LA RIPETIZIONE CHE DIFFERISCE E LA DIFFERENZA CHE SI RIPETE

Pagina creata da Stefano Lazzari
 
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LA RIPETIZIONE CHE DIFFERISCE
E LA DIFFERENZA CHE SI RIPETE

Finora abbiamo visto che l’eterno ritorno, attraverso le
molteplici sintesi del tempo in cui arriva e attraverso il
quale passa, appare talvolta come un ritorno della Differenza
e altre volte come un ritorno dello Stesso. Ciò che non
abbiamo ancora spiegato è come, in ciascuna sintesi, riemerga
questa interpretazione del ritorno, che la collega allo stesso
in modo inevitabile per renderlo pensabile per se stesso. In
effetti, al esporre ogni tempo incontrato primariamente in un
ritorno del differente, perché il ritorno dello Stesso
riappare ancora e ancora? Come nasce dunque l’interpretazione
di un eterno ritorno dello Stesso?

La condizione della possibilità di questa interpretazione si
trova nell’immagine rappresentativa del pensiero. Ricordiamo
la quadruplice radice dell’immagine del pensiero: identità nel
concetto,      analogia     nel    giudizio,     opposizione
nell’immaginazione e somiglianza nella percezione. Tutte le
differenze e tutte le ripetizioni sono pensate con queste
categorie nell’immagine rappresentativa del pensiero. Sotto
questo giogo, il pensiero non può pensare né alla differenza
né alla ripetizione se non presentandosi nuovamente. Ciò che
il pensiero rappresentativo dimentica è quello che

Lo Stesso, l’identico, ha un significato ontologico: la
ripetizione nell’eterno ritorno di ciò che rimane (la
ripetizione di ogni serie implicante). Il simile ha un senso
ontologico: l’eterno ritorno del diviso (la ripetizione della
serie implicita) […] l’eterno ritorno che provoca se stesso
trasformando una certa illusione […] produce un’immagine di
identità come se fosse la fine del diverso. Produce
un’immagine di somiglianza come effetto esteriore dello
“smarrito”. Produce un’immagine del negativo come conseguenza
di ciò che afferma […]. Di quell’identità, di quella
somiglianza e di quel negativo, si circonda e circonda anche
il simulacro. Ma è precisamente un’identità, una somiglianza,
un negativo simulato. Gioca con essi come con un fine sempre
fallito, come con un effetto sempre deformato, come con una
conseguenza sempre sviante.

L’eterno ritorno è diventato quella “sfera il cui centro è
ovunque e la circonferenza da nessuna parte”. Identità,
analogia, somiglianza e negazione hanno solo un significato
simulato; sono solo l’illusione che il cerchio centrifugo
proietta quando gira a una velocità assoluta. Ciò non
significa che questi presupposti della rappresentazione
cessino di esistere o che debbano essere assolutamente
esclusi. “È semplicemente una questione nel comprendere che
queste nozioni derivano, che non sono principi, che sono
prodotte (e prodotte da ciò che è diverso)”. Infatti, se
l’eterno ritorno è della Differenza, se si dice
dell’affermazione più estrema del caso, implica che include
anche lo Stesso, il Simile, l’Analogo e l’Opposto, anche se
non come principi che spiegano l’evoluzione della differenza,
ma come derivazioni che derivano dalla Differenza.

Dal senso ontologico al senso simulato esiste un legame
necessario. Il secondo deriva dal primo, cioè rimane alla
deriva, senza autonomia o spontaneità, un semplice effetto
della causa ontologica che gioca con esso come la tempesta. Ma
come potrebbe la rappresentazione non trarne vantaggio? Come
potrebbe la rappresentazione non nascere di nuovo, nella
concavità di un’onda, a favore dell’illusione? Come poteva non
fare un “errore” per illusione? […]. Quindi si presume che la
differenza non valga, non esista e non sia pensabile se non in
un Sé preesistente che la comprende come una differenza
concettuale e che la determina mediante l’opposizione dei
predicati. Si presume che la ripetizione non sia valida, non
esiste e non sia pensabile ma in base a un Identico che la
pone come una        differenza       senza   concetto,   spiegata
negativamente.

L’eterno ritorno, essendo la massima affermazione della
divergenza, sostiene come illusione l’immagine che il pensiero
rappresentativo forma di se stesso e che fa della differenza
una differenza concettuale e la ripetizione una differenza
senza un concetto. L’immagine rappresentativa del pensiero è
una delle serie che coesiste nell’eterno ritorno e, come tale,
restituisce anche: “la ri-presentazione e i suoi presupposti
ritornano, ma una volta, una sola volta, una volta per tutte,
eliminati tutte le volte “, perché costituiscono una delle
molteplici serie possibili e, una volta che è stata scoperta
come un’illusione, non possiamo continuare a pensare
all’eterno ritorno- allo stesso modo.

Una   volta   che   conosciamo   la    provenienza   dell’immagine
rappresentativa, possiamo iniziare a pensare alla differenza e
alla ripetizione insite nell’eterno ritorno senza questo
giogo. La differenza appare quindi come ciò che si ripete
incessantemente in ogni divenire e la ripetizione è ciò che
esiste solo differenziandosi. Restituisce eternamente la
ripetizione della differenza e la differenza della
ripetizione. “La differenza non cessa di ritornare in ciascuna
delle sue differenziazioni, in ciascuna delle sue differenze.
Il paradosso è immediatamente percepibile: la differenza si
ripete differenziandosi … Ogni volta che la dimensione-
differenza ritorna, restituisce differenze, quindi entrambi su
un altro livello, su un altro piano, in un’altra dimensione.
L’interpretazione deleuziana dell’eterno ritorno in Nietzsche
si basa su questa correlazione di differenza e ripetizione “.

I diversi ritorni che abbiamo trovato in ogni sintesi trovano
la loro unità dalla Differenza che, ripetendosi, genera
molteplici differenziazioni. Tuttavia, ci si potrebbe chiedere
“Che cosa ci autorizza a parlare della differenza, della
molteplicità? La ripetizione divergente e quindi avvolgente,
come l’unità immediata del multiplo o la coerenza dell’univoco
… Lo Stesso, in quanto prodotto della ripetizione e non
identità originale, è il sì della differenza. Ecco perché può
essere chiamato “interno”: differenza che “differisce”,
interiorità senza identità, dentro e fuori “.

In questo senso, la differenza si confonde con la terza volta,
il tempo aionico dell’eterno ritorno che si riferisce alle
differenze ripetute tra di esse. “Il tempo è la differenza
delle differenze, o ciò che mette in relazione le differenze
tra loro. È la differenza interna, la differenza “in sé”: una
cosa che non esiste se non differenziando se stessa e che non
ha altra identità se non quella di differire da se stessa, o
un’altra natura da dividere cambiando la sua natura […]. Il
tempo è simultaneamente l’Anonimo e Individuante: impersonale
e non qualificabile, fonte di ogni identità e di ogni qualità.
“. È dall’eterno ritorno della Differenza che può essere
pensato da se stesso e non da categorie di rappresentazione
che lo subordinano per essere pensato dal concetto dello
Stesso. Non abbiamo quindi differenze che sono state definite
in relazione a qualcosa di identico (differenze relative) ma
alla differenza assoluta, al potere più alto e più radicale di
differenziazione che ritorna eternamente ripetendosi.

In questo modo abbiamo assistito all’unione tra l’univocità
dell’Essere, l’affermazione della differenza e l’eterno
ritorno. L’Essere è detto allo stesso modo di tutte le entità
che non cessano di ripetere eternamente la differenziazione
finita e illimitata che le attraversa. Il punto casuale non
finisce di tracciare rizomi sulle serie che si ripetono a
diversi livelli. Aión non smette di spezzare la successività
di Cronos per affermare l’eterna simultaneità della linea
retta in cui gli eventi sussistono, insistono e coesistono
virtuali e attualmente. E l’eterno ritorno non smette di
traboccare la coerenza rappresentativa del Sé per strapparla a
nuove individuazioni, a eventi inediti e inauditi.
L’ESSERE NIENTE DELLE COSE

L’annuncio della morte di Dio da parte dell’uomo folle
nietzscheano corrisponde allo svaporare del fondamento, alla
rivelazione della natura illusoria della Verità intesa come
definitiva ed eterna: «[…] tutto è divenuto; non ci sono fatti
eterni: così come non ci sono verità assolute» . Ora, l’invito
di Nietzsche ad «accarezzare con un giuoco tattile il dorso
delle cose», ovvero ad «arrestarsi animosamente alla
superficie, all’increspatura, alla scorza, adorare
l’apparenza», rivela, secondo Severino, la struttura inconscia
della più profonda motivazione metafisica occidentale, che
corrisponde alla volontà che l’ente sia niente. Questo volere
nichilistico dunque non caratterizza solo la filosofia
contemporanea – come sembrava emergere dall’introduzione de
L’anello del ritorno – ma di fatto «tutte le forme e le fasi
del pensiero occidentale, nella misura in cui ciò che tutte le
accomuna è la credenza nel divenire, ossia la convinzione che
tutte le cose stiano e scorrano nel tempo. La credenza che
“tutto scorre e nulla permane” non è solo di Eraclito ma di
tutto l’Occidente».

Tale «fede», che raggiunge il proprio apice nell’evocazione
zarathustriana della fedeltà alla terra, nella proclamazione
del «mondo vero» divenuto favola , nonché nella concezione
della volontà di potenza in quanto interpretazione, sancisce
per Severino la radicale inconciliabilità tra divenire – che
nell’uomo si esplica come libertà e forza creativa – e
l’esistenza di qualsiasi immutabile. Affermare il carattere
storico, diveniente, temporale, contingente, caduco delle cose
significa non poter tollerare, e dunque negare
perentoriamente, l’esistenza di una struttura trascendente,
onnipotente, oggettiva, sia essa intesa nei termini
aristotelici della bebaiotáte arché – cioè del principium
firmiissimum, che poi verrà chiamato «principio di non
contraddizione» – sia essa intesa nei termini del Dio
teologico, del Dio logico o concettuale. Tale struttura
ontologico-conoscitiva, che ancora potremmo definire
hypokeimenon in quanto essenzialità che sta a fondamento come
sostrato sostanziale di qualità che la configurano
particolarmente e accidentalmente, rende in effetti
impossibile la «nientità dell’ente», l’esser niente delle
cose, giacché tutto ciò che è ed accade deve adeguarsi alla
legge in cui questa struttura consiste. Non solo ciò che già
è, ma anche ciò che ancora è inesistente (l’ancor niente),
quando comincerà ad essere, sarà necessariamente sottoposto
alle leggi della presenza di un Dio, e ai principi immutabili
della logica ovvero della sub-stantia immutabile. Se dunque di
tale struttura si ammette l’esistenza, il carattere stesso del
divenire viene contraddetto, poiché ciò che la fede nel
carattere transeunte delle cose intende come l’«ancora niente»
diventa qualcosa che ascolta e obbedisce alla voce della
legislazione immutabile della struttura eterna. Il nulla come
scaturigine degli enti diventa così un «ascoltatore
dell’essere»: il niente si costituisce per Severino come un
che di essente. La contraddizione tra senso del fluire storico
ed esistenza dell’immutabile consiste dunque in quella
dinamica che il filosofo definisce «nientificazione del
niente», la quale neutralizza di fatto la possibilità stessa
del divenire come libertà.

Uno degli esempi addotti da Severino per argomentare la
proclamazione nietzscheana della morte di qualsiasi struttura
immutabile è tratto dall’opera Così parlò Zarathustra. In
particolare, nel capitolo intitolato Sulle isole beate ,
Zarathustra afferma: «Ma, affinché vi apra tutto il mio cuore,
amici: se vi fossero dèi, come potrei sopportare di non essere
dio! Dunque non vi sono dèi. […] che cosa mai resterebbe da
creare, se gli dèi – esistessero!». L’evidenza originaria che
qui viene a emergere, rileva Severino, è quella della
creatività dell’uomo: tale creatività convoca infatti la
questione ontologica laddove in essa si condensa il senso del
divenire. L’atto creativo presuppone infatti la provenienza
dal nulla di ciò che è creato: «creare» è innovazione assoluta
che eleva a essere ciò che prima era «assolutamente niente», è
scaturigine di qualcosa ex nihilo. Ma se esiste un Dio
immutabile, se esistono «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il
Satollo e l’Imperituro» , allora la creatività dell’uomo
diventa impossibile, poiché non può essere più qualcosa che
proviene dal nulla, ma qualcosa che ancora una volta proviene
da una struttura eterna e ad essa deve obbedire e adeguarsi.

Appare a questo punto necessario riconvocare il dilemma
ontologico posto inizialmente: se Nietzsche – proclamando la
morte di Dio – intende negare l’esistenza della struttura
eterna, questa non si ripropone nella forma della dottrina
dell’eterno ritorno, confutando l’evidenza del divenire e
della volontà di potenza come innovazione e forza creatrice?

DELLA DECADENZA DEL PENSIERO
OCCIDENTALE

Si è compreso che nella speculazione heideggeriana la storia
della metafisica è concepita come un destino, di cui
l’imposizione tecnica non è altro che l’esito definitivo.
Nell’interpretazione heideggeriana la metafisica è «un
accadimento ancora nascosto e tuttavia eminente, cioè
l’accadimento dell’oblio dell’essere». È in questi termini che
la storia della civiltà occidentale viene interpretata come la
storia di una decadenza, in cui dell’essere non ne è più
nulla. L’interpretazione heideggeriana mira ad interrogare le
cause che hanno condotto l’uomo occidentale a tale
dimenticanza, mettendo in discussione le tappe attraverso cui
è passato il pensiero metafisico e analizzandone le
distorsioni.

Secondo Heidegger la prima grande deviazione del pensiero
operata dalla metafisica risale a Platone e riguarda
l’interpretazione che questi dà del concetto di verità.
Originariamente l’ἁλήθεια, in conformità alla sua etimologia,
indica il non-nascondimento, il disvelamento, l’apertura in
cui viene a manifestarsi l’essente, «l’essenza della verità si
svela come libertà, e questa come il lasciar-essere e-sistente
che svela l’ente». Al contrario il platonismo, con un
rovesciamento fatale per l’intero sviluppo del pensiero, fa
coincidere la verità con la correttezza (ὀρθότης) del
giudizio. In tal modo, l’essenza della verità come
disvelamento dell’ente viene meno e si trasforma
nell’adaequatio intellectus ad rem, ossia nella conformità del
giudizio alla cosa. Tale capovolgimento è dovuto ad un’errata
interpretazione di un altro concetto, quello di ἰδέα. Platone
fa derivare l’ἰδέα dall’ ἰδέἶν, dal “vedere”, cioè da qualcosa
che appartiene al modo dell’apprendere, che dipende da colui
che vede. Così l’ἰδέα non viene più «compresa a partire
dall’ente e dal suo carattere fondamentale, la presenza, ma
come l’immagine riflessa e, per così dire, come il risultato
di determinate comprensioni e rappresentazioni». Si trova qui
la prefigurazione di quell’a-priori soggettivo da cui si farà
dipendere la possibilità dell’esperienza e in particolare di
ogni oggetto dell’esperienza identificato con l’essente.
All’interno di questo fraintendimento trova terreno fertile
l’interpretazione della verità con la corrispondenza tra la
cosa e l’idea sulla base della loro somiglianza.

L’esattezza del vedere, la correttezza del percepire e
dell’asserire esauriscono così il nuovo concetto di verità,
oramai radicalmente diverso da quello originario. Questa
inversione risulta essere decisiva per il futuro sviluppo
della metafisica e per l’esito cui perviene, ragion per cui
l’imporsi della tecnica planetaria viene inquadrato
all’interno dei fraintendimenti platonici. La tecnica odierna
«può essere compresa solo a partire dall’inizio della
posizione fondamentale dell’Occidente di fronte all’ente come
tale nella sua totalità», è alla luce di ciò che Heidegger si
muove in direzione di una riflessione intorno al binomio
concettuale φύσις/τέχνη, intravedendo nel mondo greco un
rapporto strettissimo e nondimeno necessario tra queste
nozioni.

La τέχνη, originariamente ben diversa dalla connotazione che
acquista per noi moderni, risulta essere l’atteggiamento
fondamentale nei confronti della natura, cioè nei confronti di
ciò che si manifesta da sé, spontaneamente, è l’atteggiamento
determinante in cui «si dispiega e nel contempo però anche si
consolida la custodia dello stupefacente, dell’essere-essente
dell’ente». La τέχνη è una modalità di stare di fronte
all’ente, di avere a che fare con esso, ma non nella maniera
dell’impiegare e del manipolare, riducendolo a un mero oggetto
tra gli altri. Al contrario, si tratta di un lasciar-essere,
di un modo genuino di scoprire l’ente, di «comprendere l’ente
che si dischiude a partire da sé nel suo mostrarsi in quanto
qualcosa, nel suo aspetto, εἶδος, ἰδέα».

É con queste parole che Heidegger fa emerge il nodo
problematico della questione. Nel momento in cui, come si è
detto, Platone fa derivare l’ἰδέα dall’ ἰδέἶν, quindi dal
“vedere”, l’ente si svela nel suo puro “aspetto”, che è
riconducibile alla comprensione che di esso ne ha il soggetto
conoscente. Ma in quest’ottica, se la τέχνη è una modalità di
stare di fronte alla totalità dell’ente, ciò che giunge a
manifestarsi in essa allora non sono altro che «le visioni
dell’ente che inevitabilmente e sempre di più in tale
comprensione giungono allo sguardo, ossia le “idee”», le
rappresentazioni, che dipendono dallo sguardo del soggetto
conoscente. La τέχνη diviene così il suolo per la
trasformazione della verità in ὁμοίωσις, cioè nella conformità
della cosa alla rappresentazione di essa, per cui l’ente si
svela come ciò che è posto dal soggetto all’interno di un
giudizio valutativo. Per tal ragione, al posto della tonalità
emotiva fondamentale dello stupore (θαυμάζειν) di fronte al
mistero del venire a manifestarsi dell’ente, subentra
l’avidità di conoscere, prevedere e calcolare. Siamo all’alba
di quel pensiero «calcolante» che si imporrà nel pensiero
occidentale e che, a partire da Galileo, verrà fatto proprio
dallo sviluppo trionfale delle scienze esatte, fino a
determinare l’avvento della tecnica moderna.

L’AVVENTO                 NECESSARIO                   DEL
NICHILISMO

Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il
ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era
vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza,
una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato
creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono
dinamite. […] Ma la mia verità è tremenda: perché fino a oggi
si chiamava verità la menzogna.

Questo è ciò che Nietzsche afferma nel suo singolare scritto
Ecce homo (1888), dove l’enigma della sua persona sembra
intrecciarsi alla storia della crisi del pensiero occidentale.
Le premesse di questa crisi storica e culturale sono quelle
che abbiamo visto nel capitolo secondo: il riconoscimento del
processo che porta l’uomo a creare delle verità per
conservarsi, la svalutazione dei valori tradizionali che ha
come evento cardine la morte di Dio e la critica alla morale.
Con l’annuncio della morte di Dio, Nietzsche si riferisce al
particolare modo di pensare dell’uomo europeo e a quella
volontà del nulla insita nella sua fede; caratteristica
fondamentale di ciò è il fatto che vi sia nell’uomo il bisogno
di dare un senso alla sua esistenza e di cercarlo
metafisicamente al di fuori della vita stessa, meccanismo che
porta, con l’aiuto degli asceti, a ripudiare la vita terrena.
Il nichilismo è direttamente collegato alla morte di Dio in
quanto    meccanismo      di   risposta     al   crollo     di
quell’interpretazione del mondo che vigeva come unica e
assoluta, come Nietzsche scrive nel giugno del 1887 a Lenzer
Heide:

Ma le posizioni estreme non vengono scalzate da posizioni
moderate, bensì da altre, inverse, che siano a loro volta
estreme. E così la credenza dell’assoluta immoralità della
natura, della mancanza di senso e di scopo è l’affetto
psicologicamente necessario, quando non si può più sostenere
la fede in Dio e in un ordine essenzialmente morale. Il
nichilismo appare ora non perché il dolore dell’esistenza sia
maggiore di prima, ma perché si trova diffidenza a vedere un
«senso›› nel male e nella stessa esistenza. Un’interpretazione
è tramontata; ma poiché vigeva come l’interpretazione, sembra
che l’esistenza non abbia più nessun senso, che tutto sia
invano.

La mancanza di una base che interpreti l’esistenza in maniera
totale, sotto tutti i suoi aspetti, porta alla conseguenza
opposta: «nulla è vero, tutto è permesso». Dunque Nietzsche si
fa testimone e profeta del crollo dei valori, di questo
«grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due
prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico
e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli
spettacoli». Quando ha avuto inizio tutto questo? Come abbiamo
visto nel Crepuscolo degli idoli, l’introduzione stessa dei
valori nel mondo coincide col nichilismo, che ha quindi inizio
con il dualismo platonico tra mondo sensibile e mondo
intelligibile, con il porre i valori eterni nel mondo
ultraterreno (il mondo vero), a scapito di quello terreno (il
mondo apparente, fenomenico), portando a quel disprezzo verso
la vita di cui è simbolo il Dio cristiano. Inoltre proprio la
caratteristica della morale tradizionale di ricercare la
verità, intesa come qualcosa di più profondo del superficiale,
si rivolge contro di essa. Sempre nel frammento di Lenzer
Heide del 1887, scrive: «ma tra le forze promosse dalla morale
c’era la veridicità: questa si rivolge infine contro la
morale, ne mette a nudo la teleologia, la considerazione
interessata». Nietzsche si assume il compito e la
responsabilità di annunciare questo destino:

Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo
ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente:
l’avvento del nichilismo. Questa storia può essere raccontata
già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo
futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia
dappertutto; tutte le orecchie sono già ritte per questa
musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove da
gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio
in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe:
inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole
sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare.

Allo stesso tempo è anche consapevole del carattere
nichilistico della morte di Dio e del fatto che questo evento
è «fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla
capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già
arrivata anche soltanto notizia di esso», poiché su questa
fede si fondava e si teneva in piedi «tutta la morale
europea». Infatti il nichilismo europeo nasce propriamente con
la morte di Dio, ma la fede cristiana era malata sin dalla
nascita:
La fede è sempre tanto più ardentemente desiderata, tanto più
urgentemente necessaria, laddove manca la volontà: la volontà
infatti, come passione del comando, è il più decisivo segno di
riconoscimento del dominio esercitato su se stessi e della
forza. […] tutte e due le religioni mondiali, il buddhismo e
il cristianesimo, potrebbero aver avuto la loro base
d’origine, e a un tempo il segreto della loro repentina
diffusione, in una mostruosa malattia della volontà. E in
verità così è accaduto: entrambe queste religioni si
imbatterono nell’esigenza di un «tu devi» innalzata
all’assurdo da una malattia della volontà, e progredente fino
alla disperazione; entrambe queste religioni furono maestre di
fanatismo in epoche di snervamento della volontà e pertanto
offrirono a innumerevoli uomini un appoggio, una nuova
possibilità di volere, un godimento del volere. il fanatismo è
difatti l’unica «robustezza del volere» alla quale possono
essere portati anche i deboli e gli incerti […] Quando un uomo
giunge alla convinzione fondamentale che a lui devono essere
impartiti ordini, diventa «credente»; inversamente, si
potrebbe     pensare     un    piacere     e    un’energia
dell’autodeterminazione, una libertà del volere, in cui uno
spirito prende congedo da ogni fede, da ogni desiderio di
certezza, adusato come è a sapersi tenere su corde leggere e
su leggere possibilità, a danzare perfino sugli abissi. Un
tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence.

La libertà di volere può comunque rimanere in una situazione
intermedia, quella tra la fede nella scienza del positivismo e
il pessimismo della debolezza. La logica interna del
nichilismo è individuabile nella lotta tra volontà del nulla e
volontà di vita, dove si ha inizialmente un prevalere della
prima, non solo in riferimento agli ideali ascetici, ma anche
per quanto riguarda il pensiero pessimista in stretta
correlazione col nichilismo passivo. È necessario che lo
spirito superi il nichilismo, oppure, finché non sarà chiara
la direzione del volere, preferirà sempre volere il nulla. «In
seguito alla morte di Dio, conseguenza della veracità e della
credenza nella morale coltivata dalla stessa tradizione
cristiana, si viene a creare un vuoto di senso: il fondamento
ultimo sul quale era stata costruita l’esistenza umana viene
improvvisamente a mancare. […] Nietzsche percepisce
chiaramente il rischio di una deriva nichilista della società
e della cultura e costruisce perciò la sua proposta filosofica
sulla necessità di riempire il vuoto lasciato dalla morte di
Dio».

Questa degenerazione antropologica diagnosticata da Nietzsche
ha come unica cura l’affermazione della vita, che avviene
attraverso il contromovimento della trasvalutazione dei
valori, che da un lato presuppone il nichilismo e dall’altro
ne è la cura. Egli è consapevole di essere il profeta della
decadenza e del nuovo inizio della storia europea; inizio in
cui risuona l’annuncio dell’eterno ritorno, che ha come
presupposto un    uomo   in   grado   di   superare   se   stesso:
l’oltreuomo.

IL DEMONE-PËTR                             STEPANOVIČ
VERCHOVENSKIJ

Pëtr Stepanovič Verchovenskij è la pubblica figura demoniaca e
il principale agitatore dell’attività rivoluzionaria politica
in “I demoni”. In questo personaggio Dostoevskij concentra
tutto il suo odio verso la nuova generazione di radicali
nichilisti. Modellato sulla figura di Sergei Nechaev, Pëtr
Verchovenskij è spesso etichettato come uno “sporco pidocchio
umano”, un “rettile”, una “canaglia”. Tuttavia, c’è un’altra
etichetta che deve essere applicata a esso, che definisce
accuratamente il ruolo che interpreta nei Demoni- quello di
terrorista.

Verchovenskij è il capo di una organizzazione clandestina
(chiamata nel romanzo “la cinquina”) che, ha come obiettivo
principale, la distruzione o almeno la rottura di una parte
dello Stato attraverso l’uso della violenza sistematica. Come
principale terrorista di questo gruppo, Verchovenskij si
dedica completamente alla causa rivoluzionaria, andando spesso
oltre gli ideali di qualsiasi altro affiliato. Di conseguenza,
viene spesso guardato dai suoi compagni rivoluzionari e
cospiratori politici con sgomento e sospetto. Verchovenskij
interpreta il ruolo del principale terrorista rivoluzionario
in “I Demoni”, un ruolo che lo vede superare l’Uomo del
sottosuolo e Raskolnikov nel uso distruttivo dell’ideologia.
Il suo ragionamento va oltre il desiderio di soddisfare gli
ideali radicali, poiché non si sviluppa mai in un dibattito
autocosciente sul fatto che uccidere per questo sia moralmente
giusto o sbagliato. Pëtr Verchovenskij manipola, avanza e alla
fine uccide a piacimento. È un uomo totalmente infatuato dal
concetto di distruzione universale e non permette a nulla e
nessuno di ostacolare la causa rivoluzionaria. Di conseguenza,
si trova nella letteratura di Dostoevskij come simbolo
dell’individuo completamente radicalizzato divenuto il vero
terrorista.

Indispensabile per Pëtr Verchovenskij è la capacità di
mantenere relazioni umane per l’inganno e la menzogna. In
tutto il romanzo, detiene una posizione di potere tra i
seguaci, sostenendo di essere il rappresentante di
un’organizzazione rivoluzionaria mondiale situata in Europa.
Rafforza la sua posizione presentandosi alle riunioni della
propria società segreta accompagnato dal compagno di viaggio e
idolo, il misterioso Nikolaj Stavrogin, presunto membro
fondatore di questa organizzazione straniera. Niente di tutto
ciò è vero, non esiste un comitato centrale straniero e
l’affermazione che ci sono centinaia di gruppi attivi come il
suo in tutta la Russia è dubbia. Le bugie di Verchovenskij
sono il tentativo di Dostoevskij di replicare ad alcune delle
ingannevoli tattiche rivoluzionarie utilizzate da Nechaev per
acquisire autorità sugli altri; sebbene usato solo come
modello per la creazione di Verchovenskij, molti dei tratti
della personalità di Nechaev vengono designati su questo
personaggio. Nechaev dichiarò infatti di essere il
rappresentante ―No. 2771 della sezione russa dell’Alleanza
rivoluzionaria mondiale: queste credenziali erano state
firmate dal mentore e complice Michael Bakunin, timbrato con
il sigillo del Comitato centrale dell’Alleanza rivoluzionaria
Europea. Il comitato non è mai esistito ed è stato
semplicemente usato da Nechaev per aumentare la propria
importanza e la propria autorità. Verchovenskij afferma di
essere l’organizzatore di società segrete in tutta la Russia,
diffonde proclami, semina sedizione e sta preparando una
rivolta contro il governo attraverso la quale “abbatterà tutto
con un crollo: lo Stato e le norme morali”. Per riuscirci,
tuttavia, ha bisogno dell’aiuto, della fiducia e dell’impegno
leale dei seguaci; qualcosa che otterrà con la forza se
necessario.

Irving Howe approfondisce il dibattito sul ruolo di impostore
di Verchovenskij in “I demoni”, nel saggio critico
“Dostoevskij: The Politics of Salvation”, ( “Dostoevskij: La
politica della salvazione” N.d.T.) mostrando come questo
personaggio finge di parlare in nome del socialismo al fine di
mascherare l’impegno per la distruzione e il caos. Howe tocca
un punto importante che fa luce su un’altra accusa diretta da
Dostoevskij alla nuova generazione nichilista: la loro
tendenza a usare l’idealismo come uno stendardo dietro il
quale erano nascoste le vere intenzioni politiche.
Verchovenskij è ben consapevole che è essenziale mascherare i
suoi ideali apocalittici e terroristici con una sorta di scopo
progressista, accettabile per la causa. Lo fa attraverso
l’ideologia socialista di Shigalyov, il teorico della
organizzazione terroristica segreta. In una scena che rivela
una personalità ingannevole, Verchovenskij inizialmente esalta
Shigalyov per i suoi ideali, ma quasi immediatamente dopo lo
schernisce rispetto alla soluzione di dividere l’umanità in
due parti disuguali, un decimo della quale godrà della
completa libertà di personalità e dei diritti sui restanti
nove decimi, che saranno trasformati attraverso la coercizione
in una mandria obbediente. ―”Non vogliamo l’ordine Shigalyov,
perché è qualcosa di troppo buono. Questo è un ideale.” “Ciò
potrà avvenire solo in futuro.” Shigalyov è un esteta o un
pazzo. Verchovenskij coinvolge Stavrogin in una conversazione
accesa che presto osserveremo più da vicino. Verchovenskij
rifiuta di riconoscere i piani rivoluzionari di altri, come
quelli concepiti dagli Shigalyov negli anni 1860 e 1870,
poiché guardano al futuro nella speranza che un giorno si
possa stabilire una società funzionante in cui gli individui
possano avere uguali diritti. Le sue idee, tuttavia, vietano
qualsiasi tipo di pianificazione futura. In quello che sembra
essere un approccio contraddittorio e irrazionale, la risposta
di Verchovenskij ai problemi socio-politici della Russia
risiede nella completa distruzione della società. Per questo
motivo, anche se tenta di presentarsi come socialista,
Verchovenskij considera sospettosamente l’ideologia socialista
come un ostacolo che contrasta il proprio principio di
distruzione totale. In questo, si riconosce la creazione di
Verchovenskij da parte di Dostoevskij, come di un individuo in
cui il radicalismo raggiunge l’apice. In esso tutti gli ideali
rielaborati e rimodellati dell’intellighenzia radicale russa,
da Herzen a Bakunin, a intellettuali come Chernyshevsky e
Pisarev, culminano nel desiderio indomabile della distruzione
totale da cui sembra essere accecato.

Al fine di ottenere una corretta comprensione del dibattito di
Dostoevskij sul terrorismo e la violenza politica in “I
Demoni”, è essenziale osservare i pensieri rivoluzionari di
personaggi come Shigalyov in modo più dettagliato. Come
sottolinea Leatherbarrow, Shigalyov non è un malfattore
ossessionato dalla distruzione, né è lo sciocco che la sua
visione paradossale dell’uguaglianza può fargli credere di
essere. Shigalyov rappresenta il tipico sognatore, un
“Fourier” come lo identifica Verchovenskij, che ha capito che
la teoria socialista alla fine è imperfetta. Lo scopre
osservando ciò che la maggior parte dei sognatori sociali di
quel tempo spesso trascurava: la natura egoistica
incontrollabile dell’uomo. È nel sottotitolo Da Virginsky
nella seconda parte del romanzo, che Shigalyov esprime la sua
teoria rivoluzionaria. In questa sezione, Dostoevskij consente
al lettore di accedere all’incontro clandestino tenuto da
Verchovenskij con la propria società segreta, composta dai
cinque scelti: Liputin, Virginsky, Lyamshin, Shigalyov e
Tolkachenko. Sono presenti anche altri individui con
aspirazioni radicali, come tre insegnanti, uno studente, un
maggiore dell’esercito, uno allievo e due personaggi centrali
del romanzo: Alexei Kirilov e l’omonimo dello studente
assassinato Ivanov, Ivan Shatov. A partecipare all’incontro
con Verchovenskij, c’è Stavrogin, ufficialmente non un membro
della società segreta, ma comunque simbolo di autorità. I
presenti si sono riuniti per discutere una soluzione
all’inaccettabile situazione socio-politica della Russia.
Ognuno ha portato i propri ideali su come la società dovrebbe
cambiare; non tutti però hanno la possibilità di parlare.
Shigalyov si distingue chiaramente nella discussione con la
propria teoria. La visione di un paradiso terrestre ottenuta
attraverso la separazione dell’umanità in uomini liberi e
seguaci obbedienti ricorda gli ideali presentati nel libro
“Delitto e castigo” di Raskolnikov e nell’ideale di
Chernyshevsky del Palazzo di cristallo. In effetti può essere
visto come una continuazione di quegli ideali. In entrambi,
l’uomo può raggiungere la felicità solo attraverso la
restrizione della libertà e, come chiaramente sottolineato nel
“l’Uomo del sottosuolo”, alla fine ne verrà privato. Shigalyov
immagina una società fondata su principi rivoluzionari di
libertà, uguaglianza e fraternità. Tuttavia, ammette anche
che: “Temo di essere piuttosto confuso nei miei elementi e la
conclusione è in diretta contraddizione con l’idea originale
da cui sono partito. Partendo dalla libertà illimitata, sono
arrivato al dispotismo illimitato”. Sembra che Shigalyov abbia
scavato abbastanza in profondità nella natura dell’uomo per
capire che l’eguaglianza e la libertà sono impossibili sotto
il dominio del dispotismo, perché l’egoismo innato dell’uomo
alla fine cercherà un modo per liberarsi dalla sua presa. Si
rende conto che il paradiso terrestre alla fine diventerà un
luogo in cui l’uomo diventerà schiavo. Qui traspare
l’interrogativo di Dostoevskij sui principi del pensiero
dell’Europa occidentale in affermazioni contraddittorie. Le
paure per il tipo di impatto che il socialismo avrebbe avuto
in Russia si riflettono chiaramente nel riconoscimento da
parte di Shigalyov di un grave problema all’interno della
propria teoria.

Tuttavia, Shigalyov rimane uno dei membri della società
segreta di Pëtr Verchovenskij. Questo può sollevare domande
sul tipo di ruolo che interpreta in “I Demoni”: Shigalyov è un
teorico sociale? È un terrorista rivoluzionario? Un
nichilista? La stessa domanda può essere posta sugli altri
personaggi principali del romanzo, un fatto che fa luce sulla
natura enigmatica di questo libro. Dostoevskij è stato spesso
criticato per aver frainteso il movimento radicale russo nel
suo insieme e per aver usato la figura di Nechaev per
rappresentare le intenzioni dei rivoluzionari della fine del
XIX secolo. Ernest Simmons identifica l’errore di Dostoevskij
in “I Demoni” come radicato nella mescolanza indiscriminata di
nichilisti e terroristi rivoluzionari.

Questo punto di vista, tuttavia, non è del tutto esatto.
Mentre è vero che Dostoevskij usò la vicenda di Nechaev come
pietra angolare su cui sarebbero stati costruiti “I demoni”,
non ridusse pero, il crescente movimento rivoluzionario in
Russia, a un atto di violenza commesso da un rivoluzionario.
Ciò che Simmons sembra aver trascurato, e ciò che Dostoevskij
voleva rivelare nel romanzo: è che la creazione di una
filosofia del nichilismo all’interno del movimento
rivoluzionario russo aveva il potere esplosivo di indirizzare
coloro che ne erano influenzati in diverse direzioni, compresa
quella del terrorismo rivoluzionario. Notiamo che
Verchovenskij, sebbene capo della propria società segreta, è
spesso osteggiato e diffidato dagli altri membri. Nessuno alla
seconda riunione della “cinquina”, in cui si discute della
necessità di uccidere il sospetto traditore Shatov, è davvero
d’accordo con Verchovenskij, e quando Shatov viene
assassinato, Shigalyov rifiuta anzitempo di prendere parte
all’assassinio. Inoltre, l’immagine finale che abbiamo di
Verchovenskij alla fine di “I demoni”, è quella di un
individuo solitario che lascia una scena disseminata dei
cadaveri dei seguaci. Cominciamo a vedere come, anziché
categorizzare il movimento rivoluzionario sotto un’unica
etichetta, Dostoevskij abbia di fatto intenzionalmente dotato
i personaggi di “I demoni” con personalità diverse e spesso
contrastanti con soluzioni politiche per i problemi della
Russia. Il messaggio ai lettori riguardava l’inevitabile fine
autodistruttivo che i cospiratori radicali avrebbero
incontrato nel uso della violenza politica come soluzione per
lo stato russo arretrato e autocratico.

L’incontro da Virginsky nella parte II di “I demoni” non si
conclude con la dichiarazione di Shigalyov della teoria
socialista. La disputa tra i presenti continua mentre la
discussione è guidata da Pëtr Verchovenskij lontano dalla
teoria e verso      l’urgente    necessità    di   un’azione
rivoluzionaria:

Lascia che ti chieda quale preferisci: il modo lento che
consiste nella composizione di romanzi sociali e la secca
pianificazione priva di fantasia dei destini dell’umanità tra
mille anni, mentre il dispotismo inghiotte i bocconcini di
carne arrosto che volerebbero in bocca a se stessi, ma che non
riesci a raccogliere o sei a favore di una soluzione rapida,
qualunque essa sia, che finalmente scioglierà le tue mani e
che darà all’umanità ampio spazio per ordinare i suoi affari
sociali in modo pratico e non sulla carta? Gridano: cento
milioni di teste; beh, questa potrebbe essere solo una
metafora, ma perché averne paura se con il lento dispotismo
dei sogni ad occhi aperti di carta tra un centinaio di anni
divorerà non cento ma cinquecento milioni di teste?

La grande capacità di Verchovenskij di manipolare gli altri
intorno a esso e influenzare l’opinione pubblica verso i
propri obiettivi, si manifesta ora. Dostoevskij inizia a
rivelare le reali intenzioni di Verchovenskij in queste pagine
come quelle di un uomo che sembra aver trovato un modo per
aggirare l’età del socialismo e che non sembra disturbato
dall’idea di uccidere un milione di persone se questo
garantirà lo sviluppo socio-politico del suo paese. Ciò che
manca fino a questo punto, tuttavia, è una teoria ragionevole
che sostituirà quella di Shigalyov. Le opinioni di
Verchovenskij sono supportate da un altro membro, Lyamshin,
che in risposta alla teoria di Shigalyov esprime la sua
opinione: “da parte mia, invece di metterli in paradiso,
prenderei questi nove decimi di umanità, e non sapendo che
farne, li farei saltare in aria, lasciando solo un piccolo
numero di persone istruite che vivrebbero felici”. Il
suggerimento barbaro di Lyamshin propone una soluzione più
rapida ed efficace al problema. La sua affermazione
intensifica la discussione e introduce il lettore alla
capacità distruttiva dei concetti e degli ideali sollevati
all’interno del gruppo rivoluzionario di Verchovenskij. Non
passerà molto tempo, tuttavia, prima che lo stesso
Verchovenskij esprima il proprio piano, un piano che ha tenuto
a lungo segreto agli altri membri. Di natura così diabolica,
lo schema è rivelato solo a un altro personaggio, Stavrogin,
perché come vedremo ora, è grazie a esso che le idee
apocalittiche di Verchovenskij verranno messe in moto.

Dopo l’incontro da Virginsky, Pëtr Verchovenskij si precipita
a incontrare il compagno Stavrogin in privato. Stavrogin non
sa che è stato identificato da Verchovenskij come la pietra su
cui verrà realizzato il suo piano: alla scoperta di questo,
rimane stupefatto quanto il lettore nel capitolo di “I
demoni”, intitolato “Ivan il Principe ereditario.” In questo
capitolo lo vediamo passare da capo autonomo di
un’organizzazione segreta a un cospiratore di distruzione
oltrepassato da uno stato di frenesia selvaggia. Verchovenskij
tiene un discorso a Stavrogin sul obiettivo di espandere la
rete della cinquina in tutta la Russia.

La dichiarazione è la seguente: “creeremo disordini politici …
non credete che creeremo disordini politici? Creeremo un tale
sconvolgimento che le basi dello Stato saranno distrutte ».
Verchovenskij sottolinea la necessità di ” qualcosa di più
immediato, qualcosa di più elettrizzante ” che si verifichi se
il sistema socio-politico russo deve cambiare. Tuttavia, lo fa
in un modo particolare, paradossalmente tornando a una
dichiarazione d’amore per un concetto che cerca di includere
nel piano di distruzione universale: la bellezza. Il tentativo
iniziale di Verchovenskij di persuadere Stavrogin ad unirsi a
esso nella diffusione dello sconvolgimento politico diventa
un’esaltazione della magnificenza del suo amico. Il cronista
di “I demoni” racconta la scena:

Stavrogin sei magnifico! Gridò Verchovenskij quasi in estasi.
― Sai che sei magnifico? La cosa bella di te è che a volte non
lo sai … Adoro la bellezza. Sono un nichilista, ma amo la
bellezza. I nichilisti non amano la bellezza? L’unica cosa che
non amano sono gli idoli, ma io adoro un idolo. Sei il mio
idolo! … Ho particolarmente bisogno di qualcuno come te. Non
conosco nessuno tranne te. Sei il mio capo, sei il mio sole e
io sono il tuo verme.

Verchovenskij dà al concetto di bellezza un’interpretazione
diversa da quella sostenuta dalla cultura tradizionale di
uomini come suo padre, Stepan Trofimovič Verchovenskij, il
simbolo del liberalismo romantico nel romanzo. Ciò che
Verchovenskij vede in Stavrogin è il concetto di magnificenza
ridefinito dai nichilisti. È la magnificenza della
distruzione, della rivolta, la bellezza che, come scrisse
Dostoevskij in una delle sue lettere: ― i Comunardi videro tra
le fiamme inghiottire Parigi durante gli ultimi giorni della
Comune. È essenzialmente una bellezza vista in una
rivoluzione, una rivoluzione apocalittica che Verchovenskij
desidera innescare e spera che venga condotta dal suo idolo
Stavrogin.

Come indica Murry, la bellezza che Verchovenskij vede in
Stavrogin è una “bellezza assoluta” che non è di questo mondo.
Quindi vede l’amico come il capo rivoluzionario perfetto che
la gente rispetterà e seguirà a causa delle caratteristiche
“simili a Dio” che possiede. Secondo il concetto ridefinito di
bellezza tenuto dai nichilisti, Dostoevskij, attraverso
Verchovenskij, inverte le immagini di autentica bellezza
religiosa nel romanzo da quella di Dio, la sua creazione e suo
figlio Gesù Cristo, il Messia, a quello di Stavrogin, cioè
quella del demone. Del perché la magnificenza di Stavrogin sia
etichettata dalla critica come demoniaca verrà presto
discussa. Ciò che ha bisogno di una risposta urgente in questo
momento è la domanda: cosa spinge Pëtr Verchovenskij? Cosa lo
ha portato a sposare l’impegno per la violenza politica con
l’immagine della magnificenza che vede in Stavrogin? Mentre il
discorso che glorifica Stavrogin ritorna a una dichiarazione
di terrore, i veri motivi di Verchovenskij sono:

Ti rendi conto che siamo già molto potenti? Il nostro partito
è composto non solo da coloro che uccidono e bruciano, che
sparano o feriscono i loro superiori. Queste persone sono a
modo nostro. Senza disciplina nulla ha alcun significato per
me. Vedi, sono un ladro e non un socialista, ah ah ah!
Ascolta, li ho riassunti tutti: l’insegnante che ride con i
bambini verso il loro Dio, mentre la culla è già nostra.
L’avvocato che difende un assassino istruito sostenendo che,
essendo mentalmente più sviluppato delle sue vittime, non ha
potuto fare a meno di assassinare per soldi; è già uno di noi.
Degli studenti che uccidono un contadino per il brivido; sono
già i nostri. Un pubblico ministero, che trema in tribunale
perché non è sufficientemente progressista, è nostro, nostro …
Il dio russo ha già capitolato alla vodka economica.

Come notato da Gomperts, le parole di Verchovenskij evocano
molti dei punti sollevati nella propaganda Nechaev-Bakunin
alla fine del 1860, in particolare nel manoscritto “Il
catechismo del rivoluzionario”, che afferma che la rivoluzione
richiede una completa rottura con tutte le leggi, i codici e
ingiunzioni morali del mondo civile. Fedele al ruolo di
istigatore e manipolatore, Verchovenskij parla in conformità
con il Catechismo e afferma che i mali della società devono
essere amplificati, i disordini devono essere seminati e deve
essere diffusa la sensazione che l’ordine esistente sia
sull’orlo del collasso. Tutto ciò, ovviamente, deve essere
realizzato con l’obiettivo di reclutare il maggior numero
possibile di persone, compresi i contadini, per lottare per la
causa rivoluzionaria. All’interno del movimento rivoluzionario
russo, l’idea di incoraggiare lo spirito rivoluzionario delle
masse contro l’autocrazia era un concetto molto bakunista.
Verchovenskij fa riferimento due volte a un Dio impotente che
ha perso ogni significato in Russia. Convinto che Dio è morto,
si prepara sia per il reclutamento di massa dei rivoluzionari
sia per la rivelazione di un nuovo dio, Stavrogin, che intende
usare come capo della rivoluzione. In questo Dostoevskij crea
un legame tra i concetti di nichilismo e ateismo, una
combinazione di principi che credeva corrompesse la minoranza
rivoluzionaria della Russia.

Pëtr Verchovenskij continua con il proclama di terrore, ormai
quasi in una frenesia di esaltazione, e mentre unisce il piano
di distruzione universale con una speranza messianica, lo
sguardo su Stavrogin si trasforma da quello di ammiratore a
quello di un adoratore:

Ora, una o due generazioni di vizio sono assolutamente
essenziali. Mostruoso, disgustoso vizio che trasforma l’uomo
in un disgraziato, codardo, crudele ed egoista – questo è
quello che vogliamo. E per di più, un po ‘di “sangue fresco” …
Proclameremo la distruzione – perché? perché? – beh, perché
l’idea è così affascinante! Ma – dobbiamo fare un piccolo
esercizio. Avremo alcuni incendi – diffonderemo alcune
leggende. Ogni piccolo gruppo crudele sarà utile … Ci sarà da
fare come il mondo non ha mai visto; la Russia sarà avvolta
dalla nebbia, la terra piangerà per i suoi vecchi dei. E sarà
allora che lasceremo perdere – chi?

―Chi?

―Ivan il principe ereditario.

―Chi?

―Ivan il principe ereditario. Te! Te!

Stavrogin ci pensò un momento..

― «Un pretendente?» Chiese all’improvviso, fissando il pazzo
con stupore. Oh, allora è il tuo piano?

― Diremo che si sta nascondendo ” disse Verchovenskij con
cautela, in una specie di sussurro benevolo, come se fosse
davvero ubriaco.

―Sai cosa significa l’espressione “nascondersi”? Ma apparirà.
Apparirà.

Attraverso un miscuglio di distruzione, mito popolare russo e
speranza messianica, Verchovenskij mira a portare a compimento
il suo fantastico piano terroristico. Anche se può sembrare
chiaro da questa fase (Stavrogin stesso lo sottolinea
ripetutamente) che Verchovenskij è oltrepassato dalla follia,
è essenziale notare l’elemento redentore nascosto in questo
amalgama di idee oscure. In una tecnica di collegamento tra
finzione e realtà spesso usata in “I demoni”, Dostoevskij
mescola ancora una volta finzioni della sua immaginazione con
i fatti; questa volta però aggiunge un elemento leggendario
che risale alla tradizione contadina. Dietro le violente
rivolte contadine del diciassettesimo e diciottesimo secolo
(come quelle guidate dal capo cosacco Pugachev), c’era l’idea
di uno zar in clandestinità che un giorno potrà liberare il
mondo dall’ingiustizia. Il rovesciamento dello zar regnante fu
giustificato dalla convinzione che fosse un falso pretendente
al trono. Pugachev dichiarò infatti di essere lo zar Pietro
III, che era stato ucciso in un complotto politico. In modo
simile a questo mito contadino, Pëtr Verchovenskij intende
collocare Stavrogin al centro del suo piano, identificandolo
come il leggendario Principe Ivan che emergerà dalla nebbia in
cui verrà avvolta la Russia. Stavrogin, per Pëtr
Verchovenskij, incarna le speranze della Russia, attraverso di
esso la Russia sarà redenta ed è in un immagine celeste, che
le nuove generazioni cercheranno una guida. Verchovenskij è
convinto che questa speranza messianica diventerà realtà solo
una volta che la Russia subirà una morte materiale e
spirituale. Per questo motivo ha preso un fermo impegno per il
caos e la distruzione; anche per questo, egli cerca,
attraverso eventi che si svolgono alla fine del romanzo, di
legare i seguaci nel sangue e nella colpa, garantendosi la
lealtà, verso i propri piani rivoluzionari.

La crescita di Pëtr Verchovenskij, un individuo che sacrifica
l’uomo di oggi a un valore falso e illusorio: la promessa
della giustizia assoluta nel futuro. Di fronte a questa
osservazione ricordiamo l’affermazione di Verchovenskij: “Sono
un ladro, e non un socialista, ah ah!”. E l’uso della teoria
di Shigalyov per mascherare i suoi obiettivi distruttivi.
Verchovenskij è in qualche modo emerso dalle crepe della
teoria socialista di Shigalyov per creare un ideale che va
oltre la deprivazione della libertà e della giustizia umana e
verso un ideale più grande e demoniaco: il completo
annientamento del mondo. Con ciò, come essenza della promessa
di futura giustizia assoluta, Verchovenskij si rivela il vero
terrorista nichilista in “I demoni”.
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