfeldt-Jakob anche
se, a volte, è necessario sottoporre il paziente a ripetute registrazioni, se le prime non mostrano grafoelementi specifici.

Questi pazienti mostrano alterazioni EEG con onde lente appuntite e diffuse od onde lente difasiche e trifasiche, che si
ripetono con intervalli di tempo di 0,5-1,5 sec e che possono avere lunga durata. E’ stato, inoltre, evidenziato un pattern
EEG simile a quello presente nelle fasi di sonno non-REM, con un’attività dominante diffusa a 0,5-4 cicli il secondo.

Nei pazienti affetti da AIDS- Dementia Complex sono stati osservati rallentamenti, predominanti sulle regioni frontali, di
entrambi gli emisferi. In uno studio è stato descritto un tracciato EEG, di una bassa ampiezza, correlato spazialmente al
grado d’atrofia, visibile alla TAC. In conclusione, quindi, l’analisi quantitativa EEG può essere utile, quando la diagnosi
resta incerta, dopo un’approfondita indagine del quadro clinico.

1 b. Potenziali evocati

I potenziali evocati sono oscillazioni elettriche generate in diverse aree cerebrali, in rapporto alla presentazione di
determinati stimoli. Essi presentano diverse componenti. Le più precoci compaiono entro 100 msec dalla presentazione
dello stimolo, originano a livello tronco-encefalico e presentano caratteristiche dipendenti dal tipo di stimolo. Le
componenti intermedie compaiono in un intervallo di tempo compreso tra i 100 e i 250 msec.

Sono influenzate, oltre che dal tipo di stimolo, anche da vari fattori neurofisiologici. Le componenti più tardive, dette
anche potenziali evento-correlati, non risentono significativamente delle caratteristiche dello stimolo. Sono dipendenti
dall’attività corticale e sono influenzate da processi cognitivi come l’attenzione, la valutazione dello stimolo e la memoria.
In particolare, una deflessione positiva che comprende, dopo circa 300 msec, la P300, sembra riflettere la velocità di
valutazione e categorizzazione dello stimolo. Un aumento della latenza della P300 è stato descritto nell’invecchiamento
fisiologico.

Molti studi hanno dimostrato latenze significativamente più ampie, di questa componente tardiva, in pazienti affetti da
diverse forme di demenza, rispetto a soggetti sani di pari età. Secondo alcuni studi le anomalie nella latenza di comparsa
dei potenziali evocati sono già presenti nelle fasi precoci di malattia. Un’altra componente, questa volta negativa, la
N200, sembra comparire in ritardo in pazienti con demenza. La componente intermedia positiva, P200, risulta in ritardo,
nei soli pazienti con Morbo di Parkinson. Nei pazienti affetti da demenza secondaria ad AIDS si osserva un significativo
aumento della latenza delle componenti P200 e N300, dopo stimoli acustici, e, in alcuni casi, la loro completa
scomparsa.

2. Brain imaging

E’ sempre consigliabile effettuare almeno un esame diagnostico per immagini, in tutti i pazienti con sintomatologia
demenziale. Le tecniche di brain imaging identificano le cause reversibili di demenza (tumori, ematomi, idrocefalo),
aiutano la definizione delle demenze ad etiologia vascolare e sono utili nel valutare il grado di danno atrofico, nelle
demenze neurodegenerative.

La Tomografia Computerizzata (TC) identifica chiaramente l’atrofia corticale e l’eventuale ampliamento dei ventricoli,
condizioni tipiche della malattia d’Alzheimer e delle altre demenze degenerative, anche senza mezzo di contrasto.
L’utilizzo di un mezzo di contrasto e.v. permette di accertare la presenza di lesioni focali meno estese e di varia natura
(vascolare, tumorale, etc.).
La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) ha un più alto potere di risoluzione rispetto alla TC. Distingue sulla base della
differente densità protonica la sostanza grigia dalla bianca. Permette di identificare sia lesioni focali sia alterazioni diffuse
e facilita la diagnosi differenziale fra demenze neurodegenerative e demenze vascolari.

La Positron Emission Tomography (PET) è usualmente utilizzata per la diagnosi precoce e la diagnosi differenziale,
nonché per valutare specifiche alterazioni della perfusione ematica cerebrale.

Si rimanda a specifiche trattazioni per maggiori dettagli.

Malattia di Alzheimer

Descritta per la prima volta nel 1907 da Alois Alzheimer, la malattia demenziale, che da lui prende il nome, era
considerata relativamente rara, nello scorso secolo. Oggi si sa che è una delle forme di demenza più diffuse nella
popolazione. Rappresenta circa il 55% di tutte le demenze. La malattia di Alzheimer è, specialmente nelle società
industriali, con una speranza media di vita in costante aumento, una delle principali cause di invalidità e morte, nell’età
avanzata.

La malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease – AD) è divenuta, negli ultimi anni, uno dei maggiori problemi di salute
pubblica. La ricerca delle basi etio-patogenetiche della malattia appare, quindi, di primaria importanza. La prevalenza è
stimata nei diversi studi da un minimo dell’ 1% ad un massimo del 9,1%, nella popolazione in età senile. Prevale nel
sesso femminile e presenta una spiccata familiarità. Bassi livelli d’istruzione e di stimoli culturali possono essere fattori
favorenti l’insorgere di una demenza precoce.

1. Neuropatologia

La AD si presenta con diffusa atrofia cerebrale, più marcata nei lobi temporali anteriori, e con allargamento delle cavità
liquorali. Dal punto di vista microscopico si osservano una serie di reperti caratteristici, di seguito brevemente descritti.
Depositi d’amiloide, sottoforma di:
a.placche neuritiche, fatte da un nucleo centrale di fibre, con attorno detriti di neuroni e glia;
b.placche diffuse, con materiale proteico amorfo, non molto aggregato in fibre;
c.angiopatia congofila (amiloide si colora al rosso Congo), con i vasi corticali e meningei infiltrati di amiloide nella parete
muscolare.

Alterazioni del citoscheletro All’interno del neurone si ritrovano dei filamenti di tubulina (componente normale dei tubuli)
disposti, però, in modi diversi dalla norma (p.es. ad elica) che si accumulano nel citoplasma (degenerazione
neurofibrillare) o nei dendriti. Questi fenomeni dipendono da un’anomala fosforilazione della proteina tau, precursore
della tubulina, ma sono aspecifici.

Rarefazione neuronale Nei lobi frontali e temporali, la corteccia si riduce del 30-40% in spessore, soprattutto a carico del
III e V strato. Alcuni nuclei sottocorticali sono ancora più colpiti, come il nucleo dorsale del rafe o il nucleo basale di
Meynert. Tutti questi nuclei proiettano, diffusamente, alla corteccia e la loro degenerazione contribuisce alla riduzione del
tono di neurotrasmettitori, soprattutto d’acetilcolina. In ogni strato corticale si ha una riduzione del numero di sinapsi, fino
al 50%. Sembra che la quantità d’amiloide non sia direttamente correlata alla demenza, mentre lo è il numero di
neurofilamenti, presenti in corteccia. S’ipotizza che l’amiloide si accumuli innocuamente con l’età, ma diventi patologica,
quando si aggrega in filamenti alfa.

2. Ipotesi etiopatogenetiche

Un ruolo rilevante, nella genesi dell’AD, è svolto da un peptide detto proteina beta, aggregato in forma d’amiloide,
responsabile della degenerazione neuronale e sinaptica dei neuroni. La proteina beta è neurotossica in misura
proporzionale alla sua aggregazione in filamenti d’amiloide. Mutazioni puntiformi del gene, che codifica per la proteina
precursore (APP) si riscontrano in forme familiari di AD. La proteina beta è normale nella sua struttura. E’ l’eccessiva
produzione ed il suo accumulo intra ed extraneuronale ad avere effetti patologici. Nell’AD si accumula, per vari motivi
(difetto di maturazione, di escrezione, difetto nei segnali di riconoscimento della proteina). Vengono riportate di seguito
diverse ipotesi etiopatogenetiche.

Ipotesi genetica Fin dagli inizi del secolo sono state descritte famiglie, nelle quali più di un membro andava incontro a
AD. Studi più recenti su alberi genealogici più ampi e più dettagliati, hanno consentito di ipotizzare una trasmissione di
tipo autosomico dominante della malattia. Lo studio delle proteine, implicate nella patogenesi dell’AD, e dei geni che le
codificano con l’uso di tecniche di linkage genetico hanno permesso la caratterizzazione del difetto genico nella forma
familiare (Familial Alzheimer Disease – FAD).

È noto, infatti, che fattori di genetici svolgono un ruolo di primo piano, nell’etiologia d’alcune forme di malattia
d’Alzheimer. In letteratura è stata descritta una forma familiare, ad esordio precoce, di AD. Numerose famiglie, con
molteplici casi affetti, suggeriscono una modalità di trasmissione di tipo mendeliano autosomica dominante. Esse sono
state studiate con tecniche di linkage allo scopo di localizzare i geni corresponsabili di tale forma familiare. Pazienti affetti
da sindrome di Down (trisomia del cromosoma 21) che sopravvivevano sino a 35-40 anni, sviluppavano un quadro di
demenza che assomigliava strettamente alla malattia d’Alzheimer, sia da un punto di vista clinico che istopatologico.

Il fatto che il gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP) fosse ugualmente localizzato sul
cromosoma 21 lo rendeva un gene candidato altamente probabile, anche se le osservazioni iniziali non permettevano di
riscontrare nessuna evidenza certa di un ruolo diretto del gene APP, nella produzione della malattia. In seguito, è stata
identificata una mutazione specifica nell’esone 17, del gene codificante per la proteina APP, in alcune famiglie
originariamente positive per il linkage, con marcatori del cromosoma 21.

In questi casi, una mutazione puntiforme era responsabile della presenza di un diverso aminoacido, nella struttura della
proteina (Val vs Leu) con la produzione di una proteina anomala, che poteva ragionevolmente essere considerata un
potenziale determinante etiologico della malattia. Il complesso problema dell’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è
stato indagato sulla base di dati sperimentali.

Alcuni Autori, hanno proposto un secondo locus responsabile d’alcune forme familiari d’AD ad esordio tardivo,
localizzato sul cromosoma 19. L’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è suggerita anche da caratteristiche
epidemiologiche e cliniche. Un linkage positivo è stato dimostrato, in famiglie di pazienti con un quadro clinico ad esordio
precoce, con una modalità di trasmissione di tipo dominante ed un marcato deficit cognitivo (la “sindrome alogica di
Reich o sindrome delle 4 A”con: amnesia, afasia, aprassia ed agnosia). I casi d’AD ad esordio tardivo, invece, mostrano
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