La psicologia dello sport tra i costrutti classici e le attuali prospettive

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La psicologia dello sport tra i costrutti classici
                                e le attuali prospettive
                              di Barbara Rossi e Margherita Sassi

Introduzione
La consapevolezza di sé: un nuovo punto di partenza
Autostima e autoefficacia
L’orientamento al compito e al risultato
Stili attentivi e stato di flow
Attivazione, piani pre-gara e regolazione dello stress
La motivazione
Emozioni, resilienza e intelligenza emotiva
Conclusioni

Introduzione

Essere uno psicologo dello sport o un allenatore formato in psicologia dello sport
significa essere pienamente consapevoli che ogni atleta è un individuo unico e
irripetibile, che, per essere allenato, va compreso nella sua totalità e secondo le sue
peculiarità (Bruzzone, 2007).
Prima di analizzare l’utilità della preparazione mentale in ambito sportivo, occorre
precisare che, per favorire la realizzazione di un atleta e per sviluppare, quindi, un
livello crescente di autonomia e di competenza, è consigliabile mirare ad una
scrupolosa formazione della consapevolezza a partire dall’età evolutiva (Bertini,
1999).
Per quanto il desiderio di “scovare” un campione e di allenarlo sia tipico del sistema
sportivo, per farlo è necessario essere consapevoli che il campione è espressione del
suo vissuto, delle sue abilità, della sua visione del mondo e della sua capacità di
affrontare l’incertezza, quindi la vittoria o il fallimento.

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Nel corso degli anni, classificare gli atleti, descrivendoli secondo le diverse tipologie
caratteriali, si è definita come una questione particolarmente complicata, a tal
punto da apparire improbabile. Quello che, invece, è diventato sempre più evidente
e, quindi, oggetto d’indagine, è il valore attribuito al risultato a scapito di quello
abbinato all’impegno. Infatti, va detto che, nel corso di una comune carriera
sportiva, mentre vittorie e sconfitte si susseguono, l’attenzione di chi osserva tende,
molto spesso, a focalizzarsi prevalentemente sui risultati, lasciando spazio a paragoni
ed aspettative, che possono rivelarsi, nel tempo, più o meno pressanti per chi è
costretto a sostenerle (l’atleta). Questo è il meccanismo più frequente in base al
quale l’orientamento dell’atleta si configura sull’io invece che sul compito.
La psicologia dello sport, che in Italia è attiva ormai da mezzo secolo, punta a
diffondere e consolidare l’orientamento sul compito, formando il settore tecnico-
dirigenziale in considerazione delle relative mansioni e competenze, attivando un
processo diretto al miglioramento dell’intero settore sportivo.
In questo senso, va precisato anche che l’atleta è un utente del sistema sportivo, e
tale sistema è capace di influenzarne, in maniera determinante, lo sviluppo, le
motivazioni e, quindi, l’evoluzione complessiva.
In altre parole, un atleta psicologicamente impreparato, per quanto dotato di
talento, potrà rimanere vittima delle smanie di successo di chi lo circonda, che pur di
vederlo vincere, dimenticherà che dietro alla prestazione vive una persona.
Perciò per puntare ad un rendimento esemplare, occorre conoscere e gestire
anzitutto se stessi, sperimentando un processo di consapevolezza che può rendere
protagonista qualsiasi atleta lo desideri, sia dentro che fuori dal campo.
La psicologia dello sport al fine di ottimizzare le abilità mentali dell’atleta - ad
esempio, la resistenza alle avversità - può strutturare dei percorsi ad hoc sia individuali
che di squadra.
La premessa indispensabile a qualsiasi progetto d’intervento è, però, che vada
riconosciuto ad ognuno il suo percorso di miglioramento, a partire dal suo
temperamento, dalla sua storia, dalle sue motivazioni e dalle sue abilità.
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Favorire un’evoluzione naturale vuol dire comprendere e rispettare appieno i bisogni
dell’atleta, la sua persona e l’idea che ha del miglioramento.
Al contrario, porre il talento e, quindi, il risultato al centro dell’interesse e
dell’attenzione generali vuol dire correre il pericolo di confondere il valore della dote
innata con i fattori imprescindibili dello sport quali la volontà, l’impegno,
l’adattamento e l’equilibrio.
La psicologia dello sport, nonostante alcuni fattori umani sfuggano alle definizioni,
può dimostrare, a livello empirico, come sia possibile comprendere ogni atleta ed
allenarlo secondo le sue specifiche possibilità di miglioramento, seguendo delle linee-
guida ispirate ai dati in letteratura attualmente disponibili.

La consapevolezza di sé: un nuovo punto di partenza

Gli psicologi dello sport hanno, finalmente, accantonato l’assurda pretesa degli anni
’80: definire una ricetta “magica”, che potesse soddisfare la smania di vincere tipica
di molti atleti. Il Training Autogeno di Schultz (Hoffmann, 1980) costituisce un esempio
eclatante proprio di questo stesso periodo. Per quanto si tratti di una tecnica di
rilassamento di estrema utilità ed efficacia, essa è stata proposta per un intero
decennio in maniera indiscriminata, mentre oggi si conviene che il TA è utile in
alcune   situazioni   sportive, mentre in     altre può     addirittura scatenare     delle
conseguenze controproducenti.
In seguito, negli anni ’90, la psicologia dello sport ha prodotto una crescente mole di
dati il cui tentativo è stato quello di studiare e sviscerare la personalità dei campioni
per carpirne i tratti e replicarne, così, i comportamenti deputati alla vittoria. Anche
questo filone di studi, però, è stato ben presto archiviato, perché presto in contrasto
con il modello bio-psico-sociale (Engel, 1977) e le concezioni sistemiche (Bertalanffy,
1968) ed ecologiche (Bronfenbrenner, 2002) più recenti.
All’inizio del terzo millennio, infatti, si è compreso che si trattava di un filone di studi
inconsistente e improduttivo, e che bisognava trovare nuovi spunti di ricerca.
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E così, oggi, un interesse peculiare della psicologia dello sport è proprio quello di
educare ciascuna persona all’autoconsapevolezza (Marmocchi, 2004), al fine di
favorire la migliore espressione dei diversi potenziali, prima, durante e dopo lo
svolgimento di una qualsiasi carriera sportiva. Quindi, occorre insegnare agli
allenatori a conoscere meglio loro stessi, ad avvalersi della consulenza di uno
psicologo competente, a capire gli atleti e ad utilizzare le metodologie necessarie
per condurre la persona-atleta verso il migliore rendimento possibile. Punto di
partenza generale ed imprescindibile: la fiducia in sé.

Autostima e autoefficacia

La fiducia nelle proprie risorse, a prescindere dai risultati ottenuti, è un presupposto
fondamentale per profondere il massimo dell’impegno possibile nei propri progetti.
La pratica sportivo-agonistica prende forma attraverso le continue opportunità di
sviluppo di cui l’atleta dispone, posto che naturalmente sussistano l’impegno
necessario ed un corretto metodo di allenamento.
Se, infatti, l’obiettivo è quello di favorire la realizzazione dell’atleta, allora occorre
prevedere una lavorazione scrupolosa dell’autostima, intendendo per autostima il
giudizio complessivo che la persona si dà (Rosenberg, 1965).
Il profilo di un atleta che crede in sé è il profilo di un atleta che, nel corso della sua
carriera sportiva, diventa capace di profondere uno sforzo continuo e costruttivo per
diventare una persona consapevole di sé, coraggiosa nel superare gli ostacoli ed
equilibrata nel tollerare le frustrazioni.
Conferire il giusto peso alle vittorie vuol dire, anzitutto, evitare una completa
sovrapposizione tra il pensiero di sé, come atleta, ed il pensiero di sé, come persona.
Quando, infatti, l’atleta dilaga nella persona, facendola scomparire, la vittoria
diventa delirio di onnipotenza e la sconfitta un fardello insostenibile. Diversamente, se
l’atleta ha una percezione di sé, prima di tutto, in quanto persona, gli sarà più facile

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metabolizzare gli effetti della vittoria o della sconfitta sul piano emotivo, senza
interpretarli in maniera catastrofica.
L’autostima a cui abbiamo già accennato è un concetto composito, più ampio
della fiducia in se stessi, e relativo alle credenze apprese dell’atleta (Pope, 1992); si
modula, gradatamente, attraverso le interpretazioni date ai successi e ai fallimenti
nell’arco della carriera sportiva. In questo senso, i giudizi che esprimono le persone
significative per l’atleta e le parole che l’atleta stesso è abituato a dirsi assumono un
significato decisivo. Nello sport, come nella vita quotidiana, lo stile cognitivo con il
quale si definisce il racconto della storia dell’atleta, è decisivo nell’espressione
dell’andamento prestativo (Massimini, 2000).
L’autoefficacia (self-efficacy), quindi, si differenzia dall’autostima perché è un
costrutto estremamente circostanziato e con un risvolto fortemente pragmatico, non
sempre coincidente con l’autostima; un atleta può avere un’autostima non elevata
ma percepirsi particolarmente abile nel praticare una specifica strategia di gioco,
anche fosse una soltanto. In quella strategia, il profilo dell’atleta registrerà un’elevata
percezione di autoefficacia con conseguenti risultati positivi. Secondo una
definizione di Albert Bandura (Bandura, 1996), per senso di auto-efficacia si intende:
“la percezione e l’insieme delle convinzioni e aspettative riferite alle proprie capacità
di organizzare e realizzare azioni necessarie alla gestione delle situazioni di un
particolare contesto”. Pensare di essere un atleta mediocre ed essere sicuro delle
proprie capacità in una precisa situazione di gara si traduce nella possibilità effettiva
di riuscire ad esprimere il meglio di sé in quello specifico frangente. Dunque, le
convinzioni di auto-efficacia indicano in quale misura e per quanto tempo gli sforzi
saranno mantenuti indipendentemente dagli ostacoli e dalle esperienze spiacevoli.
Quando l’atleta riflette su se stesso ed è, profondamente, condizionato dal pensiero
altrui   o   dai   risultati   personalmente   conseguiti   allora   la   situazione   diventa
problematica; attribuire esternamente la consistenza della propria autostima o della
propria autoefficacia rende, infatti, vulnerabile qualsiasi atleta. Nello sport, la voglia
di lottare sfuma, se le sconfitte ed i giudizi negativi diventano il fulcro dell’attenzione
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e se il piacere di reagire alle difficoltà non trova un senso da abbinare al gusto di
arrivare a destinazione.
Quindi, stando a questi ragionamenti, un allenatore che aiuta a crescere i suoi atleti
è sempre e solo colui che parte dal rispetto per la persona e dall’orientamento sul
compito, considerando l’eventuale vittoria come una conseguenza di quello che si è
fatto fino a quel momento.

L’orientamento al compito e al risultato

L’orientamento alla vittoria - esclusivo o prevalente - è tipico di coloro che tendono
ad abbandonare l’impresa davanti alle difficoltà, a differenza dei fuoriclasse. Si
tratterebbe, infatti, di un orientamento dannoso, fonte di un persistente e corrosivo
confronto con gli altri da parte dell’atleta. Giudicare la vittoria come una conferma
al proprio valore può, infatti, innescare un pericoloso meccanismo di dipendenza dal
giudizio altrui. E sul medio-lungo termine, un simile processo rischia di alimentare lo
spauracchio di tutti gli atleti: il senso d’impotenza appresa (learned helplessness).
L’orientamento al compito contrariamente al precedente, è una trasposizione
moderna e sportiva dell’hic et nunc. Formula con cui gli antichi romani intendevano
la consapevolezza del qui e ora, o meglio la coscienza dell'essere pienamente
presenti a se stessi in una definita ed esatta coordinata spazio-temporale.
Peter Sampras, ex-tennista statunitense numero uno della classifica mondiale per 286
settimane, negli anni ’90, a testimonianza della validità dell’orientamento al compito
di cui sopra, intervistato riferiva come di seguito: “io non cerco mai di vincere un
torneo, neanche un set o un game. Io voglio vincere questo punto!”.
La considerazione assoluta dell’esito finale di una gara induce a sottovalutarne i
passaggi più significativi, che poi sono gli indicatori dei progressi realizzati durante
l’allenamento quotidiano. Quindi, imparare ad analizzare una gara, cosa si è fatto e
come si è svolta, è necessario, per capire cosa è necessario migliorare e cosa,
invece, funziona.
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Vivere la sconfitta in modo equilibrato significa capire cosa non si riesce a fare in
gara, e spinge verso la consapevolezza piena e lucida dei motivi, per cui quella data
strategia non è stata attuata o non è riuscita, riscoprendo così margini di
miglioramento attitudini ancora nascoste.
La convinzione che prendere consapevolezza di un’incapacità sia un’esperienza
traumatica è del tutto irrazionale, e infatti il lavoro da svolgere sui punti deboli di un
atleta è parte integrante del goal setting ed è, quindi, previsto da un qualsiasi
programma di crescita, sul piano sia umano che sportivo.
Così facendo, i limiti possono essere interpretati come dei fattori temporanei,
destinati   a   definire   le   zone   di   crescita   riservate   al   valore   dell’impegno,
dell’allenamento calcolato e delle risorse di partenza.
In pratica, se un calciatore è scarso sul piano tecnico, ma ammirevole su quello
atletico, per esempio particolarmente resistente, è importante fare della resistenza il
suo punto di forza, sia fisico che mentale. E quindi, dopo averla allenata e
perfezionata, bisognerà reinvestire la fiducia prodotta e realizzare, così, un intervento
calibrato sugli aspetti tecnici, quelli per cui servirà uno sforzo maggiore.
Stabilire un dialogo con l’atleta, esercitare l’attenzione dell’atleta sul da farsi, distrarlo
dal pensiero fisso del risultato, ed incentrarne la crescita sulle qualità, sono le
competenze specifiche su cui l’allenatore potrà lavorare. Anteposto che l’intento sia
quello di stimolare la positività dell’atleta a scapito dei punti critici.
Inoltre, va ricordato che ci sono circostanze in cui la criticità dell’atleta coincide
soprattutto con una scarsa attitudine a focalizzarsi sul qui e ora in condizioni di gara,
ed in questo caso occorrerà evidenziarne, soprattutto, lo stretto collegamento con lo
stile attentivo personale.

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Stili attentivi e stato di flow

La capacità dell’atleta di essere lucido e concentrato, sia in gara che in
allenamento, è sinonimo dello stile attentivo che adotta. Esso per quanto sia
personale ed innato può essere migliorato e, quindi, appreso.
La capacità attentiva è raffigurabile, combinando l’immagine delle impronte digitali
- individuali e geneticamente predeterminate - con quella dell’apparato muscolare
- plasmabile con l’allenamento.
Va anche precisato che ciascuna disciplina sportiva, in base delle proprie
caratteristiche, richiede una determinata capacità di attenzione. Per fare un
esempio, nel basket, come negli sport di opposizione in genere, è necessaria la
capacità di giocare tenendo d’occhio più fattori contemporaneamente, si pensi
solo agli spostamenti del pallone, al movimento della propria squadra e alla tattica di
gioco avversaria.
Per fare degli esempi concreti: un cestista avrebbe bisogno della capacità di
considerare più cose contemporaneamente (attenzione ampia) e di focalizzare ciò
che succede all’esterno di sé (attenzione esterna), piuttosto che sul flusso dei propri
pensieri, mentre un arciere necessiterebbe della capacità di stringere il focus
dell’attenzione sul bersaglio (attenzione stretta) e di tenere sempre sotto controllo i
minimi cambiamenti interni (attenzione interna).
A questo punto, diventa significativo evidenziare la definizione degli sport di
situazione, detti anche ad abilità aperte (open skills), discipline in cui all’interno di
regole stabilite, tutto può variare continuamente, sia per i cambi di strategia che per
le circostanze imprevedibili del gioco.
Collegando queste discipline con il relativo stile attentivo si può intuire come l’abilità
mentale in questione aiuti l’atleta a leggere velocemente le situazioni, ad anticipare
gli eventi e ad intervenire, in maniera efficace, con prontezza e decisione.

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Un giocatore, in simili casi, ha il compito di applicare la tattica prestabilita, gestendo
contemporaneamente le contingenze legate al gioco e la ricerca di soluzioni possibili
rispetto agli obiettivi prefissi.
Un’ulteriore categoria da definire, dopo gli sport di situazione, è quella degli sport di
precisione, definiti anche ad abilità chiuse (closed skills), discipline come il tiro con
l’arco in cui l’obiettivo è ripetere sempre lo stesso gesto tecnico, con una precisione
crescente per tutta la durata della gara, supportati da una capacità di
concentrazione, che permetta di rimanere sulla pedana a mirare il bersaglio ad ogni
tiro, per tutto il tempo necessario, calibrando ogni minima variazione interna per
raggiungere, così, la perfezione.
Ci sono, infine, alcuni sport che travalicano la distinzione tra abilità aperte e chiuse e
prevedono una miscela di entrambe. Il nuoto e la corsa, per esempio, implicano
un’attenzione rivolta al compimento del gesto tecnico, in modo che questo avvenga
con la maggiore precisione e velocità possibili, e contemporaneamente una
valutazione minuziosa gli avversari e, quindi, delle loro strategie di gara.
Va ancora precisato che per quanto ciascun atleta disponga di un proprio stile
attentivo di base, con l’impegno e l’allenamento, le caratteristiche di partenza
possono essere potenziate sia in termini di ampiezza che di direzione. Nella pratica,
per quanto l’attenzione richiesta negli sport di situazione sia, prevalentemente,
ampia ed esterna, ci sono momenti in cui l’atleta necessita di un’elevata attenzione
da rivolgere ai suoi movimenti fini. Il focus dell’attenzione, in questi casi, si stringe, ed
è importante che la variazione accada in maniera rapida ed efficace. Quindi, in
ogni fase della gara, il calciatore, come il cestista o il rugbista, utilizza la sua
attenzione in un determinato modo, ed è fondamentale che si alleni a dirigerne,
correttamente, il focus allargandolo e stringendolo, a seconda delle circostanze.
Anche l’attenzione, così come l’energia, è però una risorsa limitata e se consumata
inutilmente durante la gara può esaurirsi prima del necessario. L’immagine di un faro
può favorire una comprensione più approfondita dell’utilizzo della capacità

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attentiva; e infatti, durante la gara, è importante che illumini ciò che serve, lasciando
in ombra gli stimoli irrilevanti.
Naturalmente perché questo accada, serve un esercizio pari se non addirittura
superiore a quello tecnico e tattico; soprattutto quando ad interferire sono i pensieri
irrazionali (stimoli interni), che compongono il dialogo interno e che, oltre a spostare il
focus dell’attenzione fuori dalla gara, prosciugano l’energia necessaria ad
affrontarla.
L’allenamento della capacità attentiva si programma, ad esempio, migliorando
l’impegno, aumentando l’intensità in allenamento e realizzando delle simulazioni
verosimili di gara. Ricorrendo al supporto della psicologia dello sport, diventa possibile
individuare precise pratiche di allenamento, finalizzate all’ottimizzazione dello stile
attentivo.
Certamente, un’impostazione adeguata della gara, che comprenda anche un
inquadramento valido dell’attenzione, implica una maggiore possibilità di riuscita in
termini prestativi, ed è per questo uno dei motivi per cui continuano a moltiplicarsi gli
studi dedicati all’arousal1 dell’atleta nel pre-gara. Raggiungere la condizione
energetica ottimale prima della gara è un passaggio essenziale e, per farlo, è
necessario conoscersi e conoscere il livello di attivazione corrispondente alla migliore
prestazione passata.
Posto che una buona prestazione sportiva si verifica quando l’atleta è nella sua zona
di funzionamento ottimale (Individual Zones of Optimal Functioning - IZOF) (Hanin,
2000), caratterizzata da un’attenzione piena verso il compito, e quindi verso
l’esecuzione del gesto, va detto che il flow - il momento perfetto dell’atleta in gara -
si verifica quando l'attenzione è focalizzata, esclusivamente, sugli aspetti rilevanti
dell'azione in corso. In questi termini, distinguere quello che è significativo da quello
che non lo è diventa un'abilità chiaramente essenziale ai fini della competizione.
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  Con il termine arousal è indicata in psicofisiologia l’intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale
dell’organismo: quando esso deve effettuare una prestazione, attraverso l’allenamento mentale impara ad attivarsi, cioè a
mettere in moto una serie di processi caratteristici dello stato di arousal, quali l’aumento della vigilanza e dell’attenzione,
dell’attività dei muscoli che si preparano allo sforzo e del cuore e dei polmoni che si preparano al dispendio di energia.
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Per cui il cestista capace di ricevere palla, di guardare lo sviluppo del gioco, di
osservare il movimento degli avversari e di anticiparne gli spostamenti, di tenere palla
e di effettuare le scelte tattiche migliori per andare a canestro è un esempio
straordinario di abilità attentiva.
In questi casi, la strategia di apprendimento più comune è quella per prove ed errori.
Anche se l’expertise è fondamentale ai fini di un’efficace programmazione
complessiva, attraverso innumerevoli ripetizioni, il cervello riesce ad anticipare
sempre di più le decisioni da prendere. In realtà, quando l'attenzione è focalizzata
sull'attività e l'energia psichica positiva è elevata, molti atleti riferiscono di
sperimentare stati di coscienza alterati: il tempo sembra rallentare o fermarsi, i
movimenti sembrano visti al rallentatore e insorge, quasi, un senso di onnipotenza. Si
sta trattando della “partita magica” o del “momento magico”, il classico picco di
prestazione (peak performance) all’interno di una partita, quello che si dice
coincidere con la sensazione di trance agonistica (stato di flow) (Harmison, 2011).

Attivazione, piani pre-gara e regolazione dello stress

L’attivazione è un processo di eccitazione della corteccia cerebrale che modula
l’utilizzo delle risorse energetiche dell'organismo e, di conseguenza, la sua capacità
di svolgere una qualsiasi azione.
Nello sport, una condizione diventa stressante quando il livello di attivazione
dell’atleta è sproporzionato rispetto alla sua percezione di capacità; di solito, si
verifica quando non c’è corrispondenza tra la sfida che la persona vive e la
percezione che ha di poterla affrontare.
Quindi, per quanto una condizione di stress sia una risposta di adattamento
funzionale all’organismo, uno stato di attivazione prolungato o eccessivo porta,
come naturale conseguenza, ad una fase di esaurimento spesso associata ad una
condizione di sofferenza complessiva.

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Infatti, diversi atleti sostengono che, per loro, in situazioni di stress limitate nel tempo,
corrisponde un miglioramento delle prestazioni. Ed allo stesso tempo, ce ne sono altri
che riescono ad esprimere il loro potenziale in situazioni di elevata attivazione ed
infine, altri ancora, che riferiscono di riuscire nel compito solo in condizioni di
particolare rilassatezza, quindi di bassa attivazione.
Naturalmente, un ragionamento di questo genere prevede anche l’accortezza di
considerare la disciplina sportiva praticata; vale a dire che, ad esempio, gli sport di
combattimento, rispetto a quelli di precisione, richiederebbero uno stato psicofisico
più elevato.
In questi termini sarebbe utile che ogni atleta, tenendo conto delle caratteristiche
dello   sport   praticato,    prendesse   consapevolezza       del   grado    di   attivazione
corrispondente ai propri massimi livelli di prestazione.
Simili procedure permettono a chiunque di presentarsi alla gara nelle migliori
condizioni possibili. Il livello di attivazione dell’atleta, insieme ad altri fattori personali
ed ambientali, favorenti o inibenti la sua performance, risulta quindi oggetto non solo
di osservazione diretta, ma anche di colloqui individuali e di monitoraggi costanti,
tramite strumenti psicometrici validati in ambito sportivo (Jackson, 1996).
In effetti, gli attimi precedenti ad una prestazione hanno la forza di rivelarsi,
assolutamente, decisivi per un atleta, ed avere un piano precostituito pronto, e
quindi una serie di comportamenti che si ripeta dalla mattina all’attimo prima della
gara, consente di innescare una routine familiare e di modulare conseguentemente
il livello di attivazione individuale.
Il piano pre-gara è volto, quindi, ad aumentare la prontezza dell’atleta e può
rappresentare un vero e proprio rituale, una commistione di atteggiamenti
scaramantici (indossare i soliti indumenti, sedersi in un determinato posto, ripetere
gesti rituali) e di comportamenti tesi ad ottimizzare la performance (alimentarsi in
maniera preordinata, ascoltare la musica prescelta, intensificare il riscaldamento fino
ad un certo punto).

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In genere, se in passato un determinato procedimento è stato associato ad una
buona prestazione o addirittura una vittoria, le azioni relative a quell’intero
procedimento verranno precisamente ripetute. L’utilizzo mirato della musica, ad
esempio, è una conferma acclarata dell’indubbio valore dei rituali durante il pre-
gara. Secondo Karageorghis ed i suoi recenti studi (Karageorghis, 2008), gli atleti
abituati ad ascoltare musica prima di una competizione, stando agli effettivi benefici
che ne ricavano, sono assolutamente convinti dell’utilità di questa loro strategia. La
musica, in effetti, è in grado di regolare l’attivazione fisiologica ed emotiva,
favorendo uno stato dell’umore piacevole. E non solo, Karageorghis (Bishop, 2007) ha
anche dimostrato che l’utilizzo della musica nel pre-gara riesce ad eccitare o a
rilassare l’atleta, modificandone la percezione dell’ansia.
Tra gli effetti favorenti la prestazione, associati all’ascolto della musica c’è, persino, la
possibilità di regolare la fatica. Si è osservato che se l’atleta compie la prestazione
sportiva durante l’ascolto, il suo impatto è tale da modulare la sensazione della
fatica, aumentare la resistenza allo sforzo e favorire lo stato di flow.
Nel pre-gara, testimonianze e studi suggeriscono quindi che una scelta oculata della
musica può rappresentare un’efficace strategia volta a regolare l’attivazione: al di là
dei gusti musicali e dei casi specifici, che possono rappresentare delle eccezioni,
canzoni veloci e dal ritmo incalzante possono essere usate per facilitare uno stato
psicologico di elevata attivazione, mentre una musica più lenta e soft può risultare
utile per facilitare una condizione di calma e tranquillità.
Specifiche tecniche di Mental Training, mirate alla ricerca del miglior approccio alla
gara, così come la musica ed i rituali pre-gara anzidetti, rappresentano dunque degli
accorgimenti assolutamente funzionali nel fronteggiare l’incertezza. In questo senso
anche la scaramanzia può godere di uno spazio proprio, purché si mantenga nei
limiti del proprio ruolo. Ciò che è primario è identificare i comportamenti funzionali
alla massima espressione sportiva e alla corretta attivazione pre-gara, ottimizzandoli
ed imparando ad attribuire tanto l’attivazione quanto le prestazioni, a fattori

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controllabili e dipendenti principalmente dall’impegno e dalle scelte consapevoli
dall’atleta.
In linea con tale presupposto, la psicologia dello sport considera la motivazione a
migliorarsi e ad affinare le abilità personali e/o collettive come un punto cardine di
qualsivoglia strategia pre-gara.

La motivazione

Stando alle recenti acquisizioni in materia di apprendimento, solo se sussiste uno
scopo importante e, quindi, un bisogno personale si mettono in moto le proprie
capacità. In altre parole, una richiesta esterna rispetto ad una acquisita
interiormente, ha un effetto ridotto in termini di cambiamento e di problem solving
(VanGundy, 1988). Questo significa che, anche nello sport, s’impara e ci si sforza
maggiormente nel fronteggiare la sfida, quando sussiste un’autentica motivazione
personale dettata dal bisogno di migliorare e di condividere il senso di ciò che si fa. In
questo presupposto risiede l’importanza assoluta di coinvolgere l’atleta nel suo intero
percorso di crescita, sia in gara che in allenamento. La motivazione ed il
coinvolgimento dell’atleta sono due cardini caratteristici della psicologia dello sport
ed è tramite i diversi costrutti interrelati tra loro (spinta interiore, impegno,
determinazione e perseveranza) che si stabilisce il rapporto naturale tra l’atleta e la
sua prestazione.
Il punto cruciale è se la motivazione si può allenare e come questo può accadere. Di
sicuro, la crescita umana di un atleta implica, anzitutto, l’evoluzione delle sue
motivazioni e, quindi, il progresso delle sue prestazioni sportive. In proposito, l’Analisi
Transazionale (Berne, 2000) opera un’affascinante distinzione tra il concetto di
“motivo” e quello di “motivazione”, definendo come “motivo” la ragione di un
comportamento o di una scelta e come “motivazione” la spinta istintiva a fare una
certa cosa. Mentre il primo appartiene alla “testa” ed è la conseguenza di un
processo a carattere cognitivo, la seconda proviene dalla “pancia”, ha radici più
                                                                                         14
profonde nell’individuo ed è il “motore” autentico dell’agire personale (Murakami,
2009). In questo senso la motivazione può essere addirittura regressiva e collegarsi ad
esperienze vissute nell’infanzia, o invece risultare estranea all’atleta e provenire
esternamente. In casi simili le motivazioni possono essere state o essere tutt’ora quelle
dei genitori, di un allenatore, oppure di un’intera società sportiva, visto che in base
allo stesso meccanismo l’atleta può appropriarsi dei valori e dei principi del tessuto
socioculturale a cui appartiene.
Una situazione come quella appena tratteggiata accadeva, per esempio, negli anni
della Guerra Fredda, quando gli atleti provenienti dai regimi dell’Est Europeo, ispirati
dal contesto di provenienza, si battevano con gli avversari dell’Occidente con
grande ardore spinti da motivazioni politiche oltre che sportive. Dunque si può
decidere d’intraprendere un’azione per scelta o per un’ambizione esclusivamente
personale, oppure per un’influenza esterna che condiziona in qualche modo le
scelte personali.
Gli studi condotti sull’argomento      inducono a credere che la vera motivazione,
quella che ci spinge per un tempo prolungato all’autentica ricerca del nostro
massimo nello sport e nella vita, sia quella personale o intrinseca.
Il ruolo dell’allenatore e/o dello psicologo dello sport è quello di facilitare
l’espressione   delle   motivazioni    più   autentiche     dell’atleta,   superando     gli
autosabotaggi e risolvendo le difficoltà che caratterizzano un qualsiasi percorso di
crescita sportiva.
L’incapacità di gestire lo stress, la complessità nel superare un infortunio, le limitazioni
generate da un’autoefficacia insufficiente, il peso di portare a termine allenamenti
faticosi, la paura di vincere o perdere una gara, la sfida che viene percepita come
una minaccia, sono alcuni degli ostacoli con cui l’atleta si misura. Ogni problematica
va compresa ed affrontata singolarmente, ma un passaggio utile e, spesso,
determinante è insegnare all’atleta a orientare le sue motivazioni al compito
piuttosto che al risultato (cfr. paragrafo Orientamento al compito). Proprio così
l’atleta impara che il successo dipende dall’impegno individuale, e ricava piacere e
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fiducia dall’apprendere nuove abilità, constatando i propri miglioramenti e
rinforzando la propria motivazione.
Nel novero delle abilità da acquisire, la gestione dell’ansia pre-gara è quella che
consente all’atleta di dirigere meglio la sua concentrazione, a conferma dello stretto
legame tra l’esondazione incontrollata delle emozioni, quindi della paura, e il
dilagare dei pensieri irrazionali. Regolare il proprio stato emotivo e, quindi, liberare la
mente prima e durante una gara è un passaggio chiave nel percorso di sviluppo di
un atleta e l’approfondimento della natura e dell’impatto delle sfera emotiva
sull’andamento prestativo rappresenta un compito di cui un allenatore e/o uno
psicologo dello sport dovrebbero farsi carico al fine di favorire una crescita sia
umana che sportiva dell’atleta.

Emozioni, resilienza e intelligenza emotiva

Aristotele (Aristotele, 1996) è stato un antesignano dell’interdipendenza tra emozioni,
cognizioni e tratti di personalità. Attualmente, i dati in letteratura confermano che
sono molteplici i fattori d’interesse necessari per elaborare un qualsiasi accadimento,
sportivo e non. A titolo di esempio, si possono considerare i seguenti:
1. le interpretazioni possibili di un evento;
2. le emozioni associate alle interpretazioni dell’evento;
3. i comportamenti (propri e altrui) derivanti dalle emozioni;
4. l’esperienza pregressa dell’individuo.
A questo elenco vanno, poi, aggiunti due concetti di assoluto valore: il
comportamento resiliente (Trabucchi, 2012) e l’Intelligenza Emotiva (IE) della persona.
L'IE è un concetto psicologico che risale agli anni ’80, che nell'ultimo decennio di
studi è emerso in maniera sempre più decisa trovando applicazione, principalmente,
in ambito aziendale, in relazione alla soddisfazione e al rendimento lavorativi. In
effetti, la psicologia del lavoro è quasi sovrapponibile alla psicologia dello sport,
soprattutto per quanto concerne l’attenzione riservata alle dinamiche personali e
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relazionali. Secondo il modello sottostante l’IE, essere intelligenti significa riconoscere i
nostri sentimenti e quelli degli altri, motivare noi stessi, gestire positivamente le nostre
emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali (Freedman, 2011).
La persona emotivamente intelligente, infatti:
 conosce le emozioni proprie ed altrui e sa cosa farne;
    assume lo stato emotivo migliore per gestire la situazione da affrontare;
    è capace di assumere un atteggiamento mentale positivo e di valorizzare le
     emozioni piacevoli.
Un QE (quoziente emotivo) sufficientemente alto, che sia innato o appreso, è tipico
della persona capace di gestire lo stress, di ottenere buoni risultati e di collaborare
costruttivamente.
Quindi, l’atleta capace di riconoscere e di gestire i propri stati emotivi, prima e
durante la gara, è sicuramente avvantaggiato, così come lo è l’allenatore che,
dotato delle stesse abilità, oltre a sublimare le emozioni di un’intera squadra, riesce a
gestire al meglio se stesso2.

2
    Quando si tratta di uno sport di squadra, il rapporto tra l’allenatore e gli atleti è alla base del
benessere di questi ultimi, del livello di motivazione circolante e della salute dell’intera squadra.
Investire sulla qualità delle relazioni sociali e, quindi, sul funzionamento del gruppo vuol dire utilizzare
precisi criteri di scelta nell’impostare la squadra. In particolare, occorre puntare sul grado di coesione,
stimolando la capacità di restare uniti anche quando in difficoltà. La costruzione di una squadra è uno
degli impegni principali degli allenatori che credono nelle potenzialità del gruppo. La squadra sportiva
è un’entità, “un animale” che vive di vita propria, e per costruire un sistema funzionale occorre che
tutti prendano coscienza delle reciproche diversità e del valore che assume il gruppo rispetto al
raggiungimento degli obiettivi collettivi. E’ proprio durante il delicato processo di costruzione del
gruppo, mediato dall’allenatore, che gli atleti sviluppano la collaborazione e la fiducia reciproca
necessarie per definire obiettivi, metodi, ruoli e leadership. Il lavoro di squadra sembra essere la
risposta migliore per raggiungere obiettivi sia comuni che individuali. È sinonimo di sinergia tra gli atleti
e ne integra le competenze per ottenere effetti superiori a quelli che un singolo farebbe
autonomamente. Una gestione efficace della squadra offre alle persone un contesto di
appartenenza in cui trovare soddisfazione e riversare una motivazione destinata ad aumentare.
Processi di questo genere consentono un investimento costante sul clima dello spogliatoio, sui rapporti
interpersonali e sulla soddisfazione globale. Un allenatore dotato di IE e, quindi, della capacità di
capire e di metter a proprio agio gli atleti risulta un valido collaboratore per un qualsiasi sistema
sportivo. Chi è in grado di sentire gli stati emotivi propri e altrui possiede una chiave di lettura
estremamente utile per approfondire la conoscenza degli atleti. Conoscere a fondo chi si allena e
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È evidente che la capacità di riconoscere ed adattare le emozioni alle prestazioni
sportive richieda un’elevata autoconsapevolezza. E’ fondamentale che un atleta
abbia la capacità di rinforzare gli stati emotivi favorenti la prestazione e di smussare
quelli inibenti, mantenendo integre la naturalezza e l’incisività dell’ istinto, necessarie
soprattutto negli sport di situazione.
L’atleta dovrebbe essere capace non solo d’identificare, puntualmente, le modalità
secondo cui le emozioni personali influenzano la prestazione, ma anche di
monitorare il flusso delle emozioni in relazione agli eventi. A riguardo è consigliabile
l’utilizzo del Test Boston E.I. Questionnaire messo a punto da Margareth Chapman,
sulla base delle intuizioni di Daniel Goleman (Goleman, 1996), a cui si deve
l’introduzione del concetto di QE (Quoziente Emotivo).
In questo modo l’atleta riesce a valutare quanto la combinazione di eventi, pensieri
ed emozioni può risultare funzionale a fini prestativi. Il passo successivo alla presa di
consapevolezza dell’atleta dovrebbe essere quello d’identificare i pensieri e le
emozioni disfunzionali e, poi, modularli a vantaggio della prestazione. La fase di
adattamento è il fulcro dell’applicazione al contesto sportivo degli studi sull’IE e sulla
resilienza. La possibilità di formare persone capaci di mettersi alla prova e di adattarsi
alle esigenze del contesto è l’aspetto rilevante di un qualsiasi contesto sportivo, al di
là del significato che può assumere la vittoria come episodio.
In   questo    senso     il   mondo     sportivo    dovrebbe       profondersi     nel   proporre
continuativamente modelli/esempi d’impegno e non solo di risultato. Spesso lo stress
degli atleti è generato e incrementato da aspettative inadeguate, che generano
risposte inutili perché tese unicamente al risultato al di là delle risorse personali. La
volontà, le aspettative, la valutazione delle proprie abilità e le interpretazioni del
passato confluiscono, naturalmente, nella risposta dell’atleta alle difficoltà ed è
evidente che la considerazione attenta degli ostacoli, come parti di una crescita

saperlo guidare è spesso ciò che fa la differenza, a parità di preparazione tecnico-tattica, tra chi
arriva al successo e chi va incontro a fallimenti più o meno precoci.
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complessiva, è il fattore imprescindibile per chi voglia sostenere la motivazione
dell’atleta.
In altri termini, chi affronta una gara vivendo e affrontando difficoltà e fallimenti
come componenti integranti dell’attività sportiva è più determinato nel proseguire e
perseverare nella pratica.
La motivazione, infatti, al di là del collegamento diretto con la volontà e la fiducia in
se stessi risulta strettamente correlata ai processi attributivi del successo o del
fallimento, che diventano gli antecedenti delle emozioni funzionali o meno al
raggiungimento dell’obiettivo prefisso.
Premessa l’importanza di riconoscere il talento, inteso come un dono incontrollabile,
diventa cruciale riuscire a leggere il successo dell’atleta con estrema puntualità,
anche e soprattutto nei termini dell’impegno personale.
La resilienza, che è una capacità assolutamente complessa, consente all’atleta di
affrontare le difficoltà, mantenendo la speranza, apprendendo dai fallimenti,
rialzandosi dopo le sconfitte e guardando alla realtà in maniera costruttiva. Un
comportamento resiliente, infatti, ha il potere di disinnescare le credenze e, quindi, gli
automatismi che mantengono l’atleta in uno stato emotivamente spiacevole.
Imparando ad essere resistenti alle fonti di disturbo si annienta l’impotenza appresa e,
dunque, il pensiero di non farcela di fronte alle difficoltà. La resilienza si può definire
una qualità cognitiva, espressione del nostro pensiero e delle interpretazioni che
diamo degli eventi. Al di là della specificità che può assumere un comportamento
resiliente, è fondamentale che l’atleta impari a riconoscere i propri pensieri
disturbanti per quello che sono, e non come fossero fatti reali. Svuotare
progressivamente i pensieri dall’eccessivo coinvolgimento emozionale significa
permettere all’atleta di gestire il proprio eventuale disagio, senza doversi per forza
ritrarre davanti ad esso. Imparare a svuotare la mente, allontanare da sé le emozioni
spiacevoli, concentrarsi solo sul presente ed in particolare sul gesto tecnico che si sta
compiendo, accettare ciò che non si può cambiare come parte del percorso

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modificando il dialogo con se stessi, possono essere delle preziose competenze per
migliorare la resilienza e per usare le emozioni con intelligenza.

Conclusioni

La psicologia dello sport può essere un valido supporto per chi voglia contribuire a
migliorare il funzionamento del sistema sportivo generale. E’ importante ribadire che
tale settore propone delle attività tese ad una gestione ottimale delle risorse umane,
che si tratti di atleti, allenatori o dirigenti.
Se si tratta, per esempio, del mental training lo scopo è quello di realizzare, sul
campo, un percorso di crescita che partendo dalle abilità cognitive, emotive e
comportamentali dell’atleta punti alla realizzazione integrale della persona. Per
abilità mentali s’intende, ad esempio: la capacità attentiva, il dialogo interno, la
gestione delle emozioni, l’efficacia nell’apprendimento, la modulazione corretta
dell’attivazione, la capacità immaginativa, la fiducia in se stessi e la capacità di porsi
e perseguire gli obiettivi.
Dunque, la psicologia dello sport tende ad armonizzare i processi attraverso cui
l’atleta tende a realizzarsi, favorendo l’impegno e la conseguente possibilità di
vincere o di perdere. Ed è in questo senso che se le sconfitte sopraggiungono
vengono inquadrate su un piano di realtà tale da rendere sopportabile anche la
sensazione della sconfitta.
Di certo, superiore è la consapevolezza di un atleta e, quindi, della persona e
maggiori saranno le risorse individuali nel momento in cui sarà necessario
fronteggiare le difficoltà e le incertezze insite nello sport.
Per concludere, sentirsi capaci significa prepararsi al meglio e sentirsi pronti a
fronteggiare l’ansia della gara, sviluppando così la risolutezza necessaria per resistere
e per mantenere la calma e lo spirito d’iniziativa essenziali nel confronto con se stessi
e con l’avversario.

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