Il segreto di rembrAndt - Alex Connor traduzione di teresa Albanese

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Alex Connor

                     il segreto
                   di rembrandt
                    Traduzione di Teresa Albanese

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni
           dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
           analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

                                        ISBN 978-88-04-61224-7

                                     Copyright © Alex Connor 2011
                                 Originally entitled The Rembrandt Secret
                        Published by arrangement with Quercus Editions Ltd (UK)
                            © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
                                        Titolo dell’opera originale
                                           The Rembrandt Secret
                                        I edizione settembre 2011

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il segreto di rembrandt

                                                            A mio padre

                        Prima di intraprendere la strada della vendetta,
                        scava due fosse.
                                                             confucio

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           Amsterdam
           Era riverso in avanti, con la testa immersa nella tazza del ga-
           binetto, le gambe piegate, i pantaloni abbassati. Il sangue gli
           gocciolava dalle natiche, la parte superiore delle cosce era livida.
           Sul pavimento, di fianco al suo grasso ginocchio destro, giaceva
           lo scopino con il manico insanguinato. Una serie di piccoli tagli
           gli copriva la parte bassa della schiena, e la pelle dello scroto
           era punteggiata di bruciature. Sulla nuca aveva segni di dita,
           e i polsi erano legati con il filo dorato che in genere si usa per
           appendere i quadri.
              La sua morte era stata lenta. Aveva lottato, sfregato i polsi
           contro il filo che gli aveva scavato la carne, in certi punti fino
           all’osso. La sua testa era stata immersa più volte nella tazza
           piena, poi tirata fuori e di nuovo immersa. Quando l’acqua aveva
           iniziato a entrargli nei polmoni, il suo corpo aveva reagito e gli
           si era formata della schiuma agli angoli della bocca, una bianca
           schiuma di morte. All’impatto con l’acqua, la vittima aveva
           sbarrato gli occhi e le pupille erano diventate dischi opalescenti
           mentre fissavano il fondo della tazza senza vederlo.
              L’assassino aveva voluto assicurarsi che la morte di Stefan
           van der Helde terrorizzasse non solo le persone che lo avreb-
           bero trovato, ma anche i suoi soci in affari e le persone della
           sua cerchia. Lo aveva sodomizzato per smascherare la sua
           omosessualità nascosta, umiliarlo e distruggere un protagonista
           del mondo dell’arte. Ma c’era dell’altro, un particolare per cui

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nessuno avrebbe più dimenticato la morte di Van der Helde.
           Durante l’autopsia, il medico legale gli trovò delle pietre nello
           stomaco. A quanto pareva, era stato costretto per ore a ingoiare
           sassi, uno dopo l’altro, uno più grande del precedente, finché
           non aveva rischiato di strozzarsi. Anche quando il suo esofago
           aveva reagito ed era stato preso dagli spasmi, lo avevano ob-
           bligato a continuare. Aveva la gola contusa, addirittura lacerata
           in alcuni punti.
              Erano state rinvenute venti pietre nello stomaco di Stefan
           van der Helde. L’acqua che lo aveva soffocato, e le venti pietre.
           Il medico legale non aveva idea di cosa potessero voler dire, la
           polizia nemmeno. Nessuno ne conosceva il significato. Quando
           lo scoprirono, il settore era già in preda alla recessione: le case
           d’aste perdevano patrimoni a causa del crollo delle vendite, i
           galleristi erano costretti alla bancarotta, vecchi debiti venivano
           riscossi e antichi favori pretendevano di essere ricambiati. Mentre
           l’anno si trascinava verso una primavera incerta e claustrofobica,
           l’ambiente artistico internazionale era immerso in una crisi che
           nessuno aveva visto arrivare e per cui nessuno era preparato.
              Dietro alle eleganti vetrine e alle reputazioni scintillanti,
           strisciava lo sfondo corrotto del mondo dell’arte. Nel giro di
           qualche mese, il crollo finanziario del mercato fu accompagnato
           da una degenerazione morale che non lasciò nessuno incolume,
           e produsse quattro cadaveri.
              Era, come disse qualcuno, una selezione naturale.

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           Londra, ai giorni nostri
           Nel centro pulsante della metropoli, nel groviglio di strade che
           circonda l’arteria di Piccadilly, si annida Albemarle Street. Ogni
           edificio della via è diverso dagli altri. Agli ingressi delle sfavil-
           lanti boutique di vestiti firmati, uscieri in abiti funerei aprono
           le porte ai turisti e alle mogli di oligarchi russi. Altri negozi
           sono lì da più di un secolo, e una patina polverosa di snobismo
           corteggia il passante con vetrine che ospitano scarpe su misura
           o sigari artigianali. In mezzo alle insegne fornitore della casa
           reale e alle scatole di Tiffany, si trova la Zeigler Gallery.
              Inaugurata senza troppi clamori nel 1845, era passata di mano
           varie volte prima di chiudere i battenti durante la Seconda guerra
           mondiale. L’edificio, in stato di abbandono e privato dei suoi
           quadri, aveva affrontato i bombardamenti senza occupanti, per-
           ché l’appartamento al primo piano era rimasto disabitato. Gli
           affitti erano troppo alti, il proprietario troppo avido. Nel pieno
           della guerra, un misterioso incendio era divampato nella galleria.
           Qualcuno diceva che fosse stato provocato da un barbone che vi
           si era intrufolato e si era addormentato con la sigaretta accesa.
           Peccato che non fossero stati trovati né il barbone né la sigaretta,
           nemmeno un mozzicone. Poco dopo, era avvenuta un’altra di-
           sgrazia: un soldato in licenza era stato ucciso, e il suo corpo era
           stato rinvenuto nel retro della galleria, nascosto tra le casse da
           imballaggio vuote. Il soldato, che non indossava la piastrina di
           riconoscimento e non aveva documenti addosso, non era mai stato

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identificato, e l’omicidio era rimasto irrisolto. La morte del soldato
           sconosciuto aveva gettato un’ombra sull’edificio, e la galleria ci
           aveva guadagnato un fantasma, almeno così si diceva in giro.
              Poi, nel 1947, la galleria era stata riaperta da un uomo chiamato
           Korsawaki. Era arrivato da Varsavia, dove era stato costretto
           a lasciare un patrimonio e una famiglia, per tentare di farsi un
           nome a Londra. Nella sua città d’origine era stato un mercante
           di qualche successo, ma negli anni austeri del dopoguerra non
           era riuscito a combinare molto nella capitale inglese. Costretto
           a vendere stampe di terz’ordine, aveva fatto i salti mortali per
           pagare l’affitto e infine, all’inizio del 1949, se n’era andato. Gli
           erano succeduti, con risultati poco entusiasmanti, alcuni altri
           galleristi, e il locale si era fatto la reputazione di portare sfor-
           tuna. Abbandonato alla sua sorte mentre il quartiere intorno
           prosperava, aveva vissuto un breve momento di gloria come
           caffè. Presto, però, il tintinnare dei piattini e la vivacità delle
           conversazioni erano cessati, e le porte si erano chiuse di nuovo.
              E così erano rimaste finché, in un gelido mattino del 1963, un
           giovane si era fermato in Albemarle Street e aveva notato il car-
           tello vendesi in vetrina. Incuriosito, Owen Zeigler si era chinato
           in avanti per sbirciare all’interno, ma era riuscito a distinguere
           solo una stanza vuota con una scala su un lato e un lucernario
           sul fondo. Aveva tentato di aprire la porta, che però era chiusa
           a chiave, e così aveva fatto un passo indietro per guardare l’ap-
           partamento al piano di sopra, rischiando di finire sotto un’auto-
           mobile. Le finestre non lasciavano intravedere nulla, ma Owen
           si sentiva attratto da quel posto per un motivo che gli sfuggiva.
           Intrigato, aveva riprovato invano ad aprire la porta e infine si
           era annotato il nome e l’indirizzo dell’agente immobiliare.

           Quel pomeriggio aveva fatto visita allo studio Lyton and Gold-
           thorne per chiedere informazioni sulla galleria. I due agenti,
           fiutando un possibile acquirente per una proprietà che si era
           rivelata praticamente invendibile, avevano incoraggiato il suo
           interesse. Il signor Lyton aveva accompagnato subito Owen
           alla galleria, aprendo la porta e scortando all’interno il poten-
           ziale cliente. Chiacchierando con lui, Lyton aveva saputo che
           Owen aveva le spalle coperte e che suo padre era commerciante
           nell’East End.

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Quello che Owen non aveva detto all’agente era che Neville
           Zeigler non trattava solo opere d’arte, ma una varietà di “oggetti
           di recupero”: era un ebreo che aveva imparato sulla sua pelle
           come funzionano gli affari, abbastanza astuto da sviluppare
           un occhio per le cose vendibili e, successivamente, per quel-
           le di valore. Nel corso degli anni, Neville aveva instillato nel
           suo unico figlio un’ambizione sfrenata. Portava Owen a Bond
           Street e Cork Street per mostrargli le gallerie e dirgli, o meglio
           ripetergli fino allo sfinimento, che un giorno in quel crogiolo di
           sfarzo e cultura ci sarebbe stata una Zeigler Gallery. Grazie a un
           accanimento che avrebbe potuto scoraggiare un ragazzo meno
           intraprendente, Owen aveva imparato a trasformare il suo fiuto
           naturale in un talento. Le lunghe ore di lavoro di Neville nell’East
           End avevano consentito a Owen di studiare all’università, e il
           figlio aveva ripagato il padre dei suoi sforzi.

           Quando fece il suo ingresso nell’arena del mondo dell’arte,
           Owen Zeigler era un giovane intelligente, esperto e sicuro di sé.
           Avrebbe potuto passare per uno studente delle classi più alte,
           l’erede naturale di una professione nel campo della cultura.
           Con le sue capacità innate e il suo curriculum di studi, faceva
           progressi continui. Ma ciò che la gente non conosceva era l’altro
           lato di Owen Zeigler, il lato che aveva ereditato dal padre ebreo
           insieme all’impareggiabile fiuto per gli affari.
              Incoraggiato dal vedovo Neville, che sapeva quali cifre giras-
           sero nel mercato dell’arte, Owen imparò a passare sotto silenzio
           le sue umili origini e a continuare la “scalata”.
              “La tua fortuna è che hai i piedi in due staffe” gli disse Neville.
           “Hai una buona preparazione culturale, ma hai anche l’astuzia
           della gente di strada. Fanne buon uso, e ricordati: ai piani alti
           c’è un sacco di spazio.”
              Naturalmente, il signor Lyton non sapeva niente di tutto ciò,
           ma restò sorpreso quando Owen tornò da lui il giorno dopo
           dicendo di aver scoperto la fosca storia della galleria e se ne
           avvalse come arma di contrattazione. In breve Owen Zeigler
           diventò il nuovo proprietario della galleria, nel giro di tre set-
           timane gli interni furono ridipinti, l’appartamento di sopra fu
           arredato, e all’esterno campeggiò una nuova insegna: con un
           parto semplice e indolore, era nata la Zeigler Gallery.

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In quello stesso, aspro inverno, Owen fece un’inaugurazione
           a cui tutti i suoi vicini parteciparono per poterlo criticare, alcu-
           ni di loro prefigurando un disastro per Zeigler. Invece, pochi
           minuti dopo aver varcato la soglia, i galleristi di Dover Street
           e di Bond Street capirono di avere di fronte un nuovo concor-
           rente. Il mercato all’epoca era inondato di arte francese e gli
           impressionisti con le loro evanescenti scene campestri stavano
           diventando quasi un noioso luogo comune. Owen scelse quindi
           un’altra specializzazione, la pittura olandese, trattando non i
           nomi eclatanti come Rembrandt o Vermeer, che non poteva an-
           cora permettersi, ma gli artisti minori e i pittori di nature morte.
              In quel freddo giorno d’inverno del 1963 erano esposti solo
           venti dipinti, ma alla fine del mese diciotto erano stati venduti.
           La carriera di Owen Zeigler era lanciata. Forse non come un
           lussuoso transatlantico che solca gli oceani, ma come una velo-
           ce, agile imbarcazione capace di cavalcare le onde del mercato
           dell’arte e uscirne indenne...

           A questo stava pensando Marshall, il figlio di Owen Zeigler,
           mentre guardava incredulo suo padre.
              «Dove sono andati a finire tutti i tuoi soldi?» chiese Marshall.
              Owen si strinse la testa tra le mani. A settant’anni suonati, non
           ne dimostrava più di sessantacinque. Anni di cure meticolose e
           lunghe passeggiate nei parchi londinesi lo avevano mantenuto
           snello, e i suoi capelli, benché grigi, erano folti e ben tagliati. Di
           fronte a lui c’era la scrivania che aveva usato fin dal primo giorno
           di lavoro in galleria, su cui erano stati firmati tanti assegni, e al
           di sopra della quale c’erano state infinite strette di mano. Alla
           parete era appeso un quadro dell’olandese Jan Steen, un’opera
           di valore, come tutti i pezzi della galleria, tanto che negli anni
           l’assicurazione era regolarmente aumentata per adeguarsi al
           successo di Owen. All’esterno le luci rosse del sistema d’allar-
           me collegato alla vicina stazione di polizia scintillavano come
           luminarie di Natale fuori stagione.
              Senza spostare gli occhi dal padre, Marshall ripensò alla sua
           infanzia. Aveva vissuto fino a dieci anni nell’appartamento sopra
           la galleria, poi, dopo che Owen si era arricchito, la famiglia si era
           trasferita fuori Londra, in una villa di campagna, Thurstons. Il
           gallerista dormiva nell’appartamento nei giorni feriali e andava

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a passare i weekend in quell’emblema georgiano di successo nel
           mercato del lusso. Quando la madre di Marshall era morta, però,
           Owen aveva iniziato a passare sempre più tempo in Albemarle
           Street, affidando il figlio alle cure di una governante, e quindi
           alle attenzioni severe di una scuola privata.
               «Dove sono finiti i soldi?» ripeté Marshall.
               Suo padre accennò una scrollata di spalle, ma si interruppe
           a metà. «Devo fare qualcosa... per forza.»
               Per la prima volta, Marshall notò che i capelli del padre si
           stavano un po’ diradando sulla sommità del capo. Nemmeno
           il suo esperto barbiere riusciva più a camuffarlo, pensò, sapen-
           do che la cosa avrebbe imbarazzato Owen, poi notò le vene in
           rilievo sulle sue mani, le macchie che chiazzavano la sua pelle
           abbronzata. Suo padre stava diventando vecchio, si disse Mar-
           shall, con un’inspiegabile nota di commozione. Tutte le piccole
           vanità di Owen erano ormai visibili, lampanti... Marshall distolse
           lo sguardo, pensando alla telefonata che lo aveva richiamato a
           Londra, alla richiesta del padre di rientrare dall’Olanda.
               “Devo parlarti” gli aveva detto Owen con voce tremante e
           spaventata. “Se solo potessi tornare a casa.”
               Lui l’aveva fatto al volo, perché suo padre non era mai stato
           possessivo o esigente. Certo, Marshall avrebbe voluto passare
           più tempo con lui quando era piccolo, o quando si era trovato a
           piangere la perdita della madre, ma nel periodo dell’adolescenza
           aveva capito che l’affetto di suo padre non gli era stato negato. Si
           era semplicemente spento. Dopo aver perso la moglie in modo
           così improvviso per un incidente aereo, Owen aveva passato i
           successivi dieci anni ad aspettare, quasi come se un altro aereo
           – reale o immaginario – avesse potuto riportarla indietro, come
           se, rifiutando di accettare la sua scomparsa, avesse potuto ve-
           derla arrivare prima o poi in qualche terminal spirituale, dove
           lui l’avrebbe aspettata all’uscita per riportarla a casa.
               Solo che lei non era più tornata, e Marshall aveva visto suo
           padre guardare in faccia la realtà dieci anni dopo la sua morte.
           Aveva assistito al suo dolore, sedendo con lui nella casa di
           campagna, a fissare il focolare o il panorama. Aveva ascoltato
           vecchi ricordi che non erano mai stati suoi, ricordi che risalivano
           a prima della sua nascita, e si era reso conto che nel cuore di
           alcuni uomini c’è spazio per un’unica donna, e se quella donna

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viene a mancare, lo spazio non può essere colmato mai più. Con
           un padre così inconsolabile, Marshall aveva dovuto superare
           la sofferenza con le sue forze, e quando Owen lo aveva solleci-
           tato a parlare di sua madre, aveva ormai elaborato il lutto. Era
           una cosa bellissima ma fuori dal tempo, come i vecchi dipinti
           francesi di suo nonno.

           Riportando il pensiero al presente, Marshall ripeté: «Hai detto
           che i soldi sono finiti?».
              «Tutti» disse Owen, annuendo.
              «Come?»
              «Debiti.»
              «Debiti?» Marshall era sconvolto. Suo padre non gli aveva
           mai accennato di essere a corto di denaro. «Non hai mai detto
           di avere dei problemi. L’ultima mostra è stata un successo...»
              Owen alzò gli occhi sul figlio e lo fissò. «Mi hanno fregato.»
              “Mi hanno fregato.” Le parole sembrarono diffondersi nella
           galleria, rasentare i binari a cui venivano appesi i quadri, sci-
           volare sulla seta rossa delle pareti e infine insinuarsi sulle scale,
           verso il buio. Una strisciante apprensione avvolse Marshall, la
           stessa sensazione che provava da piccolo quando dormiva al
           piano di sopra e ripensava alla tetra storia dell’edificio e av-
           vertiva la presenza dello spettro del soldato senza nome. Quel
           giovane usciva di notte, girovagava per la galleria e infine saliva
           le scale nel buio.
              «Chi è stato?»
              «Non avrei mai dovuto dargli retta.»
              «A chi? Di chi stai parlando?»
              «Di Manners.»
              Manners. Il nome cadde come una mannaia, fendendo l’aria
           tra i due uomini. Tobar Manners, uno dei più vecchi amici e
           colleghi di Owen, con le piccole mani arrossate e i capelli spiri-
           tati, svelto, furbo, umorale, sempre gentilissimo con suo padre,
           anche se a Marshall mostrava un’altra faccia. Era stato proprio
           lui, infatti, a raccontargli del soldato ucciso, felice di spaventare
           un bambino con storie di fantasmi per poi scoppiare a ridere
           e dire che voleva solo prenderlo in giro, ma sapendo di avere
           insinuato nella sua mente un tormento. Molte delle notti agi-
           tate della sua infanzia Marshall le imputava a Tobar Manners.

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Spesso, svegliandosi per un rumore improvviso, aveva dato la
           colpa all’ambiguo amico del padre.
              «Cosa ha fatto?»
              Owen scosse il capo.
              «Papà, cosa ha fatto?»
              «Da qualche tempo mi sono indebitato» disse Owen piano,
           scandendo bene le parole, come se così facendo potesse tenere
           a bada il panico. «Gli affari vanno male, i collezionisti non in-
           vestono e anche le case d’aste stanno subendo perdite. Alcune
           gallerie hanno persino dovuto chiudere.» Fece una pausa per
           prendere fiato. «Negli ultimi anni ho comprato troppo. Ero in-
           cappato in alcuni quadri interessanti e pensavo che non avrei
           avuto difficoltà a venderli, ma poi è scoppiata la crisi. Sono in
           pochi ad acquistare in questo periodo...»
              «Ma i grossi collezionisti?»
              «Prendono tempo.»
              «Tutti?»
              «No, ma quelli che investono non sono abbastanza per im-
           pedirmi di andare in rosso.»
              «Maledizione!» Marshall si sedette vicino al padre. «E la casa?»
              «Ho dovuto ipotecarla.»
              «I quadri!» disse Marshall, preso a sua volta dal panico «Vendi
           tutto quello che hai. Magari ci perderai qualcosa, ma almeno
           ricaverai un po’ di liquidi.»
              «Non basterebbe» rispose Owen piano, tormentandosi le mani.
           «Non volevo dirti quanto fosse grave la situazione. Pensavo di
           poterne uscire, ho pensato che se... Ho venduto il Rembrandt...»

           Marshall alzò piano la testa e guardò suo padre negli occhi.
           Quel quadro era di proprietà di Owen dal 1964, quando l’aveva
           acquistato in Germania. All’inizio pensava che fosse stato dipinto
           da Ferdinand Bol, un allievo di Rembrandt, ma dopo diversi
           test e un’approfondita ricerca, si era dimostrato autentico. Era
           stato il primo, spettacolare trionfo della carriera di suo padre, un
           suggello del suo fiuto di mercante. Marshall ricordava di aver
           sentito raccontare tante volte quella storia da Owen e dal suo
           mentore, Samuel Hemmings. “Ora devi guardarti le spalle” gli
           aveva detto allora Samuel. “Hai dei nemici, adesso.”
              «Hai venduto il Rembrandt?»

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«L’ho portato da Tobar Manners...»
              «Ebbene?»
              «Ha detto che non era autentico, che era di Ferdinand Bol,
           come avevamo pensato all’inizio...»
              «Ma quel quadro era autentico!»
              «Dipende tutto dall’attribuzione, Marshall» tagliò corto il
           padre. «Non ci sono prove inconfutabili...»
              «Samuel Hemmings aveva sostenuto la tua opinione» lo in-
           terruppe Marshall. «Il suo nome avrà pure un peso, no?»
              «Samuel è uno storico controverso, lo sai. Quello che dice è
           accettato da alcuni e fermamente contestato da altri.»
              «Soprattutto quando ci sono i soldi di mezzo.»
              Di colpo, Owen si infiammò, e la sua imperturbabile cortesia
           fu offuscata dal rancore.
              «So cosa pensi del mercato, Marshall! Non puoi dirmi nulla
           che io già non sappia. Hai deciso di non avere niente a che fare
           con la galleria o con il mondo dell’arte. Benissimo, è stata una
           tua scelta, ma la mia vita è questa: puoi disprezzarla quanto
           vuoi, ma è la mia passione.»

           Quella questione li aveva sempre divisi. Owen aveva dedicato la
           vita al commercio dell’arte, ma a Marshall non sfuggiva la realtà
           del mercato, visto che, per l’appunto, di un mercato si trattava.
           Un piccolo ambiente cinico e spietato dove una manciata di
           uomini onesti trattava con la legione di quelli privi di scrupoli.
           I mercanti che avevano ereditato le gallerie lavoravano gomito
           a gomito con titani che si erano comprati la loro posizione sul
           mercato. Commercianti della vecchia scuola facevano affari
           con truffatori che arruolavano offerenti fittizi per far lievitare i
           prezzi dei loro quadri alle aste. Non tutte le case d’aste erano
           irreprensibili: i giochi di prestigio andavano per la maggiore.
           Se un quadro non raggiungeva il prezzo di riserva, si fingeva di
           venderlo, e invece veniva “bruciato”, messo da parte per anni
           finché il mercato se n’era dimenticato o si presumeva che fosse
           stato rimesso in vendita da un privato. Era un modo per far sì
           che nessun autore famoso perdesse la sua aura o il suo valore
           di mercato, perché il valore di mercato era fondamentale. Per
           ogni Cézanne che sfondava la quotazione e fissava un nuovo
           parametro di riferimento, una dozzina di altri Cézanne in musei

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e collezioni private aumentavano di valore. Negli anni Sessanta,
           Settanta e Ottanta, il mercato aveva gonfiato il valore dei Van Gogh
           al punto che un compratore, per questioni assicurative, aveva
           dovuto tenere il dipinto in magazzino per dodici anni. A forza
           di alzare le quotazioni, l’arte veniva tolta dalle gallerie e dalle
           pareti per finire nelle tombe d’acciaio dei caveau delle banche.
              Marshall sospirò, rendendosi conto che non era il momento di
           riesumare quel vecchio conflitto e moderò i toni. «Così Manners
           ha detto che non era un Rembrandt?»
              Owen annuì. «Ha detto che era di un allievo di Rembrandt.
           Tra l’altro, sul dipinto non c’era la firma...»
              «In molti quadri di Rembrandt manca la firma!» scattò Mar-
           shall. «Questo non ha mai impedito di attribuirglieli, e Dio sa
           se non ci sono fior di quadri firmati da lui la cui autenticità non
           è affatto indubbia.»
              «Tobar era certo che il mio non fosse autentico. Quando gli ho
           chiesto di comprarmelo, gli hanno detto che era di Ferdinand Bol.
           Lo ha fatto valutare due volte, l’ha fatto analizzare in tutti i modi.»
              «Da chi?»
              «Da due specialisti!» esclamò Owen, esasperato. «Tobar era
           così mortificato. Ha detto che mi avrebbe dato il più possibile,
           ma non quanto avrei ottenuto con un Rembrandt autentico...
           Maledizione, io di lui mi fidavo. Lo conosco da anni, non avevo
           motivo di sospettare.»
              Marshall si vide passare davanti tante immagini sparse – Natali,
           mostre private, visite alla galleria – e in ognuna di esse c’era Tobar
           Manners. Era sempre presente, a volte da solo, a volte con altri.
           Lui, Samuel Hemmings e altri amici di suo padre che parlavano,
           ridevano, si raccontavano storie su galleristi e clienti... I pette-
           golezzi passavano di calice in calice, le informazioni venivano
           scambiate tra il caviale e le tartine, rivoli d’odio scivolavano
           nelle orecchie avide.
              «Dunque cosa ha fatto?» chiese infine Marshall.
              «Mi ha comprato il quadro.»
              «E poi?»
              «L’ho appena scoperto» disse Owen. «Poco fa. L’asta a New
           York. Qualcuno mi ha mostrato il catalogo e c’è, o meglio c’era,
           il mio quadro, lo stesso che Tobar mi aveva comprato come un
           Ferdinand Bol, solo che nel catalogo figurava come Rembrandt.

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È stato venduto come un Rembrandt!» Parlava a raffica. «Tobar
           Manners mi ha dato solo una minima parte del suo valore! Mi
           ha fregato!»
              Marshall guardò il padre, sconvolto. «Gli hai parlato? Gli hai
           chiesto spiegazioni?»
              «Ha detto che non è stata colpa sua!» rispose Owen. La sua
           voce si era alzata, e la rabbia gli infiammava le guance. «Ha
           detto di averlo venduto a qualcuno come un Ferdinand Bol, e
           di essere stato imbrogliato lui stesso!»
              «Ma tu non gli credi, vero?»
              «Certo che no!» esclamò Owen, alzandosi in piedi e avvici-
           nandosi alla finestra.
              Con sua grande sorpresa, Marshall vide che il padre stava
           tremando: il suo corpo elegante fremeva, le sue mani si aprivano
           e si stringevano ossessivamente.
              «Ha fatto una fortuna con quella vendita» proseguì Owen.
           «Ha battuto tutti i record per un Rembrandt prima maniera. Una
           fortuna con cui avrei potuto salvare la galleria, una fortuna che
           spettava a me! Cristo santo» disse disperato. «Sono rovinato.»
              Vedendo la disperazione del padre, Marshall tentò di calmarlo.
           «Senti, puoi vendere il magazzino, tutto quello che hai. Ci sono
           migliaia di sterline appese a queste pareti: potresti racimolare
           un bel gruzzolo.»
              «Non abbastanza.»
              «Deve pur essere abbastanza!» rispose suo figlio con un moto
           di panico. «Chiama i tuoi collezionisti, metti all’incanto tutto
           quello che hai, telefona ai tuoi contatti. Deve esserci un modo
           di trovare i soldi...»
              «Non basterà mai!» gridò Owen. Ormai aveva perso ogni
           controllo. «Ho debiti di cui tu non sai niente, debiti con molte
           persone, alcune delle quali mi stanno facendo pressione. Non
           posso permettermi di mantenere la galleria. Ho continuato a
           pensare che le cose sarebbero andate meglio, e poi sono arrivati
           tempi di magra per tutti. Le persone hanno continuato a com-
           prare, ma negli ultimi mesi sempre meno. Non posso vendere
           tutto, Marshall, non guadagnerei quello che mi serve. Mi restava
           solo il Rembrandt. È sempre stato sullo sfondo, come una rete
           di sicurezza. Sapevo che con quello avrei fatto abbastanza soldi
           per pagare i debiti e rimettermi in piedi, solo che Manners...»

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Si interruppe a metà della frase. La sua rabbia stava scemando,
           e quando ricominciò a parlare emanava una calma inquietante.
           «Non lo ammetterà mai, ma mi ha fregato. Mi ha mentito, sa-
           pendo che navigavo in cattive acque... Quante volte quell’uomo
           è venuto a casa mia? Quante volte in questi anni l’ho tirato fuori
           dai guai? Quante volte gli ho prestato soldi per aiutarlo a tirare
           avanti quando era in difficoltà?»
              Owen non parlava più con il figlio, si limitava a fissare la
           scrivania di fronte a sé. «Ero qui da poco quando Tobar Manners
           venne a presentarsi. A tua madre non è mai andato a genio, ma io
           ho sempre pensato che fosse perché poteva sembrare pettegolo,
           e a lei i pettegolezzi non piacevano. E quando è morta, Tobar è
           stato molto affettuoso con me...»
              “È una sanguisuga” avrebbe voluto dire Marshall. “Mia
           madre lo sapeva, e anch’io, persino da bambino. E poi non è
           intelligente, non ha un briciolo del tuo talento. Come ha fatto
           ad abbindolarti? Non è nemmeno degno di allacciarti le scarpe.
           Ridevi di lui con Samuel Hemmings, senza cattiveria, con indul-
           genza. Eppure lo hai lasciato entrare nella tua vita, hai lasciato
           che si prendesse troppe libertà. Dio, come hai fatto a essere così
           stupido con l’uomo più viscido della terra?”
              «Ho un po’ di soldi da parte. Posso darteli.»
              «No, non voglio usare i tuoi soldi» rispose Owen, poi gli
           sorrise dolcemente, come se quell’offerta avesse alleviato per
           un attimo la gravità della situazione.
              «Cosa pensi di fare?»
              «Me la caverò, in un modo o nell’altro.» Tentava di tenere a bada
           il panico, di mettere un coperchio sulla bruciante marea della sua
           disperazione. «Parlerò di nuovo con il contabile e con la banca.»
              «Pensi che potranno aiutarti?»
              «Non lo so. Forse...» rispose. Aveva ritrovato il suo contegno.
           Era di nuovo Owen Zeigler, non un ometto impaurito. «Non
           ti preoccupare per me, ero solo sconvolto per quello che è suc-
           cesso. Non avrei dovuto disturbarti, farti preoccupare. Troverò
           il modo di uscirne.»
              Poco convinto, Marshall si guardò attorno. «Hai bisogno di
           cambiare aria. Dovresti andartene di qui per un po’, papà, ti
           aiuterebbe a ragionare a mente lucida. Potrei venire a stare un
           po’ con te a Thurstons. Non devo tornare subito ad Amsterdam.»

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«Forse...»
              «Ti farebbe bene» insistette Marshall. «Se vuoi possiamo
           parlare, altrimenti ti riposi e basta.»
              Owen annuì, ma distolse lo sguardo. Lo imbarazzava l’idea
           che suo figlio lo considerasse un fallito. Si vergognava di essersi
           fatto prendere dal panico, di aver piagnucolato come un bambi-
           no. In fondo, cosa poteva farci Marshall? Non aveva i soldi per
           salvarlo, e non avrebbe mai potuto immaginare la devastante
           portata dei suoi debiti... Owen non era mai stato un giocatore
           d’azzardo, avrebbe dovuto trattenersi. Non avrebbe mai dovuto
           cadere nella trappola di comprare troppa merce, e poi affidarsi
           a un amico per farsi tirare fuori dai guai, nemmeno a un amico
           che aveva aiutato, che aveva con lui un debito d’onore. Lo choc
           della sua imminente rovina gli mandava in tilt il cervello, insieme
           alla nauseante consapevolezza di quanto era stato stupido. Sa-
           peva che il quadro era autentico. Lo aveva guardato per anni, lo
           aveva custodito gelosamente, lo aveva ammirato, viziato come
           un figlio prediletto. Non poteva essere opera di un allievo, era
           stato dipinto dalla mano del maestro, e lui lo aveva svenduto.
           Confuso e spaventato, era caduto nella trappola e si era fatto
           imbrogliare come un novellino.

           «Dovresti cambiare aria» insistette Marshall, interrompendo le
           fantasticherie del padre.
              «Porta sfortuna.»
              «Come dici?»
              «Questa galleria» disse piano Owen. «Quando l’ho comprata,
           sapevo delle voci che giravano. Qui nessuno ha mai avuto suc-
           cesso, era un continuo viavai. Magari c’è davvero un fantasma...»
              «Che scemenza.»
              Con grande sorpresa di Marshall, suo padre scoppiò a ridere.
           «Vorrei tanto essere come te, Marshall. Dico sul serio.»
              «Io invece ho sempre desiderato assomigliare di più a te»
           replicò il figlio con sincerità, posando una mano sulla spalla del
           padre. «Stasera potremmo andarcene a Thurstons...»
              «Non posso» lo interruppe Owen. «Non posso squagliarmela.»
              «Ma se ti allontanassi, potresti schiarirti le idee.»
              Owen sospirò. «Ho delle cose da fare. Devo sistemare un paio
           di questioni prima di potermene andare.»

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«D’accordo» disse Marshall. «Allora lascia che resti ad aiutarti.»
              «No» rispose Owen, sforzandosi di sorridere. «Non avrei mai
           dovuto coinvolgerti. Questo non è un tuo problema, mi sono
           solo fatto prendere dal panico. Hai ragione, Marshall, ho molti
           quadri in magazzino: forse posso tirare su abbastanza soldi da
           pagare qualche debito.»
              «E se chiedessi un prestito alla banca, solo per rimetterti in
           sesto?»
              Owen fece un sorriso amaro. «A quanto pare, non mi consi-
           derano un buon investimento.»
              «Allora lascia che vada a parlare con la mia banca.»
              «No» ribatté Owen, quasi con durezza. «Lascia stare, Marshall.
           Parlare con te mi è stato di grande aiuto. Domani esaminerò la
           merce e farò qualche calcolo. Ci sono alcune persone che po-
           trei contattare...» La sua voce si affievolì. Si guardò intorno. «Il
           Rembrandt avrebbe sistemato ogni cosa, avrebbe ripagato tutti i
           miei debiti. Ti ho detto che lo hanno venduto per una fortuna?»
              Marshall annuì preoccupato. «Sì, papà, me l’hai già detto.»
              «Manners mi ha imbrogliato.»
              «Perché non andiamo insieme a parlargli?»
              Owen scrollò le spalle con un’espressione vacua, rassegnata
           e incosciente al tempo stesso. «Quel che è fatto è fatto. Conosco
           il settore, io stesso ci ho fatto un sacco di soldi...»
              «Non imbrogliando gli altri, però.»
              «No» ammise Owen. «E soprattutto non fregando gli amici.»
           Fece una pausa, poi raddrizzò la schiena e si lisciò i capelli. Il suo
           fascino da gentiluomo era tornato. «Forse non tutto è perduto.»
              «Sei sicuro che non posso fare altro?»
              «No, niente» rispose Owen con calma. «Vai a Thurstons, ti
           raggiungerò nel weekend.»
              Marshall annuì. «Prima devo sbrigare alcune cose, ma tornerò
           a prenderti e ci andremo insieme, okay?»
              «Va bene, va bene.»
              Sollevato, Marshall strinse il braccio del padre. «Quando te
           ne andrai da questo posto ti sentirai meglio, te lo garantisco.
           Nel fine settimana sarà tutto diverso.»

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