LA CRITICA DEL SENATORE M5S SULLA MANOVRA: "NON DOVEVAMO FERMARE IL PRECARIATO?"
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LA CRITICA DEL SENATORE M5S SULLA MANOVRA: “NON DOVEVAMO FERMARE IL PRECARIATO?” “Conte blocca le assunzioni a tempo indeterminato. Ma non si doveva combattere il precariato?”. Domanda lecita, eppure molto curiosa quando a porsela è il senatore del Movimento 5 Stelle, Lello Ciampolillo. Lo stesso che in questi giorni – scrive Silvia Dipinto su la Repubblica – ha fatto scalpore difendendo dall’eradicazione un suo ulivo infetto dalla Xylella. Con un post sul suo profilo facebook mette in discussione un pezzo della manovra finanziaria del governo gialloverde che bloccherebbe le assunzioni per il 2019. “Siamo in democrazia, un parlamentare ha piena libertà di dire quello che pensa – spiega il diretto interessato – Le critiche sono utili a un confronto costruttivo, spero si faccia un passo indietro per tornare a quanto promesso”. Il post di Ciampolillo fa notizia perché non è così frequente leggere voci fuori dal coro nel Movimento, soprattutto in un momento storico come questo. Il senatore pentastellato posta sui social l’articolo di Repubblica, che riferisce di un emendamento alla Legge di bilancio che congelerebbe concorsi e assunzioni in settori chiave della pubblica amministrazione, a partire dall’università, fino a novembre del 2019. “Non si era detto che con quota 100 si sarebbe data la
possibilità ai giovani di avere finalmente un lavoro stabile?”, si chiede Ciampolillo. E i commenti si dividono, tra chi apprezza la voce critica e chi, invece, accusa il senatore di credere alle “bufale dei giornalacci”. Ciampolillo risponde con serenità. “Credo che quell’emendamento sia sbagliato e vada in direzione opposta a quanto dovremmo fare, cioè sostenere il nuovo lavoro – conferma – Credo debba essere la normalità potere dire ciò che si pensa, dal confronto possono nascere valutazioni diverse e magari si può cambiare idea”.
SLITTA IL RESTITUTION DAY DEI GRILLINI La piattaforma doveva essere pronta già qualche settimana fa, in tempo per lanciare il ‘restitution day’ prima di Natale. Ma qualcosa è andato storto e così il varo della nuova versione di tirendiconto.it, il sito delle restituzioni grilline, resta ancora una chimera. Il motivo? Non c’entrerebbe – assicurano dal Movimento – con la riluttanza dei parlamentari a rendicontare i bonifici dei soldi versati per le restituzioni. Dietro il ritardo, raccontano all’Adnkronos fonti M5S bene informate, ci sarebbero soprattutto ragioni tecniche, legate alla poca dimestichezza di alcuni parlamentari grillini con la nuova piattaforma. “Millennials un corno… questi sanno usare solo Facebook”, si sfoga una fonte a taccuini chiusi. Insomma: caricare dati e scartoffie sul nuovo sito sarebbe diventata una sorta di ‘mission impossible’ per i deputati e senatori M5S meno addentro alle cose del web. Addirittura, raccontano, “abbiamo organizzato dei seminari per spiegare ai parlamentari come si compilano i moduli online del nuovo tirendiconto.it”. E sono stati istituiti degli helpdesk per soccorrere gli internauti più claudicanti. Ma niente. Lo slittamento della presentazione del portale nuovo di zecca
avrebbe costretto i vertici stellati a rinviare il restitution day – il giorno dell’orgoglio grillino, in cui viene simbolicamente mostrato l’assegno con i soldi degli stipendi ‘restituiti’ ai cittadini -, inizialmente programmato per il periodo natalizio. L’evento potrebbe a questo punto tenersi a gennaio, alla ripresa dei lavori. Le istruzioni sui versamenti impartite dai vertici M5S agli eletti erano tutte contenute in una mail spedita a deputati e senatori a inizio novembre. Nella missiva si chiedeva agli eletti di versare 6mila euro (ovvero la quota relativa ai mesi di luglio, agosto e settembre) entro il 18 novembre, versando i soldi sul conto della protezione civile a favore delle popolazioni alluvionate. Lo scorso 10 dicembre è scaduto invece il termine per completare la rendicontazione sul sito. All’appello, a quanto si apprende, mancherebbe ancora qualche grillino. I vertici M5S, memori del caso delle false restituzioni, avevano inserito nella mail inviata ai parlamentari alcune regole ‘anti-furbetti’: “E’ di fondamentale importanza indicare chiaramente nella causale del bonifico il periodo di riferimento”, la raccomandazione. Le caratteristiche richieste per i bonifici da caricare nel sistema sono: “quietanza definitiva della banca in formato file Pdf, jpeg o png (non va caricata la richiesta di bonifico); Iban di destinazione chiaramente visibile; numero operazione Cro/Trn/Tid visibile; importo bonifico chiaramente visibile; causale visibile e con chiara indicazione del mese/i di riferimento”. Fonte: AdnKronos
SI DIMETTE IL CAPO GABINETTO DEL MEF, ERA IN ROTTA CON I 5S. TRIA: “LA MANOVRA NON C’ENTRA” Dopo l’accordo raggiunto con Bruxelles sulla manovra, evitata la procedura d’infrazione per l’Italia, secondo fonti di governo, il Capo di gabinetto del Ministero dell’Economia Roberto Garofoli lascia l’incarico. La notizia era già nell’aria da giorni, lo aveva anticipato anche il presidente del Consiglio Conte, che ora glissa: a una cronista che insiste sulle dimissioni del tecnico, il presidente del Consiglio ha risposto con una battuta: “Questa domanda me la faccia alla conferenza di fine anno – risponde dopo aver deciso con i giornalisti la data della conferenza stampa di fine anno, presumibilmente sabato prossimo – la tenga buona per quell’occasione, se la giochi lì”. Interpellato sulla questione, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha commentato così: “Mi dispiace molto lui all’inizio mi aveva detto che probabilmente voleva cambiare lo avevo obbligato a rimanere fino alla legge di bilancio. Domani parlerò con lui. Ora torna al suo mestiere nella Magistratura”. Tria ha assicurato che non si è trattato della conseguenza delle critiche rivolte ai vertici tecnici del ministero da esponenti di governo, perché al contrario quegli attacchi “lo avrebbero blindato”.
Il ministro degli Interni Matteo Salvini si è chiamato fuori dalla discussione: “Non ne so nulla, non c’entro, almeno questo non è colpa mia”. Garofoli è un ex magistrato, arrivato al Tesoro con l’allora ministro Pier Carlo Padoan sotto i governi Pd di Renzi e poi Gentiloni. È da tempo in rotta con Movimento 5 Stelle: secondo i pentastellati sarebbe proprio lui ‘la manina’ che aveva introdotto in manovra una norma che assegna alla Croce Rossa 84 milioni. Garofoli però smentisce. Come ha raccontato ‘Il Fatto quotidiano’, nel mirino del Movimento 5 stelle ci sarebbe poi la società editoriale della moglie, che pubblica libri scritti e curati dallo stesso Garofoli per aspiranti avvocati e magistrati: alcuni di questi autori hanno poi ottenuto incarichi al Tesoro, e un collaboratore ha anche raccontato di essere stato pagato in nero. Secondo quanto riporta l’Adnkronos, al suo posto, accanto al ministro dell’Economia Giovanni Tria, potrebbe arrivare Luigi Carbone, esperto di semplificazione amministrativa e già componente dell’autorità per l’Energia elettrica. Nei giorni scorsi per la successione era circolato il nome di Fortunato Lambiase, consigliere del Senato e attualmente capo della segreteria tecnica del ministro Tria. Fonte: Fanpage IL VENTO POPULISTA DIVENTA VENTICELLO
Deficit del 2,4%: da “intoccabile” a “tagliabile”. Alla fine il deficit al 2,4% è stato messo nel cassetto e sostituito da un più modesto 2,04%. Il vento populista – scrive Rodolfo Ruocco su SfogliaRoma diventa venticello. Di Maio e Salvini in un lungo vertice notturno con Conte a Palazzo Chigi hanno trovato l’intesa sul disavanzo ridotto di circa quattro decimi di punto. Il segretario della Lega e ministro dell’Interno ha annunciato: «Abbiamo trovato l’accordo su tutto». Il capo politico del M5S, ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico è soddisfatto: «Siamo compatti, è il giorno più importante dal 4 marzo», cioè il giorno del successo alle elezioni politiche. Per tre mesi Di Maio e Salvini hanno condotto una battaglia furente contro la commissione europea, difendendo il deficit pubblico fissato al 2,4% del Pil nel 2019. Da settembre hanno tuonato: «Dal 2,4% non arretriamo di un millimetro». I due vice presidenti del Consiglio hanno ripetuto all’unisono fino a poche settimane fa: tiriamo diritto sul deficit al 2,4% perché serve a finanziare il reddito di cittadinanza e “la quota 100” per andare in pensione anticipata, le due principali promesse del “governo del cambiamento”. Il bersaglio era sempre Bruxelles, trattata con toni sprezzanti. Luigi Di Maio proclamava: «Le minacce della Ue non ci fermano» e «smentisco ogni tipo di ripensamento sul 2,4%». Matteo Salvini più ruvidamente rilanciava: «Se a Bruxelles mi dicono che non lo posso fare me ne frego e lo faccio lo stesso». Si è sfiorata la rottura con la Ue che aveva bocciato la manovra economica italiana per deficit-debito pubblico
eccessivo. Il vento populista poi è diventato un venticello: il deficit del 2,4%, da intoccabile è stato ridotto al 2,04%. Mercoledì 12 dicembre, dopo estenuanti trattative, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha proposto il taglio del disavanzo al presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker. La notte tra domenica 16 e lunedì 17 dicembre è giunto alla fine l’accordo tra Di Maio e Salvini sulle spese da diminuire e le entrate da potenziare. Ora la parola passa di nuovo alla commissione europea per l’ok finale, poi il governo M5S-Lega cambierà al Senato la legge di Bilancio 2019 con un maxiemendamento. Così l’Italia può scongiurare la procedura d’infrazione sull’euro brandita da Bruxelles. A far scattare la retromarcia sono state le tante brutte notizie sul fronte economico collezionate dal governo grillo- leghista: lo spread schizzato in alto fino a quasi 340 punti, la frana del 25% della Borsa di Milano. Poi in rapida sequenza: il calo del Pil, dell’occupazione, dei consumi e della produzione industriale. Il rischio di passare dalla ripresa alla recessione. Il 2,04% non è una novità. Giovanni Tria già alcuni mesi fa aveva proposto a Bruxelles una riduzione del deficit dal 2,4% al 2%, ma arrivò l’altolà sia dal capo politico del M5S e sia dal segretario della Lega. Da qui il forte disagio del ministro dell’Economia, il tecnico Tria, già da luglio. Si parlava di sue possibili dimissioni da lui però smentite: è «pura fantasia». Questo percorso ad ostacoli non è stato indolore per i conti pubblici italiani. Gli investitori internazionali hanno venduto i titoli del debito pubblico del nostro paese. Lo spread, raddoppiato rispetto all’ultima fase del governo Gentiloni, saliva stabilmente sopra la pericolosa soglia di 300 punti, causando un’impennata dei tassi d’interesse pagati dal Tesoro per vendere Btp, Bot, Cct. Qualcuno ventilava perfino una disordinata uscita dell’Italia dall’euro. C’è stata una emorragia di miliardi di euro. Infine è arrivato il sospiro di sollievo per il deficit ridotto dal 2,4% al
2,04%, una mediazione giunta all’ultimo minuto con un taglio di circa 8 miliardi di euro dal bilancio italiano. E lo spread è finalmente sceso sotto quota 300. Di Maio e Salvini, nonostante la “sforbiciata” sui fondi, garantiscono comunque la realizzazione dei “contenuti”: gli italiani avranno il reddito di cittadinanza, “quota 100” e la flat tax ridotta al 15% per i lavoratori a partita Iva con ricavi fino a 65 mila euro l’anno. Di Maio e Salvini hanno messo da parte le critiche e i sarcasmi contro “i numerini” e “le letterine” della commissione europea. Pragmaticamente hanno preso atto della realtà e hanno operato una marcia indietro azionando una cortina fumogena, dando a Conte “la piena fiducia” a trattare con Bruxelles. A molti militanti ed elettori grillini e leghisti è rimasto l’amaro in bocca: avevano sognato di veder realizzate le mirabolanti e salatissime promesse della campagna elettorale per le politiche del 4 marzo. Le promesse, invece, sono state ridimensionate per le risorse diminuite. È molto facile fare promesse mirabolanti, è molto più difficile mantenerle. Ora Di Maio e Salvini, ma soprattutto il primo (sotto scopa per i negativi sondaggi elettorali del M5S), si dovranno rimboccare le maniche per le prossime elezioni regionali e comunali. Dovranno correre ai ripari per le elezioni europee di maggio. Dovranno dare una risposta alle cocenti delusioni dei loro elettori. LA SENATRICE GRILLINA CON UN DEBITO CON IL CONDOMINIO
La senatrice M5S, Felicia Gaudiano, ha un contenzioso con i vicini e una causa al tribunale di Bologna. Le spese condominiali non saldate, come riporta il Corriere, ammonterebbero a quarantacinque mila euro. l motivo del debito? Un lascito contestato tra parenti per via di un testamento non troppo gradito dagli eredi. Insomma, per anni la Gaudiano ha avuto il possesso dell’immobile felsineo, che però non aveva un proprietario (o un inquilino) stabile in grado di coprire le spese condominiali. Che negli anni si sono accumulate fino ad arrivare alla bellezza di 45mila euro. Non poco, ecco. Come si legge, i condomini tramite l’avvocato hanno ottenuto un decreto ingiuntivo di 25mila euro, al quale però la pentastellata si è opposta in tribunale. La senatrice, dunque, ha offerto 25mila euro, poi 20 e infine 30, da pagare in comode rate mensili da 400 euro: i condomini avrebbero recuperato il credito praticamente in dieci anni. Troppi. Il condominio, così, ha rifiuto l’offerta, attivandosi per il pignoramento dell’appartamento e dando l’aut-aut: 20mila euro entro il 31 dicembre 2018 e altri 40 entro il 2019. E Felicia Gaudiano ha finalmente accettato di saldare i debiti. Nel frattempo però il condominio ha trascritto il pignoramento immobiliare sull’appartamento, in modo da assicurarsi la posizione di creditore privilegiato.
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