Dante, la Divina Commedia e l'Istria: i luoghi e il canto dell'esilio

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   Dante, la Divina Commedia e l’Istria: i luoghi e il canto dell’esilio
                                                               A cura della Prof.ssa Donatella Schürzel

       Pubblichiamo il testo della relazione tenuta a Roma, il 1° ottobre 2004 nella sede del
Palazzo delle Assicurazioni Generali, a cura del Comitato Provinciale di Roma dell’A.N.V.G.D.

       Accingersi a parlare di Dante e sperare dopo sette secoli di studi ininterrotti, nonché eruditi,
di rivelare qualcosa di nuovo, o, se non altro di inedito potrebbe sembrare vano, oltre che
presuntuoso.
       Ma non è questo lo scopo che mi prefiggo con questa relazione, bensì quello di individuare e
meglio sottolineare alcuni aspetti meno noti e anche poco certificabili della biografia e dell’opera
dantesca, in particolar modo, per ciò che la lega alla storia delle genti dell’Istria specialmente, ma
anche di Fiume e non meno della Dalmazia.
       Devo ammettere che è con vero piacere che intraprendo tale argomentazione dato il mio
assoluto amore per Dante, che oggi, forse proprio grazie a questo studio ulteriore sul Sommo Poeta,
leggo in una chiave più intelligibile anche per me stessa, scoprendo proprio nelle mie origini e nella
storia che le caratterizza, un legame che evidentemente non è solo personale, ma quello di un’intera
razza che ha trovato nel padre della lingua italiana un suo eccezionale simbolo.
       Non intendo dunque che venga attribuita particolare ineccepibilità o originalità al mio
lavoro, ma mi auguro che, anche grazie ai diversi e utilissimi studi consultati, esso risulti oggettivo
quanto più possibile e basato su documentazioni certe o, laddove così non fosse, le più attendibili.
       In quanto alla vita di Dante, le notizie ci giungono da tre fonti diverse.
In primo luogo i riferimenti biografici ricavabili dall’opera stessa dell’autore, in secondo luogo le
informazioni fornite da scrittori posteriori, ma cronologicamente vicini, tra i quali Boccaccio,
Sacchetti e soprattutto lo storico umanista Leonardo Bruni, che ebbe accesso a fonti documentarie,
oggi perdute ed infine, i documenti dell’epoca che riguardano il poeta o la sua famiglia.
       Per evidenti motivi, le sole fonti riconosciute propriamente storiche, sono i documenti
d’archivio, rinvenuti e vagliati in gran parte dai dantisti ottocenteschi.
       Tale prezioso materiale non è abbondante e soprattutto, si riferisce per la maggior parte al
periodo fiorentino, mentre risulta assai più incerta la vicenda biografica dell’esilio, di nostro
particolare interesse, in quanto variata da continui spostamenti, non tutti ricostruibili con certezza.
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       Dante, diminutivo di Durante, Alighieri nacque a Firenze nel maggio o giugno del 1265 da
Alighiero di Bellincione e da Monna Bella (forse degli Abati). Il padre apparteneva alla piccola
nobiltà guelfa, ormai decaduta, tanto che esercitava l’attività di cambiavalute e fu persino accusato
di usura. Sembra che il poeta non fosse molto orgoglioso di questa paternità, tanto che non ne parla
mai, mentre esalta come vero padre spirituale il suo avo Cacciaguida.
       Rimase ben presto orfano di entrambi i genitori: il padre morì intorno al 1281/82 e la madre
era già morta tra il 1270 e il 1273.
Si ha notizia di una sorella di Dante, Tana, sposata ad un banditore comunale e di un fratello,
Francesco, nati dalle seconde nozze del padre con Lapa Cialuffi.
       La giovinezza del poeta fu quella tipica dei giovani gentiluomini del tempo, spensierata e
gaudente.
       Non sappiamo esattamente quale sia stata la formazione della fanciullezza; si ritiene che sia
stato educato nel convento di Santa Croce dai frati francescani e che i suoi primi studi siano stati sui
classici latini ed in particolare su Virgilio, cosa che spiegherebbe l’ammirazione per quest’ultimo
manifestata nella Commedia e sui mistici e S. Agostino. Potrebbe anche aver frequentato il
convento domenicano di Santa Maria Novella, più attento alla filosofia aristotelica e tomistica.
       Più che studi regolari, furono le discussioni con i maestri di queste due scuole conventuali a
formare le basi filosofiche di Dante che fu anche interessato alle arti e amico di pittori e di
musicisti, come il liutaio Belacqua e il musico Casella, le cui melodie tanto deliziavano il poeta, da
dar loro spazio persino nel Purgatorio.
       Suo maestro di poesia, filosofia e retorica sembra sia stato Brunetto Latini, come il poeta
stesso dichiara nel XV canto dell’Inferno.
       Frequentò anche diversi esponenti dello Stilnovo ed in particolare fu amico di Guido
Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. A ciò gli valse il soggiorno a Bologna, durante il quale
conobbe anche Guido Guinizzelli, capo-scuola dello Stilnovo.
       Nel 1285 circa (secondo altri nel 1295), sposò Gemma Donati come pattuito dalle famiglie,
secondo la consuetudine del tempo, da cui ebbe almeno tre figli (Iacopo, Pietro, Antonia, poi
monaca col nome di suor Beatrice) o forse quattro, se il primogenito fu Giovanni che appare , come
testimone, in un solo atto del 1308.
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Ma questi avvenimenti lasciarono poche tracce nella vita intellettuale del poeta, tutto preso negli
anni giovanili dall’esperienza stilnovistica e dagli effetti dell’incontro, la prima volta già a nove
anni nel 1274 e la seconda, che lo catturerà completamente, a diciotto, con Beatrice di Folco
Portinari, amore della sua vita, sua musa ispiratrice e angelo di salvezza, andata successivamente
sposa a Simone de’ Bardi e morta giovanissima nel 1290.
            La profonda crisi esistenziale subentrata nell’animo del poeta in seguito a tali circostanze,
trovò espressione nella Vita Nuova, composta tra il 1292 e il 1294.
Frattanto lo aveva coinvolto la tumultuosa vita pubblica di Firenze e nel giugno del 1289, partecipò
alla sanguinosa battaglia di Campaldino contro i Ghibellini, episodio del quale si ricorderà in diversi
passi della Commedia, come momento drammatico delle divisioni politiche che stavano lacerando
la città.
            Nel 1295, in seguito ad un’attenuazione degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella,
che permetteva la partecipazione alla carriera politica anche ai nobili, purché iscritti ad una delle
Corporazioni, Dante si iscrisse all’Arte dei Medici e degli Speziali (questo per la stretta unione nel
Medioevo tra la filosofia e le scienze naturali) e poté così essere eletto nel Consiglio speciale del
popolo, quindi nel Consiglio dei Savi per l’elezione dei Priori, poi nel Consiglio dei Cento ed infine
Priore nel giugno del 1300, anno del primo Giubileo proclamato da Papa Bonifacio VIII.
            In una sua lettera perduta e citata dall’umanista Leonardo Bruni, Dante fa risalire a tale
incarico tutti i suoi mali1:

     Tutti li mali e  l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione
     e principio; …

            Questa partecipazione alla vita sociale e politica del Comune fa meglio cogliere l’umanità
del poeta, protesa verso i problemi concreti e reali.
Gli anni in cui Dante si dedicò all’attività politica coincisero con una fase estrema- mente delicata
della storia di Firenze: si svilupparono i contrasti tra le famiglie Cerchi e Donati, si acuì sempre più
la frattura tra Guelfi Bianchi e Neri e il Papa Bonifacio VIII tentava in maniera sempre più evidente
di intromettersi negli affari politici di Firenze, mirando ad un’espansione del suo stato su tutta la
Toscana.
Dante seppe affrontare tali situazioni con grande senso di equilibrio e di equità, pro- ponendo di
mandare al confino i capi delle due fazioni, anche se tra costoro c’era il suo carissimo amico
Cavalcanti.
1
    L.Bruni, Le vie di Dante e del Tetrarca, a cura di A. Lanza, Archivio Guido Izzi, Roma 1987.
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       Nel 1301 fu inviato come ambasciatore a Roma presso lo stesso Papa per saggiare le sue
reali intenzioni. Fu trattenuto a Roma assieme agli altri ambasciatori, mentre Carlo di Valois, alleato
del Papa, entrava in Firenze con la forza ed instaurava un clima di terrore.
       Mentre sulla strada del ritorno si trovava a Siena, venne a sapere che tutti i suoi beni erano
stati confiscati e che era stato condannato per baratteria, cioè per corruzione e illeciti guadagni ad
una multa di cinquemila fiorini e all’esclusione dalle pubbliche cariche. Non essendosi presentato a
giustificarsi e a pagare, due mesi dopo fu condannato alla definitiva confisca dei beni e a morte
(sarebbe stato bruciato vivo se fosse caduto nelle mani del Comune).
       Non tornò più a Firenze e lui, orgoglioso cittadino di un libero Comune ed innocente, fu
costretto ad andare ramingo, elemosinando sostegno presso le più importanti Corti dell’epoca.
       Ma se l’esilio con le sue delusioni ed amarezze mise a dura prova la forza d’animo e i
sentimenti di Dante, d’altra parte segnò la tappa più importante della sua evoluzione artistica e
morale.
       E’ il periodo delle grandi produzioni teorico-politiche, il Convivio, il De vulgari eloquentia,
il De Monarchia e, soprattutto, la Commedia.
Negli anni dell’esilio, molte furono le città e le Corti che lo ospitarono, prima tra tutte Verona,
presso Bartolomeo della Scala e poi suo figlio Cangrande che gli dimostraro- no grande stima e
amicizia.
       Successivamente fu la volta di Treviso, presso la Signoria dei da Camino, quindi di Venezia
e Padova dove avrebbe incontrato Giotto, poi ancora della Lunigiana, presso Francesco Malaspina,
di Arezzo e Lucca.
Alcuni biografi ricordano finanche un viaggio a Parigi, peraltro non documentato, che sarebbe stato
interrotto dalla discesa di Arrigo VII in Italia. Nei confronti di tale principe, Dante aveva riposto le
sue ultime speranze; ma fu tutto inutile anche perché il condottiero, mentre si dirigeva a Roma, a
Buonconvento, presso Siena, morì improvvisamente.
       A questo punto gli fu offerto di rientrare a Firenze, ma col capo coperto di cenere e
chiedendo perdono: sdegnosamente rifiutò rimanendo fino in fondo fedele a sé stesso!
       Dal 1313 al 1319 fu nuovamente a Verona presso Cangrande, dove lo raggiunse anche la
famiglia e da dove poi si spostò a Ravenna presso Guido Novello da Polenta, per il quale svolse
diversi incarichi diplomatici.
Durante uno di questi viaggi a Venezia, fu colpito dalla malaria e morì a Ravenna tra il 13 e il 14
settembre 1321.
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        Fu sepolto dentro un’urna nella chiesa di San Pier Maggiore, detta in seguito di San
Francesco. Da poco aveva terminato la stesura della Commedia.
        Il titolo dell’opera, indicato nell’Epistola a Cangrande, era Commedia e ogni Cantica aveva
un titolo a parte. Fu poi Boccaccio, in uno scambio epistolare con Petrarca o nel Trattatello in laude
di Dante a definire divino il poema, alludendo all’argomento trascendente le facoltà umane e
all’elevato livello letterario e determinando così da quel momento tale attribuzione.
        La Divina Commedia è un poema in cento canti divisi in tre cantiche, ciascuna delle quali
dedicata ad uno dei tre regni ultraterreni secondo i principi della dottrina cristiana: Inferno,
Purgatorio e Paradiso.
        L’Inferno è costituito da 34 canti, dato che il primo costituisce un proemio all’intera opera,
mentre le altre due cantiche da 33 canti ciascuna.
        Nel canto introduttivo, Dante, auctor e agens, autore e protagonista, al trentacinquesimo
anno di vita, narra di essersi smarrito in una selva piena di insidie, alla quale riesce a sfuggire solo
grazie al soccorso del poeta latino Virgilio, il quale, apparsogli sotto forma di ombra, gli presenta
come unica via di salvezza la necessità di svolgere un viaggio nei tre regni ultramondani.
Sarà Virgilio stesso (simbolo della ragione) a guidare Dante nei primi due regni, mentre nel
Paradiso la guida sarà Beatrice.
        Naturalmente tutta quanta la vicenda ha un valore puramente allegorico e figurale e si rifà a
molte ben note tradizioni di viaggi nell’aldilà, a cominciare da quelli di Enea e S. Paolo che Dante
considerava i suoi precursori, e si pone l’obiettivo di indicare il percorso da compiere per ritrovare
la “retta via” del vivere cristiano.
        Non a caso il viaggio che si compie in sette giorni, inizia il venerdì santo del 1300, giorno
culminante per il culto cristiano della Quaresima, ad indicare il valore fondamentale del pentimento
e della purificazione.
        Nel corso del       viaggio Dante incontrerà un’innumerevole serie di personaggi (oltre
cinquecento) della storia presente o passata, della realtà o del mito, con i quali gli viene data
l’opportunità di conversare. Il viaggio culminerà con la visione di Dio.
        L’intera opera è composta in terzine di endecasillabi, a rima incatenata alternata e vanno da
un minimo di121 versi ad un massimo di 157 a canto, per un totale di 14223.
        Utilizzando il verso più nobile della letteratura italiana (così definito dallo stesso poeta nel
De vulgari eloquentia), il nostro, presenta una novità. Non si conoscono, difatti, esempi di
componimenti in terzine di endecasillabi a rima incatenata anteriori alla Commedia. Il suo effetto
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più evidente è una continua tensione in avanti: il sistema delle rime non permette, per l’intero canto,
alcuna pausa, ma ogni verso si protende in direzione di quelli che lo seguiranno.
          In seguito a tale premessa letteraria è d’obbligo, a questo punto, porsi la fatidica domanda:
qual è il motivo per cui tanta importanza è stata attribuita, insieme ad uno strettissimo legame e ad
una condivisione d’intenti, dalle genti dell’Istria e più propriamente della Venezia Giulia, a Dante?
          Prima di tutto per la conoscenza vera, pare, o presunta dei luoghi.
          La Venezia Giulia, si gloria infatti, di essere stata menzionata due volte dall’Alighieri, nel IX
canto dell’Inferno e nel De vulgari eloquentia.
Nel canto IX, al verso 109 si legge2:

            com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
            e veggio ad ogne man grande campagna,
            piena di duolo e di tormento rio.1
            Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
            sì com’a Pola, presso del Carnaro
            ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
            …

          Le interpretazioni critiche di tali versi, sono generalmente di tipo topografico, come
sottolinea Aulo Greco3 riferendosi ai sepolcri romani di Arles, resi famosi nel Medioevo da una
leggenda che narrava contenessero i resti dei cavalieri morti a Roncisvalle e ad Aliscans e alla
necropoli di Pola con i sepolcri terragni di Porto Grande, ormai cancellati dal tempo.
          Senza dubbio però è il fatto che già in epoca dantesca, come risulta anche dalla carte
geografiche allora in uso, fosse chiara l’idea che l’Istria, dove le acque dell’Adriatico segnano nel
golfo del Quarnaro il naturale confine dell’Italia, fosse parte integrante e riconosciuta della penisola.
          Naturalmente la descrizione così precisa e sicura da far dubitare di un “sentito dire”, ha
scatenato una ridda di discussioni tra i sostenitori di viaggi compiuti da Dante negli anni del suo
peregrinare in esilio, anche in tali luoghi e tra coloro, come ad esempio Vittorio Sermonti, il quale
nella sua edizione critica all’Inferno sostiene che ipotizzare viaggi di Dante in Istria e in Provenza,

2
    Dante, Divina Commedia, Inferno, canto IX, vv.109-114.
1

3
    A. Greco, Lectura Dantis Neapolitana, a cura di P. Giannantonio, Inferno, canto IX, Loffredo,
    Napoli, 1986.
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lo pensi chi è convinto che Shakespeare non possa aver scritto Giulietta e Romeo, senza essere stato
a Verona.4
Sta di fatto che, se per gli italiani in genere, il culto di Dante è determinato dall’insuperabile livello
poetico e dall’orgoglio nazionale per avere l’Italia un rappresentante così grande e così attaccato alla
dignità e alla gloria della “madre patria” comune, per gli adriatici, soggetti sin dal Medioevo ad
invasioni straniere spesso brutali e a continue insidie alla loro integrità nazionale, il nome e l’opera
di Dante divennero ben presto il simbolo supremo della Patria, sublimato addirittura durante il
periodo dell’irredentismo.
         In virtù di tutto ciò, studiosi e dilettanti hanno lavorato per secoli sugli studi danteschi che
trovano senza dubbio, nell’opera di un insigne studioso triestino, Baccio Ziliotto5, l’apice della
documentazione e dell’attenzione. Molte notizie da questo fornite sono confortate anche dagli studi
di Giorgio Petrocchi, considerato uno dei maggiori e più attendibili, nonché aggiornati, biografi di
Dante.
         Racconta B. Ziliotto, confortato dai Commentarii Aquileienses (1521) che per circa un anno
il poeta fu ospite a Udine del Patriarca Pagano della Torre che governò dal 1319 al 1332; da qui,
facilmente avrebbe compiuto diversi viaggi soggiornando a Gorizia presso il Conte Enrico II, a
Duino presso il signore Ugone IV e da qui, come testimonia il Kandler, riferendosi a qualche
cronachetta manoscritta, dei secoli XVII e XVIII, ora dileguata, si sarebbe recato a Pola, ospite nel
convento dei Benedettini in S. Michele.
         Molti inoltre ritengono possibili tali viaggi e soggiorni, anche perché Dante sapeva bene di
poter incontrare in Istria numerosissimi fiorentini fuoriusciti come lui, a causa di proscrizioni ed
esili.
         Va ricordato che tutte queste non sono prove documentarie, ma piuttosto attendibili,
soprattutto se si pensa a quanta attenzione sia stata rivolta dagli studiosi dell’area adriatica a tale
interrogativo fin da tempi molto lontani.
         Tra tutti costoro, solo per citarne qualcuno particolarmente illustre, è doveroso ricordare
Pierpaolo Vergerio il Vecchio di Capodistria, il Rossetti, il Muzio, il dalmata Francesco Fortunio e,
nel 1837 Nicolò Tommaseo che redasse il famoso commento alla Divina Commedia, suscitando
plauso ed ammirazione in Italia e non solo.
         Tommaseo era giunto al Commento come ad una prima conclusione dei suoi studi giovanili
su Dante, sollecitato dalla profonda ammirazione per il poeta fiorentino.

4
  D. Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, a cura di V. Sermonti, B. Mondatori Ed., Varese,
  2000.
5
  B. Ziliotto, Dante e la Venezia Giulia, L. Cappelli Ed.,Rocca S. Casciano, 1948.
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        Ampliandosi la sua cultura e maturando l’ingegno, nella solitudine del primo esilio, nacque
il commento nella sua prima stesura e nonostante i clamorosi apprezzamenti, il Tommaseo non fu
soddisfatto del proprio lavoro.
        Continuò ad approfondire il pensiero di Dante e ad individuare sempre maggiori elementi
comuni a lui e al grande maestro.Ciò che rese possibile tanta profonda indagine fu l’affinità di
carattere e di pensiero che accomunava il maggior poeta dalmata e il massimo poeta italiano.
        A seguire, si potrebbero elencare ancora molti studiosi e amanti del “sommo poeta” che si
occuparono di testimoniare questo profondo interesse e legame degli istriani e adriatici in genere per
il “padre Dante”, fino soprattutto al già citato B. Ziliotto, a Michele Barbi che, in realtà, ha
composto (senza dubbio è il termine più adatto) una poeticissima edizione della biografia dantesca e
al contemporaneo Giorgio Petrocchi.
        Da aggiungere, a queste informazioni e non meno importante nella sua valenza culturale e
persino politica, che dalla Venezia Giulia partirono sempre delegazioni e rappresentanti delle
Associazioni dantesche per Firenze o altre città, dove si svolgessero cerimonie in onore di Dante per
i diversi centenari.
        E quando, come in occasione del secentanario del 1865 in pieno periodo di agitazioni
irredentistiche, questo, nelle città giuliane, non fu possibile perché proibito dall’Autorità austro-
ungarica, si verificarono in diverse di esse e a Trieste numerosi episodi “alternativi” che assunsero
chiaramente la dimensione della protesta, narrati con dovizia di particolari dal puntuale Baccio
Ziliotto.
        Tirando le somme, comunque, ciò che conta in realtà, non è sapere o provare che davvero
Dante abbia compiuto questi viaggi, nei luoghi succitati e ne avesse di conseguenza una conoscenza
effettiva, quanto il fatto che da una parte e dall’altra dell’Adriatico, già ai suoi tempi, chiunque
proclamava il valore dell’artista italiano letto e noto a tutti coloro che erano italiani, e che i confini
dell’Italia arrivassero a quel Carnaro (quasi da nessuno conosciuto allora con questo nome
“volgare”) e alla Dalmazia, che apparivano parte della penisola italica, sia nelle carte geografiche
coeve, sia nella loro costituzione politica e culturale.
        Ma per comprendere fino in fondo i motivi per cui tanto attaccamento all’immagine di Dante
viene dimostrato dai Giuliani, bisogna certamente andare a considerare la tematica dell’esilio.
        L’esilio è, anzitutto lacerazione affettiva,abbandono di “ogni cosa diletta più caramente”,
separazione e bando dalla comunità di cui si è originari.
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          E chi, meglio dei Giuliano-Dalmati che hanno vissuto sulla loro pelle tale penosissima
esperienza, potrebbe comprenderne il peso e per questo sentirsi in ciò intimamente e
simbolicamente parte dello spirito dantesco, in esso identificandosi ?
          L’esilio genera in chi lo vive, la consapevolezza del torto subito e nel contempo l’orgoglio di
una propria elevazione morale.
          In quell’ovile, Dante è stato “agnello” contro i “lupi” e la sua vicenda dal piano
angustamente biografico, assurge ad emblema dell’ingiustizia e può essere paragonata a quella delle
grandi vittime celebrate dalla poesia degli antichi “qual si partio Ippolito d’Atene” (Paradiso, canto
XVII, v.46) e alle vicende vere degli uomini di tutti i tempi.
          La duplice coscienza dell’ingiustizia patita e, nello stesso tempo, della sua superiorità
morale, quando si dichiara nelle Epistole “exul immeritus”, metterà in moto tutta una dinamica
psicologica : il vinto della storia avrà una compensazione nel tempo dello spirito e un
riconoscimento di verità e di riabilitazione anche nel tempo umano.
          Quanto suonano profetiche alle orecchie degli esuli tali considerazioni!
Il dolore e la lacerazione insanabile provata dai Giuliano-Dalmati troverà e sta già ora, finalmente
trovando momenti di requie, grazie alla ricostruzione reale e storicamente onesta che in questi
ultimi tempi si sta effettuando in merito alla loro vicenda da più parti, culturali e politiche.
          Quanto è giusto tutto questo! E quanto sarebbe stato giusto fosse avvenuto prima!
Per poter dare ai tanti, troppi che se ne sono andati con la morte nel cuore, privi persino di un
riconoscimento morale, questa consolazione, che forse di tutte, è la più grande.
          Non le cose materiali, ma i valori, i grandi principi, gli ideali e quei legami viscerali con la
propria terra d’origine, quella che oggi ha riacquisito la dignità del termine Patria, così
ostinatamente sottolineato dal nostro presidente Ciampi, sono ciò che veramente di noi rimane nella
storia!
          Torna subito alla memoria quella Patria, così fortemente evocata da Sordello da Goito nel VI
canto del Purgatorio, dove è sufficiente sapersi provenienti dalla stessa terra, pur senza essersi mai
realmente conosciuti, per ritenersi fratelli ed emozionarsi.
Dice Sordello al v. 74 : 6

              O Mantoano, io son Sordello,
              de la tua terra! E l’un l’altro abbracciava.

6
    D. Alighieri, Dina Commedia, Purgatorio, canto VI, vv.74-75.
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          Ma è, senza dubbio, la famosissima trilogia di Cacciaguida, avo del nostro poeta, ancor più
che qualunque altro passo, che assume un significato assolutamente tangibile, per il mondo degli
esuli.
          Già in precedenza nelle altre due Cantiche egli aveva fatto effettuare a diversi personaggi,
riferimenti velati al suo prossimo triste destino, che sentiva incombergli addosso.
          Difatti nell’Inferno Ciacco pronuncia             parole sibilline e, poco più avanti, nel canto X
Farinata degli Uberti colpirà pesantemente con l’oscura profezia, l’animo affannato di Dante.
          Ma è proprio l’antenato, nei canti XV, XVI e XVII in particolare che, dopo aver effettuato
un rapido excursus sui tempi andati, durante i quali non vi era la corruzione e l’odio, portatore dei
mali peggiori, dapprima accoglie inizialmente quasi con parole affettuose il poeta, “cara piota mia
che sì t’insusi”(cara mia pianta, mia discendenza, che così ti innalzi, sia per i riconoscimenti
artistici, sia per il livello morale), per poi passare alle dolenti note con cui verrà, una volta per tutte,
chiarita la profezia.
          Il linguaggio di Cacciaguida si fa ricco di significati riposti e traslati, di metonimie, con cui
trasporre nella concretezza degli oggetti e dei particolari l’ossessione psicologica del male
incombente.
          Si esprime così nella grande rivelazione, l’antico fiorentino : 7

              Tu lascerai ogni cosa diletta
              più caramente; e questo è quello strale
              che dall’arco de lo esilio pria saetta.
              Tu proverai sì come sa di sale
              lo pane altrui, e come è duro calle
              lo scendere e ‘l salire per l’altrui scale.
              E quel che più ti graverà le spalle,
              sarà la compagnia malvagia e scempia
              con la qual tu cadrai in questa valle :
              …

          Un cumulo di cose pungenti, amare, dure, esplicate attraverso verbi crudeli; epiteti taglienti,
come quell’altrui ripetuto, che dice tutto sulla miseria offensiva dell’esule e la miseria resa ancora
più degradante per il poeta, dai compagni di sventura e per i nostri esuli, dalle non sempre dignitose

7
    D. Alighieri, Ibidem, Paradiso, canto XVII, vv.55-63.
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accoglienze loro riservate, quando anzi, tutto ciò non è stato infarcito anche di fastidio e malevola
indifferenza.
Esiti più dolorosi non potrebbero essere spettati ad un uomo onesto e ad un popolo onesto!
          Ma, dal momento più doloroso del canto, pur virilmente contenuto con la stessa nobiltà
d’animo dimostrata dagli esuli Giuliani, spunta come un debole germoglio la consapevolezza che
nel tempo, nella storia, nella società civile e nel mondo dello spirito, quello francescano e profondo,
e quello dell’immensa magnanimità di Dio, in cui crede fermamente Dante e in cui si sono stretti
spesso i nostri esuli, giustizia sarà fatta e la verità sarà proclamata a chiare lettere a tutti.
          E’ forse questo, quel momento, per il mondo dell’Esodo?
Dante ha ottenuto pieni riconoscimenti e giustizia, forse è l’ora in questo passaggio storico così
delicato e fragile, ma altrettanto pieno di stimoli e fervori nuovi, delle popolazioni adriatiche.
          Forse, come dice il poeta, al v. 133,8

                         Questo tuo grido farà come vento,
                         che le più alte cime più percuote;
                         e ciò non fa d’onor poco argomento.

          Il sentimento di questa gente strappata alle proprie radici e dispersa ovunque nel mondo si
sintetizza dunque, perfettamente, nel pensiero e nello spirito di Dante e, ricorda Baccio Ziliotto, è
stato ad esempio eternato, come in tanti monumenti, così nella medaglia coniata dai profughi
istriani stanziatisi a Venezia: nel recto l’Istria coronata di spine, come il Cristo sulla croce, la data
del 10 febbraio e il motto:

                          Meglio l’esilio che la schiavitù

nel verso, la fatidica terzina di Dante, cui precedentemente si è fatto riferimento.
          E’ decisamente evidente a tal punto, allora, per quali motivi Dante sia divenuto e rimanga
per gli esuli una sorta di nume ed augurio, di spirito, che illumina l’umanità fuorviata nel deserto
della cupidigia, della superbia e della sopraffazione.
          Il poeta ha auspicato per sé stesso la riconciliazione dello spirito che anche noi oggi, in
seguito alle contingenze storiche e a questa nuova dimensione europea che abbassa le frontiere,
possiamo sperare di raggiungere e condividere con quanti ancora sono presenti e quanti verranno,

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    D. Alighieri, Ibidem, Paradiso, canto XVII, vv.133-135.
Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia :: www.anvgd.it

indipendentemente da qualunque linea di demarcazione, per identificarci tutti in un sentimento e in
un’unica matrice culturale di italianità.
                                                                                 Donatella Schürzel
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