Questa non è giustizia! Lui, 72 anni, prete, stupra una bambina si 10. Pena dimezzata a due anni.
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Questa non è giustizia! Lui, 72 anni, prete, stupra una bambina si 10. Pena dimezzata a due anni. Ancora ItaliaTribunale di Firenze. Guardate l’immagine. Terribile e raccapricciante.Eppure non basta.Altra pena dimezzata. Questa volta non è un padre che stupra sua figlia ma un prete. Lei una bambina di 10 anni. Lui 72.Doveva riportarla a casa, invece si è appartato in macchina e ha iniziato a toccarla e farsi toccare e chissà che altro e chissà quante volte.Beccato in fragranza di reato. Neanche questo basta. Paolo Glaentzer, era stato condannato a 4 anni e quattro mesi di reclusione dal tribunale di Prato il 5 marzo 2019 per violenza sessuale su una bambina di 10 anni. Il tribunale di Firenze, in appello, gli ha ridotto la pena a 2 anni e mesi e 20 giorni di reclusione. Il sacerdote ridotto allo stato laicale dalla curia dopo la prima condanna di un anno fa, ha beneficiato delle attenuanti generiche, che i giudici hanno ritenuto prevalenti sull’aggravante di aver commesso il fatto nell’esercizio delle funzioni di ministro di culto. Avete capito bene. Attenuanti generiche. Un prete è come un padre, forse di più, porta nel mondo la parola di Dio, chiunque si fiderebbe, potete immaginare una bambina. Ma come possiamo andare avanti così ? Ma che giudici sono questi?
Lui ha stuprato godendo anche del suo ruolo di sacerdote, e i giudici gli riconoscono le attenuanti generiche? Cosa gli avrà detto quell’ uomo per convincerla a stare zitta: Dio vuole così?. Vi scandalizzate per questa frase? Bene, perché non se ne può più. E pensateci a quel corpo, alla vita di questa bambina, a quest’uomo che non credo si sia fatto un giorno di carcere. È come se la giustizia legittimasse lo stupro dicendo agli uomini che al massimo si prenderanno cinque anni https://sosdonne.com/2020/06/24/in-nome-della-giustizia-i taliana-lei-ha-13-anni-lui-ne-ha-40-anni-ed-e-suo-padre-la- stupra-e-le-mette-incinta-condannato-a-soli-5-anni/ o due, pure con beneficio delle attenuanti generiche. E non tengono conto di niente, nemmeno che loro avevano una posizione di “potere” quella di padre e sacerdote. Cosa vi devo dire? Chiudiamo in casa le nostre figlie, ragazze e bambine, tenetele al guinzaglio, perché nessuno le difenderà. Non la nostra giustizia. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )
Sono nauseata. Chi ha ucciso questi due bambini, amava solo se stesso, il padrone delle loro vite. E niente, questa storia mi rimbomba nelle orecchie e nel cuore. Forse perché sono una madre, forse perché sono separata o forse semplicemente perché sono unadonna, una persona come Daniela. Forse perché oltre alla tragedia c’è una narrazione tossica. Quella dei giornalisti che sembrano fare due pesi e due misure. La vita di Mario ha un peso, quella di Daniela ( che ha avuto la sola colpa, se vogliamo chiamarla così, di non amare più suo marito) un’altra. Vorrei parlare di lei, Daniela. Una madre. Una donna. Una persona.
Elena e Diego, i suoi gemelli di 12 anni, erano partiti per le vacanze a Margno con il papà un luogoche probabilmente amavano. Le mani a cui le aveva affidate erano sicure. Non lo amava più ma era il padre dei suoi bambini. Cosa sarebbe potuto succedere? Daniela racconta che li aveva sentiti alle dieci, per la buonanotte, erano contenti. Chi di noi è madre sa quanto sia importante la telefonata della sera se i tuoi figli sono lontani. Ti mette a posto con il mondo e puoi dormire tranquilla perché sai che stanno bene. Poi aveva silenziato il telefono perché era casa dei genitori anziani e non voleva disturbarli e perché i suoi bambini erano con il padre non persi chissà dove, non con estranei. Daniela si sveglia alle 5 e trova tre messaggi su WhatsApp che il marito le aveva inviato nella notte. Nell’ ultimo, mandato alle 3 del mattino scriveva: “Guarda la mail”. Daniela è andata a controllare e ha letto ciò che non avrebbe mai voluto ascoltare, accuse per la sua decisione di separarsi da lui, fino a quella frase terribile e definitiva: «È colpa tua se la faccio finita. I tuoi figli non li rivedrai più». Daniela ha saputo dagli investigatori che all’ 1 e 30 quel
padre aveva già fatto tutto. Aveva strangolato Elena e soffocato con un cuscino Diego. Dopo di che, prima di uccidersi, ha postato una foto su Instagram con i suoi figli, sotto ha scritto: “Con i miei ragazzi sempre insieme”. Perché quei ragazzi erano suoi. Daniela era sua. Esistevano solo in funzione di se stesso. È ciò che succede a questi uomini, chiamano amore qualcosa che è legato al proprio centro, al proprio bisogno. L’amore, quello reale, coniugale, materno e paterno, non conosce il “possesso” ma solo la libertà. Ti amo davvero e quindi ti lascio essere te stesso al di là di me. Mario ha strangolato Elena e soffocato Diego. Per annientare, punire Daniela.Perché amava solo se stesso, in un delirio di onnipotenza, per cui nessuno poteva esistere lontano da lui. Questo è ciò che ha fatto. Ha usato violenza sui suoi figli e su Daniela. Non c’ è altra storia da raccontare. Il resto è narrazione tossica. Che ha un unico scopo: salvare
ancora una volta l’uomo, il maschio, a discapito della donna. E se necessario calpestando anche i figli e facendo intendere che quello di Mario è stato un gesto, in fondo, d’amore. Questa narrazione, consapevole o no, serve per continuare a salvare dei privilegi, il maschilismo, la misoginia. Diamo il nome giusto alle azioni, perché, anche se sono solo linguaggio scritto costruiscono cultura. Vorrei ricordare ai signori giornalisti che quella donna è una persona e si chiama Daniela e non ha colpe. Anche quei bambini erano persone, piccole, con una vita davanti e si chiamavano Elena e Diego. Lui non li amava. Li ha uccisi nel peggiore dei modi. Lui amava solo se stesso. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG ) Gli orchi odiano gli stranieri ma abusano
sessualmente dei loro figli “L’atteggiamento degli imputati nei confronti dei ragazzi con cui hanno avuto rapporti sessuali è stato tracotante, prepotente, arrogante: sono ripetute e frequenti le espressioni “carne da macello”, “usa e getta”, “bocconcini belli”, utilizzate nei confronti dei minori, espressione e manifestazione della assoluta mercificazione che delle vittime è stata fatta dagli imputati”. Lo scrive il gip di Napoli Egle Pilla nella sentenza di condanna di tre uomini, gli “orchi” responsabili di sfruttamento della prostituzione minorile. È la vicenda denunciata quasi due anni fa da Avvenire, conclusa a maggio con la condanna per prostituzione minorile di tre adulti italiani che approfittavano di ragazzini immigrati minorenni, sul lungomare di Mondragone. Un vero gruppo organizzato. Cinque-dieci euro, una ricarica telefonica, un paio di birre, tre sigarette. Egiziani, albanesi, bulgari. Sì proprio bulgari, della comunità che vive nei palazzi diventati “zona rossa” per il Covid-19, emarginati e sfruttati, e ora accusati di essere “untori”. Ma la realtà che emerge dalla sentenza è l’opposto. Il carnefici sono italiani mentre le vittime sono immigrati. Cinque sono stati identificati, ed erano ospiti di centri di accoglienza per minori non accompagnati, altri, in particolare i bulgari, non lo sono stati. Le 62 pagine della sentenza, che Avvenire ha potuto leggere, sono un colpo allo stomaco, un tuffo nel baratro della peggiore depravazione. Le numerosissime intercettazioni telefoniche e ambientali, corredate da videoriprese, sono esplicite, crude, violente.
Gli incontri, i rapporti sessuali, i commenti successivi tra i tre, sono un libro dell’orrore. Una raccolta di prove, frutto dell’efficace lavoro dei carabinieri di Mondragone, che inquieta. Soprattutto le parole dei tre complici. “Il linguaggio è forte, violento e crudo – scrive ancora il Gip – ed esprime tutta la convinzione di poter utilizzare impunemente i minori, per soddisfare un insaziabile appetito sessuale”. I tre imputati hanno provato a negare di sapere che i ragazzi fossero minorenni. Ma proprio le intercettazioni li smentiscono. “Le espressioni utilizzate – scrive sempre Il Gip – quali “angioletti”, “ragazzetti”, “nipotini”, “sfraffusietti” non possono considerarsi neutre o genericamente indicative di giovani ragazzi, senza che gli imputati abbiano realmente compreso quale fosse la effettiva età degli stessi come sostengono le difese. Sono gli imputati medesimi nelle conversazioni riportate ad indicare la età delle vittime e a capire che si tratta veramente di ragazzi giovanissimi ( .. ma è veramente piccolo…)”. Minori e fragili, per le condizioni di vita. Alcuni di loro sono, infatti, ospiti di centri di accoglienza per minori non accompagnati. E di questo gli “orchi” ne approfittano. “Questi giovanissimi ragazzi – si legge ancora nella sentenza – vengono da paesi stranieri, sono senza famiglia, vivono in comunità che soddisfano proprio i bisogni primari e che forniscono loro una somma di danaro pari a 10 euro settimanali che sono oggettivamente una cifra davvero molto esigua. Questi ragazzi hanno davvero “poco” in termini di affetti, relazioni sociali, svaghi, attenzioni al loro sviluppo psicofisico in ragione di una obiettiva condizione che li caratterizza”. I tre hanno così gioco facile. “Chi offre loro la somma di 5 o
10 euro in cambio di un rapporto sessuale sicuramente è consapevole della subalternità psicologica, del disagio sociale dei ragazzi legato non solo alla minore età, ma anche al contesto socio ambientale in cui essi crescono e vivono”. Il Gip Egle Pilla, magistrato con una lunga esperienza in processi di camorra, ecomafie e violenze, analizza e spiega questa condizione. “La loro è una dimensione esistenziale molto “povera”: solo questo può spiegare la scelta di passeggiare sul lungomare di Mondragone per prostituirsi. E questa condizione di estrema povertà i tre imputati la conoscono molto bene: lo si comprende dalle considerazioni che svolgono sui ragazzi”. Inoltre “non hanno mai manifestato nel corso delle loro numerosissime conversazioni alcuna incertezza, perplessità, indecisione rispetto alla condotta posta in essere mostrando, al contrario, una lucida determinazione accanto alla convinzione di essere non solo superiori rispetto a quei minori, ma anche totalmente insensibili alla loro vulnerabilità e alla loro debolezza”. E sono convinti anche di godere di una sorta di impunità. Così da non limitare le loro azioni. “La gravità delle condotte è ravvisabile altresì nella quantità di episodi posti in essere con cadenza quotidiana, nonostante i controlli effettuati dalle forze di polizia rispetto alle quali gli imputati hanno mostrato non più di un superficiale timore”. E mentre sfruttano sessualmente i minori immigrati, si esprimono con frasi intolleranti contro il fenomeno migratorio. Uno di loro, scrive il Gip, “lancia invettive contro i ragazzi extracomunitari, contro le Ong, le case famiglia (“…allora fa bene Salvini che ora ci da una stretta a questa gente, gli da una brutta stretta”. “Ma quello Salvini lo vuol fare, solo che ci sta qualcuno che…”. “Salvini lo vuol fare ma c’ha la gente contro”). Addirittura auspica l’
introduzione di una legge che preveda il rimpatrio immediato di quei ragazzi stranieri che lamentassero di esser stati molestati. E si esprime con disprezzo nei confronti dei ragazzi (“c’è troppa.. troppa marmaglia giù guarda..”)”. Condanna a sei anni, che sarebbero stati nove se non ci fosse stata la scelta del rito abbreviato che prevede la riduzione della pena di un terzo. Accolte le aggravanti della minore età e dell’approfittamento dello stato di necessità delle vittime. Ed emerge come il fenomeno sia molto più vasto, sia come minori e adulti coinvolti che come aree interessate, soprattutto Formia e Gaeta. Antonio Maria Mira per AVVENIRE ” Non li rivedrai mai più !”, la feroce bestemmia assassina di uomini che odiano le donne Margno. Casa di villeggiatura. Estate 2020. Un padre porta i suoi figli in vacanza e poi manda un messaggio alla sua ex moglie: “Non li rivedrai mai più”. Lei arriva e si contorce per terra. “Non si svegliano, non si svegliano” ripete ad un vicino. I bambini sono blu,
strangolati nella notte. Gli uomini della croce rossa piangono. Parole che fanno male, persino a scriverle. I bambini erano blu. La madre si contorceva dal dolore. Era questo che voleva Mario Bressi, annientare la vita della sua ex moglie che stava continuando senza di lui. Quando la donna è considerata un oggetto dal mondo che ti circonda, quando è considerata una cosa da mostrare “Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi…” ( R. Morelli) oppure un padre stupra la figlia e si becca solo cinque anni, oppure un gruppo di giovani uomini “gioca allo stupro”, oppure frasi e parole sessiste vengono sputate nel nostro Parlamento, quando, lo ripeto, il mondo legittima con azioni, parole e sentenze la violenzasulle donne, un padre può considerare oggetti anche i suoi figli. E fare la cosa più atroce: decidere della loro vita. Li ha uccisi nel sonno, forse li ha sedati ( so che lo speriamo tutti) e poi strangolati. Quanto odio, un odio inimmaginabile, può provare un uomo per essere stato lasciato? Lo sanno bene questi uomini che i figli sono il ricatto più grande per far restare, annientare, sottomettere una donna. Lo sanno quando la picchiano, la stuprano, la piegano.
E poi ci sono le parole di altri uomini, giornalisti che lanciano, consapevoli o no, messaggi chiari alle donne: NON SEPARATEVI, NON ASPIRATE A NULLA PERCHÉ SE LO FATE I VOSTRI FIGLI POTREBBERO ESSERE UCCISI. Eccole le frasi di un giornalista: “Secondo le prime informazioni, a causare la tragedia sarebbe stata la difficile separazione tra il padre e la madre”. Come si può scrivere una sciocchezza del genere? La separazione non è mai la causa della tragedia, la causa della tragedia è la violenza di quest’uomo, l’incapacità di amare e il considerare la propria moglie o compagna un “possesso”, un oggetto suo. Così suo da volerla distruggere per sempre. Non è riuscito a dominarla nella loro esistenza, l’ha annientata uccidendo i suoi figli, ciò che di più prezioso avesse. Non ho trovato i loro nomi, so che sono un bambino e una bambina, so che la sera prima giocavano in cortile e si fidavano di quel padre. So che ogni atto sessista, misogino, ogni affermazione o azione, anche lontani dalla storia di questa famiglia, hanno fomentato la scelta di quest’uomo. È la cultura patriarcale che ascoltiamo, percepiamo, viviamo ogni giorno che crea il terreno fertile su cui si costruisce la dominazione della donna sull’uomo.
Questa volta c’erano due bambini, amati dalla propria madre, una madre immagino che desiderasse per loro e per se stessa solo la felicità. Paga un atto di autodeterminazione con la vita dei sui figli. Cosa dobbiamo fare? Consigliare alle donne di curarsi, vestirsi bene, avere gli occhi degli uomini su di sé, continuare a farsi menare, piegare, abbattere, altrimenti potrebbero succedere tragedie di questo tipo? Qualcuno me lo può dire? Mi può dire quanti figli dovranno morire prima che qualsiasi atto sessista, misogino, violento non trovi un terreno su cui crescere? Quando costruiremo percorsi nelle scuole di educazione all’affettività e alla sessualità? Quando saranno morti altri figli e altre madri? Quei figli erano prima di tutto bambini, quella madre, una donna. E quel padre? Cosa provava quel padre se non un odio profondo per la donna che, probabilmente, si era permessa di lasciarlo? Ecco la natura di questa tragedia. L’odio per le donne. Si chiama misoginia e questo Paese non fa ancora abbastanza per fermarlo.
Di quello che è successo a lui, il padre -chiamiamolo con il suo nome- personalmente mi interessa davvero poco. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG ) Allucinante. In Germania, per decenni, tanti minori in difficoltà sono stati affidati ai pedofili…. «Crimini difficili da immaginare» li ha definiti la senatrice del consiglio di Berlino che si sta occupando del caso. E in effetti è inimmaginabile e incredibile come si possa essere arrivati a tanto, ancor meno che gli abusi siano andati avanti per decenni con il beneplacito delle istituzioni: dal 1969 al 2003 numerosi adolescenti senzatetto (quanti esattamente non è noto) sono stati affidati a pedofili già condannati, nella convinzione che fossero «perfetti genitori affidatari». Era questa la teoria del sessuologo e professore universitario Helmut Kentler, convinto che «il contatto sessuale tra bambini e adulti non sia dannoso» e sostenitore di una «emancipazione dell’educazione sessuale» che si basava sulla premessa che i bambini sono esseri sessuali che hanno il diritto di esprimere la loro sessualità (come se dover sottostare agli abusi di un adulto da cui dipendevano potesse mai essere un’espressione dei loro liberi desideri).
Le perizie e l’inchiesta L’amministrazione del Senato di Berlino per l’istruzione, la gioventù e la famiglia si è occupata della questione solo nel 2016: ha commissionato una perizia sul caso all’Istituto per la ricerca sulla democrazia di Gottinga, poi ha incaricato un gruppo di ricerca dell’Università di Hildesheim di ricostruire gli abusi. I ricercatori, dopo aver analizzato i documenti e intervistato alcune delle vittime, questa settimana hanno pubblicato un rapporto che mette sotto accusa l’autorità pubblica per gli abusi subiti di bambini durante l’«esperimento Kentler». L’inchiesta dell’Università di Hildesheim ha fatto emergere l’esistenza di una «rete che attraversava le istituzioni educative scientifiche, soprattutto negli anni ‘60 e ‘70, e l’amministrazione del Senato (l’Ufficio statale per l’assistenza ai giovani) fino ai singoli uffici distrettuali per l’assistenza ai giovani di Berlino, in cui le posizioni pedofile erano accettate, sostenute e difese». La rete di pedofili Kentler «era rispettato ovunque», ma ha «incoraggiato e anche sostenuto gli abusi sessuali e il maltrattamento dei bambini» ha detto la senatrice di Berlino responsabile per l’istruzione, Sandra Scheeres (della Spd), che si è scusata con le vittime a nome del Land («Le autorità hanno fallito» ha affermato) e ha promesso un adeguato risarcimento danni, anche se non sarà possibile perseguire i reati per legge perché sono prescritti, riferisce il quotidiano Berliner Zeitung. «Oggi è chiaro che Kentler era nientemeno che un procacciatore di bambini per i pedofili. Ma per molto tempo è stato a lungo considerato un visionario e uno dei più importanti sessuologi tedeschi» spiega Deutsche Welle. «I suoi libri sull’educazione
vendevano bene, ed era un esperto popolare e un commentatore alla radio e alla TV». Morto nel 2008 senza mai essere processato per le sue azioni, è stato capo del dipartimento del Centro pedagogico di Berlino negli anni ‘60 e ‘70 e successivamente professore di pedagogia sociale all’Università tecnica di Hannover. Ha usato, insieme a una rete di suoi complici, la sua «influenza per collocare i bambini con pedofili nelle case famiglia, negli istituti di assistenza ai giovani o nei collegi della Germania occidentale». Secondo la sua logica criminale, «gli adolescenti problematici affidati ai pedofili si sarebbero integrati nella società più facilmente, perché solo i padri adottivi pedofili potevano sopportare e amare questi bambini e adolescenti “privi di senno”» spiega la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz). Alcuni pedofili da lui individuati, anche con precedenti per crimini sessuali, come genitori affidatari hanno continuato a prendere in carico bambini fino all’inizio degli anni 2000. Uno di questi era Fritz H. al quale dal 1973 al 2003 sono stati affidati dieci ragazzi. Tra questi Marco e Sven, che hanno denunciato gli abusi pubblicamente: «Ci hanno rovinato la vita» ha detto Marco, oggi quarantenne a Deutsche Welle. «È una cosa», ha aggiunto Sven, «che non si supera mai davvero». Elena Tebano per IL CORRIERE DELLA SERA 12 anni. La “mamma” segnava sul calendario i giorni in
cui doveva farsi violentare dal suo patrigno. La madre compilava un calendario per ricordare i giorni in cui la figlia dodicenne doveva subire gli stupri, il compagno della madre divideva il letto con la ragazzina. Per questo sia la donna che l’uomo sono stati condannati a dieci anni di carcere, quattro anni invece per il padre biologico della minorenne che non aveva prestato aiuto alla figlia, quando si era rifugiata a casa sua. La sentenza è stata emessa con rito abbreviato dal gip di La Spezia Fabrizio Garofalo, la vicenda agghiacciante era iniziata sette anni fa in Val di Vara ed era proseguita nella riviera di Levante, a Lavagna. Per porre fine all’incubo è stata necessaria la denuncia della vittima, che dopo una visita in ospedale era stata immediatamente assistita dal personale medico, dai carabinieri, dalle figure qualificate, come gli psicologi, e la giovane era stata accompagnata in una comunità protetta in provincia. La storia inizia ben diciassette anni fa quando una coppia ligure (non sono diffuse le generalità di alcuna persona coinvolta per proteggere l’identità delle vittima) si separa. Il marito, genovese, scompare dalla vita della figlia di appena quattro anni, che va a vivere in una città del levante ligure insieme alla madre. Quando la ragazzina ha appena 12 anni inizia l’orrore: il nuovo compagno della donna, operaio come lei, abusa ripetutamente della figliastra. Le violenze vanno avanti per anni, e trovano la complicità della madre, la quale non solo assiste agli abusi, ma spinge più volte la giovane fra le braccia del patrigno. È forse il primo amore della ragazza, un
suo coetaneo pure lui minorenne, uno squarcio di luce nel buio, a spingerla a uscire da quella prigione dopo 5 anni di agonia. La ragazza allora pensa a quel padre che non vede più da una vita, cerca la sua protezione e, almeno in un primo momento, pensa di averla trovata. Perché dopo un anno quell’uomo, suo padre, di mestiere geometra, comincia a guardarla in modo diverso. I primi approcci vengono respinti dalla figlia, fino alla nuova violenza, quesi due anni fa. A 20 anni compiuti, la ragazza va in ospedale e scoppia in lacrime, i medici capiscono che qualcosa non va. La giovane vittima trova il coraggio di denunciare. Non potendo contare neppure sulla nuova compagna del padre, che non partecipa alla violenza sessuale ma comunque la maltratta, la 20enne spinta da una insegnante decide di affidarsi alle istituzioni. Che la tolgono immediatamente da tutte le persone che le hanno fatto così tanto male, e la assistono come meglio possono. A quel punto i carabinieri della compagnia di Sestri Levante arrestano le tre persone coinvolte nella vicenda, tutte sopra i 40 anni: il patrigno, la madre e il padre della giovane. Con accuse pesantissime: violenza sessuale su minore per i primi due, violenza sessuale per il terzo. Ora la condanna a dieci anni per la madre e il compagno e a quattro anni per il padre. I tre nel frattempo sono di nuovo liberi in attesa dell’eventuale conferma della condanna in secondo e terzo grado. da Repubblica
Montanelli, stupratore e pedofilo. Si chiamava Destà. Aveva 12 piccolissimi anni. In cambio di qualche soldo alla sua famiglia divenne la Madame di Indro Montanelli. Il cosiddetto Madamato – una orribile pratica tollerata dai vertici militari italiani – era legato alla vita nelle ex colonie italiane durante il fascismo. I soldati italiani erano di fatto legittimati ad abusare di bambine abissine e libiche e farne piccole concubine. Designava una relazione tra un soldato italiano ed una donna nativa delle terre colonizzate, chiamata in questo caso madama. Inizialmente i vertici fascisti tollerarono questa pratica che consisteva anche nel prendere in ‘sposa’ bambine inferiori ai 10 anni per evitare che i militari potessero contrarre malattie veneree. Solo con l’introduzione delle leggi razziali fasciste, il madamato venne proibito anche se con scarsi risultati, nonostante lo sforzo di diffondere case di tolleranza nei territori coloniali, dapprima con prostitute italiane. Il regime lo giudicava negativo per l’integrità della razza e per il prestigio dell’Italia imperiale. Destà era infibulata. Una sporca pratica di controllo del corpo delle donne e della loro fedeltà. Vengono cucite le parti intime. Il marito padrone provvede a rifarlo ogni volta che parte per un lungo periodo e vuole essere certo che il corpo di sua proprietà resti inviolato e che la prole che genererà sia geneticamente sua.
Montanelli scucì Destà. Avete idea del dolore che una bambina possa provare, del terrore che agiterà il suo corpicino e la sua anima? E’ un’operazione che genera sangue e dolore. E che la penetrazione moltiplicherà per mille… Destà pianse, non poteva che piangere. Le sue lacrime non furono ascoltate. Era, come ricordò Montanelli, stuprandola nuovamente con il suo razzismo, ” un animaletto docile” con il brutto difetto di “puzzare di capra”. Quando anno via, Montanelli la cedette a un suo commilitone. Destà era una cosa, niente altro che una povera cosa, utile solo a procurare piacere agli uomini e aver cura delle loro cose. Qualcuno oggi osa affermare che in fondo allora era così che andavano le cose. Che in certi paesi e tra certi popoli era ed è normale che una bambina vada in sposa. Bisogna storicizzare, questo è l’invito. Ci siamo passati anche noi nei secoli passati. Maometto sposò una bambina. La Madonna era una ragazzina quando fu impregnata da Dio. La storia dell’uomo, questo è maledettamente vero, è da sempre zuppa delle lacrime delle donne. I bisogni della specie secolarmente hanno piagato il loro corpo e le loro anime. Non è consentito a nessuno usarla per giustificare i propri orrori. Quello di Montanelli fu orrore. L’orrore dei vincitori, dei padroni, degli uomini peggiori. Quelli che ben
sapendo che in “patria” non è consentito violare animaletti docili, trovano normale farlo altrove, nel regno della miseria e dell’arretratezza che invocano come scusa. Comprare una bambina di un paese occupato militarmente, violentarla e usarla come un “animaletto” è solo barbarie, infamia. Rivendicarlo come una piacevole esperienza a distanza di decenni è la prova provata dello squallore profondo di una belva con fattezze umane. Tanto vale per tutti quelli, tanti, tantissimi, che vanno in giro per il mondo a abusare delle donne, delle ragazzine, delle bambine, appartenenti a popoli sconfitti nelle grandi guerre, spesso senza armi ma ancora più crudeli di esse, della globalizzazione e della finanza. L’unico monumento lecito per questi uomini è un cumulo di merda. Buttarne giù alcuni è poca cosa se non buttiamo nelle fogne la loro cultura che domina ferocemente la scena del nostro mondo. silvestro montanaro
152 milioni di piccoli schiavi. E la chiamiamo civiltà… Secondo i dati più recenti dell’Oil, sono ancora 152 milioni i minori – 68 milioni di bambine e 88 milioni di bambini – vittime del lavoro minorile. E quasi metà di questi minori, 73 milioni, sono costretti ad attività lavorative pericolose che mettono a rischio salute, sicurezza e il loro equilibrio psichico. Il lavoro minorile è piuttosto diffuso in Africa, ma anche in Asia e nelle Americhe. Questo perché la causa principale del lavoro minorile nel mondo continua ad essere la povertà e la disuguaglianza sociale. Cause che con la crisi dovuta alla pandemia di Covid-19, stanno portando a un aumento del fenomeno. La lotta per un tozzo di pane sta spingendo tantissimi bambini verso le velenose miniere di cobalto in Congo e negli inferni della prostituzione minorile in tanti paesi poveri, e oggi ancora più poveri, del mondo.
Società assassina: Non si può morire a 17 anni per un brutto voto. Ho letto questa storia stamattina in un articolo di Selvaggia Lucarelli. Quella di M., un ragazzo di quasi diciotto anni, quasi la stessa età di mia figlia. Una vita come quella di tanti altri: una bella famiglia, un liceo, degli amici, l’amore per il basso. A quanto pare era sempre andato bene a scuola, negli ultimi quindici giorni di didattica a distanza però, qualcosa si era inceppato, non si era più collegato con i professori e loro avevano avvertito la famiglia. Poi, un brutto voto dopo un interrogazione. Nella notte tra il 19 e il 20 maggio ha appeso una corda alla trave della sua camera e alle 2,30 di notte si è impiccato. È stato il fratellino, che dormiva con lui, a trovarlo e a dare l’allarme ma era troppo tardi. Il ragazzo non ce l’ha fatta. È sempre troppo tardi quando muore un ragazzo, troppo tardi quello che facciamo per lui. Sì, perché, soprattutto ai nostri ragazzi non insegniamo fin da piccoli la fragilità.
Non insegniamo che è possibile perdersi, non insegniamo che loro non sono i voti che prendono o le prestazioni che portano. Siamo una società competitiva, una scuola competitiva con o senza Dad, che decliniamo con serietà la meritocrazia, siamo una società che corre e che spinge i suoi ragazzi a non rimanere indietro in questa corsa. Siamo una società di sconfitti e vincenti, senza terra di mezzo. Siamo la società in cui “deve andare tutto bene”, il cui “mostrare” è diventato un mestiere, basti pensare a ciò che gli adulti fanno girare di sé stessi su Facebook. Siamo una società che non parla con i ragazzi di sessualità, di emotività, di sentimenti e li considera ancora dei tabù. I panni sporchi si lavano in casa e quelli puliti si mostrano e se non ci sono panni da mostrare che si fa? Siamo la società del silenzio dove nella scuola è più importante studiare pagine e pagine a memoria che chiedersi: allora, come stai? Non c’è lo spazio emotivo perché i ragazzi possano conversare con degli adulti educanti ( i professori o professoresse, psicologi o psicologhe…) per un’ora di tematiche che vadano oltre le tradizionali
discipline. Sarebbe bello infilare nelle scuole una un’ora di conversazione: di cosa volete parlare oggi? Quante cose potremmo imparare di loro? Quanto sapremmo che non sappiamo? Quanto potremmo fare? Un adolescente che sta male è uno specchio per la società intera, ci dice che quella malattia ci riguarda, ce la sbatte in faccia, per questo forse non la vogliamo vedere. Possiamo cercare le colpe all’interno delle famiglie ma il problema non è individuale e non è soggettivo, è un problema ambientale il nostro, sociale. A quanto pare a togliersi la vita sono soprattutto i maschi, quindi, eccolo che ritorna il problema legato alle tematiche di genere, non solo per le bambine e le ragazze, ma anche per i bambini e i ragazzi, il racconto di una mascolinità fuorviante: devi essere forte, coraggioso, tutto d’un pezzo. E se non lo sei? Cosa succede? Noi siamo la società che in questi tempi di pandemia, con i sistemi sanitari e scolastici in bilico, rimaniamo nella “top 5” Europea per la spesa militarecon 26,8 miliardi (dati dal rapporto del Sipri). Siamo quelli che investono solo il 7,9 per cento della spesa pubblica in educazione, un dato inferiore a quello di tutti gli altri Stati europei. E, allora, la morte dei nostri ragazzi sta anche dentro a questi dati ed è arrivato il momento di fare pressione, affinché il governo e quelli che si susseguiranno, spendano di più per sanità, istruzione, reti di protezione sociale e meno per le armi. E quando andremo a votare, dovremmo spingere i politici a parlarci di cosa faranno per la scuola, la sanità e i servizi alla persona. Dobbiamo essere presente e pressanti.
Richiedere una giusta Protezione sociale. Dentro ci sta la storia di un ragazzo che una notte di maggio ha deciso di sbatterci in faccia la nostra inadeguatezza, i nostri errori, le scelte che non siamo stati in grado di fare. La morte di M. deve diventare un “nostro” problema. Che la sua perdita non sia vana. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG ) Con nel cuore Zohra, schiava a 8 anni, torturata e uccisa per aver liberato dei pappagallini “Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe avere in mano sono la penna e la matita”. Iqbal Masih
Ogni ciclo scolastico, in quarta, leggo La storia di Iqbal. Iqbal è stato un bambino operaio e attivista, diventando un simbolo nella lotta contro il lavoro minorile. Iqbal è nato in Pakistan, come Zohra, in una famiglia poverissima. A quattro anni lavorava già in una fornace e a cinque fu venduto dal padre ad un venditore di tappeti per pagare un debito di 12 dollari. Iqbal ha lavorato con altri bambini incatenati ad un telaio per 10-12 ore al giorno, è scappato e si è impegnato per difendere i bambini come lui. È stato ucciso il 16 aprile del 1995, aveva 12 anni, in circostanze ancora non chiare. La mia città gli ha dedicato una piazza, vicino al porto, vicino al mare. Bisogna raccontarle ai nostri figli queste storie e non solo perché sappiano di essere più fortunati ma perché sappiano nella vita fare le scelte giuste in un’ottica di uguaglianza e solidarietà. Zohra era una bambina di otto anni, anche la sua famiglia era poverissima. Era partita quattro mesi fa dal suo villaggio per lavorare in una famiglia benestante come domestica, una domestica di otto anni, non si riesce nemmeno ad immaginarla, mani piccole, infanzia rubata.
Si sarebbe occupata anche del loro bambino di un anno. Ai genitori era stata promesso, in cambio del suo lavoro, un’istruzione. L’istruzione è come l’oro, permette la libertà. La piccola, che ha l’età dei miei alunni, non è mai andata a scuola, da subito è stata esposta a continue violenze, probabilmente anche sessuali. Poi è successo, è stata brutalmente uccisa ma la sua storia non era già scritta? Zohra è morta per aver fatto scappare due pappagalli, potrebbe averli liberati o potrebbero essere fuggiti mentre puliva la gabbia, poco importa e comunque non lo sapremo mai. Quello che conosciamo, invece, è la reazione dei suoi padroni. L’hanno picchiata, torturata, fino ad ucciderla. Nonostante le urla e le sue richieste di perdono mentre le portavano via l’esistenza. Zohra non era più una bambina ma era diventata una schiava. Aveva perso la dignità e la libertà nel momento esatto in cui era stata ceduta o forse prima, nel momento in cui era nata povera. È di questo di cui dovremmo preoccuparci tutti, eliminare le disuguaglianze economiche; un padre e una madre, in qualsiasi luogo del mondo, non dovrebbero mai essere costretti a far
lavorare il proprio figlio o la propria figlia. Ed ogni bambino su questa Terra avrebbe il diritto di essere accudito, istruito, avrebbe il diritto di poter essere un bambino. Fa male questa morte perché ci racconta che esiste ancora un sistema di “protezione” nei confronti di chi sfrutta i minori, qualcuno sarà entrato in quella casa? Un sistema in cui, da una parte ci sono dei padroni, gli adulti, coloro che dovrebbero tutelare e dall’altra, i bambini che sono privati della loro vita, resi schiavi. Cercando la notizia e leggendo i vari articoli mi sono accorta di una cosa, nessun giornalista ha usato parole come schiava e schiavisti. Non credo di averle trovate nemmeno una volta, si parla di “datori di lavoro” riferiti ai carnefici, quasi mai di padroni, quello erano, mai di schiavitù. Non stiamo parlando di questo? Forse è troppa la paura e l’angoscia di dare il nome giusto alle cose? forse dovremmo farci troppe domande e forse sarebbero chiare le nostre colpe? Quello che succede dall’altra parte del mondo non ci riguarda in qualche modo? Non è anche il risultato delle nostre politiche europee, occidentali? O no? Quello che mi domando è se sia necessaria la morte di una bambina di otto anni per risvegliare le coscienze, se sia necessario il suo viso pieno di ferite per ricordarci che il lavoro minorile esiste ancora, così come esiste la povertà infantile e la pedofilia.
Quante Zohra ci saranno nel mondo che in questo momento sono schiave come lei? Che subiscono violenza, che rovista nei cassonetti o nella spazzatura, che si prostituiscono, che sono state vendute o cedute, che lavorano in qualche miniera o fabbrica di vestiti? Hanno mani piccole i bambini, corpi esili. È facile fisicamente e moralmente sottometterli, per questo sono carne da macello. Dovremmo occuparci della povertà, ecco. Ma se Zohra non fosse morta, qualcuno avrebbe conosciuto la sua storia? Ci saremmo accorti di lei? Io credo di no. Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )
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