L'Agenzia dei bugiardi - Il Film - Il film,Chef - La ...

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L’Agenzia dei bugiardi – Il Film
Mattina presto: il telefono squilla, con la fastidiosa suoneria personalizzata di tua moglie, ti svegli di
soprassalto e ti riprendi a fatica, ma poi realizzi che sei in un letto non tuo, che la casa intorno a te,
benché famigliare, non ti appartiene e, cosa peggiore, che la donna nuda accanto a te non è tua
moglie.

Lo so, a qualcuno potrà sembrare l’incipit di un film alla “Una notte da leoni”, ma sarebbe
fuoristrada, il film è italiano, come gli attori e il regista Volfango De Biasi (Come tu mi vuoi, Iago,
Natale a Londra – Dio salvi la Regina). Ma il film è anche il remake del campione d’incassi francese
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del 2017 Alibi.com di Philippe Lacheau.

Ma torniamo al nostro spaventato personaggio: cosa fare quando, dopo una notte di bagordi con la
tua amante, ti addormenti e non rientri a casa da tua moglie? E per di più hai il collo pieno di segni
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(leggete succhiotti) della passione? Beh, le soluzioni sono 2: o scappi con l’amante o chiami i
professionisti dell’’Agenzia dei Bugiardi. Il nostro sprovveduto amico decide per la seconda
opzione.

Dall’altra parte del telefono ti risponde Fred, il sempre più bravo e maturo Gianpaolo Morelli, che
con fredda risolutezza ti dice subito cosa devi fare e, contemporaneamente, elabora e mette in moto
un piano per riscattare la tua colpevole scappatella agli occhi di tua moglie e dei tuoi suoceri,
intanto accorsi a casa tua.

Cambio scena: il campanello suona a casa tua, tua moglie inviperita viene ad aprire e ti trova
malconcio su di una sedia a rotella con un collare ortopedico, scortato da un infermiere del 118 ed
un poliziotto della stradale, i quali le spiegano che hai avuto un brutto incidente rientrando a casa
per non investire il cane di un cieco. Fantastico, sei passato in un attimo da marito fedifrago ad eroe,
salvando matrimonio ed amante e rimettendoci solo un telefonino e una macchina.

Tornati in agenzia, scopriamo che l’infermiere altri non è che Diego (lo stralunato ed esilarante
Luigi Luciano), l’esperto informatico dell’agenzia, e che il poliziotto era lo stesso Fred, titolare e
performer dell’Agenzia dei Bugiardi, specializzata a fornire alibi a mariti e mogli infedeli, ma anche
altri servizi a tutta una serie di personaggi insospettabili. Cambio scena: Fred sta cercando
personale, e lo vediamo intento a fare un colloquio ad un candidato, Paolo (l’attore e conduttore
televisivo Paolo Ruffini), al quale spiega le motivazioni, il funzionamento e i servizi dell’agenzia.

  PER APPROFONDIRE:

  ■   Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema

Insomma, un’attività di successo, remunerativa e con un bacino di clienti pressoché illimitato. Tutto
bene, tutto bello, addirittura con un certo risvolto sociale giacché, come spiega Fred al candidato
Paolo, l’idea dell’Agenzia nasce da un suo personale dramma familiare che gli ha fatto maturare
l’opinione che è “meglio una bella bugia che una brutta verità!”, frase usata pure come slogan
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aziendale.

Il film procede con vari interventi salva bugiardi durante la settimana di prova del candidato Paolo;
tutto fila liscio fino a quando, e qui arriva il plot del film, all’agenzia non si rivolge un ricco uomo
d’affari, Alberto (il sempre bravo Massimo Ghini), che espone all’agenzia un problema di difficile
gestione.

Senza voler svelare altro del film, che consiglio di vedere,
veniamo alla critica vera e propria.
Il film gira bene, gli attori si innestano perfettamente gli uni sugli altri, la regia è lieve, la
sceneggiatura solida (entrambe di Volfango De Biasi) e le situazioni che l’Agenzia dei Bugiardi è
chiamata a risolvere, benché al limite dell’assurdo, sono credibili ed esilaranti. Il film per la prima
parte è girato soprattutto in interni, stanze, alberghi, etc., ma nella seconda parte si apre all’esterno
con scenografie naturali ben sfruttate, fra cui spicca un resort di lusso in Puglia, meta
gettonatissima dalle produzioni italiane ed estere.
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e Diana Del Bufalo sul set del film.

Su tutto spiccano, come succede in questo tipo di commedie, le interpretazioni degli attori, tutti
bravi, ma tra di esse emergono quelle di Gianpaolo Morelli, sempre più credibile e a suo agio nei
ruoli borderline sia al cinema che in tv, di Massimo Ghini, attore maturo e pieno di sfumature, di
Alessandra Mastronardi, frizzante e poliedrica attrice che si muove perfettamente fra cinema e
fiction, commedia e drammatico, e della sorprendente Diana Del Bufalo (Amici, La profezia
dell’armadillo, Puoi baciare lo sposo), che interpreta con ironia e voglia di prendersi in giro il ruolo
di W Cinzia (non viva ma doubleV) che fa da collante a tutti i personaggi del film.

La Del Bufalo, che attualmente è nelle sale sia con questo film che con il mediocre “Attenti al
Gorilla” di Luca Miniero, canta, sui titoli di coda, in un videoclip musicale che, parodiando Baby K,
prende in giro il rap italiano con tanto di twerking, vestiti animalier, ambientazioni urban-pop, e che
da solo merita i soldi del biglietto.

Per concludere, possiamo dire che il film regala 102 minuti di divertimento, senza parolacce, condito
con una discreta dose di riflessione sociologica su cosa la nostra società di consumatori compulsivi è
diventata. Il regista sembra dirci che oggi si compra, ma soprattutto si consuma, di tutto: matrimoni,
infedeltà, scappatelle e, ahimè, se tutto è in vendita, allora anche la verità e le bugie sono sul
mercato e possono essere acquistate dal miglior offerente e manipolate dall’abile professionista. Una
metafora di internet, dei Big Data, delle fake, della disinformazione, un film che fa ridere con un po’
di amarezza e riflettere con un senso di disgusto.

  Per approfondire:

  ■   #10yearschallenge: complotto di Facebook o semplice fenomeno social?
  ■   Utilizzo dei dati, Facebook e Cambridge Analytica, in parole semplici!
  ■   Fake Politics
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Mentre scrivo questa recensione (21 gennaio), il film è 5° al Box Office, con un incasso totale di
893.223 euro a quattro giorni dall’uscita, il 17 gennaio 2019, battendo nel weekend addirittura il
blockbuster Aquaman, che si ferma a 864.559 euro.

Il Ministro - Il film
Favola nera, anzi nerissima, che ha avuto una distribuzione limitata, sul complicato intrigo di
corruzione e connivenze in cui molti si muovono, e a cui alcuni hanno venduto l’anima tout court.
Nessuno è innocente in questa storia, e il cinismo crudele che anima tutti i personaggi non li
abbandonerà dalla prima all’ultima scena, mostrando un coraggio e una coerenza narrativi non
comuni nel cinema italiano contemporaneo, sempre pronto alla deriva piaciona e buonista.
Inquietante la didascalia iniziale prima dei titoli di testa che avverte: “storia probabilmente
accaduta”, il che la dice tutta sull’attualità della storia e sulle sue dinamiche. Il film però va ben
oltre, è un ritratto attento, ironico e cattivo su usi e costumi della società di oggi, a prescindere dalle
vicende politiche. L’immoralità politica e le abitudini poco pulite (diciamo così) sembrano in effetti
una naturale conseguenza di modi maleducati e irrispettosi al limite della legalità di una intera
società.
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n cerca di rendercelo simpatico. Franco, uno splendido e inusuale Gianmarco Tognazzi, è
continuamente incazzato e in tensione, spende e spande soldi a casaccio: per comprare un vino
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costosissimo (un Sassicaia che “…non si sposa però bene con il coniglio” – l’episodio alla enoteca è
uno dei più simpatici) e ingaggiare all’ultimo momento una escort che si rivelerà in seguito “solo”
una ballerina di burlesque (Jun Ichikawa). Per far bella figura non si fa problemi a comprare cocaina
da uno strozzino chiamato “Il Pitone” e nascondere nella scrivania del suo studio la valigetta con la
maxitangente. Franco non si fa scrupoli nemmeno nel sedurre e indurre alla prostituzione la sua
affascinante cameriera di colore (Ira Fronten) una volta accortosi che al ministro non dispiacerebbe.
Franco è quindi un protagonista antipatico, irresponsabile e sicuramente negativo. Di contro
abbiamo la moglie e il cognato che non sono di meno: egoisti e privi di qualsiasi morale condivisa.
Possiamo sperare nel ministro? Sarà lui la svolta positiva alla storia? Quello che ci farà ricredere
sulla politica italiana?

La commedia di Giorgio Amato è di quelle cattive, anzi cattivissime, politicamente scorrette verso
qualsiasi categoria, amare come sapeva essere la migliore commedia all’italiana dei tempi d’oro.
Questa commedia non è sicuramente di quelle che mette d’accordo tutti, di quelle accomodanti dove
la risata è strappata dalla battutaccia o dal luogo comune. La risata che ne scaturisce è di quelle
amare, che lasciano il ghigno una volta passata. Il malcostume politico è una conseguenza dei
comportamenti poco puliti di chi la politica non la fa, una sorta di assuefazione all’illegalità o
comunque ad una maleducazione diffusa. Tra i personaggi in questione non c’è mai una parvenza di
pentimento o di ripensamento verso ciò che stanno facendo, la corruzione è un comportamento
dovuto per ottenere ciò che si vuole.

Il film è
sorretto da
un ottimo
cast, su tutti
il
protagonista,
Gianmarco
Tognazzi,
presente in
quasi ogni
scena, che
riesce       a
mantenere
un ritmo e
un livello
sempre alto
fino al finale
che rasenta
il grottesco.
Tognazzi sa stare al centro dell’attenzione e allo stesso tempo dare il giusto spazio ai compagni di
lavoro. Un ruolo quello di Gianmarco Tognazzi, che è quasi un omaggio ai ruoli più riprovevoli
interpretati dal padre Ugo. Poi c’è Fortunato Cerlino, il ministro “perfetto”, quello che ognuno di noi
vorremmo vedere al governo in questi ultimi anni. La cena che ci viene raccontata nel film, e che è
la sequenza centrale del film, pare prendere vita da uno dei tanti articoli letti, o dalle notizie apprese
nei telegiornali, e la memoria fa presto ad andare ai festini in maschera organizzati dai nostri politici
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nazionali.
Ma quello che rende il film divertente e per nulla scontato sono proprio i personaggi femminili, che
non sono relegati a puro oggetto del desiderio e merce di scambio per i loschi affari, ma al contrario
si rivelano essere le menti più astute di tutta la combriccola.
Amato, insomma costruisce una galleria di nuovi mostri senza possibilità di redenzione, ma ognuno
animato da una disperazione di fondo che rende l’etica un fantoccio nelle mani dell’economia.
L’ispirazione è chiaramente la commedia all’italiana anni ’60, il modello è quello della cattiveria
castigatrice di Monicelli, Salce e Risi. Questa del film “Il Ministro” è una bella commedia caustica,
come non se ne vedono da un po’ nella nostra cinematografia, e meriterebbe quell’attenzione, che ad
esempio, hanno commedie e pellicole molto meno meritevoli di questa.

Chef – La ricetta perfetta – Il Film
Carl Casper è un noto chef di un altrettanto celebre ristorante di Los Angeles che viene a
conoscenza dell’imminente visita del critico gastronomico Michel Ramsey, per il quale decide di
preparare un menù innovativo e coraggioso. Ma la creatività e la passione dello chef vengono presto
gelate dal proprietario del ristorante, Riva, che gli intima di seguire scrupolosamente il vecchio
menù, collaudato da oltre un decennio. La serata è un fiasco: il critico stronca sul suo seguitissimo
blog non solo il menù, ma attacca sul personale lo stesso chef, dichiarando la sua delusione per ciò
che era diventato una grande promessa della cucina quale era stato, agli inizi della carriera, Carl
Casper.

Da questa stroncatura, che diviene presto virale, prende avvio il tema centrale di questa deliziosa (in
tutti i sensi) commedia del 2014 dal titolo “Chef – La ricetta perfetta”, scritta, diretta, prodotta ed
interpretata da Jon Favreau, che la maggior parte di noi ricorda come l’interprete di Happy Hogan,
la guardia del corpo di Tony Stark, alias Robert Downey Jr., nei film della serie “Iron Man”, dei
quali è anche regista dei primi due.

Reduce dal fiasco, sia di botteghino che di critica, del suo precedente film del 2011 “Cowboys &
Aliens”, Jon Favreau torna alle origini, proponendo una commedia dal sapore indie e dal taglio
autoriale, nel quale in controluce si può leggere la biografia artistica del regista, da sempre in lotta
con il cinema di Hollywood, che cerca di spegnere, questa la sua opinione, la sua verve creativa. Ed
allora, negli scontri con Riva, il proprietario del ristorante (interpretato da Dustin Hoffman), e con il
critico Ramsey (interpretato da Oliver Platt), possiamo leggere la delusione e la rabbia di Casper
come una rappresentazione della rabbia del regista Favreau verso lo star system hollywoodiano.
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m ha un taglio molto intimista, dato proprio dalla biografia del suo autore che traspare in molti
dialoghi e scene.

Ma torniamo alla trama del film: dopo la stroncatura del critico Carl Casper, molto arrabbiato,
decide di sfidare via twitter proprio lo stesso esperto, rinvitandolo al ristorante per proporre,
finalmente, il suo menù creativo. Saputo della sfida, il proprietario Riva affronta Casper e, dopo una
violenta discussione, lo licenzia, impedendogli di preparare il suo menù, affidando le redini della
cucina al suo chef in seconda, Tony (l’attore Bobby Cannavale), al quale viene ordinato di seguire
scrupolosamente il collaudato menu del ristorante. Anche questa seconda sfida è un fiasco, che il
critico documenta in tempo reale sui social. La serata ha un tragico epilogo quando, infuriato per i
commenti al vetriolo dell’esperto, Carl Casper corre di volata al ristorante e, davanti a tutti gli altri
clienti, al suo staff ed al proprietario, litiga ed urla in faccia a Ramsey, ancora seduto al suo tavolo. Il
tutto, ripreso da un cliente, diventa un video, ancora più virale del precedente, che inevitabilmente
mina la credibilità e la carriera stessa di Carl Casper.

Ma qui, come spesso succede anche nella vita reale, insieme alla caduta ed alla sconfitta arriva pure
l’opportunità, interpretata dalla sua ex moglie, Inez (l’attrice ed ex modella Sofía Vergara), che gli
propone un viaggio a Miami e l’opportunità di reinventarsi come chef di un food truck. Dapprima
riluttante, ma via via sempre più convinto, Carl Casper trasforma un diroccato furgone in una vera
cucina viaggiante per offrire i famosi panini cubani lungo tutto il percorso che lo porterà a bordo del
suo furgone da Miami a Los Angeles. Un tour gastronomico da costa a costa dove, ad ogni tappa,
cresce l’attesa dei clienti per i panini dello chef. In questa lenta odissea Carl Casper è accompagnato
dal figlio, Percy (l’attore Emjay Anthony), che si cura di creare e amministrare le pagine social
dell’attività, e da uno dei suoi chef in seconda che aveva al ristorante di Riva, Martin (l’attore John
Leguizamo), che lo aiuta nelle preparazioni sulla cucina viaggiante.

Senza voler svelare altro sulla trama di questo gustoso film, sarebbe interessante affrontare ed
approfondire alcuni dei ricchi spunti che questa pellicola offre a tematiche come il successo
professionale, il marketing e i social media, che sono così importanti per la nostra rivista.
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poche; il film si concentra fortemente sull’importanza del cambio di prospettive che bisogna
assumere quando una carriera gastronomica, ma potrebbe essere di qualsiasi altro tipo, raggiunge
una fase di impasse o di stop. Carl Casper capisce lentamente, ma profondamente, che quando un
lavoro non ci rende più felici, il disastro è dietro l’angolo e che parole come cambiamento e
ridimensionamento possono essere le chiavi di un nuovo successo, non solo professionale, ma anche
personale. Tornando alle origini del suo lavoro, ricominciando, lui chef rinomato, come semplice
cuoco di un food truck, riscoprendo profumi e sapori dimenticati, letteralmente Carl si re-innamora
della sua professione, e noi sappiamo quanto sia importante amare quello che si fa.

In secondo luogo il film affronta l’importanza fondamentale che in certi momenti della vita assumono
le tematiche del viaggio e del cambio geografico di attività. Carl Casper riannoda i fili lacerati della
sua trama gastronomica, tornando nella città di Miami, dove aveva mosso i primi passi come chef,
scoprendo per la seconda volta tutti quei motivi che lo avevano spinto a fare della cucina il suo
mestiere e la sua ragione di vita. Anche in questo caso noi sappiamo quanto alle volte, lungo i nostri
percorsi professionali, quando perdiamo motivazioni e mordente, sia importante fermarsi, magari
tornare alle origini delle nostre scelte, per ricordarci le motivazioni che, allora, ci spinsero ad agire,
al fine di poterle riutilizzare per superare le crisi odierne, di qualunque natura esse siano,
professionali, familiari o esistenziali.

In terzo luogo, ed è l’aspetto meno scontato del film, la rinascita di Carl Casper come chef è
documentata passo passo dal diario virtuale che il figlio dipana su social network come Twitter,
Facebook ed Instagram, che rappresentano una parte importante del successo della nuova attività
on the road. Qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono svariati e molteplici, ma fra tutti si
impone quello dell’importanza che lo storytelling sta assumendo nelle campagne pubblicitarie non
solo social. La storia coast to coast, riportata sui profili social dal figlio dello chef, infarcita di
curiosità, foto divertenti, ricette, successi e soste, appassiona prima centinaia, poi migliaia di utenti,
tutti potenziali clienti, che il food truck incontra nelle città lungo il suo percorso per tornare a casa.
Il bisogno di storie e di serialità, così evidente nella scrittura di soggetti e sceneggiature di serie tv
di successo, ci dice inequivocabilmente che, se pure al mondo i lettori sono sempre meno, il bisogno
di storie è comunque in crescita.

Il film, insomma, è un solido prodotto cinematografico, diretto alla vecchia maniera, con un cast di
primo livello ed interpretazioni credibili ed efficaci, ma, accanto a questo, esso rappresenta un
ottimo esercizio di marketing e management applicato, ci insegna l’importanza di concetti spesso
astrusi come il cambio di prospettive, lo storytelling, il ritorno alle origini delle nostre scelte di vita e
da ultimo affronta l’importanza del cambiamento cui spesso la vita ci costringe. Il film ci dice, o
meglio, ci racconta e chiarisce una delle più belle massime del poeta Thomas Eliot quando scrisse:
“Non smetteremo mai di esplorare, di cercare, di sperimentare e dopo innumerevoli giri torneremo
al nostro punto di partenza per scoprire quel posto per la prima volta”.

Come spesso ho scritto e detto, un buon film non è solo un buon film, ma è sempre qualcosa di più.
Buona visione.

I modelli artistici del cinema italiano: il
realismo di Verga, Lega, Fattori e Guttuso
  “Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura,
  ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura,
  alla scultura, alla musica.”

                                                                                      Akira Kurosawa

La definizione del maestro giapponese Akira Kurosawa, è quella che semplifica meglio l’essenza del
termine Cinema e il legame indissolubile che lega la “settima arte” a tutte le altre arti. Anche e
soprattutto qui da noi, considerato che il primissimo esempio di convergenza tra Arte e Cinema in
Italia è ravvisabile nel legame tra il realismo della pittura, quella della corrente verista dei
Macchiaioli, su tutti Silvestro Lega e Giovanni Fattori, che con i loro dipinti, descrivevano
l’ambientazione popolare, meridionale, contadina, dell’Italia di metà ottocento; e quella della
letteratura di Giovanni Verga, anch’essa basata sul verismo popolare, soprattutto del meridione e
delle campagne.

Il realismo giunge a pieno
compimento, però nel cinema,
con i capolavori neorealisti,
grazie alla rivoluzione epocale
operata da Luchino Visconti,
Roberto Rossellini e Vittorio De
Sica, i quali ripresero
l’insegnamento e l’ideologia
verghiana, per portare il cinema
nella realtà sociale della gente
comune, per strada, e
descriverne i piccoli e grandi
problemi, rendendo così il
cinema lo specchio della società.
La scoperta che l’elemento realista, che affonda le sue radici in Verga, Fattori e Lega, si coniuga
perfettamente con il mezzo cinematografico, sarà una svolta epocale, perché tutto il cinema che
verrà dopo di “Ossessione” (1943, Luchino Visconti), “Roma città aperta” (1945, Roberto Rossellini)
e “Ladri di biciclette” (1948, Vittorio De Sica), sarà basato sulla descrizione veritiera della realtà
sociale dei tempi contemporanei, su tutti la “commedia all’italiana”, destinata a segnare un’epoca. In
quello stesso periodo, così ricco di pulsioni artistiche, per la “nuova” Italia che usciva da anni di
sanguinosa guerra, si sosteneva anche l’opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto
alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza fu Renato
Guttuso, i cui dipinti, ancora una volta di ambientazione popolare e contadina, apparivano come
riferimento ideale per il primo genere cinematografico italiano post-bellico: il Neorealismo. Peraltro
Guttuso, massimo esponente della corrente della pittura neorealista, poteva segnare il trait- d’union
tra il realismo ottocentesco di Verga e dei Macchiaioli, e quello cinematografico contemporaneo alla
sua arte pittorica.

Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell’immediato
dopoguerra, il neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a
Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa
(Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini, con Alberto Sordi), che rappresentano il punto cardine
di trasformazione del Neorealismo in Commedia all’Italiana.

L’ora legale - Il Film
  Ficarra & Picone e la commedia “intelligente”.

“L’ora legale”, settima fatica del duo composto da Ficarra & Picone, è uno dei film comici più
intelligenti degli ultimi vent’anni. Resterà questo film, resterà fra venti/trenta/quarant’anni, come
documento storico-politico dell’Italia di inizio XXI secolo. Resterà come è rimasta la migliore
commedia all’italiana del secolo scorso. Resterà perché finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di
parlare della nostra realtà, ovviamente deformata attraverso una sguardo esilarante. Resterà perché
il duo osa un finale amaro, profeticamente realista, come fossimo in una delle commedie all’italiana,
di Sordi, di Gassman e perché no, anche di Franco Franchi & Ciccio Ingrassia.

E come somigliano alla celebre coppia, così tanto rivalutata al giorno d’oggi, e non somigliano solo
per la chiara comunanza geografica. Ficarra & Picone affondano le loro radici nell’humus culturale
dei pupi siciliani, della Sicilia borbonica ottocentesca, dello sberleffo verso il potere, e la
arricchiscono con annotazioni comiche e sociologiche adattate ai tempi moderni. La grazie e la
finezza comica sono state sempre loro prerogative, ma ne “L’ora legale”, a tutto ciò si aggiunge la
capacità di raccontare abitudini e modi di essere collettivi del popolo italiano.

Così facendo allargano lo sguardo sulla descrizione di un’intera comunità, dei suoi vizi e dei suoi
tanti difetti, lontano anni luce ( in meglio ) rispetto alla favola buonista, meccanica e ripetitiva di un
Siani a corto di idee. E la maniera in cui Ficarra & Picone si utilizzano è straordinaria e dimostra che
dietro alla coppia, c’è una solida cultura comica, intelligente, raffinata, popolare. I due sono un
corpo estraneo vagamente surreale, capaci di scardinare la logica lineare della narrazione, e difatti
danno tanto spazio ai caratteristi di turno, come Antonio Catania e Sergio Friscia, squinternati vigili
di provincia. Riescono dunque a sbozzare tante figurine deliziose, come si faceva nella “grande”
commedia all’italiana dei vari Sordi, Manfredi, Gassman…Che delizia, perché reale, il microcosmo de
“L’ora legale”, amaro, amarissimo, pieno di ipocrisie, di false amicizie, di egoismo.

Un trattato sociologico di estrema efficacia, che si pone una domanda importante: che Paese
vogliamo essere? Siamo davvero pronti per un mondo dove le regole vengono rispettate da tutti, noi
compresi? E ancora, per citare una battuta del film: l’Italia, l’onestà, se la può permettere? L’ora
legale resterà in ogni caso un documento del momento storico-politico che stiamo attraversando,
sospeso tra paura e speranza, tra la curiosità e il timore di scoprire qual è Italia che ci meritiamo
davvero. Dalla sala si esce soddisfatti, per aver visto un “vero” film comico, come si facevano una
volta, ma si esce anche con l’amaro in bocca, perché è un film che fa riflettere se siamo davvero così.
Un film che merita 4 stelle su scala di 5, perché quando la comicità non è banale, sfonda, eccome se
sfonda, rasentando il capolavoro.

E ci fa capire una cosa: che le favole ridanciane e fine a se stessi dei cinepanettoni, stanno
incominciando a segnare il tempo, e che il film comico quando è intelligente ha una carica magnetica
più efficace di un film drammatico, nell’ambito puramente sociologico. Certo, Ficarra & Picone
procedono sulla falsariga della maschera di Checco Zalone, ma la arricchiscono con più qualità,
meno volgarità e meno parolacce. La coppia non ha mai steccato al cinema, perché ha buone idee,
ha un ottimo affiatamento, diverte con stile, ma questa volta ha davvero trovato la strada giusta, per
affiancare alla classica comicità all’italiana, l’ambizione di una commedia di costume.

Ci sono arrivati per tappe, in progressione, con grande “intelligenza”, quella che manca a molti
autori italiani. E gli incassi, volano, volano, a sfondare il muro dei 10 milioni di euro, dopo soltanto
10 gg di programmazione. E hanno compiuto un altro miracolo, quello di mettere d’accordo pubblico
e critica, praticamente all’unisono. Può sembrare banale, eppure storicamente qui da noi, non è
quasi mai stato così.

L’abbiamo fatta grossa - Il Film
Domenico Palattella (80)
Nato da un’idea del solito, trascinante Carlo Verdone, “L’abbiamo
fatta grossa” è un film nuovo, di rottura, un’opera che si prende il
rischio di voler rappresentare lo specchio dei tempi attuali e si
inoltra fra le strade della Roma umbertina, storicamente quella
meno frequentata dal cinema. Un cinema quello di Verdone, che
nasce dall’osservazione comica della realtà e dalla costruzione
puntuale, ironica e affettuosa di “caratteri”. Laddove però Verdone
osa di più, è nella scelta di avere come coprotagonista del suo
venticinquesimo film il grande Antonio Albanese, della commedia
all’italiana moderna, l’attore più sensibile e più talentuoso. Reduce
dalla meraviglia de “L’intrepido”(2013), lodato al festival di
Venezia, nel quale sembra davvero uno “Charlot dei tempi
moderni”, con quel suo viso triste e quel sorriso venato di
malinconia. Carlo Verdone e Antonio Albanese, attori brillanti di
“rango” superiore, per la prima volta insieme, pescano
abbondantemente nel proprio repertorio personale fatto per entrambi di maschere tragicomiche che
tanto ci hanno dato in passato, e costruiscono una commedia venata da uno stile malinconico che
giova al film.

Il lavoro registico imponente di Verdone, che lima pazientemente situazioni e battute alla ricerca dei
ritmi, dei tempi, degli incastri giusti con il profilo e lo stile del coprotagonista, riesce a legare
perfettamente la sua comicità “realista”, con quella funambolica, fisica e surreale di Albanese. E se
entrambi, singolarmente, sono in grado di cogliere e riprodurre il ridicolo di una situazione o di un
personaggio, il binomio diventa addirittura travolgente quando il ritmo del film tende a salire, per
intenderci quando c’è da scappare o da restituire refurtive. La comune goffaggine, insieme alla
furbizia e alla perizia nel riprodurre gli italici dialetti, produce infatti effetti portentosi. I due
protagonisti, Carlo stesso e Antonio Albanese (new entry nella variopinta galleria di partner che
sempre Verdone ha scelto con curiosità e disponibilità, e questa è una combinazione più audace di
altre), si pongono come due ingrigiti ragazzi spaventati ed eccitati dall’averla, appunto, fatta grossa.
Come in un’avventura per adolescenti un po’
antiquata. Astratta come un gioco senz’altro scopo
che il gioco stesso, priva di qualsiasi aggancio a
quanto accade realmente intorno. Carlo è un
detective privato tanto malridotto da vivere con la
vecchia zia un po’ picchiatella. Antonio (in realtà il
personaggio si chiama Yuri Pelagatti, e l’altro Arturo
Merlino) invece è un attore forse dotato ma tanto
abbattuto dall’abbandono della moglie da non
ricordare più una battuta e di conseguenza ridotto al
lastrico. L’incontro avviene perché quest’ultimo pretende di far pedinare l’ex moglie per
dimostrarne, inutilmente, l’infedeltà. La diversità di “gioco” e di provenienza, cesellata dal lungo
lavoro sulla coppia effettuato da entrambi, tende a non sentirsi. Giustamente Verdone non vuole
“domare” Albanese, che è un condensato di pura energia, ma lasciandolo immerso nella commedia,
fa uscire quel suo lato poetico così mirabilmente “sfruttato” da Francesca Archibugi in “Questione di
Cuore” o da Silvio Soldini in “Giorni e nuvole”.

S’incontrano perché Yuri assume Arturo per avere prove dell’infedeltà della moglie e si trovano fra
le mani una valigetta con un milione di euro, inanellando una serie di avventure a dir poco
rocambolesche fra maldestri travestimenti e scambi di persona, fughe e inseguimenti. Ci sono
momenti esilaranti (tutta la sequenza nel solarium) e si ride parecchio, anche se il film, per la verità,
manca un po’ di ritmo. Riuscita appare invece, la vena malinconica che avvolge questa commedia
vecchio stampo, tutta giocata sugli equivoci e sulla goffaggine dei due protagonisti. Si punta molto
sulla coppia degli interpreti, che si compensano bene. Verdone e Albanese sono accomunati da una
malinconia sottile – e umanissima – che è uno degli indubbi tratti distintivi del film, e i loro
personaggi hanno la faccia onesta e sincera, oltre che l’ingenuità, di due perfetti antieroi.

Negli ultimi venti minuti il film però, decolla: diventa una satira dolente e assai politica dell’Italia di
oggi, in cui le brave persone si muovono con difficoltà sempre crescenti. Il film si conclude con un
gesto liberatorio: sberleffo sonoro nei confronti del «sistema» cui i due protagonisti, Yuri e Arturo,
non esitano a ricorrere. Una pernacchia nei confronti del politico-ladro che li ha fatti finire dietro le
sbarre ma anche di tutto ciò che esso rappresenta. Lode particolare alla giunonica Lena,
interpretata dalla cantante lirica armena Anna Kasyan, vera scoperta del film, che interpreta la
fidanzata di Verdone. Kasyan ha tempi impeccabili, un’esuberanza e una comicità fisica istintive che
travolgono immancabilmente Arturo-Carlo, ben felice di lasciarsi investire, o di opporre al fiume in
piena della donna il suo miglior cialtronismo da antico e moderno interprete dell’italiano medio, vero
erede dell’Albertone nazionale, con il quale Verdone è cresciuto artisticamente. L’ alchimia tra
questi due assi della nostra commedia moderna, è dunque scattata, e anche il pubblico ha
dimostrato di gradire: 3 milioni e mezzo di euro incassati soltanto nel primo week-end. Un film da
vedere, che si erge dalla mediocrità dilagante del cinema attuale.
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