ASSOCIAZIONI LIBERE SUI SOGNI NEL FASCINO DI SPETSES
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Varia Umanità. 3 ASSOCIAZIONI LIBERE SUI SOGNI NEL FASCINO DI SPETSES SUGGESTIONI DAL 17° SEMINARIO RESIDENZIALE DE “IL RUOLO TERAPEUTICO” SUI SOGNI TENUTO DA DAVID GERBI – Spteses, Grecia – giugno 2009 Pierluigi Ciritella* We are such stuff As dreams are made on, And our little life Is rounded with a sleep. W. SHAKESPEARE, THE TEMPEST, ATTO IV, SCENA I E’ venerdì e il sole è una sfera infuocata grande e divisa in due dalla linea immaginaria dell’orizzonte. Una parte scompare al disotto di quella linea, ma l’altra parte fiammeggia ancora potente e colora il cielo di rosso e di tutte le sue sfumature: scarlatte, cremisi, porpora, fucsia, fino al colore del fiore di malva che segna l’inizio del degradare verso la sfumatura della lavanda e da lì ai toni più freddi che fra un po’ porteranno il dominio del cobalto e con esso della notte. E’ il tramonto di venerdì. Inizia shabbat. La festa del riposo. Sotto gli ulivi dai tronchi rugosi e contorti come le mani e i volti di vecchi contadini con la pelle bruciata dal troppo sole e dal troppo vento, dalla troppa fatica degli anni sulle spalle incurvate dal dolore e dal peso degli stenti; tronchi come corpi che hanno dovuto e saputo affrontare tempeste e folgori, sotto quegli ulivi David, un Uomo dagli occhi profondi che lasciano intravedere i segni di una memoria lontana, indossa la kippah1. Con gesto furtivo, come quello di un prestigiatore attento a che il suo trucco non venga svelato, l’Uomo assicura il piccolo copricapo ai capelli con due fermagli come quelli usati dalle donne per raccogliere in ciocche ordinate le loro capigliature. Di fronte a David, una piccola comunità di uomini e di donne seduta in modo disordinato, alcuni seduti per terra, altri su sedie o sgabelli, altri ancora appollaiati su piccoli muretti, qualcuno rimane in piedi, tutti osservano in silenzio, come fossero in teatro o forse in un luogo consacrato. E’ un piccolo grumo di volti, di corpi, di spiriti. Molti sono attenti, curiosi, sorpresi forse. Qualcuno fa vagare in giro lo sguardo distogliendolo dalla scena che si va disegnando davanti a lui, come attinto da un leggero, vago, fastidio. Un altro, come fosse un pianeta costretto a ruotare su un’orbita troppo lontana dalla sua stella per poterne essere attratto, ma subendone al tempo 1 il copricapo usato correntemente dagli Ebrei osservanti maschi obbligatoriamente nei luoghi di culto
stesso la forza gravitazionale verso il centro della scena, non riesce a percorrere una rotta centrifuga e rimane come sospeso in una condizione di attesa distratta. Il teatro è Pytiousa. Il nome dato dai Greci a questo luogo non luogo a causa della predominanza della vegetazione di pini che ne ricoprivano la superficie, fino a quando i Veneziani, che estesero fin qui i loro confini, decisero di chiamare questo teatro Spetses: l’isola delle spezie. L’aria è leggermente mossa da una tiepida brezza che porta con sé gli umori del mare e della terra, il profumo dei cespugli di mirto e il pungente odore delle resine dei pini, gli aromi del rosmarino e le fragranze del ginepro, del lentisco e dell’euforbia. E’ l’aria dell’estate che impaziente di attendere il momento magico e misterioso del solstizio, tenta di irrompere prendendo il posto di una primavera esuberante e lussureggiante. Gli occhi di David sembrano dilatarsi ora che il tramonto sta lasciando spazio alle stelle del crepuscolo e attraverso quegli occhi si intuiscono memorie, storie, pensieri, aneliti. E’ come se in quegli occhi ci fosse la possibilità di una sintesi, come se quegli occhi fossero crocevia e punto d’incontro di orgogliose radici di differenti genti che affondano in una memoria ancestrale che proprio perché primordiale si fa inconscia e comune a tutti attraverso i racconti degli aedi, attraverso le nenie cantate guardando il mare dalle donne vestite di nero, attraverso le ninnananne di giovani madri che stringono al seno il loro piccolo. David ha con sé oggetti semplici: acqua di fonte, olio di oliva, un piccolo contenitore di vetro. Sorride. Pone prima l’acqua nel contenitore, poi vi versa su una piccola quantità di olio. L’olio galleggia sull’acqua e l’acqua ne sostiene il lieve peso senza sforzo. Ma l’incantesimo non è ancora compiuto. L’Uomo lascia con delicatezza che un corto lucignolo, che infilza una minuscola e sottilissima rondella di sughero argentata su un lato, scivoli dalle sue dita alla superficie del liquido che ha il colore dell’oro. Un fiammifero avvicinato al lucignolo, lo incendia e la luce della fiamma si propaga e si moltiplica in un gioco ottico irripetibile nel contenitore che diventa esso stesso un piccolo faro. E’ come se la luce del tramonto fosse stata catturata in quel momento intenso e assorto: quel piccolo faro brillerà per tutto shabbat. Ed é come se David, con la semplicità e la sacralità del gesto, regalasse un raggio di quella luce a tutti i componenti della piccola comunità, ora attenta e raccolta, un po’ rapita dai gesti dell’Uomo di fede capace di rendere sacro il momento. E ne regala davvero un raggio se a tutti dona come simbolo di quello stare insieme, di quella condivisione, un lucignolo infilzato in una rondellina di sughero affinché ognuno possa, tornato a casa, ripetere la sacralità del gesto ed accendere la scintilla che brillerà illuminando la tenebra. Penso alla liturgia del fuoco e dell’acqua che si ripropone nella notte della Pasqua cristiana e che ripropone la vittoria della luce sulla tenebra e la funzione purificatrice dell’acqua e penso alla condivisione e alla sovrapposizione di gesti e di riti in religioni e culture anche tanto diverse fra loro. Anche mia madre preparava un piccolo faro come quello, ed io bambino rimanevo incantato dai mille imprevedibili bagliori che quella fiamma pur precaria e tremula, a volte flebile e sul punto di spegnersi, altre volte vivida e forte come quella di una piccola fiaccola, riusciva ad accendere nel contenitore, un normale bicchiere da cucina, con l’acqua e l’olio. Quella fiamma era sempre presente accanto alle immagini dei cari scomparsi e costituiva una presenza viva e vivida nelle sere e nelle notti della mia infanzia. Ricordo anche l’odore, che non so descrivere, dell’olio che bruciando lentamente alimentava la fiammella. Poi la memoria dentro di me di quei piccoli gesti usuali e pur sempre diversi, scomparve dileguandosi, sbiadendo senza apparentemente lasciar traccia. Ed ecco invece ritrovarla, del tutto inattesa, qui, quella memoria, e ritrovare qui la
traccia di quella spiritualità che lega genti, nazioni, pensieri, sentimenti, anche negli spazi dilatati del tempo e delle geografie. E’ la funzione del simbolo. Il simbolo2, era nell’antichità la “tessera hospitalitatis”, cioè un anello o un altro oggetto che veniva spezzato in due e ciascun pezzo conservato da due famiglie; serviva alle persone ad esse appartenenti a comprovare l’ospitalità data e ricevuta. Mettere insieme, dunque, è la funzione del simbolo. Al contrario il male, il maligno, il diavolo3 trafigge, e trafiggendo taglia e separa. In questo pezzetto di terra nel mare Egeo, pezzetto di una più vasta terra incubatrice prima e culla poi della civiltà occidentale, ho ritrovato un frammento dimenticato della mia memoria che come in un lucido sogno rivivo sorpreso e commosso. E il sogno è simbolo e memoria. Il sogno è reale produzione di emozioni ma evanescente, sfuggente, inafferrabile verità che si dissolve all’alba o continua a persistere nel ripetersi costante di ogni notte nel sogno ricorrente o a rimanere immagine vivida durante il giorno come intensa traccia del sogno spaventoso, o come il sentire dolce e nostalgico di un sogno appagante. Oscuro enigma nella confusione e nella sovrapposizione di immagini, voci, suoni e volti, metafora irrisolta nel mescolare e sostituire nomi, nell’allestire incomprensibili drammi o tragedie o commedie in ancora più indecifrabili scenografie e coreografie. Desideri inappagati e ritorno del rimosso, censure e spostamenti che rendono arduo decifrare la crittografia del sogno. Sogno a volte ancor più criptico proprio quando la banalità estrema sembra voler depistare la riflessione da un ben più importante senso, per quel gioco che l’inconscio si diverte a proporre nel nascondimento che deve essere svelato e, viceversa in uno svelamento del tutto apparente che invece nasconde e confonde. Il sogno è puro spirito e come questo inafferrabile. E lo spirito è soffio, alito, aria, pneuma. Spirito che alimenta la materia. Spirito che è vita: Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. GENESI 2,7 Anche qui a Spetses, quando era solo Pytiousa, dovevano esserci oniromanti tenuti in gran conto per la loro capacità di decifrare ciò che a tutti sembrava indecifrabile e per questo spesso tali personaggi avevano il rango di importanti sacerdoti, capaci di influenzare scelte e decisioni personali o pubbliche. Costoro dovevano ben sapere, come affermava Artemidoro di Daldi loro maestro riprendendo un tema caro ad Aristotele, che i sogni sono divini: “….se il motivo per cui si sogna risieda al di fuori di noi e dipenda dalla divinità, oppure se vi sia all’interno di noi una causa che dispone l’anima in un certo stato e secondo natura la ispira; ma dico divini allo stesso modo che pure nel linguaggio corrente definiamo così tutti gli eventi che si sottraggono alle nostre previsioni…”4 Il sogno è sacralità per colui che sogna. 2 dal greco sun-ballo (metto insieme) 3 dal greco dia-ballo = tra-figgo e, per traslato, divido 4 Artemidoro di Daldi. Il libro dei sogni. I,6 – Ed. ADELPHI, Milano, 1975
Il sogno è espressione di una “teologia della mente”5, nel senso che si riferisce a quelle figure o rappresentazioni che hanno acquisito dentro di noi sognatori una dimensione sacrale in quanto in relazione con i nostri oggetti interni6. Dietro ad ogni strategia del mondo simbolico esiste a legittimarla una teologia 7 “Ed è a partire da questa legittimazione che ho cercato una possibile analogia tra sogno e religione, intesa nell’accezione di re-ligare, cioè unire in una complessa relazione gli elementi più significativi che nel mondo interno dell’individuo hanno acquisito significato sacrale”8 C’è un’affinità tra spiritualità e sacralità. Quest’ultima è qualità della prima. Non v’è spiritualità che non sia sacra. La vita umana è sacra essa stessa in quanto non è solo vita materiale ma anche e soprattutto spiritualità. E lo spirito, l’anima, volge verso l’ “alto”. Un’altezza che si conquista attraverso la profonda conoscenza di sé, liberandosi delle terrene zavorre che rendono schiavo lo spirito, imparando a sognare Tutto ciò che è alto, è, nell’archetipo collettivo, svetta al disopra delle miserie e della mediocrità ed avvicina al divino e al soprannaturale. I riti di offerta alla divinità venivano officiati sulle alture dei colli e dei monti: Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» GENESI 22-1,2 In mancanza di monti o colli, o anche sulle vette di questi per elevarle ancora di più, venivano innalzati cumuli di pietra per poter compiere i sacrifici; cumuli di pietre alti, dunque altari: altari che, appunto, innalzano verso lo spirito. L’altezza che avvicina al dio, e Dio delle religioni monoteistiche è l’Altissimo per definizione, l’altezza che allontana, senza abolire, ciò che è terreno. Ciò che è in alto è spirituale e sacro, ciò che è in basso è materiale, terreno, umile9, profano10. Forse anche la parola uomo deriva da humus, e se non fosse per lo spirito divino sarebbe solo materia, materia viva ma pur sempre materia in costante, perenne, trasformazione. “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” GENESI 2-7 Per questa spiritualità dell’essere umano Shakespeare afferma che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. 5 M. Mancia, Il sogno come religione della mente. Ed. Laterza, Roma-Bari, 1987 6 M. Mancia: Il sogno tra neuroscienze e psicoanalisi. In: S. Resnik: Il teatro del sogno. Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2007 7 U. Eco, Simbolo. In: Enciclopedia, Vol. 12, Einaudi, Torino, 1981. 8 M. Mancia. op. cit. nota 5 9 da humus = fango 10 pro-fanum = fuori dal tempio, quindi fuori dal luogo sacro
Dov’è il luogo dello spirito, nell’essere umano, se non ovunque dentro di lui? Allo stesso modo non esiste un luogo dell’inconscio (e inconscio e spirito hanno qualcosa in comune?) ma di inconscio è permeato tutto l’uomo, ogni suo gesto, ogni suo pensiero, il modo di parlare ed il tono di voce, le scelte e le non scelte. Come i sogni siamo evanescenti, permanendo nell’universo di cui pur facciamo parte, un incalcolabile infinitesimo di tempo che noi chiamiamo vita. Ed è del tutto ininfluente che noi si viva 30, 80 o 120 anni rispetto alla scala infinita del tempo. Eppure i nostri sogni dilatano il nostro tempo e lo fermano perché il sogno è atemporale. Possiamo sognarci giovani se siamo già vecchi o viceversa vederci appesantiti dagli anni anche se siamo nel pieno del nostro giovanile vigore, possiamo far rivivere ed interloquire con essi i nostri cari già estinti da tempo dalla scena del mondo ma non certo scomparsi dalla nostra scena interiore, possiamo sovrapporre immagini e persone d’un tempo in scenari del tutto attuali. Di questo siamo fatti: dei nostri pensieri e dei nostri sogni, del nostro spirito che ha bisogno di un sostegno materiale, il nostro corpo, per potersi esprimere, e con il nostro corpo è un tutt’uno risentendo delle spinte che dal corpo riceve e, a sua volta determinando, lo spirito, ciò che il corpo sarà nel mondo reale. I sogni sono importanti espressioni dell’inconscio, anzi l’espressione per antonomasia; secondo Freud costituiscono “la via regia per raggiungere l’inconscio”. Come tale il sogno non può che essere espressione della spiritualità di ognuno, e ben lontane dovrebbero rimanere le tentazioni di trovare una spiegazione univoca per ogni metafora, ogni simbolo, ogni sogno. Non tutti i sogni possono o devono avere lo stesso valore, anche perché non sono uguali le persone che sognano. Un messaggio importante della Bibbia è che il sogno può essere un modo di comunicazione con il Sacro, quindi con Dio che è in alto, ma anche con ciò che di più sacro, e quindi di più alto, e quindi di più inafferrabile e quindi di più spirituale è presente dentro ciascuno. Il sogno è più precisamente un modo con cui gli uomini accolgono messaggi da realtà e dimensioni spirituali (divine o interiori) altrimenti inaccessibili. Il sogno è una specie di profezia e comunque sempre un disvelamento. Tuttavia un sogno non è chiaro direttamente, sia per chi sogna e ancor più per chi lo sente raccontare. Il sogno è un messaggio in codice che deve essere decifrato. Un sogno non interpretato è come una lettera non letta, recita il Talmud11 e a questo proposito è responsabilità di chi sogna non lasciare trascurato il messaggio. Ma attraverso l’interpretazione assolutamente personale, soggettiva, il destinatario diventa parte del disegno spirituale che lo riguarda e per questo stesso motivo ne è artefice. Il sogno è forse uno dei momenti della giornata più spirituali che possano esserci. Il sogno per potersi liberare ha bisogno che la coscienza si assenti. E’ una coscienza tra parentesi, sospesa, quella di cui l’essere umano fa esperienza tutte le notti. Nel sonno si cade, si sprofonda e finalmente la coscienza si dissolve. “Casco dal sonno. Casco nel sonno e vi casco per effetto del sonno. Come casco di stanchezza, di noia. Come cado nella disperazione. Come cado, in genere. Il sonno riassume tutte queste cadute, le riunisce. Il sonno si annuncia e diventa emblematico all’insegna della caduta, della discesa, più o meno rapida, o dello sprofondamento, del venir meno improvviso.”12 11 E’ il testo di riferimento dell'ebraismo, dopo la Bibbia: ”Se la Sacra Scrittura è il sole, il Talmud è la sua luna che ne riflette la luce”. Rabbi Norman Solomon, The Talmud, 2009, p. xv 12 J.-L. Nancy: Cascare dal sonno, Ed. R. Cortina, Milano, 2009
E dal profondo nero nulla del sonno, in contiguità con una breve e reversibile morte, emergerà straordinario, sempre straordinario, il sogno espressione dello spirito momentaneamente liberato dal peso delle catene della coscienza vigile e della corporeità che costituisce impedimento al suo pieno sciogliersi. Così come avverrà, una volta iniziata la notte definitiva, per l’anima13 che potrà sciogliersi dalla cattività della materia per poter diventare finalmente puro spirito, soffio, pneuma appunto. La notte senza sogni è già di per sé espressione di una piccola morte spirituale. Il sonno buio e silenzioso si addice forse al riposo dalle fatiche del corpo, che deve riprendersi per affrontare daccapo nuove fatiche, ma non al liberarsi dello spirito attraverso la fantasia, il simbolo e la metafora. Nella frenetica vita quotidiana attuale sembra non esserci spazio per potersi soffermare a pensare, riflettere, sognare appunto. E’ una vita materiale, concreta, tecnologica, irrequieta e frettolosa dove non sembra esserci spazio né tempo per la spiritualità che nemmeno attraverso il sogno viene recuperata. C’è bisogno di sognare. Chi non è capace di sognare, cioè di aprirsi ed accogliere la propria spiritualità, gioiosa o sofferente, ricca o povera che sia, ricorre ad espedienti per farlo. Cos’altro sarebbero, se no, i “viaggi” artificiali ottenuti per mezzo di sostanze stupefacenti? Intorno agli anni 60-70 del Novecento erano molto di moda le droghe psichedeliche, di cui l’LSD era capostipite. Droghe che creano dispercezioni e allucinazioni, distorsioni della realtà come solo nei sogni è possibile. Ma da un sogno spaventoso e angosciante prima o poi ci si risveglia, dal devastante effetto dell’allucinogeno no. Anzi la dipendenza fa sì che ogni volta si ripiombi, ed in maniera sempre più grave, nelle caleidoscopiche spire degli effetti della sostanza, chiamata in gergo, semplicemente, con il sinistro appellativo di “acido”. L’“acido” sta ritornando in auge a quasi 50 anni dalla rivoluzione sessuale e dalle conquiste delle donne nei movimenti femministi, a quasi 30 anni dalla caduta del Muro e con esso dei blocchi di supremazia geopolitica e della Guerra Fredda. Queste rivoluzioni si sono succedute in un tempo troppo breve per essere metabolizzate. Un periodo di tempo che Eric J. Hobsbawm definirà in un suo ponderoso saggio: “Il Secolo breve”14. Caduti gli steccati se non i muri, caduti i punti di riferimento, caduti i valori imperanti nei lustri precedenti, cadute le ideologie e relativizzate le religioni, o viceversa apparsi pericolosi integralismi, non sono stati proposti nuovi valori, se non quello del denaro, del profitto, dell’efficienza, della felicità da raggiungere a tutti i costi. Si è smesso di sognare, di fantasticare e la spiritualità è stata reietta come inutile orpello, reietta così come la cultura, che della spiritualità è espressione, non trova più posto nemmeno nelle scuole e nelle università ridotte a fabbriche di delusioni, di diplomi e di sempre più improbabili lauree dai nomi fantasiosi che servono solo a rubare i sogni ai giovani, per anni in area di parcheggio. E così l’”acido”, dicevamo, sta ritornando in auge nei rave-party, insieme con la ketamina, altra sostanza psichedelica, capace di far sognare obnubilando e distorcendo profondamente la coscienza regalando esperienze extrasensoriali “stupefacenti”. Così come le droghe da discoteca, le “smart drugs”, dai nomi seduttivi e allusivi come l’“Ecstasy”. Ricerca dell’estasi, dunque, ricerca del sogno perduto, ricerca della perduta capacità di sognare, di emozionarsi, di incontrare se stessi e la propria spiritualità, ricerca della dimenticata capacità di incontrare l’Altro in tutta la sua interezza, in tutta la sua diversità e in tutta la sua somiglianza15. Forse, però, è inscritto nell’inconscio dell’essere umano il bisogno di distaccarsi dalla fisicità del corpo per raggiungere l’inafferrabile e misteriosa spiritualità del divino. Le droghe 13 dalla radice etimologica ànemos = vento 14 E. J. Hobsbawm: Il secolo breve 1914-1991. BUR, Milano, 2014 15 L. Zoja: La morte del prossimo, Ed. Einaudi, 2009
allucinogene, erbe, radici, funghi, sono state utilizzate fin dalle più remote origini dell’umanità, insieme con ritmi musicali frenetici, ossessivi, per raggiungere uno stato di trance che, molto simile al sogno, nei rituali tribali, consentisse agli sciamani di entrare in contatto con la divinità per invocare benevolenza, prosperità e per allontanare calamità o malattie al singolo o all’intera tribù. I Celti, quando dovevano scegliere un nuovo re, preparavano un ricchissimo banchetto per il Druido o Vate, finché questi cadeva addormentato al centro di riti e formule magiche, egli avrebbe sognato il nuovo re. Presso i nativi americani i riti di iniziazione dei giovani prevedono prove in cui essi vagano per giorni in luoghi deserti sottoposti a un digiuno propiziatore, i sogni che avranno in questo periodo saranno premonitori della loro vita futura e decideranno per esempio chi sarà uomo-medicina, e chi guerriero. Gli aborigeni australiani vanno a sognare nelle grotte sacre, convinti di incontrare gli spiriti dei sogni che sono i custodi del popolo e danno messaggi di conoscenza. L’ayahuasca è una bevanda allucinogena. In lingua quechua il termine deriva dalle parole aya = anima, spirito, defunto, antenato e huasca = liana, vite, corda e significa, quindi, letteralmente “liana dell’anima”. Questa bevanda è utilizzata dagli sciamani delle foreste dell’Amazzonia in corso di riti divinatori magico-religiosi e per favorire la guarigione di individui ammalati. La danza roteante e ipnogena dei Dervisci Sufi16 dell’Islam turco, consente agli iniziati, di attraversare le porte del mondo corporeo per raggiungere, attraverso la trance, l’immaterialità ascetica. Ancora sogno, dunque, altra modalità di sognare ma pur sempre sogno. La trance, così simile al sonno, avvicina all’oscuro. Permette di attraversare il tunnel tra la vita cosciente e lo spirito che fuoriesce dal corpo per incontrare ciò che altrimenti non potrebbe essere nemmeno immaginato: il sogno è un universo parallelo in cui abita la parte divina di ognuno. Il sogno ha accompagnato da sempre l’essere umano da quando ha raggiunto consapevolezza di se stesso e sul sogno si è sempre interrogato. La risposta al sogno è racchiusa tra la trascendenza del mistero e l’inspiegabilità dell’assurdo. “I sogni hanno determinato la sorte di molte persone. Hanno persino modificato il destino di intere culture. Hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo della civiltà occidentale”17 Il sogno ha sempre parlato ai singoli e ai popoli. Ci dice quale è la nostra vera vocazione, il senso, il futuro, la lettura del passato, ma possiamo non ascoltarlo, in tal caso rinneghiamo noi stessi e allora ci ammaliamo, compare la nevrosi, come sempre quando la nostra energia non segue il corso naturale per cui è sorta ma cambia strada. Hanno sognato i primi H. Sapiens e ne hanno lasciato traccia nei graffiti sulle pareti delle caverne da loro abitate. Hanno sognato e sognano tutti: poeti, scienziati, ricercatori, politici, scrittori, poveri, ricchi. Si sogna ad occhi aperti fin da bambini. Aspettando. Aspettando e sperando. “Nella cupa notte, vola un fantasma iridescente. 16 Col termine derviscio (in persiano e arabo darwīsh, lett. “povero”, “monaco mendicante”) si indicano i discepoli di alcune confraternite islamiche (turuq) che, per il loro difficile cammino di ascesi e di salvazione, sono chiamati a distaccarsi nell'animo dalle passioni mondane e, per conseguenza, dai beni e dalle lusinghe del mondo . Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Derviscio 17 M.-L. Von Franz, La morte e i sogni, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1986
Sale e spiega l'ale sulla nera infinita umanita'. Tutto il mondo lo invoca e tutto il mondo lo implora. Ma il fantasma sparisce coll'aurora per rinascere nel cuore. Ed ogni notte nasce ed ogni giorno muore!” Turandot, Atto II, G. Puccini Con questi suggestivi versi di Giuseppe Adami e Renato Simoni, Turandot, la Principessa di ghiaccio, declama il primo dei tre enigmi che, se non superati, costeranno la testa al Principe Ignoto. Ma questi, prontamente, e con ritrovata sicurezza dopo un iniziale vacillare, ne darà la soluzione: “ La speranza!” Calaf non smetterà di sognare, di sperare, di credere. Metterà a disposizione della sua impresa, conquistare il cuore della Principessa Turandot, tutto se stesso, tutta la sua ostinazione, tutto il suo amore. Il Principe Calaf viene da una terra lontana, lontana provincia della Cina di un tempo antico sospeso e dimenticato, non porta con sé doni o ricchezze, sa di poter conquistare la Principessa con la sua essenza umana. Calaf è uno sconosciuto, di lui si sa che è un principe, ma è un Principe Ignoto. Il suo nome, Calaf, sarà noto solo quando il lieve chiarore che annuncia il nascere di un nuovo giorno farà tramontar le stelle insieme con i sogni che con esse, all’alba, svaniscono. Non è da Principe che conquisterà Turandot ma da esule e sconosciuto. Anzi. Quando avrà risolto i tre enigmi offrirà in un impeto di eroica generosità la sua stessa vita alla Principessa, invitandola a scoprire il suo nome prima dell’alba, e questo perché Calaf vuole non un corpo da concupire, non sa che farsene, ma un’anima da amare. Calaf non smette di sognare che il suo sogno si avveri, non smette di sperare. Quella di Turandot è una splendida favola ricca, come tutte le favole, di simboli e di metafore, ma tutta la vita dell’Uomo è sogno e speranza. Il sogno è speranza. Il sogno, espressione di un pensiero, di un progetto, è l’essenza stessa dell’Uomo che smette di essere tale se smette di pensare, di progettare, di sognare, di sperare. “I Have a dream”, così Martin Luther King iniziò il suo celebre discorso il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili. Non smettono di sognare e di sperare gli Uomini che ritengono che possa esserci un mondo più giusto e più equo. Non smettono di sognare e di sperare gli scrittori, i poeti, i musicisti, che proprio grazie alla loro capacità di trasformare il sogno in pensiero sono in grado di donare all’Umanità capolavori che sopravvivono a loro stessi. Ma l’Uomo desideroso di soprannaturale, forse di ricongiungersi al proprio soprannaturale, anche quando lo cerca al di fuori di se stesso, attraverso il contatto con i morti, con le voci di un al di là di volta in volta promesso, sperato, temuto, dubitato, ignorato, negato, trova nel sogno anche un’altra vena di spiritualità del tutto inaspettata e singolare: lo spirito ludico, l’aspetto “spiritoso” divertente e divertito. Il sogno si fa gioco.
Nella doppia accezione di sogno che si trasforma in gioco e di sogno che si prende gioco del sognatore. Il sognatore è il possessore del sogno, il destinatario del messaggio onirico, e ne è l’utilizzatore finale. Potrà utilizzare il suo sogno per ottenere presagi o indicazioni sul da farsi, ma anche per cogliere al volo la fortuna. Anche se ciò che lui interpreterà come certezza, troppo spesso si rivelerà beffardo gioco di quel sogno che di lui si fa gioco. Napoli. Via Santa Teresella degli Spagnoli, via Nardones, vico San Carlo, via Carlo De Cesare, vico Mortelle, Vico Conte di Mola, Vico Rosario di Palazzo. Sono nomi di alcuni segmenti di quell’intestino crasso che Matilde Serao, nel 1884, chiamò “Il ventre di Napoli”, stretto tra i Gradoni di Chiaia, Corso Vittorio Emanuele e via Toledo. Ai non napoletani questi nomi non evocano nulla: sono solo toponimi, nomi di strade. Ma per chi sa decifrare ciò che evocano quei nomi, il significato è forte. Sono i Quartieri Spagnoli, per i napoletani semplicemente “i Quartieri”, città nella città. I “Quartieri”, ampia zona destinata fin dal XVI secolo al casermaggio delle guarnigioni spagnole al soldo del viceré Don Pedro Álvarez de Toledo, sono sin dalla origine zone malfamate dove delinquenza comune e organizzata, prostituzione e omertà proliferano tra la fatiscenza delle case che poggiano le loro fondamenta sul vuoto delle grotte di tufo di un sottosuolo anch’esso violentato per predarvi l’utile pietra vulcanica, o sui reperti dell’ Età del Ferro, circa 1550 anni prima di Cristo. Lì i “femminielli”, singolare esempio di assimilazione nel tessuto della città dell’omosessualità maschile, giocano a tombola in modo grottesco, rumoroso, sboccato, irriverente. Loro possono permetterselo, è un gioco al quale sono ammessi solo loro e le donne. I vicoli risuonano, nelle notti d’estate senza riposo, gli odori degli intingoli si susseguono e si sovrappongono. Non sono strade, quelle, sono organi pulsanti di una città pulsante, obesa, che fatica a muoversi sotto il peso stesso della sua storia plurimillenaria e delle sue contraddizioni e ambivalenze. I “Quartieri“ sono il vero crogiolo della Napoli capitale di un Mediterraneo, cerniera fra Oriente e Occidente, che ha riversato nel suo Golfo non solo la perenne risacca delle onde, ma ha vomitato sul suo territorio genti di ogni nazione e di ogni continente. Genti che qui hanno trovato una casa, un luogo da plasmare e sconvolgere e la possibilità di affondarvi le loro radici, succhiandone le energie ma, al tempo stesso, trasformandole e donando a loro volta linfe nuove e nuove culture che, lungi dal respingersi, si sono amalgamate senza riuscire più a scomporsi e a riconoscerne le rispettive origini. Napoli è città pronuba e mediatrice, madre accogliente e seduttiva come la ninfa Partenope alla quale la leggenda riporta l’origine dell’antica città della Magna Grecia. A Napoli il sogno é linfa vitale che scorre nelle vene dei suoi abitanti e per le strade. La Ricevitoria del Lotto, il “Bancolotto”, come lo chiamavano i napoletani, prima che anche questo fosse soppiantato, dall’incessante ed inarrestabile dilagare della tecnologia, era il luogo in cui ogni mattina schiere di casalinghe con pesanti borse ripiene di spesa, studenti indolenti, disoccupati professionisti, impiegati durante le pause pranzo, vecchie e vecchi di ogni ceto, credenti e agnostici, si davano convegno in un chiassoso incontro con il loro sogno e pagavano dazio alla speranza. Alla speranza di una vita migliore. Negli umori di quei luoghi gli impiegati, dipendenti del Monopolio di Stato, erano attenti e raffinati conoscitori, esperti interpreti di una bibbia le cui origini si perdono chissà quanto in dietro nei secoli, diretta discendente di quegli oniromanti che videro in Artemidoro di Daldi il loro più famoso esponente. Il nome stesso “Smorfia” viene fatto risalire al dio greco dei sogni: Morfeo.
Nei Bancolotti, come nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, si ascolta il brulicare di gente che canta, ride, chiama l’un l’altro dai balconi e dalle finestre troppo vicine per garantire una riservatezza forse non cercata e nemmeno voluta. Si è immersi in un enorme e perenne set cinematografico in cui ognuno è attore e personaggio, scrittore e regista e dove si recita sempre a soggetto. E il cinema è finzione, il cinema è sogno. Lì si vive il vero spirito del sogno che si trasforma, si trasforma addirittura in numeri dai quali trarre una vincita, scommettendo sulla loro uscita pochi spiccioli sottratti alle grame finanze della giornata. I “numeri sicuri”, perché: “ho sognato papà che me li dava. Quant’era bello: era tal’e quale a quand’era giovane!!...” diventano il tramite tra la spiritualità del culto dei morti, la certezza della vita dopo la morte, e la speranza attraverso quei numeri, di una resurrezione ad una migliore vita quotidiana. Contiguità tra sonno e morte e sogno e vita, dunque. L’utilizzazione di un sapere antico, profondo, nascosto e fortemente radicato nella cultura stessa di un popolo. Puntare, scommettere che quei numeri escano è giocare. Giocare seriamente, con la serietà assoluta con cui giocano i bambini. Eduardo De Filippo, nella commedia “Non ti pago” (scritta nel 1940), descrive in maniera ineguagliabile una fiaba partenopea “a lieto fine”, in cui i giochi fra sogno e realtà, spirito e materia, si organizzano intorno a questo motivo chiave della cultura e della teatralità di Napoli: il delirio da gioco del lotto. Questo tipico commercio dei sogni domina l’esistenza di tutti i personaggi della commedia, della loro vita stessa: un mondo che comprende, come sempre, sia i vivi che i morti. Vita sospesa tra commedia e tragedia tra realtà e trascendenza, troppo fragile e protesa verso la sua fine, la morte, per non permettersi di ritrovare nel sogno pezzi di eternità. E’ sera a Spetses. La magia di un’intimità cercata e resa possibile dalla complicità di una natura generosa e lontana dalle strade del turismo, coinvolge quel piccolo grumo di umanità che lì, una volta l’anno, s’incontra e s’interroga su se stessa attraverso incontri e riflessioni, attraverso il ritrovarsi in un comune senso di appartenenza, attraverso autentiche condivisioni e sane polemiche. Le sere di Spetses, spesso sono solo un drappo da cucire fra il tramonto e l’alba, fra le risate di chi non ha voglia di andare a dormire e il desiderio di condividere ancora un po’ i rigurgiti delle emozioni vissute durante il giorno. E’ ormai notte piena, la piccola fiamma nel contenitore di vetro continua a spargere la sua luce calda. Mi avvio lentamente, allontanandomi dalle voci e dalle risate di un gruppetto di amici rimasti a bere birra e metaxa, sulla strada che porta al mare. I miei occhi non distinguono la linea dell’orizzonte e i colori del mare e del cielo sono fusi in un’unica grandiosa oscurità. Alzo gli occhi verso il chiarore della stria spessa della nostra galassia, la Via Lattea. Verso Nord distinguo il Grande e il Piccolo Carro: la Stella Polare. I ricordi di bambino, riaffiorano ripensando a quando mio padre m’indicava nel cielo quelle tremule luci. Lentamente, agli ordini di non so quale regista, un disco color ocra si erge da un punto dell’oscurità e riesce a separare, con la sua luce ancora fioca, il cielo e il mare tracciando l’orizzonte. Il sorgere della luna: uno spettacolo che mi emoziona e mi rapisce. Intorno il silenzio è rotto dalla lenta risacca del mare davanti ai miei piedi. Accanto a me una presenza con cui condividere, in silenzio, il mistero e la grandezza dell’universo, Sembra un sogno, dico, sotto voce, per paura di disturbare la grandiosità dello spettacolo. “E se fosse davvero tutto un sogno?” Mi risponde con un soffio di voce la presenza accanto a me.
Allora è vero: siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra piccola vita è circondata dal sonno, di noi è vivo, solo lo spirito e ci sopravvivrà la nostra intelligenza, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre canzoni, le nostre poesie, e, se saremo stati capaci di sognare e di realizzarli, i nostri sogni. Racchiusi tra l’infinitamente piccolo del nostro essere uomini e l’infinitamente grande dei nostri sogni, parte dell’Universo infinito. *Pierluigi Ciritella: Medico Psicoterapeuta Psicoanalista Docente della Scuola di Formazione Psicoanalitica de “il Ruolo Terapeutico” Responsabile de “il Ruolo Terapeutico – Gruppo di Foggia” 71121 Foggia e-mail: ciritella@gmail.com
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