Questa non è giustizia! Lui, 72 anni, prete, stupra una bambina si 10. Pena dimezzata a due anni.

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Questa non è giustizia! Lui, 72 anni, prete, stupra una bambina si 10. Pena dimezzata a due anni.
Questa non è giustizia! Lui,
72 anni, prete, stupra una
bambina si 10. Pena dimezzata
a due anni.
Ancora ItaliaTribunale di Firenze. Guardate l’immagine.
Terribile e raccapricciante.Eppure non basta.Altra pena
dimezzata. Questa volta non è un padre che stupra sua figlia
ma un prete. Lei una bambina di 10 anni. Lui 72.Doveva
riportarla a casa, invece si è appartato in macchina e ha
iniziato a toccarla e farsi toccare e chissà che altro e
chissà quante volte.Beccato in fragranza di reato. Neanche
questo basta. Paolo Glaentzer, era stato condannato a 4 anni e
quattro mesi di reclusione dal tribunale di Prato il 5 marzo
2019 per violenza sessuale su una bambina di 10 anni. Il
tribunale di Firenze, in appello, gli ha ridotto la pena a 2
anni e mesi e 20 giorni di reclusione.

Il sacerdote ridotto allo stato laicale dalla curia dopo la
prima condanna di un anno fa, ha beneficiato delle attenuanti
generiche, che i giudici hanno ritenuto prevalenti
sull’aggravante di aver commesso il fatto nell’esercizio delle
funzioni di ministro di culto.

Avete capito bene. Attenuanti generiche. Un prete è come un
padre, forse di più, porta nel mondo la parola di Dio,
chiunque si fiderebbe, potete immaginare una bambina.

Ma come possiamo andare avanti così ? Ma che giudici sono
questi?
Lui ha stuprato godendo anche del suo ruolo di sacerdote, e i
giudici gli riconoscono le attenuanti generiche?

Cosa gli avrà detto quell’ uomo per convincerla a stare zitta:
Dio vuole così?.

Vi scandalizzate per questa frase? Bene, perché non se ne può
più.

E pensateci a quel corpo, alla vita di questa bambina, a
quest’uomo che non credo si sia fatto un giorno di carcere.

È come se la giustizia legittimasse lo stupro dicendo agli
uomini    che   al    massimo    si   prenderanno      cinque
anni https://sosdonne.com/2020/06/24/in-nome-della-giustizia-i
taliana-lei-ha-13-anni-lui-ne-ha-40-anni-ed-e-suo-padre-la-
stupra-e-le-mette-incinta-condannato-a-soli-5-anni/ o due,
pure con beneficio delle attenuanti generiche.

E non tengono conto di niente, nemmeno che loro avevano una
posizione di “potere” quella di padre e sacerdote.

Cosa vi devo dire? Chiudiamo in casa le nostre figlie, ragazze
e bambine, tenetele al guinzaglio, perché nessuno le
difenderà.

Non la nostra giustizia.

Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )
Sono nauseata.

Chi ha ucciso questi due
bambini,    amava   solo   se
stesso, il padrone delle loro
vite.
E niente, questa     storia   mi   rimbomba   nelle   orecchie
e nel cuore.

Forse perché sono una madre, forse perché sono separata o
forse semplicemente perché sono unadonna, una persona
come Daniela.

Forse perché oltre alla tragedia c’è una narrazione tossica.
Quella dei giornalisti che sembrano fare due pesi e due
misure.

La vita di Mario ha un peso, quella di Daniela ( che ha avuto
la   sola    colpa,    se    vogliamo    chiamarla     così,
di non amare più suo marito) un’altra.

Vorrei parlare di lei, Daniela. Una madre. Una donna. Una
persona.
Elena e Diego, i suoi gemelli di 12 anni, erano partiti per le
vacanze        a       Margno         con       il       papà
un luogoche probabilmente amavano.

Le mani a cui le aveva affidate erano sicure. Non
lo amava più ma era il padre dei suoi bambini.
Cosa sarebbe potuto succedere?

Daniela racconta che li aveva sentiti alle dieci, per la
buonanotte, erano contenti. Chi di noi è madre sa quanto sia
importante      la    telefonata      della    sera  se    i
tuoi figli sono lontani. Ti mette a posto con il mondo e
puoi dormire tranquilla perché sai che stanno bene.

Poi aveva silenziato il telefono perché era casa dei genitori
anziani e non voleva disturbarli e perché i suoi bambini
erano con il padre non persi chissà dove, non con estranei.

Daniela si sveglia alle 5 e trova tre messaggi su WhatsApp che
il marito le aveva inviato nella notte.

Nell’ ultimo, mandato alle 3 del mattino scriveva: “Guarda la
mail”.

Daniela è andata a controllare e ha letto ciò che non avrebbe
mai voluto ascoltare, accuse per la sua decisione di separarsi
da lui, fino a quella frase terribile e definitiva: «È colpa
tua se la faccio finita. I tuoi figli non li rivedrai più».

Daniela ha saputo dagli investigatori che all’ 1 e 30 quel
padre aveva già fatto tutto. Aveva strangolato Elena e
soffocato con un cuscino Diego.

Dopo di che, prima di uccidersi, ha postato una foto
su Instagram con i suoi figli, sotto ha scritto: “Con i miei
ragazzi sempre insieme”.

Perché   quei   ragazzi   erano  suoi.   Daniela          era
sua. Esistevano solo in funzione di se stesso.

È     ciò    che     succede     a     questi     uomini,
chiamano amore qualcosa che è legato al proprio centro, al
proprio bisogno. L’amore, quello reale, coniugale, materno e
paterno, non conosce il “possesso” ma solo la libertà.

Ti amo davvero e quindi ti lascio essere te stesso al di là di
me.

Mario ha strangolato Elena e soffocato Diego. Per annientare,
punire Daniela.Perché amava solo se stesso, in
un delirio di onnipotenza, per cui nessuno poteva esistere
lontano da lui.

Questo è ciò che ha fatto. Ha usato violenza sui suoi figli e
su Daniela.

Non c’ è altra storia da raccontare.

Il resto è narrazione tossica. Che ha un unico scopo: salvare
ancora una volta l’uomo, il maschio, a discapito della
donna. E se necessario calpestando anche i figli e facendo
intendere che quello di Mario è stato un gesto, in fondo,
d’amore.

Questa narrazione, consapevole o no, serve per continuare a
salvare     dei     privilegi,      il    maschilismo,     la
misoginia. Diamo il nome giusto alle azioni, perché, anche se
sono solo linguaggio scritto costruiscono cultura.

Vorrei ricordare ai signori giornalisti che quella donna è una
persona    e   si   chiama   Daniela    e   non   ha   colpe.
Anche quei bambini erano persone, piccole, con una vita
davanti e si chiamavano Elena e Diego.

Lui non li amava. Li ha uccisi nel peggiore dei modi. Lui
amava solo se stesso.

Penny   ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )

Gli   orchi                      odiano   gli
stranieri                       ma    abusano
sessualmente dei loro figli
“L’atteggiamento degli imputati nei confronti dei ragazzi con
cui hanno avuto rapporti sessuali è stato tracotante,
prepotente, arrogante: sono ripetute e frequenti le
espressioni “carne da macello”, “usa e getta”, “bocconcini
belli”, utilizzate nei confronti dei minori, espressione e
manifestazione della assoluta mercificazione che delle vittime
è stata fatta dagli imputati”.

Lo scrive il gip di Napoli Egle Pilla nella sentenza di
condanna di tre uomini, gli “orchi” responsabili di
sfruttamento della prostituzione minorile. È la vicenda
denunciata quasi due anni fa da Avvenire, conclusa a maggio
con la condanna per prostituzione minorile di tre adulti
italiani che approfittavano di ragazzini immigrati minorenni,
sul lungomare di Mondragone. Un vero gruppo organizzato.
Cinque-dieci euro, una ricarica telefonica, un paio di birre,
tre sigarette. Egiziani, albanesi, bulgari. Sì proprio
bulgari, della comunità che vive nei palazzi diventati “zona
rossa” per il Covid-19, emarginati e sfruttati, e ora accusati
di essere “untori”.

Ma la realtà che emerge dalla sentenza è l’opposto. Il
carnefici sono italiani mentre le vittime sono immigrati.
Cinque sono stati identificati, ed erano ospiti di centri di
accoglienza per minori non accompagnati, altri, in particolare
i bulgari, non lo sono stati. Le 62 pagine della sentenza, che
Avvenire ha potuto leggere, sono un colpo allo stomaco, un
tuffo nel baratro della peggiore depravazione. Le
numerosissime intercettazioni telefoniche e ambientali,
corredate da videoriprese, sono esplicite, crude, violente.
Gli incontri, i rapporti sessuali, i commenti successivi tra i
tre, sono un libro dell’orrore. Una raccolta di prove, frutto
dell’efficace lavoro dei carabinieri di Mondragone, che
inquieta. Soprattutto le parole dei tre complici. “Il
linguaggio è forte, violento e crudo – scrive ancora il Gip –
ed esprime tutta la convinzione di poter utilizzare
impunemente i minori, per soddisfare un insaziabile appetito
sessuale”.

I tre imputati hanno provato a negare di sapere che i ragazzi
fossero minorenni. Ma proprio le intercettazioni li
smentiscono. “Le espressioni utilizzate – scrive sempre Il Gip
–   quali   “angioletti”,      “ragazzetti”,     “nipotini”,
“sfraffusietti” non possono considerarsi neutre o
genericamente indicative di giovani ragazzi, senza che gli
imputati abbiano realmente compreso quale fosse la effettiva
età degli stessi come sostengono le difese. Sono gli imputati
medesimi nelle conversazioni riportate ad indicare la età
delle vittime e a capire che si tratta veramente di ragazzi
giovanissimi ( .. ma è veramente piccolo…)”.

Minori e fragili, per le condizioni di vita. Alcuni di loro
sono, infatti, ospiti di centri di accoglienza per minori non
accompagnati. E di questo gli “orchi” ne approfittano. “Questi
giovanissimi ragazzi – si legge ancora nella sentenza –
vengono da paesi stranieri, sono senza famiglia, vivono in
comunità che soddisfano proprio i bisogni primari e che
forniscono loro una somma di danaro pari a 10 euro settimanali
che sono oggettivamente una cifra davvero molto esigua. Questi
ragazzi hanno davvero “poco” in termini di affetti, relazioni
sociali, svaghi, attenzioni al loro sviluppo psicofisico in
ragione di una obiettiva condizione che li caratterizza”.

I tre hanno così gioco facile. “Chi offre loro la somma di 5 o
10 euro in cambio di un rapporto sessuale sicuramente è
consapevole della subalternità psicologica, del disagio
sociale dei ragazzi legato non solo alla minore età, ma anche
al contesto socio ambientale in cui essi crescono e
vivono”. Il Gip Egle Pilla, magistrato con una lunga
esperienza in processi di camorra, ecomafie e violenze,
analizza e spiega questa condizione. “La loro è una dimensione
esistenziale molto “povera”: solo questo può spiegare la
scelta di passeggiare sul lungomare di Mondragone per
prostituirsi. E questa condizione di estrema povertà i tre
imputati la conoscono molto bene: lo si comprende dalle
considerazioni che svolgono sui ragazzi”.

Inoltre “non hanno mai manifestato nel corso delle loro
numerosissime conversazioni alcuna incertezza, perplessità,
indecisione rispetto alla condotta posta in essere mostrando,
al contrario, una lucida determinazione accanto alla
convinzione di essere non solo superiori rispetto a quei
minori, ma anche totalmente insensibili alla loro
vulnerabilità e alla loro debolezza”. E sono convinti anche di
godere di una sorta di impunità. Così da non limitare le loro
azioni. “La gravità delle condotte è ravvisabile altresì nella
quantità di episodi posti in essere con cadenza quotidiana,
nonostante i controlli effettuati dalle forze di polizia
rispetto alle quali gli imputati hanno mostrato non più di un
superficiale timore”.

E mentre sfruttano sessualmente i minori immigrati, si
esprimono con frasi intolleranti contro il fenomeno
migratorio. Uno di loro, scrive il Gip, “lancia invettive
contro i ragazzi extracomunitari, contro le Ong, le case
famiglia (“…allora fa bene Salvini che ora ci da una stretta a
questa gente, gli da una brutta stretta”. “Ma quello Salvini
lo vuol fare, solo che ci sta qualcuno che…”. “Salvini lo vuol
fare ma c’ha la gente contro”). Addirittura auspica l’
introduzione di una legge che preveda il rimpatrio immediato
di quei ragazzi stranieri che lamentassero di esser stati
molestati. E si esprime con disprezzo nei confronti dei
ragazzi (“c’è troppa.. troppa marmaglia giù guarda..”)”.

Condanna a sei anni, che sarebbero stati nove se non ci fosse
stata la scelta del rito abbreviato che prevede la riduzione
della pena di un terzo. Accolte le aggravanti della minore età
e dell’approfittamento dello stato di necessità delle vittime.
Ed emerge come il fenomeno sia molto più vasto, sia come
minori e adulti coinvolti che come aree interessate,
soprattutto Formia e Gaeta.

Antonio Maria Mira per AVVENIRE

” Non li rivedrai mai più !”,
la feroce bestemmia assassina
di uomini che odiano le donne
Margno. Casa di villeggiatura. Estate 2020.

Un padre porta i suoi figli in vacanza e poi manda
un messaggio alla sua ex moglie: “Non li rivedrai mai più”.

Lei arriva e si contorce per terra. “Non si svegliano, non si
svegliano” ripete ad un vicino. I bambini sono blu,
strangolati nella      notte.    Gli   uomini   della    croce
rossa piangono.

Parole che fanno male, persino a scriverle.

I bambini erano blu. La madre si contorceva dal dolore. Era
questo che voleva Mario Bressi, annientare la vita della sua
ex moglie che stava continuando senza di lui.

Quando la donna è considerata un oggetto dal mondo che ti
circonda, quando è considerata una cosa da mostrare “Se
una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi
addosso deve preoccuparsi…” ( R. Morelli) oppure un padre
stupra la figlia e si becca solo cinque anni, oppure un gruppo
di giovani uomini “gioca allo stupro”, oppure frasi e
parole sessiste vengono sputate nel nostro Parlamento, quando,
lo ripeto, il mondo legittima con azioni, parole e sentenze
la violenzasulle donne, un padre può considerare
oggetti anche i suoi figli. E fare la cosa più atroce:
decidere della loro vita.

Li ha uccisi nel sonno, forse li ha sedati ( so che lo
speriamo tutti) e poi strangolati. Quanto odio, un odio
inimmaginabile, può provare un uomo per essere stato
lasciato?

Lo sanno bene questi uomini che i figli sono il ricatto più
grande per far restare, annientare, sottomettere una donna.

Lo sanno quando la picchiano, la stuprano, la piegano.
E poi ci sono le parole di altri uomini, giornalisti che
lanciano, consapevoli o no, messaggi chiari alle donne: NON
SEPARATEVI, NON ASPIRATE A NULLA PERCHÉ SE LO FATE I VOSTRI
FIGLI POTREBBERO ESSERE UCCISI. Eccole le frasi di
un giornalista: “Secondo le prime informazioni, a causare la
tragedia sarebbe stata la difficile separazione tra il padre e
la madre”.

Come si può scrivere una sciocchezza del genere?

La separazione non è mai la causa della tragedia, la causa
della tragedia è la violenza di quest’uomo, l’incapacità di
amare e il considerare la propria moglie o compagna un
“possesso”, un oggetto suo. Così suo da volerla distruggere
per sempre.

Non è riuscito a dominarla nella loro esistenza,
l’ha annientata uccidendo i suoi figli, ciò che di più
prezioso avesse.

Non ho trovato i loro nomi, so che sono un bambino e una
bambina, so che la sera prima giocavano in cortile e si
fidavano di quel padre.

So che ogni atto sessista, misogino, ogni affermazione
o azione, anche lontani dalla storia di questa famiglia, hanno
fomentato la scelta di quest’uomo.

È la cultura patriarcale che ascoltiamo, percepiamo, viviamo
ogni giorno che crea il terreno fertile su cui si costruisce
la dominazione della donna sull’uomo.
Questa volta c’erano due bambini, amati dalla propria madre,
una madre immagino che desiderasse per loro e per se stessa
solo la felicità.

Paga un atto di autodeterminazione con la vita dei sui figli.
Cosa dobbiamo fare? Consigliare alle donne di curarsi,
vestirsi bene, avere gli occhi degli uomini su di
sé, continuare a farsi menare, piegare, abbattere, altrimenti
potrebbero succedere tragedie di questo tipo?

Qualcuno me lo può dire? Mi può dire quanti figli dovranno
morire prima che qualsiasi atto sessista, misogino, violento
non trovi un terreno su cui crescere?

Quando costruiremo percorsi nelle scuole di educazione
all’affettività e alla sessualità? Quando saranno morti altri
figli e altre madri?

Quei figli erano prima di tutto bambini, quella madre, una
donna.

E quel padre? Cosa provava quel padre se non un odio profondo
per la donna che, probabilmente, si era permessa di
lasciarlo?

Ecco la natura di questa tragedia.

L’odio per le donne. Si chiama misoginia e questo Paese non fa
ancora abbastanza per fermarlo.
Di quello che è successo a lui, il padre -chiamiamolo con il
suo nome- personalmente mi interessa davvero poco.

Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )

Allucinante. In Germania, per
decenni, tanti minori in
difficoltà     sono     stati
affidati ai pedofili….
«Crimini difficili da immaginare» li ha definiti la senatrice
del consiglio di Berlino che si sta occupando del caso. E in
effetti è inimmaginabile e incredibile come si possa essere
arrivati a tanto, ancor meno che gli abusi siano andati avanti
per decenni con il beneplacito delle istituzioni: dal 1969 al
2003 numerosi adolescenti senzatetto (quanti esattamente non è
noto) sono stati affidati a pedofili già condannati, nella
convinzione che fossero «perfetti genitori affidatari». Era
questa    la   teoria    del    sessuologo     e   professore
universitario Helmut Kentler, convinto che «il contatto
sessuale tra bambini e adulti non sia dannoso» e sostenitore
di una «emancipazione dell’educazione sessuale» che si basava
sulla premessa che i bambini sono esseri sessuali che hanno il
diritto di esprimere la loro sessualità (come se dover
sottostare agli abusi di un adulto da cui dipendevano potesse
mai essere un’espressione dei loro liberi desideri).
Le perizie e l’inchiesta

L’amministrazione del Senato di Berlino per l’istruzione, la
gioventù e la famiglia si è occupata della questione solo nel
2016: ha commissionato una perizia sul caso all’Istituto per
la ricerca sulla democrazia di Gottinga, poi ha incaricato un
gruppo di ricerca dell’Università di Hildesheim di ricostruire
gli abusi. I ricercatori, dopo aver analizzato i documenti e
intervistato alcune delle vittime, questa settimana hanno
pubblicato un rapporto che mette sotto accusa l’autorità
pubblica per gli abusi subiti di bambini durante
l’«esperimento Kentler». L’inchiesta dell’Università di
Hildesheim ha fatto emergere l’esistenza di una «rete che
attraversava   le      istituzioni   educative   scientifiche,
soprattutto negli anni ‘60 e ‘70, e l’amministrazione del
Senato (l’Ufficio statale per l’assistenza ai giovani) fino ai
singoli uffici distrettuali per l’assistenza ai giovani di
Berlino, in cui le posizioni pedofile erano accettate,
sostenute e difese».

La rete di pedofili

Kentler «era rispettato ovunque», ma ha «incoraggiato e anche
sostenuto gli abusi sessuali e il maltrattamento dei bambini»
ha detto la senatrice di Berlino responsabile per
l’istruzione, Sandra Scheeres (della Spd), che si è scusata
con le vittime a nome del Land («Le autorità hanno fallito» ha
affermato) e ha promesso un adeguato risarcimento danni, anche
se non sarà possibile perseguire i reati per legge perché sono
prescritti, riferisce il quotidiano Berliner Zeitung. «Oggi è
chiaro che Kentler era nientemeno che un procacciatore di
bambini per i pedofili. Ma per molto tempo è stato a lungo
considerato un visionario e uno dei più importanti sessuologi
tedeschi» spiega Deutsche Welle. «I suoi libri sull’educazione
vendevano bene, ed era un esperto popolare e un commentatore
alla radio e alla TV». Morto nel 2008 senza mai essere
processato per le sue azioni, è stato capo del dipartimento
del Centro pedagogico di Berlino negli anni ‘60 e ‘70 e
successivamente professore di pedagogia sociale all’Università
tecnica di Hannover. Ha usato, insieme a una rete di suoi
complici, la sua «influenza per collocare i bambini con
pedofili nelle case famiglia, negli istituti di assistenza ai
giovani o nei collegi della Germania occidentale». Secondo la
sua logica criminale, «gli adolescenti problematici affidati
ai pedofili si sarebbero integrati nella società più
facilmente, perché solo i padri adottivi pedofili potevano
sopportare e amare questi bambini e adolescenti “privi di
senno”» spiega la Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz). Alcuni
pedofili da lui individuati, anche con precedenti per crimini
sessuali, come genitori affidatari hanno continuato a prendere
in carico bambini fino all’inizio degli anni 2000. Uno di
questi era Fritz H. al quale dal 1973 al 2003 sono stati
affidati dieci ragazzi. Tra questi Marco e Sven, che hanno
denunciato gli abusi pubblicamente: «Ci hanno rovinato la
vita» ha detto Marco, oggi quarantenne a Deutsche Welle. «È
una cosa», ha aggiunto Sven, «che non si supera mai davvero».

Elena Tebano per IL CORRIERE DELLA SERA

12 anni. La “mamma” segnava
sul calendario i giorni in
cui doveva farsi violentare
dal suo patrigno.
La madre compilava un calendario per ricordare i giorni in cui
la figlia dodicenne doveva subire gli stupri, il compagno
della madre divideva il letto con la ragazzina. Per questo sia
la donna che l’uomo sono stati condannati a dieci anni di
carcere, quattro anni invece per il padre biologico della
minorenne che non aveva prestato aiuto alla figlia, quando si
era rifugiata a casa sua. La sentenza è stata emessa con rito
abbreviato dal gip di La Spezia Fabrizio Garofalo, la vicenda
agghiacciante era iniziata sette anni fa in Val di Vara ed era
proseguita nella riviera di Levante, a Lavagna.

Per porre fine all’incubo è stata necessaria la denuncia della
vittima, che dopo una visita in ospedale era stata
immediatamente assistita dal personale medico, dai
carabinieri, dalle figure qualificate, come gli psicologi, e
la giovane era stata accompagnata in una comunità protetta in
provincia. La storia inizia ben diciassette anni fa quando una
coppia ligure (non sono diffuse le generalità di alcuna
persona coinvolta per proteggere l’identità delle vittima) si
separa. Il marito, genovese, scompare dalla vita della figlia
di appena quattro anni, che va a vivere in una città del
levante ligure insieme alla madre.

Quando la ragazzina ha appena 12 anni inizia l’orrore: il
nuovo compagno della donna, operaio come lei, abusa
ripetutamente della figliastra. Le violenze vanno avanti per
anni, e trovano la complicità della madre, la quale non solo
assiste agli abusi, ma spinge più volte la giovane fra le
braccia del patrigno. È forse il primo amore della ragazza, un
suo coetaneo pure lui minorenne, uno squarcio di luce nel
buio, a spingerla a uscire da quella prigione dopo 5 anni di
agonia. La ragazza allora pensa a quel padre che non vede più
da una vita, cerca la sua protezione e, almeno in un primo
momento, pensa di averla trovata. Perché dopo un anno
quell’uomo, suo padre, di mestiere geometra, comincia a
guardarla in modo diverso. I primi approcci vengono respinti
dalla figlia, fino alla nuova violenza, quesi due anni fa. A
20 anni compiuti, la ragazza va in ospedale e scoppia in
lacrime, i medici capiscono che qualcosa non va.

La giovane vittima trova il coraggio di denunciare. Non
potendo contare neppure sulla nuova compagna del padre, che
non partecipa alla violenza sessuale ma comunque la maltratta,
la 20enne spinta da una insegnante decide di affidarsi alle
istituzioni. Che la tolgono immediatamente da tutte le persone
che le hanno fatto così tanto male, e la assistono come meglio
possono. A quel punto i carabinieri della compagnia di Sestri
Levante arrestano le tre persone coinvolte nella vicenda,
tutte sopra i 40 anni: il patrigno, la madre e il padre della
giovane. Con accuse pesantissime: violenza sessuale su minore
per i primi due, violenza sessuale per il terzo. Ora la
condanna a dieci anni per la madre e il compagno e a quattro
anni per il padre. I tre nel frattempo sono di nuovo liberi in
attesa dell’eventuale conferma della condanna in secondo e
terzo grado.

da Repubblica
Montanelli,                    stupratore                  e
pedofilo.
Si chiamava Destà. Aveva 12 piccolissimi anni. In cambio di
qualche soldo alla sua famiglia divenne la Madame di Indro
Montanelli.

Il cosiddetto Madamato – una orribile pratica tollerata dai
vertici militari italiani – era legato alla vita nelle ex
colonie italiane durante il fascismo. I soldati italiani erano
di fatto legittimati ad abusare di bambine abissine e libiche
e farne piccole concubine. Designava una relazione tra un
soldato italiano ed una donna nativa delle terre colonizzate,
chiamata in questo caso madama. Inizialmente i vertici
fascisti tollerarono questa pratica che consisteva anche nel
prendere in ‘sposa’ bambine inferiori ai 10 anni per evitare
che i militari potessero contrarre malattie veneree. Solo con
l’introduzione delle leggi razziali fasciste, il madamato
venne proibito anche se con scarsi risultati, nonostante lo
sforzo di diffondere case di tolleranza nei territori
coloniali, dapprima con prostitute italiane. Il regime lo
giudicava negativo per l’integrità della razza e per il
prestigio dell’Italia imperiale.

Destà era infibulata. Una sporca pratica di controllo del
corpo delle donne e della loro fedeltà. Vengono cucite le
parti intime. Il marito padrone provvede a rifarlo ogni volta
che parte per un lungo periodo e vuole essere certo che il
corpo di sua proprietà resti inviolato e che la prole che
genererà sia geneticamente sua.
Montanelli scucì Destà.

Avete idea del dolore che una bambina possa provare, del
terrore che agiterà il suo corpicino e la sua anima?

E’ un’operazione che genera sangue e dolore. E che la
penetrazione moltiplicherà per mille…

Destà pianse, non poteva che piangere. Le sue lacrime non
furono ascoltate.

Era, come ricordò Montanelli, stuprandola nuovamente con il
suo razzismo, ” un animaletto docile” con il brutto difetto di
“puzzare di capra”. Quando anno via, Montanelli la cedette a
un suo commilitone. Destà era una cosa, niente altro che una
povera cosa, utile solo a procurare piacere agli uomini e aver
cura delle loro cose.

Qualcuno oggi osa affermare che in fondo allora era così che
andavano le cose. Che in certi paesi e tra certi popoli era ed
è normale   che una bambina vada   in sposa. Bisogna storicizzare,
questo è    l’invito. Ci siamo     passati anche noi nei secoli
passati.    Maometto sposò una      bambina. La Madonna era una
ragazzina   quando fu impregnata    da Dio.

La storia dell’uomo, questo è maledettamente vero, è da sempre
zuppa delle lacrime delle donne. I bisogni della specie
secolarmente hanno piagato il loro corpo e le loro anime. Non
è consentito a nessuno usarla per giustificare i propri
orrori. Quello di Montanelli fu orrore. L’orrore dei
vincitori, dei padroni, degli uomini peggiori. Quelli che ben
sapendo che in “patria” non è consentito violare animaletti
docili, trovano normale farlo altrove, nel regno della miseria
e dell’arretratezza che invocano come scusa.

Comprare una bambina di un paese occupato militarmente,
violentarla e usarla come un “animaletto” è solo barbarie,
infamia.

Rivendicarlo come una piacevole esperienza a distanza di
decenni è la prova provata dello squallore profondo di una
belva con fattezze umane.

Tanto vale per tutti quelli, tanti, tantissimi, che vanno in
giro per il mondo a abusare delle donne, delle ragazzine,
delle bambine, appartenenti a popoli sconfitti nelle grandi
guerre, spesso senza armi ma ancora più crudeli di esse, della
globalizzazione e della finanza.

L’unico monumento lecito per questi uomini è un cumulo di
merda.

Buttarne giù alcuni è poca cosa se non buttiamo nelle fogne la
loro cultura che domina ferocemente la scena del nostro mondo.

silvestro montanaro
152   milioni   di   piccoli
schiavi.   E  la   chiamiamo
civiltà…
Secondo i dati più recenti dell’Oil, sono ancora 152 milioni i
minori – 68 milioni di bambine e 88 milioni di bambini –
vittime del lavoro minorile. E quasi metà di questi minori, 73
milioni, sono costretti ad attività lavorative pericolose che
mettono a rischio salute, sicurezza e il loro equilibrio
psichico.

Il lavoro minorile è piuttosto diffuso in Africa, ma anche in
Asia e nelle Americhe. Questo perché la causa principale del
lavoro minorile nel mondo continua ad essere la povertà e la
disuguaglianza sociale. Cause che con la crisi dovuta alla
pandemia di Covid-19, stanno portando a un aumento del
fenomeno.

La lotta per un tozzo di pane sta spingendo tantissimi bambini
verso le velenose miniere di cobalto in Congo e negli inferni
della prostituzione minorile in tanti paesi poveri, e oggi
ancora più poveri, del mondo.
Società assassina: Non si può
morire a 17 anni per un
brutto voto.
Ho letto questa storia stamattina in un articolo di Selvaggia
Lucarelli. Quella di M., un ragazzo di quasi diciotto anni,
quasi la stessa età di mia figlia. Una vita come quella di
tanti altri: una bella famiglia, un liceo, degli amici,
l’amore per il basso. A quanto pare era sempre andato bene a
scuola, negli ultimi quindici giorni di didattica a distanza
però, qualcosa si era inceppato, non si era più collegato con
i professori e loro avevano avvertito la famiglia. Poi, un
brutto voto dopo un interrogazione.

Nella notte tra il 19 e il 20 maggio ha appeso una corda alla
trave della sua camera e alle 2,30 di notte si è impiccato. È
stato il fratellino, che dormiva con lui, a trovarlo e a dare
l’allarme ma era troppo tardi. Il ragazzo non ce l’ha fatta.

È sempre troppo tardi quando muore un ragazzo, troppo tardi
quello che facciamo per lui. Sì, perché, soprattutto ai nostri
ragazzi non insegniamo fin da piccoli la fragilità.
Non insegniamo che è possibile perdersi, non insegniamo che
loro non sono i voti che prendono o le prestazioni che
portano. Siamo una società competitiva, una scuola competitiva
con o senza Dad, che decliniamo con serietà la meritocrazia,
siamo una società che corre e che spinge i suoi ragazzi a non
rimanere indietro in questa corsa. Siamo una società di
sconfitti e vincenti, senza terra di mezzo.

Siamo la società in cui “deve andare tutto bene”, il cui
“mostrare” è diventato un mestiere, basti pensare a ciò che
gli adulti fanno girare di sé stessi su Facebook.

Siamo una società che non parla con i ragazzi di sessualità,
di emotività, di sentimenti e li considera ancora dei tabù. I
panni sporchi si lavano in casa e quelli puliti si mostrano e
se non ci sono panni da mostrare che si fa?

Siamo la società del silenzio dove nella scuola è più
importante studiare pagine e pagine a memoria che
chiedersi: allora, come stai? Non c’è lo spazio emotivo perché
i ragazzi possano conversare con degli adulti educanti ( i
professori o professoresse, psicologi o psicologhe…) per
un’ora di tematiche che vadano oltre le tradizionali
discipline. Sarebbe bello infilare nelle scuole una un’ora di
conversazione: di cosa volete parlare oggi? Quante cose
potremmo imparare di loro? Quanto sapremmo che non sappiamo?
Quanto potremmo fare?

Un adolescente che sta male è uno specchio per la società
intera, ci dice che quella malattia ci riguarda, ce la sbatte
in faccia, per questo forse non la vogliamo vedere.

Possiamo cercare le colpe all’interno delle famiglie ma il
problema non è individuale e non è soggettivo, è un problema
ambientale il nostro, sociale.

A quanto pare a togliersi la vita sono soprattutto i maschi,
quindi, eccolo che ritorna il problema legato alle tematiche
di genere, non solo per le bambine e le ragazze, ma anche per
i bambini e i ragazzi, il racconto di una mascolinità
fuorviante: devi essere forte, coraggioso, tutto d’un pezzo. E
se non lo sei? Cosa succede?

Noi siamo la società che in questi tempi di pandemia, con i
sistemi sanitari e scolastici in bilico, rimaniamo nella “top
5” Europea per la spesa militarecon 26,8 miliardi (dati dal
rapporto del Sipri). Siamo quelli che investono solo il 7,9
per cento della spesa pubblica in educazione, un dato
inferiore a quello di tutti gli altri Stati europei. E,
allora, la morte dei nostri ragazzi sta anche dentro a questi
dati ed è arrivato il momento di fare pressione, affinché il
governo e quelli che si susseguiranno, spendano di più per
sanità, istruzione, reti di protezione sociale e meno per le
armi. E quando andremo a votare, dovremmo spingere i politici
a parlarci di cosa faranno per la scuola, la sanità e i
servizi alla persona. Dobbiamo essere presente e pressanti.
Richiedere una giusta Protezione sociale. Dentro ci sta la
storia di un ragazzo che una notte di maggio ha deciso di
sbatterci in faccia la nostra inadeguatezza, i nostri errori,
le scelte che non siamo stati in grado di fare.

La morte di M. deve diventare un “nostro” problema. Che la sua
perdita non sia vana.

Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )

Con nel cuore Zohra, schiava
a 8 anni, torturata e uccisa
per   aver   liberato    dei
pappagallini
“Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di
lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe
avere in mano sono la penna e la matita”.

Iqbal Masih
Ogni ciclo scolastico, in quarta, leggo La storia di Iqbal.
Iqbal è stato un bambino operaio e attivista, diventando un
simbolo nella lotta contro il lavoro minorile.

Iqbal è nato in Pakistan, come Zohra, in una famiglia
poverissima.

A quattro anni lavorava già in una fornace e a cinque fu
venduto dal padre ad un venditore di tappeti per pagare un
debito di 12 dollari. Iqbal ha lavorato con altri bambini
incatenati ad un telaio per 10-12 ore al giorno, è scappato e
si è impegnato per difendere i bambini come lui.

È stato ucciso il 16 aprile del 1995, aveva 12 anni, in
circostanze ancora non chiare.

La mia città gli ha dedicato una piazza, vicino al porto,
vicino al mare.

Bisogna raccontarle ai nostri figli queste storie e non solo
perché sappiano di essere più fortunati ma perché sappiano
nella vita fare le scelte giuste in un’ottica di uguaglianza e
solidarietà.

Zohra era una bambina di otto anni, anche la sua famiglia era
poverissima. Era partita quattro mesi fa dal suo villaggio per
lavorare in una famiglia benestante come domestica, una
domestica di otto anni, non si riesce nemmeno ad immaginarla,
mani piccole, infanzia rubata.
Si sarebbe occupata anche del loro bambino di un anno. Ai
genitori era stata promesso, in cambio del suo lavoro,
un’istruzione.

L’istruzione è come l’oro, permette la libertà.

La piccola, che ha l’età dei miei alunni, non è mai andata a
scuola, da subito è stata esposta a continue violenze,
probabilmente anche sessuali.

Poi è successo, è stata brutalmente uccisa ma la sua storia
non era già scritta?

Zohra è morta per aver fatto scappare due pappagalli, potrebbe
averli liberati o potrebbero essere fuggiti mentre puliva la
gabbia, poco importa e comunque non lo sapremo mai. Quello che
conosciamo, invece, è la reazione dei suoi padroni.

L’hanno picchiata, torturata, fino ad ucciderla. Nonostante le
urla e le sue richieste di perdono mentre le portavano via
l’esistenza.

Zohra non era più una bambina ma era diventata una schiava.
Aveva perso la dignità e la libertà nel momento esatto in cui
era stata ceduta o forse prima, nel momento in cui era nata
povera.

È di questo di cui dovremmo preoccuparci tutti, eliminare le
disuguaglianze economiche; un padre e una madre, in qualsiasi
luogo del mondo, non dovrebbero mai essere costretti a far
lavorare il proprio figlio o la propria figlia. Ed ogni
bambino su questa Terra avrebbe il diritto di essere accudito,
istruito, avrebbe il diritto di poter essere un bambino.

Fa male questa morte perché ci racconta che esiste ancora un
sistema di “protezione” nei confronti di chi sfrutta i minori,
qualcuno sarà entrato in quella casa? Un sistema in cui, da
una parte ci sono dei padroni, gli adulti, coloro che
dovrebbero tutelare e dall’altra, i bambini che sono privati
della loro vita, resi schiavi.

Cercando la notizia e leggendo i vari articoli mi sono accorta
di una cosa, nessun giornalista ha usato parole come schiava e
schiavisti. Non credo di averle trovate nemmeno una volta, si
parla di “datori di lavoro” riferiti ai carnefici, quasi mai
di padroni, quello erano, mai di schiavitù.

Non stiamo parlando di questo? Forse è troppa la paura e
l’angoscia di dare il nome giusto alle cose? forse dovremmo
farci troppe domande e forse sarebbero chiare le nostre colpe?

Quello che succede dall’altra parte del mondo non ci riguarda
in qualche modo? Non è anche il risultato delle nostre
politiche europee, occidentali? O no?

Quello che mi domando è se sia necessaria la morte di una
bambina di otto anni per risvegliare le coscienze, se sia
necessario il suo viso pieno di ferite per ricordarci che il
lavoro minorile esiste ancora, così come esiste la povertà
infantile e la pedofilia.
Quante Zohra ci saranno nel mondo che in questo momento sono
schiave come lei? Che subiscono violenza, che rovista nei
cassonetti o nella spazzatura, che si prostituiscono, che sono
state vendute o cedute, che lavorano in qualche miniera o
fabbrica di vestiti?

Hanno mani piccole i bambini, corpi esili. È facile
fisicamente e moralmente sottometterli, per questo sono carne
da macello.

Dovremmo occuparci della povertà, ecco.

Ma se Zohra non fosse morta, qualcuno avrebbe conosciuto la
sua storia?

Ci saremmo accorti di lei?

Io credo di no.

Penny ( Cinzia Pennati, SOS DONNE BLOG )
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