BREVE STORIA DEGLI SCACCHI - Massimo Cristofari - Altervista

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BREVE STORIA DEGLI SCACCHI - Massimo Cristofari - Altervista
Massimo Cristofari

BREVE STORIA
DEGLI SCACCHI

                          2021
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BREVE STORIA DEGLI SCACCHI - Massimo Cristofari - Altervista
Le origini del gioco degli scacchi si perdono sicuramente molto indietro nel tempo,
anche se la sua antichità viene in genere piuttosto sovrastimata.
Gli studiosi non sono ancora arrivati a conclusioni certe né sul luogo di origine né
sull’epoca: si ritiene comunque che siano nati in oriente (in periodo imprecisato),
quasi certamente in India, da cui il gioco passò verso est in estremo oriente (dove
però non riuscì a sradicare i giochi tradizionali e più antichi come il “Go”) e verso
ovest in Persia, intorno al 500 d.C. (e di là abbastanza rapidamente nel vicino mondo
arabo, dove il gioco mise invece solide radici e da dove, ma molto più tardi, passò
in occidente - con regole già ben definite - soprattutto attraverso le invasioni arabe).
In alcuni poemi persiani del 550 d.C. si parla di un gioco da tavolo (lo “Chatrang”)
che sembra abbastanza simile agli scacchi. E si fa riferimento ad un gioco ancora più
vecchio di derivazione indiana (il “Chaturanga”, cioè esercito diviso in quattro
armate, di cui esisteva anche una bizzarra versione per quattro giocatori).
Nel 1072 sono stati rinvenuti nell’Uzbekistan (località Afrasaib) degli antichi pezzi
di Chaturanga finemente lavorati, che sono stati inizialmente datati 760 d.C. (poiché
in quel sito archeologico venne rinvenuta anche una moneta del 761 d.C.). Ma
sicuramente il gioco doveva esistere già da molto tempo proprio per la pregiata
manifattura dei pezzi: si ipotizzano perciò come nascita del gioco i primissimi secoli
dopo Cristo.
Ma va fatta subito una precisazione doverosa: si parla di scacchi sempre e soltanto
per l’utilizzo di scacchiere simili a quella attuale e di pezzi aventi fogge diverse tra
loro, e quindi diversi per movimento e cattura - al contrario degli altri giochi da
tavolo come la dama, che utilizzavano pedine tutte uguali -, trattandosi di giochi con
regole anche molto diverse da quelle attuali.
Si ritiene che gli scacchi che conosciamo oggi siano arrivati in occidente - Italia
compresa - non prima dell’anno 1000 d.C. (anno in cui si sono trovate le prime tracce
documentali), con le conquiste arabe della Spagna e della Sicilia.
È assodato che i romani non conoscessero gli scacchi (e neppure la dama), anche se
esistevano diversi “giochi da tavoliere”: tra i giochi che utilizzavano una scacchiera
di 8x8 caselle e pezzi mobili, era molto diffuso il “ludus latrunculorum (gioco dei
soldati)”, ma nessuno è riuscito a stabilirne bene le regole. Pare comunque che un
pezzo venisse catturato solo per “imprigionamento”, quando cioè veniva circondato
da pezzi nemici su una linea o su una fila, ed era quindi un gioco assai lontano dagli
scacchi.
Una relativamente recente scoperta archeologica creò per la verità molto sconcerto e
diverse polemiche tra gli studiosi: in alcuni scavi effettuati nel 1932 a Venafro
vennero trovati degli eleganti pezzi intarsiati in osso (attualmente custoditi nel Museo
Archeologico di Napoli).
Secondo la stratigrafia del sito archeologico vennero originariamente datati tra il III e
il IV secolo d.C. (e quindi appunto in epoca romana, contraddicendo le convinzioni
degli storici fino ad allora), ma molti studiosi anglosassoni, anche poiché
riproducevano perfettamente i pezzi presenti nei codici miniati del Medioevo (che
erano molto stilizzati probabilmente per la loro derivazione araba, proibendo l’Islam

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la rappresentazione di esseri viventi), ritennero di doverli datare molto più avanti, in
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                                               La diatriba venne risolta solo nel 1994,
                                              quando venne autorizzata la datazione
                                              con il radiocarbonio, che ne confermò
                                              definitivamente       la    fabbricazione
                                              medioevale: esattamente l’anno 980
                                              dopo Cristo.
                                              È ovviamente impossibile pensare che
                                              un gioco così ingegnoso sia stato parto
                                              di una sola mente: è scontato invece che
                                              abbia subito una lenta evoluzione
                                              (probabilmente       di    secoli),   con
                                              “mutazioni”       che      ogni      volta
                                              avvicinavano di più il gioco a quello
                                              moderno. Ma, in mancanza di riscontri
                                              documentali, non è possibile ricostruirla
                                              con sicurezza.
I più antichi manoscritti occidentali che si occupano degli scacchi partono dall’anno
1000: non ci sono partite complete, ma soltanto “partiti”, cioè problemi ingegnosi,
con enunciati molto eterogenei (a differenza dei codici arabi, che contenevano anche
alcune partite). Si tratta di posizioni in genere con pochissimi pezzi, ma dalle
soluzioni piuttosto difficili da trovare. Non c’era dietro - a differenza delle
composizioni moderne, spesso delle vere gemme - alcun anelito artistico: la ragione è
che su di loro i giocatori scommettevano somme di denaro, anche consistenti,
proponendoli ad altri giocatori, ed erano perciò volutamente sottili ed ingannevoli.
Si sa che il gioco ebbe molta presa negli ambienti ecclesiastici, anche se per secoli il
gioco venne, almeno in maniera ufficiale, valutato negativamente dalla Curia. Non a
caso la prima apparizione del termine “scacchi” (derivato quasi certamente dal
persiano “Shah”, cioè Re) si trova in una lettera del 1061 di San Pier Damiani
all’allora Pontefice Alessandro II, nella quale - deplorando la passione per giochi
come i dadi e gli scacchi - lo informava di una penitenza che aveva inflitto al
vescovo fiorentino, che aveva trascorso gran parte della notte in questo gioco. Il
vescovo aveva replicato che gli scacchi, gioco di ingegno, non potessero equipararsi
ai dadi, gioco di mero azzardo, ma il Damiani non aveva voluto sentire ragioni: per
lui il termine di “alea”, indicante i giochi proibiti dalla Chiesa, comprendeva anche
gli scacchi.
Questa condanna a così alto livello pesò a lungo sul nostro gioco e venne
ufficialmente ribadita nel Concilio del 1255: questa severità derivava probabilmente
dal fatto che nel medioevo si giocasse spesso a scacchi anche con l’ausilio di dadi per
decidere quale pezzo muovere e che venivano impegnate poste in denaro.
Ma, nonostante la contrarietà della Chiesa, gli scacchi ebbero nel medioevo una
crescente diffusione e il gioco venne subito visto - almeno fuori dell’ambito

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ecclesiastico - come un’attività che invece elevava culturalmente e socialmente il
praticante, a differenza dei dadi e delle carte, considerati come giochi da taverna.
Anche Dante, col “doppiar degli scacchi” riferito al numero infinito degli angeli del
Paradiso, fa cenno nella Divina Commedia al gioco, che doveva essere quindi già di
generale conoscenza nel 1300.
La più antica raccolta occidentale di “partiti” di cui si ha notizia fu il manoscritto
fatto compilare a Siviglia nel 1283 da Alfonso X “El Sabio”, che comprendeva
(come anche i successivi) anche problemi di "tric-trac" e altri giochi da tavoliere.
Studiato e apprezzato, il manoscritto venne addirittura dato alle stampe - e in una
lussuosa edizione - in Svizzera nel 1941.
Analoghi manoscritti vennero pubblicati in Europa (soprattutto Francia), ed anche in
Italia abbiamo avuto pregevoli lavori - per lo più scritti in latino - in cui gli autori
hanno preferito incomprensibilmente mantenere l’anonimato (i più celebri sono il
“Bonus Socius”, che si trova in esemplare unico nella biblioteca nazionale di
Firenze, e il “Civis Bononiae”, di cui si contano tre sole copie in Italia, nelle
biblioteche di Firenze, di Roma e Vaticana).
Fino al 1300 il gioco non differì nella sostanza da quello arabo, di cui erano
integralmente state importate le regole. Ma, giocandosi in occidente a scommessa, il
gioco appariva troppo lento, soprattutto nella fase iniziale: le armate venivano infatti
in contatto solo dopo molte mosse. Per questo motivo ebbero più successo i “partiti”,
sicuramente molto più rapidi ed interessanti, e apparvero esclusivamente raccolte di
questi problemi, quasi sempre - come detto - da proporre agli avversari come
scommessa.
I pezzi nelle loro fogge erano sostanzialmente quelli che ci sono stati tramandati, ma
le regole di movimento e di gioco erano molto diverse da quelle attuali, escludendo il
Cavallo e la Torre, che hanno sempre avuto l’attuale movimento (ed infatti il matto
dato con Torri e Cavalli viene detto “matto degli arabi”). Il pedone, ad esempio,
muoveva sempre e solo di una casella in avanti; non esisteva quindi la doppia spinta
iniziale e conseguentemente neppure la cattura "en passant". L’Alfiere muoveva in
diagonale come l'attuale, ma soltanto di due caselle, saltando obbligatoriamente
quella di mezzo. La Donna (che sarebbe diventata - secondo una poetica definizione -
l’“Achille di questa guerra” per la sua formidabile potenza di azione) era addirittura
il pezzo più debole: muoveva infatti solo di una casella in diagonale! E quindi più
forte di lei era anche il Re, che - pur col suo movimento limitatissimo - poteva
almeno muoversi anche ortogonalmente. Non esisteva l’arrocco.
A fine secolo si decise di dare una diversa colorazione alle caselle (alternativamente
chiare e scure, probabilmente per rendere più visibile il movimento sulle diagonali) e
la scacchiera diventò quindi definitivamente quella che conosciamo oggi.
È certo che per lungo tempo venissero utilizzati - non si sa in che occasioni e per
quante mosse - anche i dadi per sorteggiare il pezzo che si doveva muovere, allo
scopo di accelerare il gioco e renderlo più imprevedibile. Non ci sono dubbi sul fatto
che i giocatori scommettessero somme consistenti: in Italia sono state trovate infatti
diverse sentenze - a partire dal 1200 - relative a diatribe giudiziarie, soprattutto

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perché alcune norme erano di difficile interpretazione (per esempio il caso del
pedone “signatus”, pezzo con cui si era obbligati a dare il matto: sorse la questione se
era valido il matto dato non con il pedone, ma con la Donna derivante dalla
promozione del pedone stesso!).
Nel 1400 - dopo lunghi secoli di cieco conservatorismo, nonostante fosse divenuta
evidente la loro inadeguatezza - cominciò finalmente ad evolversi il movimento dei
pezzi, soprattutto in Italia, meno influenzata dalla cultura araba, allo scopo di
accelerare il gioco. Così il pedone poté saltare di due caselle alla sua prima mossa ed
anche al Re e alla “Fersa” (come si definiva la Donna scaturente da promozione di un
pedone) venne leggermente ampliato il raggio di azione, potendo saltare alla loro
prima mossa rispettivamente come il Cavallo (o anche diversamente in certe versioni:
una sorta di anticipazione del movimento dell’arrocco) e l’Alfiere.
Non ci sono state tramandate partite giocate prima del ‘500, ma il gioco - per le
regole che c’erano - era sicuramente lentissimo e noioso nello sviluppo dei pezzi. I
giocatori, poiché le armate non potevano venire velocemente a contatto, creavano
delle fortezze all’interno della propria metà campo prima di iniziare le operazioni di
attacco. Come rimedio alla eccessiva lentezza del gioco nella fase iniziale, sempre
più spesso i giocatori si accordavano per partire da posizioni speculari precostituite (i
cosiddetti “tabi”), nelle quali i pezzi erano già sviluppati ed attivi.
Ma la strada per una riforma sostanziale del gioco, che si sentiva ormai come
indilazionabile, era stata tracciata. Tranne la doppia spinta iniziale dei pedoni
(rimasta ancora oggi), le leggere innovazioni descritte sopra in Italia scomparvero
(non è chiaro se anche queste ad iniziativa italiana) per lasciare spazio a modifiche
ben più radicali, che resero il gioco molto più rapido ed aggressivo: la Donna divenne
il pezzo più forte della scacchiera (potendo muovere liberamente in tutte le direzioni)
e al Re fu consentito l’arrocco. Ed anche l’Alfiere accrebbe di molto la potenza,
dominando finalmente l’intera diagonale, anche se perdendo la facoltà di saltare il
pezzo che trovava eventualmente sulla sua strada.
Le modifiche riguardarono all’inizio solo il gioco vivo, perché i “partiti”
continuarono ad essere proposti con le vecchie regole di movimento. Probabilmente
perché, trattandosi di posizioni su cui si scommettevano somme di denaro, i giocatori
preferivano quelle consolidate dal tempo e non quelle con le nuove regole, che
potevano contenere degli errori.
L’evoluzione delle nuove regole di movimento si era definitivamente completata
quando apparve la prima opera scacchistica a stampa (nel 1496). È da questa data che
possiamo far nascere la storia “sportiva” del gioco, in contrapposizione a quella
“erudita” (su cui restano - e resteranno probabilmente per sempre - una infinità di
ombre, che lasciamo volentieri agli studiosi di storia).
Nel 1500 i pezzi diventano molto più eleganti, in legno di bosso lavorato al tornio.
Una serie di fattori positivi concomitanti fanno fare al gioco in questo secolo un
formidabile salto in avanti: l’invenzione della stampa, l’anelito intellettuale del
Rinascimento, il mecenatismo di molte corti (che si contendevano con ricchi
compensi i migliori giocatori).

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Gli scacchi, portati là sicuramente dagli arabi, si diffusero innanzi tutto, molto
rapidamente, in Spagna (soprattutto tra i ceti più elevati ed il clero), che era del resto
all’epoca all’avanguardia in tutti i settori della cultura.
L’avvento della stampa di cui si è detto consentì una rapida e capillare diffusione dei
libri di scacchi, che non erano più i pochissimi, costosi e quasi introvabili manoscritti
medioevali, riservati ai nobili più facoltosi.
Il primo libro stampato (Valencia 1496) fu opera di un autore sconosciuto, un certo
Francisco Vincent: era soltanto una mera raccolta di “partiti”: “Libre dels jochs
partits dels Schachs en nombre de 100”. Di questo testo non sono purtroppo
sopravvissute copie, neanche mutile, e non si sa perciò nulla del suo contenuto.
Maggiore successo ebbe invece il libro di scacchi pubblicato, ancora in Spagna, da
Luis Ramirez de Lucena (Salamanca 1497) “Repeticion de Amores er Arte del
Axedrez con CL juegos de partido” (i libri dell’epoca avevano spesso titoli molto
ampollosi…), che ebbe addirittura varie ristampe e traduzioni: comprende una
ventina di aperture di gioco diverse e 101 problemi. Le regole di movimento sono
quelle attuali, ma poiché erano da poco state codificate, il lavoro non ha - e non
poteva ovviamente avere - un grande valore teorico.
Nel 1512 il portoghese Pedro Damiano pubblicò a Roma il primo libro di teoria in
italiano (se ne conservano solo tre esemplari) “Il libro de imparare a giochare a
scachi et de li partiti”: descrive diverse aperture, e presenta partite complete e finali.
Anche questo libro ebbe grande successo, con diverse ristampe e traduzioni.
Più importante di tutti fu però il libro di Ruy Lopez de Segura (Alcala 1561) “Libro
de la invencion liberal y arte del juego del Axedrez, muy util y prouechosa”, che
divenne per lungo tempo la Bibbia del giocatore di scacchi e fu tradotto anche in
italiano (ne posseggo anch’io una pregiata ristampa anastatica, di cui mi ha fatto
dono alcuni anni fa un caro amico) e diede un impulso formidabile alla diffusione e
allo studio scientifico del nostro gioco.
Anche se l’opera non contiene nulla di sostanzialmente nuovo rispetto ai lavori che
l’avevano preceduta, nel libro del Ruy Lopez non troviamo più soltanto una mera
successione delle mosse delle varie
aperture riportate, ma - per la prima
volta, pur con gli inevitabili limiti di
profondità della ricerca - delle vere
analisi ragionate sugli impianti di
apertura proposti, con suggerimenti su
come condurre il gioco.
Ruy Lopez analizzò le aperture con
pensiero moderno, con lo scopo di
contribuire a migliorare il gioco dei
lettori e non più per dare loro dei consigli e suggerimenti finalizzati a guadagnare
denaro attraverso le scommesse. Per lo stesso motivo non inserì alcun “partito” nella
sua opera.

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Nel 1600 gli italiani strapparono lo scettro agli spagnoli: la nostra penisola vide
fiorire giocatori di grande talento, sia nel gioco vivo che nel campo teorico (Paolo
Boi, Leonardo da Cutro - più noto come “il Puttino” -, Giulio Cesare Polerio, Pietro
Carrera, ma soprattutto il geniale Gioacchino Greco, detto “il Calabrese”).
Si parla giustamente in questo secolo di una “scuola italiana”, caratterizzata da un
gioco ingegnoso ed aggressivo: l’obiettivo diventava sin dalle prime mosse
direttamente il Re avversario, che veniva violentemente sbalzato via dal suo trono
(anche con audaci sacrifici di materiale) per metterlo allo scoperto e poterlo attaccare
più facilmente.
In Italia il gioco si diffuse - diversamente dalla Spagna, Inghilterra e Francia -, non
nei caffè ma nelle “Accademie”, che erano dei centri culturali in cui si riunivano
persone colte per discutere di argomenti vari e divertirsi con giochi di società. Ma se
in Francia gli scacchi si connotarono come passatempo prevalentemente aristocratico
(e praticato solo nei “cafè” più esclusivi), in Inghilterra divennero un giuoco
popolare.
Nel 1700 però il primato passò decisamente in Francia, sulla scia del grande sviluppo
culturale che rivitalizzò quel paese.
Alfiere di questa riscossa fu Francois André Danican Philidor (musicista di
professione), che contrappose la sua scuola scientifica a quella estrosa e creativa
degli italiani nel secolo precedente.
Il suo libro “Analise du jeu des echecs” (Londra 1749), più volte ristampato e
tradotto in varie lingue, ebbe una straordinaria diffusione in tutta Europa ed influenzò
tantissimo i giocatori ed il gioco di tutti gli scacchisti dell’epoca, che rimanevano
affascinati dalla maniera razionale con cui l’autore riusciva - nelle proprie partite
presentate nel libro - a demolire gli avversari soffocandoli poco a poco.
Liberata progressivamente la scacchiera dalla moltitudine iniziale dei pezzi attraverso
opportuni cambi, la vittoria era quasi sempre decisa da una avanzata irrefrenabile di
pedoni, che smantellavano ogni difesa avversaria.
Anche se probabilmente non diede un contributo al nostro gioco pari alla sua fama,
Philidor fu il primo scacchista a porre le fondamenta del gioco posizionale, di cui i
pedoni - fino ad allora molto trascurati, soprattutto nel secolo precedente - diventano
addirittura l’elemento essenziale, costituendo lo scheletro della posizione e l’arma
finale per annientare gli avversari (“I pedoni sono l’anima degli scacchi” ripeteva con
convinzione il maestro francese).
Il secolo segna purtroppo l’allontanamento e l’emarginamento per quasi due secoli
dell’Italia dalle grandi correnti scacchistiche europee, non tanto per mancanza di
giocatori di qualità (abbiamo avuto anche nel ‘700 teorici di assoluto spessore
internazionale come Ercole Del Rio, Giovanbattista Lolli e Domenico Lorenzo
Ponziani - tutti cresciuti a Modena e noti appunto come "il trio modenese" -, che ci
hanno lasciato opere fondamentali sui finali di partita, valide ancora oggi), ma perché
il nostro paese si ostinò tenacemente a mantenere le regole italiane, ormai diverse da
quelle di tutti gli altri paesi europei (secondo queste nostre bizzarre regole il pedone
poteva essere promosso solo in un pezzo mancante e se non c’erano pezzi disponibili

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la promozione restava “sospesa”, l’arrocco poteva essere effettuato portando il Re e
la Torre in qualunque casa intermedia, non era ammessa la presa “en passant”).
Inoltre la nostra lingua era molto meno conosciuta di quella francese ed anche questo
contribuì a far passare in sottordine le nostre produzioni, che pure erano di qualità
assoluta. Nocque infine anche il fatto che i tre giocatori modenesi condussero una
vita molto schiva (Del Rio e Ponziani firmarono addirittura i loro pregiati testi con
pseudonimi: “Autore Modenese” e “Anonimo Modenese”), laddove Philidor viaggiò
per mezza Europa e si fece conoscere ed apprezzare ovunque.
Il 1800, che si caratterizzò per l’avvento tumultuoso del Romanticismo in tutti i
settori culturali, con crescente insofferenza verso il freddo razionalismo della
scienza, si connotò negli scacchi per una diffusa e crescente avversione verso il gioco
troppo scientifico francese, che - specialmente con i successori di Philidor, di statura
molto inferiore al maestro - era diventato troppo monotono e noioso.
La partita di scacchi, come tutti gli aspetti della vita, doveva essere illuminata dal
sentimento: doveva essere vivace, coraggiosa, aggressiva. Iniziò uno studio
appassionato delle opere dei giocatori italiani del ‘600 (che erano state all’epoca
molto sottovalutate, e che presentavano attacchi ingegnosi sin dalle primissime
mosse, e che vennero sorprendentemente riscoperte), ed ovviamente soprattutto del
loro portabandiera Gioacchino Greco.
Le partite diventarono degne di essere pubblicate sulle riviste specialistiche solo se
impreziosite da sacrifici audaci e trovate ingegnose (con un contestuale - e
onestamente ingiustificato - disinteresse per i finali: spesso le partite più lunghe
venivano riportate nei libri e nelle riviste solo fino a che il vincitore aveva ottenuto
una posizione chiaramente vinta, dal momento che la realizzazione tecnica del
vantaggio materiale era considerata poco interessante dai lettori). È l’epoca d’oro dei
“gambetti” (sacrifici di pedone in apertura) per guadagnare tempi di sviluppo, che era
considerato quasi disonorevole non accettare: il rifiuto del gambetto e delle
complicazioni tattiche poteva fare etichettare il giocatore come codardo! Le partite
della prima metà dell’Ottocento sono perciò sempre spettacolari ed emozionanti,
ancorché spesso - da un mero punto di vista tecnico - piuttosto scorrette.
Il giocatore più importante di questo periodo (ed in cui più degli altri si trovano
riuniti le temerarietà, le sofferenze e i tormenti tipici dell’epoca romantica) fu
l’americano Paul Morphy, una meteora che illuminò di luce accecante - anche se per
un periodo brevissimo di soli tre anni - il nostro gioco. Ma giocatori di enorme
statura conobbero anche la Germania (soprattutto), la Russia e l’Inghilterra.
Solo dopo la metà del secolo apparve finalmente un giocatore italiano all’altezza
degli altri europei (ancorché, purtroppo, problemi finanziari gli impedirono una
adeguata partecipazione ai tornei): Serafino Dubois, nato a Roma ma di fatto un
vagabondo per l’Europa. Giocatore di prima forza e stimato teorico, diede anche alle
stampe a Roma nel 1845 un pregiato libro in lingua francese sulle aperture e fondò
nel 1859 la Prima rivista italiana di scacchi (“La Rivista degli Scacchi”), che
pubblicava soprattutto partite “all’italiana” (cioè con le nostre regole particolari),

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anche se non mancavano partite “alla francese”. Ebbe purtroppo solo un anno di vita,
ma contribuì al risveglio scacchistico nel nostro paese.
Il primo campionato nazionale italiano (purtroppo, come diceva il bando, “secondo le
leggi dell’autore modenese tuttora vigenti in Italia”, che era Ponziani) si ebbe a
Roma nel 1875, ma, nonostante la buona dotazione di premi in denaro, parteciparono
solo nove giocatori: vinse l’ingegnere Pietro Seni. Dubois predispose poco tempo
dopo anche un apprezzato “libro del torneo”, che raccoglieva le migliori partite.
Ma ormai cominciava a crescere in molti giocatori italiani la volontà di adeguare le
regole di gioco a quelle degli altri paesi: ad iniziativa soprattutto di Carlo Salvioli
(notaio di professione e massimo teorico italiano a cavallo tra l’Ottocento e il
Novecento, che aveva iniziato una battaglia aspra per eliminare - come ripeteva - la
“vergognosa distanza che ci separa dal resto del mondo”), nel 1881 si giocò un
torneo nazionale finalmente con le regole internazionali, vinto proprio dal Salvioli. Il
binario era stato tracciato e l’Italia si apprestava a rientrare finalmente in Europa,
anche se non avrebbe purtroppo più colmato il profondo solco che ormai la separava
dalle altre nazioni più progredite, che anzi - per tutta una serie di ragioni diverse - si
sarebbe addirittura allargato nel secolo successivo!
Nel 1900 si ebbe il primo campionato italiano di scacchi con le nuove e ormai
stabilizzate regole, cui venne invitato il miglior giocatore di ogni circolo italiano.
Una buona idea (era in effetti una sorta di “Coppa dei campioni” nazionale…), ma i
partecipanti furono soltanto otto: vinse Arturo Reggio, che divenne un giocatore
apprezzato in tutta Europa, anche se non di primissimo piano (ma la concorrenza si
era fatta davvero spietata, perché erano sbocciati in quel periodo tantissimi
fuoriclasse di valore assoluto!).
Gli scacchi erano ormai un gioco in costante crescita e in via di diffusione in sempre
nuovi paesi: come naturale conseguenza, nel 1924 nacque a Parigi la Federazione
scacchistica internazionale, la “F.I.D.E.” (acronimo per “Fédération Internationale
des Echecs”), costituita inizialmente da sole 15 nazioni, tra cui l’Italia, ma che è oggi
una delle associazioni col maggior numero di federazioni nazionali aderenti.

Ci vorranno però ancora molti anni prima che la F.I.D.E. cominciasse a gestire in
prima persona le grandi manifestazioni, a cominciare dal titolo mondiale (che fino
alla seconda guerra mondiale era considerato patrimonio del campione in carica, che
valutava lui stesso le “borse” e le condizioni che gli proponevano gli sfidanti e
decideva poi liberamente se e dove mettere in palio il suo titolo).
Nel frattempo il “Romanticismo” era stato ormai lasciato alle spalle anche negli
scacchi, ed a partire dalla seconda metà dell’Ottocento il gioco diventa meno irruento
                                                                                        9
ed audace: soprattutto aperture e finali vennero finalmente e di nuovo sottoposti ad
analisi più accurate e scientifiche.

                          Ci fu in tutta Europa, a cavallo tra i due secoli, un
                          incredibile fiorire di formidabili campioni (a cominciare
                          dal tedesco Emmanuel Lasker, che vediamo nella foto,
                          professore di matematica, che conservò il titolo mondiale
                          per ben ventisei anni, cedendo lo scettro solo all’età di 53
                          anni!).

Ma soprattutto si affacciarono prepotentemente nel panorama scacchistico due stelle
di prima grandezza, che riusciranno ad oscurare completamente la pur fortissima
concorrenza: il leggendario cubano Jose Raul Capablanca - campione in carica e per
anni considerato imbattibile - ed il formidabile russo Alexander Alekhine,
sicuramente due dei più grandi giocatori di tutti i tempi (se non addirittura i due più
grandi in assoluto), ancorché molto diversi tra loro sia come gioco che come
carattere: persona raffinata, dal gioco logico e razionale il primo, persona sanguigna,
dal gioco aggressivo e geniale il secondo.
La sfida tra questi due colossi, attesa con ansia da tutto il mondo scacchistico, dopo
diversi anni di rinvii da parte del cubano per insufficienza della “borsa” e altri
pretesti più o meno validi, venne finalmente disputata a Buenos Aires nel 1927 e finì
sorprendentemente - dopo una lunghissima e aspra contesa, con ben 25 partite
terminate patte - a favore del russo.

Capablanca - che non aveva mai perso in precedenza una partita di torneo contro
Alekhine e si presentò forse per questo all’appuntamento (assai colpevolmente per un
campione del suo calibro…) dopo una lunga inattività e sicuramente non al massimo
della condizione - cercò invano, piccato dalla sconfitta inattesa, di organizzare al più
presto un “match” di rivincita, ma il russo gli frappose le stesse difficoltà che aveva
dovuto affrontare lui, accettando invece - quasi provocatoriamente - di mettere in
                                                                                     10
palio il titolo contro avversari meno titolati, ancorché di indubbia caratura tecnica:
affrontò infatti due volte il russo naturalizzato tedesco Efim Bogoljubov (vincendo
con autorità entrambe le volte) e poi il giovane matematico olandese Max Euwe
(perse sorprendentemente, anche se di misura, il primo match nel 1935 - ma si era
presentato in condizioni fisiche pietose ed addirittura spesso visibilmente ubriaco
durante le partite -, però si rifece alla grande nella rivincita nel 1937).
Ma purtroppo la nuova, attesissima, sfida tra i due colossi non ebbe mai luogo perché
nel frattempo scoppiò la seconda guerra mondiale, che ebbe conseguenze tragiche
anche per gli scacchi, soprattutto in Europa: i tornei vennero forzatamente interrotti
per anni ed i giocatori restarono quasi dappertutto inattivi. E qualcuno di loro perì in
guerra o sotto i bombardamenti.
Terminate le ostilità, la vita - pur tra le spaventose devastazioni ambientali ed umane
- faticosamente riprese e si risvegliò anche l’attività scacchistica: si doveva innanzi
tutto riassegnare il titolo mondiale, rimasto vacante a seguito della morte improvvisa
nel 1946 in un albergo di Estoril (in circostanze per la verità mai completamente
chiarite) del campione in carica Alekhine. Capablanca era invece già deceduto nel
1942.
La F.I.D.E. invitò nel 1948 ad Amsterdam i sei più forti giocatori di quel periodo per
contendersi - in un torneo tra di loro all’italiana - il titolo. In mancanza di criteri
oggettivi di selezione, ci furono ovviamente diverse lamentele da parte di alcuni degli
esclusi che si ritenevano meritevoli di convocazione. L’americano Reuben Fine, che
intanto si era molto affermato come psichiatra, declinò - pur malvolentieri - l’invito
per gli impegni della sua professione ed abbandonò definitivamente l’attività
agonistica (pur restando sempre un grande appassionato e pubblicando alcuni testi
scacchisti di eccezionale livello); non venne - per ragioni che ignoro - rimpiazzato ed
il torneo divenne dunque un pentagonale.
Vinse l’ingegnere russo Mikhail Botvinnik, che diventò così il primo campione
mondiale del dopoguerra e diede inizio a quella che per circa mezzo secolo sarebbe
stata una schiacciante egemonia sovietica, sia in campo maschile che femminile:
dopo la guerra il governo sovietico investì molto, anche per motivi di prestigio
internazionale, nella promozione e diffusione degli scacchi e i risultati furono
straordinari, con un fiorire in Russia, nonché nei paesi baltici e in quelli caucasici
(che dell'Unione facevano allora parte) di un numero incredibile di campioni di
livello assoluto.
Il titolo mondiale d’ora in avanti sarà gestito direttamente dalla F.I.D.E. (non
essendo, per fortuna, più considerato patrimonio del campione uscente), che
provvedeva a metterlo in palio ogni tre anni col sistema dello “challenge round”: il
campione in carica, cioè, affrontava lo sfidante - che aveva superato una serie di
selezioni - in un “match” su un certo numero di partite (che veniva stabilito di volta
in volta secondo le richieste degli organizzatori e la volontà dei giocatori).
I sovietici regnarono incontrastati - sia a livello individuale che negli incontri a
squadre - fino al 1972, quando a Reykjavik il giovane americano Bobby Fischer - che
era emerso da qualche anno in maniera prepotente sulla scena mondiale ed aveva

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eliminato nelle qualificazioni (dimostrando una superiorità quasi umiliante nei
confronti degli sconfitti) tutti gli altri fuoriclasse russi - riuscì, in un match da
leggenda (che ebbe un’eco formidabile nei “media”, che caricarono l’evento anche di
significati politici nel clima torbido di “guerra fredda” di quegli anni), a sconfiggere -
ancora in maniera nettissima - nella sfida finale il campione russo Boris Spasskij,
detentore del titolo.

                                                     L’americano, un vero fenomeno
                                                     come scacchista, ma purtroppo
                                                     bizzoso e paranoico, non giocò più
                                                     incontri ufficiali e non accettò le
                                                     condizioni della F.I.D.E. per il
                                                     match con il nuovo sfidante
                                                     (avanzando       alcune    proposte
                                                     effettivamente inaccettabili, come
                                                     quella che il campione avrebbe
                                                     mantenuto il titolo anche se avesse
                                                     perso per un solo punto) ed
                                                     abbandonò addirittura - come
forma estrema e francamente incomprensibile di protesta… - gli scacchi, gettando
nella costernazione tanti milioni di appassionati, che si erano avvicinati al gioco
proprio attirati dalle sue gesta (ed io sono uno di loro…).
Il giovane sfidante russo Anatoly Karpov (che aveva vinto le selezioni per arrivare a
giocare con lui) venne dichiarato campione del mondo per “forfait” ed i sovietici
tornarono a dominare ancora, anche se non più con la superiorità indiscussa dei
decenni passati, le scene scacchistiche mondiali.
Molto era infatti cambiato: sulla scia della grande notorietà che avevano ricevuto dal
match di Reykjavik, gli scacchi si diffusero capillarmente e trovarono in occidente
generosi sponsor, che resero il gioco remunerativo anche per i giocatori non sovietici
(che non godevano delle loro ricche sovvenzioni statali), che poterono finalmente
dedicarsi professionalmente agli scacchi. Inoltre tanti fortissimi giocatori sovietici,
che non riuscivano ad emergere in patria per la spietata concorrenza, emigrarono in
occidente, soprattutto dopo l’apertura delle frontiere a seguito del crollo dell’impero,
trasmettendo la loro impagabile esperienza.
Tutto ciò contribuì alla nascita un po’ dovunque di agguerriti giocatori, e
all’affacciarsi di realtà scacchistiche completamente nuove (a cominciare dalla Cina,
paese in cui - come in tutto l'estremo oriente - gli scacchi si diffusero molto più tardi
rispetto agli altri paesi per la concorrenza dei giochi più tradizionali).
I russi riuscirono comunque ancora a vincere il titolo mondiale fino al 2000, quando
lo strappò loro il giovane indiano Viswanathan Anand. Ma da allora riuscirono ad
aggiudicarsi il titolo soltanto una volta (nel 2006, con Vladimir Kramnik).

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Oggi il gioco è praticato da milioni di appassionati sparsi un po’ dovunque e il titolo
mondiale - anche se sono ancora in attività tanti formidabili giocatori russi - è tornato
ad essere una disputa aperta agli scacchisti di tutto il mondo.
Ma veniamo ai giorni nostri: nel mese di dicembre 2018 (e quindi proprio mentre
stendevo questo opuscolo) si è disputato a Londra il match per il titolo mondiale tra il
28enne norvegese Magnus Carlsen (campione in carica) ed il 26enne statunitense
Fabiano Caruana (sfidante, nato a Miami, ma in possesso anche della cittadinanza
italiana, essendo di madre italiana e di padre italo-americano: dal 2008 al 2015 -
quando era ancora poco più che adolescente - ha giocato con la nostra nazionale ed è
stato anche quattro volte campione italiano)
                                                             Ha vinto - ma di stretta
                                                             misura e soffrendo fino
                                                             alla fine - il norvegese, che
                                                             si è così confermato
                                                             campione mondiale, ma il
                                                             nostro connazionale gli ha
                                                             tenuto gagliardamente testa
                                                             ed ha ceduto solo negli
                                                             spareggi a tempo ridotto (e
                                                             quindi molto meno validi
                                                             sotto il profilo tecnico),
essendo terminato perfettamente alla pari l’incontro a cadenza normale (6 a 6).
Si può sicuramente affermare - come del resto ha dichiarato molto sportivamente il
campione norvegese nella sua conferenza stampa durante la cerimonia di
premiazione - che Caruana si è dimostrato al suo stesso livello.
Sorprenderà magari chi non segue le vicende le nostro gioco che a contendersi il
titolo siano stati due giovanissimi: l’età media dei campioni di scacchi (piuttosto alta
prima della grande guerra, con stagionati campioni che riuscivano a fare valere la
superiore esperienza nei confronti dei giocatori più giovani) si è andata infatti
progressivamente abbassando, ed oggi si sta uniformando a quella di qualunque altra
attività agonistica, poiché il gioco è diventato un vero sport (sia pure di tipo
particolare, non richiedendo un vero impegno muscolare), con necessità di una
accurata e spesso esasperata preparazione fisica e mentale, con tanto di “trainer”.
Anche se stupirà non poco i neofiti, uno studio fatto già in occasione del torneo
internazionale di Mosca del 1925 (peraltro contestato nel mondo accademico perché
troppo empirico) evidenziò che il dispendio psico-fisico dei giocatori partecipanti
alla competizione non era stato inferiore a quello delle altre competizioni
agonistiche!
Quale che sia il valore da dare al test di Mosca (non ne sono purtroppo seguiti altri),
è di palese evidenza che durante i tornei (ovviamente parliamo di competizioni ad
altissimo livello!) si consumano tesori di energie fisiche e nervose e si perde spesso
anche peso, soprattutto per la insostenibile e prolungata tensione.

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Nel mondiale del 1984, tra i sovietici Anatoly Karpov e il talento emergente Garry
Kasparov (appena 21 anni!), la sfida - che in quella edizione non aveva un numero
prefissato di partite, ma avrebbe assegnato il titolo di campione alla sesta vittoria,
come nel famoso match Capablanca-Alekhine del 1927 - si protrasse oltre il
prevedibile per il grande equilibrio e venne interrotta per intervento medico alla
quarantottesima partita (!), dopo cinque mesi di gioco, senza decretare il vincitore
perché il primo, campione in carica e più anziano, nonché più gracilino, aveva perso
quasi 10 chili durante l’incontro e rischiava serie conseguenze se la sfida fosse andata
avanti. La decisione della F.I.D.E, per la verità, non venne accolta bene dallo
sfidante, che pure era al momento in svantaggio di due punti, ma che si sentiva ormai
sicuro di sconfiggere il quasi agonizzante rivale, anche perché aveva vinto in bello
stile tre delle ultime partite.
                                         In ogni caso, nella sfida “bis” disputata l’anno
                                         successivo      (con    punteggio     azzerato),
                                         Kasparov si aggiudicò in modo convincente il
                                         titolo, che mantenne poi per altre tre volte
                                         giocando sempre contro Karpov, anche se nel
                                         1987 lo salvò soltanto con un pareggio,
                                         vincendo - con vero un colpo di reni… -
                                         l’ultima partita e raggiungendo il rivale!

Ma opportunamente, per evitare il ripetersi di situazioni incresciose come quella
sopra descritta, da allora la F.I.D.E. non ha più organizzato sfide mondiali senza
porre dei precisi limiti di partite. La tendenza è anzi di ridurle il più possibile: gli
ultimissimi mondiali si sono disputati sulla distanza di sole dodici partite.
Preoccupandosi poco del fatto che magari il titolo (come è avvenuto con Carlsen)
venga assegnato - non troppo sportivamente - in spareggi a tempo ridotto o
ridottissimo: queste partite sono certamente molto più emozionanti e sono
particolarmente apprezzate dal grosso pubblico e dagli sponsor…

Il prossimo sfidante di Carlsen è uscito dal travagliato Torneo dei Candidati disputato
a Ekaterinburg, in Russia, iniziato nel marzo 2000, ma poi sospeso per quasi un anno
a causa della sopraggiunta pandemia, e ripreso e terminato solo nel maggio 2021: ha
vinto il trentenne russo Ian Nepomniachtchi, che sfiderà Carlsen nel novembre 2021.

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L'Università Popolare di Veroli (UPV) nasce nel 2017, con
l'ambizione di contribuire a promuovere in paese la cultura a
livello popolare.
      Pur non disponendo di finanziamenti esterni o di contributi
pubblici, riesce comunque ad offrire sin dal primo anno agli
iscritti, grazie al contributo generalmente gratuito di insegnanti
di grande spessore tecnico e culturale (alcuni dei quali
addirittura accademici universitari), un incredibile ventaglio di
corsi.
      Ovviamente nell'ambito degli statutari limiti di un
insegnamento a carattere divulgativo e popolare, ma libera dai
legacci dei tradizionali programmi scolastici, spazia infatti da
corsi che si rifanno alle classiche materie scolastiche (letteratura,
storia, musica, ecc.) a corsi di contenuto più pratico (cucina,
erbe mediche, fotografia, ecc.) e addirittura ludico (scacchi,
bridge, balli di gruppo ecc.), ma sempre proposti anche sotto un
profilo culturale e storico, nell'ottica della crescita sociale ed
intellettuale degli allievi. Sotto questo aspetto ha organizzato
anche un grande numero di eventi collaterali, spaziando da
apprezzate manifestazioni musicali a conferenze di vario genere e
di grande interesse.
      La modesta quota associativa (€. 25,00 annue), dà accesso -
gratuito o con un piccolo concorso alle spese vive - a tutti i
corsi, ma soprattutto contribuisce alla sopravvivenza di una
associazione senza fine di lucro e di grande importanza sul
territorio.

              Per informazioni ulteriori:
               www.upver.altervista.org

                                                                   15
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