Il valore di comunicazione della poesia - Bianca Maria Simeoni

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Bianca Maria Simeoni

           Il valore di comunicazione della poesia

                Il testo della conferenza tenuta nel 2003
               presso l’Università Binghamton di New York

Parafrasando quanto ebbe a dire Eugenio Montale nel discorso tenuto all’Accademia di
Svezia nel 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel, anch’io posso affermare
che “sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai
nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.

Sono convinta che la letteratura si riflette, mentre la poesia si “fa”.
Il poeta non esiste se non dopo la sua esperienza d’irregolare. Naturale e innaturale frattura
d’una consuetudine metrica e tecnica, il poeta modifica il mondo con la sua libertà e verità.
E si serve sovente della metafora, come nei versi del Nobel Salvatore Quasimodo:
“Trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.
Oppure si scopre:
“Anima, che diverse cose tante/vedi, odi e leggi, e scrivi, e pensi”.
(Petrarca, dalle “Rime e trionfi”).

La poesia è un lievito nascosto nella realtà di ogni giorno, che non sempre siamo in grado di
cogliere. A volte esplode inaspettatamente, e a volte si nasconde nei luoghi, nei paesaggi, o in
certi momenti; molto spesso è negli atti o nelle parole di chi ci sta parlando.
È il sentimento che traspare, che chiede di essere espresso e ricordato.
È il palpito stesso della vita, il mistero della bellezza che continua ad affascinarci se non ci
lasciamo sopraffare dalla banalità del quotidiano.

Astuta trasformista della parola, la poesia ci suggerisce, tra il tormento e la lacerazione
provocati dallo scontro spirituale con il materiale, che niente va mai perduto: né traccia né
impronta né segno alcuno.
La poesia congiunge l’individuale all’universale, e forse è un grido d’amore generalizzato per
la vita in ogni suo minimo particolare. Essa non ha tempo, soprattutto quella che diventerà
eterna; la poesia conosce già a priori la propria eternità.
Colui che porta dentro di sé questo tipo di poesia sa di scrivere per l’eternità e non può
sottrarsi a questa attività perché il sottrarsi, il negarsi, può essere causa di sofferenza, anche
fisica: c’è uno spasimo che accompagna gli attimi che precedono la stesura dei versi, è un
qualcosa di fisico, difficile da spiegare.
C’è un fuoco che agisce dentro di noi che ci consuma e brucia, mentre la nostra anima attende
ansiosa l’unico istante da strappare con prontezza alla mente: “l’istante prezioso
dell’entusiasmo”, come lo definiva Paul Valéry, “che bisogna subito fissare prima che la
mente stessa, portata al di là del più bello, lo riprenda, lo dissolva e lo rifonda in
combinazioni infinite”.
Credo che la prima condizione della poesia sia la libertà: la poesia si alimenta della libertà
usata per inventare un suo sovrano ordine innaturale, per descrivere immagini distaccate dal
consueto reale, per eccitare la fantasia come di fronte a un oggetto rappresentato per la prima
volta.

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Poi segue la gioia, la gioia della creazione, anche se è innegabile che in essa vi sia una
compartecipazione del dolore, il dolore di dover necessariamente nascondersi per non
dispiacere agli altri. Il poeta è un diverso, parafrasando la famosa poetessa italiana Alda
Merini, “il poeta è il brutto anatroccolo che poi diventa un cigno”.

A proposito dell’ispirazione, ci sono persone che ci ispirano e ci aiutano a scrivere: ebbene,
queste persone rimarranno al nostro fianco per sempre, anche solo come immagine. E saranno
indimenticabili, possiamo dimenticare il libro che abbiamo scritto grazie al loro aiuto, ma non
loro.

Spesso la poesia viene giudicata inutile, sembra che non serva a nulla, non ha compiti né
funzioni, è la più aerea fra le arti, la più inconsistente… Eppure Essa ci aiuta a dire la verità
sulle cose, a dettarci frammenti di verità del nostro vivere, ci insegna a contemplare, a
ricordare, a rispettare il proprio e l’altrui destino; attraverso la parola-rivelazione, che nel
verso si materializza, prende la consistenza di un valore tutt’altro che effimero, e sostiene
l’artista nella sua avventura.

È la promessa di una lingua e di una passione concesse ad ognuno di noi per edificare, per
continuare a scrivere il valore di un’appartenenza civile al di qua del sangue, oltre il dolore.
Ciò che il poeta materialmente crea, con il virtuosismo del linguaggio, è una danza di parole
che muovono dall’energia interiore dell’artista per distaccarsi dal comune materiale
espressivo.
Nel ritmo, nella configurazione grafica della scrittura, nell’intermittenza di visioni folgoranti
che alterano il comune fluire del discorso, la poesia descrive in sé la più affascinante
fisionomia dell’arte letteraria; si serve di suoni e fonemi rendendoli inevitabili e irresistibili,
sbaragliando significato e significante, e dice tutto… Dell’arcano meccanismo che organizza
le parole in composizione poetica, la licenza è regola codificata e unica, essenziale a sottrarre
dalla prepotenza delle cose del mondo, il tempo e lo spazio della poesia.
E, infatti, Essa non invecchia e sfida il linguaggio che intanto si modifica da una generazione
all’altra. Né la lontananza dall’attuale frappone opacità al contatto con la poesia di ogni
epoca, che ci sorprende sempre traboccando di emozioni sospese tra i due poli dell’abilità e
del sentimento, zampillante dai più eterogenei registri espressivi.
Recentemente, L’Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, ha ospitato nella Collana
“Il Taràssaco”, da me diretta, una silloge di versi scritti da ragazzi di una Scuola Media di età
compresa tra gli 11 e i 14 anni.
Ebbene, come ho già avuto modo di esprimere nella presentazione del libro, sono rimasta
sorpresa dall’energia che trasmettono queste liriche: canto corale di pensieri in libertà,
creatività giovanile che diventa sorgente di ogni musica che, da una nota all’altra, aspira alla
grandezza di una vita attraverso il suo enigma.
Oggi che l’espressività delle nuove generazioni langue un po’, fa, a dir poco, piacere vedere
che ragazzi così giovani si accostino con determinazione e slancio alla poesia, distinguendosi
per emozione, per incandescenza, per la piena coscienza della vasta inquietudine che demarca
la loro e la nostra epoca.
Questi giovani hanno fame di conoscenza, e stanno imparando a nutrire lo spirito con un
grande fermento, con la vita che ribolle attraverso la ricerca di una propria identità, di
quell’“io” che sfugge già.
Al tempo stesso liberi e schiavi, si apprestano a tessere il grande arazzo della loro vita e
rifiutano il muro della menzogna. Hanno occhi che animano, mani che danno forma, cuori che
invocano la pace nel desiderio di sconfiggere la disperazione e rendere degno ogni sforzo
umano.

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Loro sanno, come lo sapete voi, quando il sogno è maturo per tentare di farsi vero, e nella
lotta che riveste le parole c’è il coraggio e la voglia vera di conquistare i raggi del sole
ribaltando l’incontrovertibile verità, l’insostenibile pesantezza dell’essere.

Scorrono inesauribilmente sui versi di tutti i poeti acquisizioni e suggestioni della
sopravvissuta cultura di matrice ottocentesca: positivismo, idealismo, marxismo; che
invadono il territorio estetico: sociologia, antropologia, psicanalisi; il consesso delle scienze
umane del ‘900: linguistica, strutturalismo, semiotica.
Siamo forse troppo giovani, o troppo vecchi, per non sentirci abbastanza pigri, o caparbi, da
rinunciare all’immersione nella conoscenza, mentre dalla poesia come lettori, autodidatti, ci
sentiamo, parafrasando Dante (“Rime del tempo della vita nuova”), presi per incantamento.
Questo incantamento che io ho provato leggendo i miei autori preferiti, se riferito al
Novecento, e soprattutto ai critici di questo secolo trascorso, diventa oggetto di prudenza o di
parzialità nei riguardi di alcuni “ismi” e di alcuni autori che li hanno istituiti o praticati, sicché
invece di giudicare l’opera, si giudica l’autore, l’appartenenza ad un preciso filone estetico o
all’idea politico-estetica cui fa capo.

Il Novecento in Italia credo che affondi le proprie radici nella Scapigliatura e nel Verismo.
La Scapigliatura, che non fu né un movimento né una scuola (lo stesso si può dire
dell’Ermetismo, ma ad esso farò riferimento più avanti), estenuò il Romanticismo e si ribellò
a qualsiasi freno. Sulla protesta degli Scapigliati influì anche il modello della letteratura e del
costume francesi (Baudelaire, Flaubert, Zola). Dal momento che venne meno il sostrato
ideale, non essendoci più la spinta all’eroismo, si ebbe l’affermazione del Positivismo.
Il positivismo fu l’ideologia della classe borghese e fu una reazione violenta all’idealismo
romantico. Il periodo storico era infatti contrassegnato da un’intensa attività scientifica e dal
conseguente progresso tecnologico che favorì il graduale emergere della borghesia
industrializzata in molti stati europei. Ciò comportò il recupero delle idee più avanzate
dell’illuminismo, il rifiuto della metafisica e di ogni forma di idealismo, con la conseguente
esaltazione della scienza, creduta capace di portare all’uomo il benessere economico e il
risanamento dei mali sociali.
Anche il Positivismo quindi è, per la convinzione che me ne sono fatta, il retaggio letterario
dell’Ottocento che si riflette nella cultura del Novecento.

Il Crepuscolarismo sorto a Milano tra il 1860 e il 1870, fu una decennale ubriacatura che vide
sfiorire i propositi di spensieratezza a causa della diffusa volontà di morte e di dissoluzione
del decadentismo. Tragicamente perirono i suoi esponenti: Giovanni Camerana e il Pinchetti
si suicidarono, Emilio Praga e il maestro del gruppo, Giovanni Rovani, furono consumati
dalla dissolutezza, il pittore Cremona morì intossicato dai colori. Questo gruppo di poeti e di
artisti rifiutò la retorica di Carducci e il vivere inimitabile di D’Annunzio, contrapponendo ai
maggiori un linguaggio dimesso, un mondo fatto di ombre e di frammenti.

Sto facendo queste riflessioni per tentare di spiegarmi quali siano le radici di un poeta della
mia generazione e, quindi, quelle nelle quali, consapevolmente o inconsapevolmente, affonda
la mia poesia.

Strettamente collegato al Positivismo si ebbe in Francia il Naturalismo, movimento letterario
teorizzato da Hippolyte Taine; esso propugnava che il romanzo doveva essere una grande
inchiesta sull’uomo, su tutte le varietà, le situazioni, le fioriture e le degenerazioni della natura
umana.
Sulle basi dell’evoluzionismo darwiniano e della sociologia scientifica di Comte, il critico
affermava che “l’opera d’arte trova la sua giustificazione nell’ambiente genetico in cui nasce,

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e che i fenomeni spirituali altro non sono che manifestazioni della fisiologia umana e, quindi,
prodotti dell’ambiente fisico e della situazione storica”.
Queste teorie furono applicate da Emile Zola il quale sintetizzò le sue tesi nel volume “Il
romanzo sperimentale” (1880), convinto che la psicologia fosse subordinata alla fisiologia,
sostenendo che il protagonista dei romanzi non doveva più essere “l’uomo astratto ma il
soggetto fisiologico della scienza contemporanea”, perché “tutti i sensi agiscono sull’anima”.
Si deve a Luigi Capuana se le teorie di Emile Zola presero corpo anche in Italia; Capuana
però sostituì la formula della “perfetta impersonalità” a quella del “romanzo sperimentale”.
Nasceva, così, il Verismo che ebbe nello stesso Capuana e in Giovanni Verga i due maggiori
esponenti.

È del 1909 il primo manifesto del Futurismo che apparve su “Le Figarò”. Nel 1912 uscì il
secondo. Futurismo è una corrente rivoluzionaria che, di fronte alla decadenza della morale e
degli ideali alla quale inevitabilmente si accompagna quella della letteratura, diede vita ad una
poesia svuotata di contenuto, staccata dalla vita, bizzarra e astratta. Marinetti sentì il fiato sul
collo di Apollinaire, firmatario del manifesto “Antitradition Futuriste”, e fu emulo di una
nuova cultura francese.
I nuovi ideali del Futurismo, proclamata la morte della sintassi, furono il caos, la lotta,
l’irrazionalità, secondo la formula “elettrica” della macchina della velocità. Si ebbe, pertanto,
l’esasperazione del paroliberismo che divenne fine a se stesso, e i segni grafici pretesero di
essere poesia. Si instaurò, così, un conformismo dell’anticonformismo.
Il Novecento è stato molto legato a Marinetti; non pochi autori hanno articolato versi secondo
schemi illogici e isterici sul modello futurista, e hanno dichiarato la loro intolleranza verso la
chiarezza logica a formale.
Il dibattito letterario intorno a questi temi ebbe naturale sede presso le riviste Lacerba
(fondata da Papini e Soffici) e, soprattutto, La Voce nella quale si scontrarono tutte le correnti
filosofiche: Pragmatismo, Intuizionismo, Irrazionalismo, Spiritualismo, Idealismo. Le
numerose personalità che la formarono (Prezzolini, Papini, De Robertis, Croce, Gentile,
Amendola, Einaudi, De Ruggiero, Lombardo Radice, Pancrazi, Baccelli, Cecchi, Slataper,
Baldini, Palazzeschi, Ungaretti, Serra, Soffici, Cardarelli, Onofri, Boine, Jachier, ed altri) non
consentirono alla rivista di sintetizzare la straordinaria molteplicità di idee, di principi e di
linee. Tra i Vociani voglio far cenno al romanticismo temperamentale di Scipio Slataper, al
sentimento religioso della natura di Clemente Rebora, e a Federico Tozzi il quale fuori dagli
schemi, da autodidatta, diede vita alla sua prosa lirica. Con La Voce Carducci fu spazzato via
dall’Olimpo della nostra letteratura e non fu più citato.

Nel 1913 Lionello Fiumi fondò l’Avanguardismo che intendeva porsi come la via di mezzo
tra la tradizione ottocentesca e il Futurismo. La rivista La Ronda non ignorò l’avanguardismo
e cercò di instaurare una coscienza della nostra tradizione culturale, rieleggendo un neo
classicismo attraverso un’esperienza che fu bollata di provincialismo. Alla rivista aderirono,
fra gli altri, Cardarelli, Cecchi, Baccelli e Baldini.
Tutte queste polemiche e tutti questi tentativi sfociarono nel più importante movimento
letterario fra le due guerre: l’Ermetismo. A questo termine il Flora diede il suo autorevole
sigillo, come il Borghese l’aveva coniato per il Crepuscolarismo. Nel 1914 l’uscita del libro
di Camillo Sbarbaro, dal titolo Pianissimo, aveva reso mirabilmente la tragedia psicologica
dell’uomo alienato, dello sgomento senso di solitudine.

Diversa e particolarmente significativa era stata l’esperienza umana di Dino Campana, nato a
Marrani nel 1885 e morto nel 1932 nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci. I suoi Canti
Orfici del 1914 inaugurarono una nuova stagione poetica, nonostante i residui carducciani. La
sua poesia è tutta un’ossessione di suoni, colori e immagini, spesso disposti in una

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contemporaneità e in una simultaneità inscindibili. Quanta diversità con la rassegnata
indifferenza di Sbarbaro!
Tornando all’Ermetismo, non posso tacere che, mentre Salvatore Quasimodo nel suo
“Discorso sulla poesia” del 1954 lo definisce una “Scuola”, Mario Luzi, indicato nei libri di
storia della letteratura italiana come “il più strenuo difensore dell’Ermetismo che capeggiò a
Firenze”, in un’intervista rilasciatami il 6 dicembre 2002 afferma che l’Ermetismo come
scuola non è mai esistito e, se mai, esso fu un atteggiamento di alcuni poeti i quali decisero
che gli italiani non erano più degni della poesia perché il Paese attraverso il fascismo aveva
aderito al nazismo, aveva proclamato le leggi razziali e aveva acconsentito al massacro degli
ebrei nei campi di concentramento.

Va, però, anche considerata come propedeutica dell’ambiguo “ismo”, la polemica contro i
grandi maestri dell’ultimo Ottocento, l’aspetto essenzialmente negativo della poesia di
Mallarmé, caratterizzata più dalle sue omissioni che dalle sue affermazioni, dalla quale
Ungaretti mutuò la teoria della parola magica, pura, “senza peso di storia”, depurata dalle
origini, fuori di ogni compromesso sociale, isolata dalle possibili complicazioni della vita
giornaliera, nonché la constatazione che l’uomo aveva perduto la propria sicurezza che gli era
derivata dalla fede nel primato dell’intelligenza e dalla certezza di essere il centro
dell’universo.
Le “Poesie di guerra” di Ungaretti sintetizzano questi motivi: ogni eroismo è tralasciato per
far posto al cuore: il paese più straziato, per il quale non c’è né la natura né l’abbandono ai
sentimenti. La parola, quindi, diventa metafora lirica, oscurità espressiva.
Quest’ultima raggiunge il vertice in Eugenio Montale, il lirico della desolazione, il più diretto
discendente di Sbarbaro, Onofri e Pascoli. Con Montale l’Ermetismo tocca una barriera
semantico-lessicale, condensando al limite la dualità suono-concetto in quel particolare, a
tratti poderoso, libro che è Ossi di seppia.

La guerra e la Liberazione misconosceranno ogni risultato ermetico anche perché gli autori,
compresi quelli di cui mi sono occupata, non si possono incasellare totalmente in scuole e
movimenti vari. L’appartenenza ad un filone deve essere cercata nella linea filosofica e nella
scelta estetica, non nella collaborazione alla rivista emblema.

È dagli inizi del Novecento che si sviluppa il dramma esistenziale dell’uomo moderno. Ne
sono i maggiori scrittori: Ettore Schmitz (Italo Svevo), nella cui narrativa si assiste alla
dissoluzione del personaggio (nel romanzo Vita, il dramma di un inetto; in Senilità, il
fallimento dell’autoinganno e, nel romanzo più celebre, La coscienza di Zeno, la malattia
come unica dimensione della vita) e Luigi Pirandello con l’inganno della verità assoluta, la
fuga irrazionale nelle Novelle veriste e simboliste, il fallimento della borghesia, che si coglie
ne Il fu Mattia Pascal, mentre ne I vecchi e i giovani appare evidente che il Risorgimento è
stato un mito amaro, fino a pervenire nel suo “Teatro”, alla convinzione che la verità non
esiste, che tutto è relativo, è finzione e le parole sono una vuota astrazione.

In Francia, intanto, Marcel Proust attende al recupero memoriale; in Cecoslovacchia Franz
Kafka è l’interprete della solitudine dell’uomo moderno; in Germania Thomas Mann incarna,
attraverso i suoi personaggi, il disfacimento dei valori borghesi; mentre James Joyce, in
Irlanda, racconta l’odissea del borghese moderno, il georgiano Vladimir Majakovskij vede il
Futurismo con la convinzione che la rivoluzione artistica deve dare voce alla rivoluzione
sociale, seppellendo ogni forma di conservatorismo.

Questi brevissimi cenni letterari, che precedono la mia generazione, e che ritengo siano stati i
cromosomi, le radici dalle quali poi sviluppato il germoglio della mia poesia, sono le

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reminiscenze di appassionate letture attraverso l’evoluzione del pensiero che ha influito non
poco, sia in senso negativo che in senso positivo, nella varie poetiche della mia Patria.

È del 1924 la pubblicazione del primo manifesto del Surrealismo ad opera di Breton, Tzara e
Argon. Dopo un’iniziale adesione al comunismo, nel 1935 si verifica il distacco da questa
ideologia perché Breton è sinceramente e coerentemente convinto che l’arte può esercitarsi in
totale libertà.

Le ulteriori riviste, spesso l’una in contrapposizione all’altra, e cioè, Novecento, Stracittà, Il
Selvaggio, L’Italiano, Solaria, La Fiera Letteraria, furono palestre di dibattito delle varie
concezioni della cultura.
Intanto, il cosiddetto Ermetismo, attraverso i tentativi di Sandro Penna, diveniva sempre più
ambiguo. Un breve accenno ad altri poeti che furono definiti “ermetici” e cioè, Saba,
Sinisgalli, Vigolo e Sereni, ci conduce a Salvatore Quasimodo, il grande esule con la sua
pena.

E si giunge così, procedendo nel tempo, ad Alfonso Gatto, alla sua esasperazione della
sensibilità, e si giunge anche al desiderio ossessivo di perfezione di Mario Luzi. Il grande
poeta cattolico fiorentino vivente che sente la vita in tutta la sua provvisorietà e precarietà,
patisce la distanza abissale tra l’umano e il divino. Proprio tale precarietà è tramata su un
discorso che, nella prospettiva formale, risente della poesia di Mallarmé e sfrutta la tecnica
analogica in modi estremi, secondo il gusto dei tempi. Poesia che lascia nell’animo del lettore
un barlume di speranza, che lo sollecita a vivere e a misurarsi nella ricerca dell’assoluto.

E ci si imbatte in Vittorio Sereni, nel suo “perpetuo presente”, il cui linguaggio è l’antico
tessuto lirico che si apre arditamente all’ironia, all’inventiva, al dibattito drammatico.

Un grosso problema attanaglia i critici che si occupano di Cesare Pavese. Le sue opere, da
Lavorare stanca a Il mestiere di vivere, mostrano una stridente sfasatura tra il poeta e
l’intellettuale di sinistra, ruolo che egli dovette a forza impersonare per tutta la vita. Il
mancato aggancio tra sé e il mondo fu, infatti, la causa scatenante del suo suicidio.

Tralascio le connotazioni letterarie presenti nelle opere dei narratori italiani degli anni ‘30, ma
desidero almeno soffermare la mia attenzione su: Comisso, lo scrittore per vocazione;
Piovene, dal sofferto moralismo; Alvaro, moderno interprete dell’inquietudine
contemporanea; Moravia, la cui lente per vedere la società è quella marxista e freudiana o
quella della disperazione; Brancati e il suo rifiuto del conformismo, oppure le esperienze
narrative e poetiche di altri Paesi come quelle di Paul Valery e la poesia assoluta; Paul Eluard
tra poesia e impegno politico; Jean-Paul Sartre e l’esistenzialismo come umanismo, in
Francia; Federico Garcia Lorca dalla fantasia tipicamente andalusa, dalla musicalità e dal mito
gitano, in Ispana; il cileno Pablo Neruda che muove dal crepuscolarismo all’impegno politico,
tra ripiegamento interiore e memoria; Faulkner, figlio del profondo sud americano, e la sua
eterna lotta tra il bene e il male, con la convinzione che l’umanità può essere redenta
dall’amore; Hemingway e il suo cliché dell’eroismo positivo (la morte come unico assoluto e
il bisogno di sentirsi vivo); e, infine, Brecht col suo teatro epico e lo straniamento.

In Italia intanto si accende il dibattito politico-culturale e si profila il Neorealismo, che, come
ho già asserito, ha appena lambito la letteratura.

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Rimane indimenticabile la polemica di Elio Vittorini sul “Politecnico” del quale lasciò la
direzione nel 1947 in contrasto con Togliatti, rivendicando l’autonomia della cultura
dall’ideologia di partito.
Non da meno è Ignazio Silone che incarna la crisi dell’intellettuale comunista, fino ad arrivare
al distacco dalla politica.
E recentemente si è appreso che Antonio Gramsci è stato vittima della politica del partito
comunista, il cui segretario Palmiro Togliatti si è opposto alla sua liberazione dal carcere dove
è morto disperato e cosciente del tradimento.

Sulla scena letteraria post bellica avremo, quindi: Francesco Jovine con la sua partecipazione
cosciente ai problemi del proletariato; Carlo Levi che presenta il Meridione come isola
metafisica; Primo Levi con la sua difesa della dignità umana; Beppe Fenoglio, freddo realista
e demistificatore della Resistenza; Leonardo Sciascia che presenta la sua Sicilia come un
mondo immobile e con il problema della mafia; Dino Buzzati e l’assurdo come realtà; Carlo
Emilio Gadda e la deformazione linguistica del reale; il caso letterario de “Il Gattopardo” di
Giuseppe Tomasi da Lampedusa; la poetica del “subliminale” di Carlo Cassola, e poi Pier
Paolo Pasolini, Giorgio Bassani, Italo Calvino, Goffredo Parise, Giovanni Arpino, Gianni
Rodari, Giorgio Caproni, Maria Luisa Spaziani, Alda Merini e numerosi altri.

Proprio questo è il mese in cui si celebra il quarantennale del Gruppo 63, sorto a Palermo in
occasione di un Festival musicale.

Prima di concludere, desidero fare un cenno alla poesia delle donne. Non mi riferisco
esclusivamente al problema in Italia, poiché esso riguarda tutti i Paesi del mondo. Neria De
Giovanni, Presidente dell’Associazione Internazionale Critici Letterari, qualche anno fa
scriveva che “Il Nobel alla polacca Wislawa Szymborska era arrivato in un momento cruciale
della storia politica ed economica del nostro pianeta, in un momento congiunturalmente
difficile”.
Le donne insignite del massimo riconoscimento mondiale per le lettere, infatti, sono poche e
premiate sempre in momenti particolari: nel 1909 ebbe il Nobel Selma Lagerloff narratrice
svedese; nel 1926 il premio fu assegnato a Grazia Deledda in un momento in cui l’Europa “si
preparava alla recrudescenza del totalitarismo di destra”; quindi, nel 1928 fu premiata la
norvegese Sigrid Undeset, e nel 1938 la cinese Pearl S. Buck. Nel 1945 il premio andò alla
cilena Gabriela Mistral per il suo canto di pace e d’amore. Si giunge al 1960, anno in cui
viene premiata Nelly Sachs sfuggita alle persecuzioni razziali. Il 1990 è l’anno in cui viene
premiata Nadine Gordimer per i suoi romanzi contro l’apartheid del Sud africa e, tre anni
dopo, nel 1993, viene premiata ancora una voce nera, quella di Toni Morrison.
La scelta della donna scrittrice è sempre arrivata in momenti difficili della convivenza civile e
con motivazioni sovente distanti da quelle squisitamente letterarie, ma più sociali (azioni in
favore del popolo, dei bambini, contro il razzismo o contro la dignità umana).
Subito dopo l’assegnazione di un Nobel ad una donna, non pochi si sono chiesti chi essa
fosse, perché si è sempre trattato di semi-sconosciute rispetto ai premiati maschi.
Questo perché la parità non è ancora stata raggiunta e, quindi, la trasmissione dei saperi delle
donne è ancora piuttosto lontana a venire. Maria Luisa Spaziani, a mio parere, ha ragione
quando rifiuta di essere chiamata “poetessa”, perché sostiene che quando si afferma che Saffo
fu la maggiore poetessa dell’antichità, il paragone viene ristretto alle sole donne che scrivono
poesia e non anche agli uomini e, pertanto, la Spaziani sostiene che si dovrebbe dire che Saffo
fu il maggior poeta dell’antichità.

Con queste premesse e con queste mie basi culturali, io continuo a scrivere poesia, convinta
anche che Essa non può essere solo emozione, istinto, commozione, sensazione, sentimento,

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ma che deve esprimere un pensiero. Continuo a scrivere poesia in un mondo che è dominato
dall’egoismo e dove il cinismo impera, perché ciò che non possiamo vivere possiamo almeno
sognarlo.
A chi sostiene che i poeti scrivono sempre le stesse cose, vorrei rispondere che il poeta è colui
che dice in modo nuovo sentimenti antichi. E, senza alcuna presunzione, credo di poter
affermare che senza la poesia, senza la funzione salvifica di questa, che chiamo l’“Aurea
scrittura”, non potrei vivere.
Inoltre, essendo una credente, mi viene in soccorso il detto evangelico “Non di solo pane vive
l’uomo” e quello laico di Baudelaire: “Un giorno senza pane, ma non un giorno senza
poesia”.

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