BREVE STORIA DEGLI SCACCHI - Massimo Cristofari - Altervista
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Le origini del gioco degli scacchi si perdono sicuramente molto indietro nel tempo, anche se la sua antichità viene in genere piuttosto sovrastimata. Gli studiosi non sono ancora arrivati a conclusioni certe né sul luogo di origine né sull’epoca: si ritiene comunque che siano nati in oriente (in periodo imprecisato), quasi certamente in India, da cui il gioco passò verso est in estremo oriente (dove però non riuscì a sradicare i giochi tradizionali e più antichi come il “Go”) e verso ovest in Persia, intorno al 500 d.C. (e di là abbastanza rapidamente nel vicino mondo arabo, dove il gioco mise invece solide radici e da dove, ma molto più tardi, passò in occidente - con regole già ben definite - soprattutto attraverso le invasioni arabe). In alcuni poemi persiani del 550 d.C. si parla di un gioco da tavolo (lo “Chatrang”) che sembra abbastanza simile agli scacchi. E si fa riferimento ad un gioco ancora più vecchio di derivazione indiana (il “Chaturanga”, cioè esercito diviso in quattro armate, di cui esisteva anche una bizzarra versione per quattro giocatori). Nel 1072 sono stati rinvenuti nell’Uzbekistan (località Afrasaib) degli antichi pezzi di Chaturanga finemente lavorati, che sono stati inizialmente datati 760 d.C. (poiché in quel sito archeologico venne rinvenuta anche una moneta del 761 d.C.). Ma sicuramente il gioco doveva esistere già da molto tempo proprio per la pregiata manifattura dei pezzi: si ipotizzano perciò come nascita del gioco i primissimi secoli dopo Cristo. Ma va fatta subito una precisazione doverosa: si parla di scacchi sempre e soltanto per l’utilizzo di scacchiere simili a quella attuale e di pezzi aventi fogge diverse tra loro, e quindi diversi per movimento e cattura - al contrario degli altri giochi da tavolo come la dama, che utilizzavano pedine tutte uguali -, trattandosi di giochi con regole anche molto diverse da quelle attuali. Si ritiene che gli scacchi che conosciamo oggi siano arrivati in occidente - Italia compresa - non prima dell’anno 1000 d.C. (anno in cui si sono trovate le prime tracce documentali), con le conquiste arabe della Spagna e della Sicilia. È assodato che i romani non conoscessero gli scacchi (e neppure la dama), anche se esistevano diversi “giochi da tavoliere”: tra i giochi che utilizzavano una scacchiera di 8x8 caselle e pezzi mobili, era molto diffuso il “ludus latrunculorum (gioco dei soldati)”, ma nessuno è riuscito a stabilirne bene le regole. Pare comunque che un pezzo venisse catturato solo per “imprigionamento”, quando cioè veniva circondato da pezzi nemici su una linea o su una fila, ed era quindi un gioco assai lontano dagli scacchi. Una relativamente recente scoperta archeologica creò per la verità molto sconcerto e diverse polemiche tra gli studiosi: in alcuni scavi effettuati nel 1932 a Venafro vennero trovati degli eleganti pezzi intarsiati in osso (attualmente custoditi nel Museo Archeologico di Napoli). Secondo la stratigrafia del sito archeologico vennero originariamente datati tra il III e il IV secolo d.C. (e quindi appunto in epoca romana, contraddicendo le convinzioni degli storici fino ad allora), ma molti studiosi anglosassoni, anche poiché riproducevano perfettamente i pezzi presenti nei codici miniati del Medioevo (che erano molto stilizzati probabilmente per la loro derivazione araba, proibendo l’Islam 2
la rappresentazione di esseri viventi), ritennero di doverli datare molto più avanti, in epoca medioevale. La diatriba venne risolta solo nel 1994, quando venne autorizzata la datazione con il radiocarbonio, che ne confermò definitivamente la fabbricazione medioevale: esattamente l’anno 980 dopo Cristo. È ovviamente impossibile pensare che un gioco così ingegnoso sia stato parto di una sola mente: è scontato invece che abbia subito una lenta evoluzione (probabilmente di secoli), con “mutazioni” che ogni volta avvicinavano di più il gioco a quello moderno. Ma, in mancanza di riscontri documentali, non è possibile ricostruirla con sicurezza. I più antichi manoscritti occidentali che si occupano degli scacchi partono dall’anno 1000: non ci sono partite complete, ma soltanto “partiti”, cioè problemi ingegnosi, con enunciati molto eterogenei (a differenza dei codici arabi, che contenevano anche alcune partite). Si tratta di posizioni in genere con pochissimi pezzi, ma dalle soluzioni piuttosto difficili da trovare. Non c’era dietro - a differenza delle composizioni moderne, spesso delle vere gemme - alcun anelito artistico: la ragione è che su di loro i giocatori scommettevano somme di denaro, anche consistenti, proponendoli ad altri giocatori, ed erano perciò volutamente sottili ed ingannevoli. Si sa che il gioco ebbe molta presa negli ambienti ecclesiastici, anche se per secoli il gioco venne, almeno in maniera ufficiale, valutato negativamente dalla Curia. Non a caso la prima apparizione del termine “scacchi” (derivato quasi certamente dal persiano “Shah”, cioè Re) si trova in una lettera del 1061 di San Pier Damiani all’allora Pontefice Alessandro II, nella quale - deplorando la passione per giochi come i dadi e gli scacchi - lo informava di una penitenza che aveva inflitto al vescovo fiorentino, che aveva trascorso gran parte della notte in questo gioco. Il vescovo aveva replicato che gli scacchi, gioco di ingegno, non potessero equipararsi ai dadi, gioco di mero azzardo, ma il Damiani non aveva voluto sentire ragioni: per lui il termine di “alea”, indicante i giochi proibiti dalla Chiesa, comprendeva anche gli scacchi. Questa condanna a così alto livello pesò a lungo sul nostro gioco e venne ufficialmente ribadita nel Concilio del 1255: questa severità derivava probabilmente dal fatto che nel medioevo si giocasse spesso a scacchi anche con l’ausilio di dadi per decidere quale pezzo muovere e che venivano impegnate poste in denaro. Ma, nonostante la contrarietà della Chiesa, gli scacchi ebbero nel medioevo una crescente diffusione e il gioco venne subito visto - almeno fuori dell’ambito 3
ecclesiastico - come un’attività che invece elevava culturalmente e socialmente il praticante, a differenza dei dadi e delle carte, considerati come giochi da taverna. Anche Dante, col “doppiar degli scacchi” riferito al numero infinito degli angeli del Paradiso, fa cenno nella Divina Commedia al gioco, che doveva essere quindi già di generale conoscenza nel 1300. La più antica raccolta occidentale di “partiti” di cui si ha notizia fu il manoscritto fatto compilare a Siviglia nel 1283 da Alfonso X “El Sabio”, che comprendeva (come anche i successivi) anche problemi di "tric-trac" e altri giochi da tavoliere. Studiato e apprezzato, il manoscritto venne addirittura dato alle stampe - e in una lussuosa edizione - in Svizzera nel 1941. Analoghi manoscritti vennero pubblicati in Europa (soprattutto Francia), ed anche in Italia abbiamo avuto pregevoli lavori - per lo più scritti in latino - in cui gli autori hanno preferito incomprensibilmente mantenere l’anonimato (i più celebri sono il “Bonus Socius”, che si trova in esemplare unico nella biblioteca nazionale di Firenze, e il “Civis Bononiae”, di cui si contano tre sole copie in Italia, nelle biblioteche di Firenze, di Roma e Vaticana). Fino al 1300 il gioco non differì nella sostanza da quello arabo, di cui erano integralmente state importate le regole. Ma, giocandosi in occidente a scommessa, il gioco appariva troppo lento, soprattutto nella fase iniziale: le armate venivano infatti in contatto solo dopo molte mosse. Per questo motivo ebbero più successo i “partiti”, sicuramente molto più rapidi ed interessanti, e apparvero esclusivamente raccolte di questi problemi, quasi sempre - come detto - da proporre agli avversari come scommessa. I pezzi nelle loro fogge erano sostanzialmente quelli che ci sono stati tramandati, ma le regole di movimento e di gioco erano molto diverse da quelle attuali, escludendo il Cavallo e la Torre, che hanno sempre avuto l’attuale movimento (ed infatti il matto dato con Torri e Cavalli viene detto “matto degli arabi”). Il pedone, ad esempio, muoveva sempre e solo di una casella in avanti; non esisteva quindi la doppia spinta iniziale e conseguentemente neppure la cattura "en passant". L’Alfiere muoveva in diagonale come l'attuale, ma soltanto di due caselle, saltando obbligatoriamente quella di mezzo. La Donna (che sarebbe diventata - secondo una poetica definizione - l’“Achille di questa guerra” per la sua formidabile potenza di azione) era addirittura il pezzo più debole: muoveva infatti solo di una casella in diagonale! E quindi più forte di lei era anche il Re, che - pur col suo movimento limitatissimo - poteva almeno muoversi anche ortogonalmente. Non esisteva l’arrocco. A fine secolo si decise di dare una diversa colorazione alle caselle (alternativamente chiare e scure, probabilmente per rendere più visibile il movimento sulle diagonali) e la scacchiera diventò quindi definitivamente quella che conosciamo oggi. È certo che per lungo tempo venissero utilizzati - non si sa in che occasioni e per quante mosse - anche i dadi per sorteggiare il pezzo che si doveva muovere, allo scopo di accelerare il gioco e renderlo più imprevedibile. Non ci sono dubbi sul fatto che i giocatori scommettessero somme consistenti: in Italia sono state trovate infatti diverse sentenze - a partire dal 1200 - relative a diatribe giudiziarie, soprattutto 4
perché alcune norme erano di difficile interpretazione (per esempio il caso del pedone “signatus”, pezzo con cui si era obbligati a dare il matto: sorse la questione se era valido il matto dato non con il pedone, ma con la Donna derivante dalla promozione del pedone stesso!). Nel 1400 - dopo lunghi secoli di cieco conservatorismo, nonostante fosse divenuta evidente la loro inadeguatezza - cominciò finalmente ad evolversi il movimento dei pezzi, soprattutto in Italia, meno influenzata dalla cultura araba, allo scopo di accelerare il gioco. Così il pedone poté saltare di due caselle alla sua prima mossa ed anche al Re e alla “Fersa” (come si definiva la Donna scaturente da promozione di un pedone) venne leggermente ampliato il raggio di azione, potendo saltare alla loro prima mossa rispettivamente come il Cavallo (o anche diversamente in certe versioni: una sorta di anticipazione del movimento dell’arrocco) e l’Alfiere. Non ci sono state tramandate partite giocate prima del ‘500, ma il gioco - per le regole che c’erano - era sicuramente lentissimo e noioso nello sviluppo dei pezzi. I giocatori, poiché le armate non potevano venire velocemente a contatto, creavano delle fortezze all’interno della propria metà campo prima di iniziare le operazioni di attacco. Come rimedio alla eccessiva lentezza del gioco nella fase iniziale, sempre più spesso i giocatori si accordavano per partire da posizioni speculari precostituite (i cosiddetti “tabi”), nelle quali i pezzi erano già sviluppati ed attivi. Ma la strada per una riforma sostanziale del gioco, che si sentiva ormai come indilazionabile, era stata tracciata. Tranne la doppia spinta iniziale dei pedoni (rimasta ancora oggi), le leggere innovazioni descritte sopra in Italia scomparvero (non è chiaro se anche queste ad iniziativa italiana) per lasciare spazio a modifiche ben più radicali, che resero il gioco molto più rapido ed aggressivo: la Donna divenne il pezzo più forte della scacchiera (potendo muovere liberamente in tutte le direzioni) e al Re fu consentito l’arrocco. Ed anche l’Alfiere accrebbe di molto la potenza, dominando finalmente l’intera diagonale, anche se perdendo la facoltà di saltare il pezzo che trovava eventualmente sulla sua strada. Le modifiche riguardarono all’inizio solo il gioco vivo, perché i “partiti” continuarono ad essere proposti con le vecchie regole di movimento. Probabilmente perché, trattandosi di posizioni su cui si scommettevano somme di denaro, i giocatori preferivano quelle consolidate dal tempo e non quelle con le nuove regole, che potevano contenere degli errori. L’evoluzione delle nuove regole di movimento si era definitivamente completata quando apparve la prima opera scacchistica a stampa (nel 1496). È da questa data che possiamo far nascere la storia “sportiva” del gioco, in contrapposizione a quella “erudita” (su cui restano - e resteranno probabilmente per sempre - una infinità di ombre, che lasciamo volentieri agli studiosi di storia). Nel 1500 i pezzi diventano molto più eleganti, in legno di bosso lavorato al tornio. Una serie di fattori positivi concomitanti fanno fare al gioco in questo secolo un formidabile salto in avanti: l’invenzione della stampa, l’anelito intellettuale del Rinascimento, il mecenatismo di molte corti (che si contendevano con ricchi compensi i migliori giocatori). 5
Gli scacchi, portati là sicuramente dagli arabi, si diffusero innanzi tutto, molto rapidamente, in Spagna (soprattutto tra i ceti più elevati ed il clero), che era del resto all’epoca all’avanguardia in tutti i settori della cultura. L’avvento della stampa di cui si è detto consentì una rapida e capillare diffusione dei libri di scacchi, che non erano più i pochissimi, costosi e quasi introvabili manoscritti medioevali, riservati ai nobili più facoltosi. Il primo libro stampato (Valencia 1496) fu opera di un autore sconosciuto, un certo Francisco Vincent: era soltanto una mera raccolta di “partiti”: “Libre dels jochs partits dels Schachs en nombre de 100”. Di questo testo non sono purtroppo sopravvissute copie, neanche mutile, e non si sa perciò nulla del suo contenuto. Maggiore successo ebbe invece il libro di scacchi pubblicato, ancora in Spagna, da Luis Ramirez de Lucena (Salamanca 1497) “Repeticion de Amores er Arte del Axedrez con CL juegos de partido” (i libri dell’epoca avevano spesso titoli molto ampollosi…), che ebbe addirittura varie ristampe e traduzioni: comprende una ventina di aperture di gioco diverse e 101 problemi. Le regole di movimento sono quelle attuali, ma poiché erano da poco state codificate, il lavoro non ha - e non poteva ovviamente avere - un grande valore teorico. Nel 1512 il portoghese Pedro Damiano pubblicò a Roma il primo libro di teoria in italiano (se ne conservano solo tre esemplari) “Il libro de imparare a giochare a scachi et de li partiti”: descrive diverse aperture, e presenta partite complete e finali. Anche questo libro ebbe grande successo, con diverse ristampe e traduzioni. Più importante di tutti fu però il libro di Ruy Lopez de Segura (Alcala 1561) “Libro de la invencion liberal y arte del juego del Axedrez, muy util y prouechosa”, che divenne per lungo tempo la Bibbia del giocatore di scacchi e fu tradotto anche in italiano (ne posseggo anch’io una pregiata ristampa anastatica, di cui mi ha fatto dono alcuni anni fa un caro amico) e diede un impulso formidabile alla diffusione e allo studio scientifico del nostro gioco. Anche se l’opera non contiene nulla di sostanzialmente nuovo rispetto ai lavori che l’avevano preceduta, nel libro del Ruy Lopez non troviamo più soltanto una mera successione delle mosse delle varie aperture riportate, ma - per la prima volta, pur con gli inevitabili limiti di profondità della ricerca - delle vere analisi ragionate sugli impianti di apertura proposti, con suggerimenti su come condurre il gioco. Ruy Lopez analizzò le aperture con pensiero moderno, con lo scopo di contribuire a migliorare il gioco dei lettori e non più per dare loro dei consigli e suggerimenti finalizzati a guadagnare denaro attraverso le scommesse. Per lo stesso motivo non inserì alcun “partito” nella sua opera. 6
Nel 1600 gli italiani strapparono lo scettro agli spagnoli: la nostra penisola vide fiorire giocatori di grande talento, sia nel gioco vivo che nel campo teorico (Paolo Boi, Leonardo da Cutro - più noto come “il Puttino” -, Giulio Cesare Polerio, Pietro Carrera, ma soprattutto il geniale Gioacchino Greco, detto “il Calabrese”). Si parla giustamente in questo secolo di una “scuola italiana”, caratterizzata da un gioco ingegnoso ed aggressivo: l’obiettivo diventava sin dalle prime mosse direttamente il Re avversario, che veniva violentemente sbalzato via dal suo trono (anche con audaci sacrifici di materiale) per metterlo allo scoperto e poterlo attaccare più facilmente. In Italia il gioco si diffuse - diversamente dalla Spagna, Inghilterra e Francia -, non nei caffè ma nelle “Accademie”, che erano dei centri culturali in cui si riunivano persone colte per discutere di argomenti vari e divertirsi con giochi di società. Ma se in Francia gli scacchi si connotarono come passatempo prevalentemente aristocratico (e praticato solo nei “cafè” più esclusivi), in Inghilterra divennero un giuoco popolare. Nel 1700 però il primato passò decisamente in Francia, sulla scia del grande sviluppo culturale che rivitalizzò quel paese. Alfiere di questa riscossa fu Francois André Danican Philidor (musicista di professione), che contrappose la sua scuola scientifica a quella estrosa e creativa degli italiani nel secolo precedente. Il suo libro “Analise du jeu des echecs” (Londra 1749), più volte ristampato e tradotto in varie lingue, ebbe una straordinaria diffusione in tutta Europa ed influenzò tantissimo i giocatori ed il gioco di tutti gli scacchisti dell’epoca, che rimanevano affascinati dalla maniera razionale con cui l’autore riusciva - nelle proprie partite presentate nel libro - a demolire gli avversari soffocandoli poco a poco. Liberata progressivamente la scacchiera dalla moltitudine iniziale dei pezzi attraverso opportuni cambi, la vittoria era quasi sempre decisa da una avanzata irrefrenabile di pedoni, che smantellavano ogni difesa avversaria. Anche se probabilmente non diede un contributo al nostro gioco pari alla sua fama, Philidor fu il primo scacchista a porre le fondamenta del gioco posizionale, di cui i pedoni - fino ad allora molto trascurati, soprattutto nel secolo precedente - diventano addirittura l’elemento essenziale, costituendo lo scheletro della posizione e l’arma finale per annientare gli avversari (“I pedoni sono l’anima degli scacchi” ripeteva con convinzione il maestro francese). Il secolo segna purtroppo l’allontanamento e l’emarginamento per quasi due secoli dell’Italia dalle grandi correnti scacchistiche europee, non tanto per mancanza di giocatori di qualità (abbiamo avuto anche nel ‘700 teorici di assoluto spessore internazionale come Ercole Del Rio, Giovanbattista Lolli e Domenico Lorenzo Ponziani - tutti cresciuti a Modena e noti appunto come "il trio modenese" -, che ci hanno lasciato opere fondamentali sui finali di partita, valide ancora oggi), ma perché il nostro paese si ostinò tenacemente a mantenere le regole italiane, ormai diverse da quelle di tutti gli altri paesi europei (secondo queste nostre bizzarre regole il pedone poteva essere promosso solo in un pezzo mancante e se non c’erano pezzi disponibili 7
la promozione restava “sospesa”, l’arrocco poteva essere effettuato portando il Re e la Torre in qualunque casa intermedia, non era ammessa la presa “en passant”). Inoltre la nostra lingua era molto meno conosciuta di quella francese ed anche questo contribuì a far passare in sottordine le nostre produzioni, che pure erano di qualità assoluta. Nocque infine anche il fatto che i tre giocatori modenesi condussero una vita molto schiva (Del Rio e Ponziani firmarono addirittura i loro pregiati testi con pseudonimi: “Autore Modenese” e “Anonimo Modenese”), laddove Philidor viaggiò per mezza Europa e si fece conoscere ed apprezzare ovunque. Il 1800, che si caratterizzò per l’avvento tumultuoso del Romanticismo in tutti i settori culturali, con crescente insofferenza verso il freddo razionalismo della scienza, si connotò negli scacchi per una diffusa e crescente avversione verso il gioco troppo scientifico francese, che - specialmente con i successori di Philidor, di statura molto inferiore al maestro - era diventato troppo monotono e noioso. La partita di scacchi, come tutti gli aspetti della vita, doveva essere illuminata dal sentimento: doveva essere vivace, coraggiosa, aggressiva. Iniziò uno studio appassionato delle opere dei giocatori italiani del ‘600 (che erano state all’epoca molto sottovalutate, e che presentavano attacchi ingegnosi sin dalle primissime mosse, e che vennero sorprendentemente riscoperte), ed ovviamente soprattutto del loro portabandiera Gioacchino Greco. Le partite diventarono degne di essere pubblicate sulle riviste specialistiche solo se impreziosite da sacrifici audaci e trovate ingegnose (con un contestuale - e onestamente ingiustificato - disinteresse per i finali: spesso le partite più lunghe venivano riportate nei libri e nelle riviste solo fino a che il vincitore aveva ottenuto una posizione chiaramente vinta, dal momento che la realizzazione tecnica del vantaggio materiale era considerata poco interessante dai lettori). È l’epoca d’oro dei “gambetti” (sacrifici di pedone in apertura) per guadagnare tempi di sviluppo, che era considerato quasi disonorevole non accettare: il rifiuto del gambetto e delle complicazioni tattiche poteva fare etichettare il giocatore come codardo! Le partite della prima metà dell’Ottocento sono perciò sempre spettacolari ed emozionanti, ancorché spesso - da un mero punto di vista tecnico - piuttosto scorrette. Il giocatore più importante di questo periodo (ed in cui più degli altri si trovano riuniti le temerarietà, le sofferenze e i tormenti tipici dell’epoca romantica) fu l’americano Paul Morphy, una meteora che illuminò di luce accecante - anche se per un periodo brevissimo di soli tre anni - il nostro gioco. Ma giocatori di enorme statura conobbero anche la Germania (soprattutto), la Russia e l’Inghilterra. Solo dopo la metà del secolo apparve finalmente un giocatore italiano all’altezza degli altri europei (ancorché, purtroppo, problemi finanziari gli impedirono una adeguata partecipazione ai tornei): Serafino Dubois, nato a Roma ma di fatto un vagabondo per l’Europa. Giocatore di prima forza e stimato teorico, diede anche alle stampe a Roma nel 1845 un pregiato libro in lingua francese sulle aperture e fondò nel 1859 la Prima rivista italiana di scacchi (“La Rivista degli Scacchi”), che pubblicava soprattutto partite “all’italiana” (cioè con le nostre regole particolari), 8
anche se non mancavano partite “alla francese”. Ebbe purtroppo solo un anno di vita, ma contribuì al risveglio scacchistico nel nostro paese. Il primo campionato nazionale italiano (purtroppo, come diceva il bando, “secondo le leggi dell’autore modenese tuttora vigenti in Italia”, che era Ponziani) si ebbe a Roma nel 1875, ma, nonostante la buona dotazione di premi in denaro, parteciparono solo nove giocatori: vinse l’ingegnere Pietro Seni. Dubois predispose poco tempo dopo anche un apprezzato “libro del torneo”, che raccoglieva le migliori partite. Ma ormai cominciava a crescere in molti giocatori italiani la volontà di adeguare le regole di gioco a quelle degli altri paesi: ad iniziativa soprattutto di Carlo Salvioli (notaio di professione e massimo teorico italiano a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, che aveva iniziato una battaglia aspra per eliminare - come ripeteva - la “vergognosa distanza che ci separa dal resto del mondo”), nel 1881 si giocò un torneo nazionale finalmente con le regole internazionali, vinto proprio dal Salvioli. Il binario era stato tracciato e l’Italia si apprestava a rientrare finalmente in Europa, anche se non avrebbe purtroppo più colmato il profondo solco che ormai la separava dalle altre nazioni più progredite, che anzi - per tutta una serie di ragioni diverse - si sarebbe addirittura allargato nel secolo successivo! Nel 1900 si ebbe il primo campionato italiano di scacchi con le nuove e ormai stabilizzate regole, cui venne invitato il miglior giocatore di ogni circolo italiano. Una buona idea (era in effetti una sorta di “Coppa dei campioni” nazionale…), ma i partecipanti furono soltanto otto: vinse Arturo Reggio, che divenne un giocatore apprezzato in tutta Europa, anche se non di primissimo piano (ma la concorrenza si era fatta davvero spietata, perché erano sbocciati in quel periodo tantissimi fuoriclasse di valore assoluto!). Gli scacchi erano ormai un gioco in costante crescita e in via di diffusione in sempre nuovi paesi: come naturale conseguenza, nel 1924 nacque a Parigi la Federazione scacchistica internazionale, la “F.I.D.E.” (acronimo per “Fédération Internationale des Echecs”), costituita inizialmente da sole 15 nazioni, tra cui l’Italia, ma che è oggi una delle associazioni col maggior numero di federazioni nazionali aderenti. Ci vorranno però ancora molti anni prima che la F.I.D.E. cominciasse a gestire in prima persona le grandi manifestazioni, a cominciare dal titolo mondiale (che fino alla seconda guerra mondiale era considerato patrimonio del campione in carica, che valutava lui stesso le “borse” e le condizioni che gli proponevano gli sfidanti e decideva poi liberamente se e dove mettere in palio il suo titolo). Nel frattempo il “Romanticismo” era stato ormai lasciato alle spalle anche negli scacchi, ed a partire dalla seconda metà dell’Ottocento il gioco diventa meno irruento 9
ed audace: soprattutto aperture e finali vennero finalmente e di nuovo sottoposti ad analisi più accurate e scientifiche. Ci fu in tutta Europa, a cavallo tra i due secoli, un incredibile fiorire di formidabili campioni (a cominciare dal tedesco Emmanuel Lasker, che vediamo nella foto, professore di matematica, che conservò il titolo mondiale per ben ventisei anni, cedendo lo scettro solo all’età di 53 anni!). Ma soprattutto si affacciarono prepotentemente nel panorama scacchistico due stelle di prima grandezza, che riusciranno ad oscurare completamente la pur fortissima concorrenza: il leggendario cubano Jose Raul Capablanca - campione in carica e per anni considerato imbattibile - ed il formidabile russo Alexander Alekhine, sicuramente due dei più grandi giocatori di tutti i tempi (se non addirittura i due più grandi in assoluto), ancorché molto diversi tra loro sia come gioco che come carattere: persona raffinata, dal gioco logico e razionale il primo, persona sanguigna, dal gioco aggressivo e geniale il secondo. La sfida tra questi due colossi, attesa con ansia da tutto il mondo scacchistico, dopo diversi anni di rinvii da parte del cubano per insufficienza della “borsa” e altri pretesti più o meno validi, venne finalmente disputata a Buenos Aires nel 1927 e finì sorprendentemente - dopo una lunghissima e aspra contesa, con ben 25 partite terminate patte - a favore del russo. Capablanca - che non aveva mai perso in precedenza una partita di torneo contro Alekhine e si presentò forse per questo all’appuntamento (assai colpevolmente per un campione del suo calibro…) dopo una lunga inattività e sicuramente non al massimo della condizione - cercò invano, piccato dalla sconfitta inattesa, di organizzare al più presto un “match” di rivincita, ma il russo gli frappose le stesse difficoltà che aveva dovuto affrontare lui, accettando invece - quasi provocatoriamente - di mettere in 10
palio il titolo contro avversari meno titolati, ancorché di indubbia caratura tecnica: affrontò infatti due volte il russo naturalizzato tedesco Efim Bogoljubov (vincendo con autorità entrambe le volte) e poi il giovane matematico olandese Max Euwe (perse sorprendentemente, anche se di misura, il primo match nel 1935 - ma si era presentato in condizioni fisiche pietose ed addirittura spesso visibilmente ubriaco durante le partite -, però si rifece alla grande nella rivincita nel 1937). Ma purtroppo la nuova, attesissima, sfida tra i due colossi non ebbe mai luogo perché nel frattempo scoppiò la seconda guerra mondiale, che ebbe conseguenze tragiche anche per gli scacchi, soprattutto in Europa: i tornei vennero forzatamente interrotti per anni ed i giocatori restarono quasi dappertutto inattivi. E qualcuno di loro perì in guerra o sotto i bombardamenti. Terminate le ostilità, la vita - pur tra le spaventose devastazioni ambientali ed umane - faticosamente riprese e si risvegliò anche l’attività scacchistica: si doveva innanzi tutto riassegnare il titolo mondiale, rimasto vacante a seguito della morte improvvisa nel 1946 in un albergo di Estoril (in circostanze per la verità mai completamente chiarite) del campione in carica Alekhine. Capablanca era invece già deceduto nel 1942. La F.I.D.E. invitò nel 1948 ad Amsterdam i sei più forti giocatori di quel periodo per contendersi - in un torneo tra di loro all’italiana - il titolo. In mancanza di criteri oggettivi di selezione, ci furono ovviamente diverse lamentele da parte di alcuni degli esclusi che si ritenevano meritevoli di convocazione. L’americano Reuben Fine, che intanto si era molto affermato come psichiatra, declinò - pur malvolentieri - l’invito per gli impegni della sua professione ed abbandonò definitivamente l’attività agonistica (pur restando sempre un grande appassionato e pubblicando alcuni testi scacchisti di eccezionale livello); non venne - per ragioni che ignoro - rimpiazzato ed il torneo divenne dunque un pentagonale. Vinse l’ingegnere russo Mikhail Botvinnik, che diventò così il primo campione mondiale del dopoguerra e diede inizio a quella che per circa mezzo secolo sarebbe stata una schiacciante egemonia sovietica, sia in campo maschile che femminile: dopo la guerra il governo sovietico investì molto, anche per motivi di prestigio internazionale, nella promozione e diffusione degli scacchi e i risultati furono straordinari, con un fiorire in Russia, nonché nei paesi baltici e in quelli caucasici (che dell'Unione facevano allora parte) di un numero incredibile di campioni di livello assoluto. Il titolo mondiale d’ora in avanti sarà gestito direttamente dalla F.I.D.E. (non essendo, per fortuna, più considerato patrimonio del campione uscente), che provvedeva a metterlo in palio ogni tre anni col sistema dello “challenge round”: il campione in carica, cioè, affrontava lo sfidante - che aveva superato una serie di selezioni - in un “match” su un certo numero di partite (che veniva stabilito di volta in volta secondo le richieste degli organizzatori e la volontà dei giocatori). I sovietici regnarono incontrastati - sia a livello individuale che negli incontri a squadre - fino al 1972, quando a Reykjavik il giovane americano Bobby Fischer - che era emerso da qualche anno in maniera prepotente sulla scena mondiale ed aveva 11
eliminato nelle qualificazioni (dimostrando una superiorità quasi umiliante nei confronti degli sconfitti) tutti gli altri fuoriclasse russi - riuscì, in un match da leggenda (che ebbe un’eco formidabile nei “media”, che caricarono l’evento anche di significati politici nel clima torbido di “guerra fredda” di quegli anni), a sconfiggere - ancora in maniera nettissima - nella sfida finale il campione russo Boris Spasskij, detentore del titolo. L’americano, un vero fenomeno come scacchista, ma purtroppo bizzoso e paranoico, non giocò più incontri ufficiali e non accettò le condizioni della F.I.D.E. per il match con il nuovo sfidante (avanzando alcune proposte effettivamente inaccettabili, come quella che il campione avrebbe mantenuto il titolo anche se avesse perso per un solo punto) ed abbandonò addirittura - come forma estrema e francamente incomprensibile di protesta… - gli scacchi, gettando nella costernazione tanti milioni di appassionati, che si erano avvicinati al gioco proprio attirati dalle sue gesta (ed io sono uno di loro…). Il giovane sfidante russo Anatoly Karpov (che aveva vinto le selezioni per arrivare a giocare con lui) venne dichiarato campione del mondo per “forfait” ed i sovietici tornarono a dominare ancora, anche se non più con la superiorità indiscussa dei decenni passati, le scene scacchistiche mondiali. Molto era infatti cambiato: sulla scia della grande notorietà che avevano ricevuto dal match di Reykjavik, gli scacchi si diffusero capillarmente e trovarono in occidente generosi sponsor, che resero il gioco remunerativo anche per i giocatori non sovietici (che non godevano delle loro ricche sovvenzioni statali), che poterono finalmente dedicarsi professionalmente agli scacchi. Inoltre tanti fortissimi giocatori sovietici, che non riuscivano ad emergere in patria per la spietata concorrenza, emigrarono in occidente, soprattutto dopo l’apertura delle frontiere a seguito del crollo dell’impero, trasmettendo la loro impagabile esperienza. Tutto ciò contribuì alla nascita un po’ dovunque di agguerriti giocatori, e all’affacciarsi di realtà scacchistiche completamente nuove (a cominciare dalla Cina, paese in cui - come in tutto l'estremo oriente - gli scacchi si diffusero molto più tardi rispetto agli altri paesi per la concorrenza dei giochi più tradizionali). I russi riuscirono comunque ancora a vincere il titolo mondiale fino al 2000, quando lo strappò loro il giovane indiano Viswanathan Anand. Ma da allora riuscirono ad aggiudicarsi il titolo soltanto una volta (nel 2006, con Vladimir Kramnik). 12
Oggi il gioco è praticato da milioni di appassionati sparsi un po’ dovunque e il titolo mondiale - anche se sono ancora in attività tanti formidabili giocatori russi - è tornato ad essere una disputa aperta agli scacchisti di tutto il mondo. Ma veniamo ai giorni nostri: nel mese di dicembre 2018 (e quindi proprio mentre stendevo questo opuscolo) si è disputato a Londra il match per il titolo mondiale tra il 28enne norvegese Magnus Carlsen (campione in carica) ed il 26enne statunitense Fabiano Caruana (sfidante, nato a Miami, ma in possesso anche della cittadinanza italiana, essendo di madre italiana e di padre italo-americano: dal 2008 al 2015 - quando era ancora poco più che adolescente - ha giocato con la nostra nazionale ed è stato anche quattro volte campione italiano) Ha vinto - ma di stretta misura e soffrendo fino alla fine - il norvegese, che si è così confermato campione mondiale, ma il nostro connazionale gli ha tenuto gagliardamente testa ed ha ceduto solo negli spareggi a tempo ridotto (e quindi molto meno validi sotto il profilo tecnico), essendo terminato perfettamente alla pari l’incontro a cadenza normale (6 a 6). Si può sicuramente affermare - come del resto ha dichiarato molto sportivamente il campione norvegese nella sua conferenza stampa durante la cerimonia di premiazione - che Caruana si è dimostrato al suo stesso livello. Sorprenderà magari chi non segue le vicende le nostro gioco che a contendersi il titolo siano stati due giovanissimi: l’età media dei campioni di scacchi (piuttosto alta prima della grande guerra, con stagionati campioni che riuscivano a fare valere la superiore esperienza nei confronti dei giocatori più giovani) si è andata infatti progressivamente abbassando, ed oggi si sta uniformando a quella di qualunque altra attività agonistica, poiché il gioco è diventato un vero sport (sia pure di tipo particolare, non richiedendo un vero impegno muscolare), con necessità di una accurata e spesso esasperata preparazione fisica e mentale, con tanto di “trainer”. Anche se stupirà non poco i neofiti, uno studio fatto già in occasione del torneo internazionale di Mosca del 1925 (peraltro contestato nel mondo accademico perché troppo empirico) evidenziò che il dispendio psico-fisico dei giocatori partecipanti alla competizione non era stato inferiore a quello delle altre competizioni agonistiche! Quale che sia il valore da dare al test di Mosca (non ne sono purtroppo seguiti altri), è di palese evidenza che durante i tornei (ovviamente parliamo di competizioni ad altissimo livello!) si consumano tesori di energie fisiche e nervose e si perde spesso anche peso, soprattutto per la insostenibile e prolungata tensione. 13
Nel mondiale del 1984, tra i sovietici Anatoly Karpov e il talento emergente Garry Kasparov (appena 21 anni!), la sfida - che in quella edizione non aveva un numero prefissato di partite, ma avrebbe assegnato il titolo di campione alla sesta vittoria, come nel famoso match Capablanca-Alekhine del 1927 - si protrasse oltre il prevedibile per il grande equilibrio e venne interrotta per intervento medico alla quarantottesima partita (!), dopo cinque mesi di gioco, senza decretare il vincitore perché il primo, campione in carica e più anziano, nonché più gracilino, aveva perso quasi 10 chili durante l’incontro e rischiava serie conseguenze se la sfida fosse andata avanti. La decisione della F.I.D.E, per la verità, non venne accolta bene dallo sfidante, che pure era al momento in svantaggio di due punti, ma che si sentiva ormai sicuro di sconfiggere il quasi agonizzante rivale, anche perché aveva vinto in bello stile tre delle ultime partite. In ogni caso, nella sfida “bis” disputata l’anno successivo (con punteggio azzerato), Kasparov si aggiudicò in modo convincente il titolo, che mantenne poi per altre tre volte giocando sempre contro Karpov, anche se nel 1987 lo salvò soltanto con un pareggio, vincendo - con vero un colpo di reni… - l’ultima partita e raggiungendo il rivale! Ma opportunamente, per evitare il ripetersi di situazioni incresciose come quella sopra descritta, da allora la F.I.D.E. non ha più organizzato sfide mondiali senza porre dei precisi limiti di partite. La tendenza è anzi di ridurle il più possibile: gli ultimissimi mondiali si sono disputati sulla distanza di sole dodici partite. Preoccupandosi poco del fatto che magari il titolo (come è avvenuto con Carlsen) venga assegnato - non troppo sportivamente - in spareggi a tempo ridotto o ridottissimo: queste partite sono certamente molto più emozionanti e sono particolarmente apprezzate dal grosso pubblico e dagli sponsor… Il prossimo sfidante di Carlsen è uscito dal travagliato Torneo dei Candidati disputato a Ekaterinburg, in Russia, iniziato nel marzo 2000, ma poi sospeso per quasi un anno a causa della sopraggiunta pandemia, e ripreso e terminato solo nel maggio 2021: ha vinto il trentenne russo Ian Nepomniachtchi, che sfiderà Carlsen nel novembre 2021. 14
L'Università Popolare di Veroli (UPV) nasce nel 2017, con l'ambizione di contribuire a promuovere in paese la cultura a livello popolare. Pur non disponendo di finanziamenti esterni o di contributi pubblici, riesce comunque ad offrire sin dal primo anno agli iscritti, grazie al contributo generalmente gratuito di insegnanti di grande spessore tecnico e culturale (alcuni dei quali addirittura accademici universitari), un incredibile ventaglio di corsi. Ovviamente nell'ambito degli statutari limiti di un insegnamento a carattere divulgativo e popolare, ma libera dai legacci dei tradizionali programmi scolastici, spazia infatti da corsi che si rifanno alle classiche materie scolastiche (letteratura, storia, musica, ecc.) a corsi di contenuto più pratico (cucina, erbe mediche, fotografia, ecc.) e addirittura ludico (scacchi, bridge, balli di gruppo ecc.), ma sempre proposti anche sotto un profilo culturale e storico, nell'ottica della crescita sociale ed intellettuale degli allievi. Sotto questo aspetto ha organizzato anche un grande numero di eventi collaterali, spaziando da apprezzate manifestazioni musicali a conferenze di vario genere e di grande interesse. La modesta quota associativa (€. 25,00 annue), dà accesso - gratuito o con un piccolo concorso alle spese vive - a tutti i corsi, ma soprattutto contribuisce alla sopravvivenza di una associazione senza fine di lucro e di grande importanza sul territorio. Per informazioni ulteriori: www.upver.altervista.org 15
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