Il segreto di rembrAndt - Alex Connor traduzione di teresa Albanese
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Alex Connor il segreto di rembrandt Traduzione di Teresa Albanese ConnorIMP.indd 3 22/07/11 14:23
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale. ISBN 978-88-04-61224-7 Copyright © Alex Connor 2011 Originally entitled The Rembrandt Secret Published by arrangement with Quercus Editions Ltd (UK) © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale The Rembrandt Secret I edizione settembre 2011 ConnorIMP.indd 4 22/07/11 14:23
il segreto di rembrandt A mio padre Prima di intraprendere la strada della vendetta, scava due fosse. confucio ConnorIMP.indd 5 22/07/11 14:23
1 Amsterdam Era riverso in avanti, con la testa immersa nella tazza del ga- binetto, le gambe piegate, i pantaloni abbassati. Il sangue gli gocciolava dalle natiche, la parte superiore delle cosce era livida. Sul pavimento, di fianco al suo grasso ginocchio destro, giaceva lo scopino con il manico insanguinato. Una serie di piccoli tagli gli copriva la parte bassa della schiena, e la pelle dello scroto era punteggiata di bruciature. Sulla nuca aveva segni di dita, e i polsi erano legati con il filo dorato che in genere si usa per appendere i quadri. La sua morte era stata lenta. Aveva lottato, sfregato i polsi contro il filo che gli aveva scavato la carne, in certi punti fino all’osso. La sua testa era stata immersa più volte nella tazza piena, poi tirata fuori e di nuovo immersa. Quando l’acqua aveva iniziato a entrargli nei polmoni, il suo corpo aveva reagito e gli si era formata della schiuma agli angoli della bocca, una bianca schiuma di morte. All’impatto con l’acqua, la vittima aveva sbarrato gli occhi e le pupille erano diventate dischi opalescenti mentre fissavano il fondo della tazza senza vederlo. L’assassino aveva voluto assicurarsi che la morte di Stefan van der Helde terrorizzasse non solo le persone che lo avreb- bero trovato, ma anche i suoi soci in affari e le persone della sua cerchia. Lo aveva sodomizzato per smascherare la sua omosessualità nascosta, umiliarlo e distruggere un protagonista del mondo dell’arte. Ma c’era dell’altro, un particolare per cui 12 ConnorIMP.indd 12 22/07/11 14:23
nessuno avrebbe più dimenticato la morte di Van der Helde. Durante l’autopsia, il medico legale gli trovò delle pietre nello stomaco. A quanto pareva, era stato costretto per ore a ingoiare sassi, uno dopo l’altro, uno più grande del precedente, finché non aveva rischiato di strozzarsi. Anche quando il suo esofago aveva reagito ed era stato preso dagli spasmi, lo avevano ob- bligato a continuare. Aveva la gola contusa, addirittura lacerata in alcuni punti. Erano state rinvenute venti pietre nello stomaco di Stefan van der Helde. L’acqua che lo aveva soffocato, e le venti pietre. Il medico legale non aveva idea di cosa potessero voler dire, la polizia nemmeno. Nessuno ne conosceva il significato. Quando lo scoprirono, il settore era già in preda alla recessione: le case d’aste perdevano patrimoni a causa del crollo delle vendite, i galleristi erano costretti alla bancarotta, vecchi debiti venivano riscossi e antichi favori pretendevano di essere ricambiati. Mentre l’anno si trascinava verso una primavera incerta e claustrofobica, l’ambiente artistico internazionale era immerso in una crisi che nessuno aveva visto arrivare e per cui nessuno era preparato. Dietro alle eleganti vetrine e alle reputazioni scintillanti, strisciava lo sfondo corrotto del mondo dell’arte. Nel giro di qualche mese, il crollo finanziario del mercato fu accompagnato da una degenerazione morale che non lasciò nessuno incolume, e produsse quattro cadaveri. Era, come disse qualcuno, una selezione naturale. 13 ConnorIMP.indd 13 22/07/11 14:23
2 Londra, ai giorni nostri Nel centro pulsante della metropoli, nel groviglio di strade che circonda l’arteria di Piccadilly, si annida Albemarle Street. Ogni edificio della via è diverso dagli altri. Agli ingressi delle sfavil- lanti boutique di vestiti firmati, uscieri in abiti funerei aprono le porte ai turisti e alle mogli di oligarchi russi. Altri negozi sono lì da più di un secolo, e una patina polverosa di snobismo corteggia il passante con vetrine che ospitano scarpe su misura o sigari artigianali. In mezzo alle insegne fornitore della casa reale e alle scatole di Tiffany, si trova la Zeigler Gallery. Inaugurata senza troppi clamori nel 1845, era passata di mano varie volte prima di chiudere i battenti durante la Seconda guerra mondiale. L’edificio, in stato di abbandono e privato dei suoi quadri, aveva affrontato i bombardamenti senza occupanti, per- ché l’appartamento al primo piano era rimasto disabitato. Gli affitti erano troppo alti, il proprietario troppo avido. Nel pieno della guerra, un misterioso incendio era divampato nella galleria. Qualcuno diceva che fosse stato provocato da un barbone che vi si era intrufolato e si era addormentato con la sigaretta accesa. Peccato che non fossero stati trovati né il barbone né la sigaretta, nemmeno un mozzicone. Poco dopo, era avvenuta un’altra di- sgrazia: un soldato in licenza era stato ucciso, e il suo corpo era stato rinvenuto nel retro della galleria, nascosto tra le casse da imballaggio vuote. Il soldato, che non indossava la piastrina di riconoscimento e non aveva documenti addosso, non era mai stato 14 ConnorIMP.indd 14 22/07/11 14:23
identificato, e l’omicidio era rimasto irrisolto. La morte del soldato sconosciuto aveva gettato un’ombra sull’edificio, e la galleria ci aveva guadagnato un fantasma, almeno così si diceva in giro. Poi, nel 1947, la galleria era stata riaperta da un uomo chiamato Korsawaki. Era arrivato da Varsavia, dove era stato costretto a lasciare un patrimonio e una famiglia, per tentare di farsi un nome a Londra. Nella sua città d’origine era stato un mercante di qualche successo, ma negli anni austeri del dopoguerra non era riuscito a combinare molto nella capitale inglese. Costretto a vendere stampe di terz’ordine, aveva fatto i salti mortali per pagare l’affitto e infine, all’inizio del 1949, se n’era andato. Gli erano succeduti, con risultati poco entusiasmanti, alcuni altri galleristi, e il locale si era fatto la reputazione di portare sfor- tuna. Abbandonato alla sua sorte mentre il quartiere intorno prosperava, aveva vissuto un breve momento di gloria come caffè. Presto, però, il tintinnare dei piattini e la vivacità delle conversazioni erano cessati, e le porte si erano chiuse di nuovo. E così erano rimaste finché, in un gelido mattino del 1963, un giovane si era fermato in Albemarle Street e aveva notato il car- tello vendesi in vetrina. Incuriosito, Owen Zeigler si era chinato in avanti per sbirciare all’interno, ma era riuscito a distinguere solo una stanza vuota con una scala su un lato e un lucernario sul fondo. Aveva tentato di aprire la porta, che però era chiusa a chiave, e così aveva fatto un passo indietro per guardare l’ap- partamento al piano di sopra, rischiando di finire sotto un’auto- mobile. Le finestre non lasciavano intravedere nulla, ma Owen si sentiva attratto da quel posto per un motivo che gli sfuggiva. Intrigato, aveva riprovato invano ad aprire la porta e infine si era annotato il nome e l’indirizzo dell’agente immobiliare. Quel pomeriggio aveva fatto visita allo studio Lyton and Gold- thorne per chiedere informazioni sulla galleria. I due agenti, fiutando un possibile acquirente per una proprietà che si era rivelata praticamente invendibile, avevano incoraggiato il suo interesse. Il signor Lyton aveva accompagnato subito Owen alla galleria, aprendo la porta e scortando all’interno il poten- ziale cliente. Chiacchierando con lui, Lyton aveva saputo che Owen aveva le spalle coperte e che suo padre era commerciante nell’East End. 15 ConnorIMP.indd 15 22/07/11 14:23
Quello che Owen non aveva detto all’agente era che Neville Zeigler non trattava solo opere d’arte, ma una varietà di “oggetti di recupero”: era un ebreo che aveva imparato sulla sua pelle come funzionano gli affari, abbastanza astuto da sviluppare un occhio per le cose vendibili e, successivamente, per quel- le di valore. Nel corso degli anni, Neville aveva instillato nel suo unico figlio un’ambizione sfrenata. Portava Owen a Bond Street e Cork Street per mostrargli le gallerie e dirgli, o meglio ripetergli fino allo sfinimento, che un giorno in quel crogiolo di sfarzo e cultura ci sarebbe stata una Zeigler Gallery. Grazie a un accanimento che avrebbe potuto scoraggiare un ragazzo meno intraprendente, Owen aveva imparato a trasformare il suo fiuto naturale in un talento. Le lunghe ore di lavoro di Neville nell’East End avevano consentito a Owen di studiare all’università, e il figlio aveva ripagato il padre dei suoi sforzi. Quando fece il suo ingresso nell’arena del mondo dell’arte, Owen Zeigler era un giovane intelligente, esperto e sicuro di sé. Avrebbe potuto passare per uno studente delle classi più alte, l’erede naturale di una professione nel campo della cultura. Con le sue capacità innate e il suo curriculum di studi, faceva progressi continui. Ma ciò che la gente non conosceva era l’altro lato di Owen Zeigler, il lato che aveva ereditato dal padre ebreo insieme all’impareggiabile fiuto per gli affari. Incoraggiato dal vedovo Neville, che sapeva quali cifre giras- sero nel mercato dell’arte, Owen imparò a passare sotto silenzio le sue umili origini e a continuare la “scalata”. “La tua fortuna è che hai i piedi in due staffe” gli disse Neville. “Hai una buona preparazione culturale, ma hai anche l’astuzia della gente di strada. Fanne buon uso, e ricordati: ai piani alti c’è un sacco di spazio.” Naturalmente, il signor Lyton non sapeva niente di tutto ciò, ma restò sorpreso quando Owen tornò da lui il giorno dopo dicendo di aver scoperto la fosca storia della galleria e se ne avvalse come arma di contrattazione. In breve Owen Zeigler diventò il nuovo proprietario della galleria, nel giro di tre set- timane gli interni furono ridipinti, l’appartamento di sopra fu arredato, e all’esterno campeggiò una nuova insegna: con un parto semplice e indolore, era nata la Zeigler Gallery. 16 ConnorIMP.indd 16 22/07/11 14:23
In quello stesso, aspro inverno, Owen fece un’inaugurazione a cui tutti i suoi vicini parteciparono per poterlo criticare, alcu- ni di loro prefigurando un disastro per Zeigler. Invece, pochi minuti dopo aver varcato la soglia, i galleristi di Dover Street e di Bond Street capirono di avere di fronte un nuovo concor- rente. Il mercato all’epoca era inondato di arte francese e gli impressionisti con le loro evanescenti scene campestri stavano diventando quasi un noioso luogo comune. Owen scelse quindi un’altra specializzazione, la pittura olandese, trattando non i nomi eclatanti come Rembrandt o Vermeer, che non poteva an- cora permettersi, ma gli artisti minori e i pittori di nature morte. In quel freddo giorno d’inverno del 1963 erano esposti solo venti dipinti, ma alla fine del mese diciotto erano stati venduti. La carriera di Owen Zeigler era lanciata. Forse non come un lussuoso transatlantico che solca gli oceani, ma come una velo- ce, agile imbarcazione capace di cavalcare le onde del mercato dell’arte e uscirne indenne... A questo stava pensando Marshall, il figlio di Owen Zeigler, mentre guardava incredulo suo padre. «Dove sono andati a finire tutti i tuoi soldi?» chiese Marshall. Owen si strinse la testa tra le mani. A settant’anni suonati, non ne dimostrava più di sessantacinque. Anni di cure meticolose e lunghe passeggiate nei parchi londinesi lo avevano mantenuto snello, e i suoi capelli, benché grigi, erano folti e ben tagliati. Di fronte a lui c’era la scrivania che aveva usato fin dal primo giorno di lavoro in galleria, su cui erano stati firmati tanti assegni, e al di sopra della quale c’erano state infinite strette di mano. Alla parete era appeso un quadro dell’olandese Jan Steen, un’opera di valore, come tutti i pezzi della galleria, tanto che negli anni l’assicurazione era regolarmente aumentata per adeguarsi al successo di Owen. All’esterno le luci rosse del sistema d’allar- me collegato alla vicina stazione di polizia scintillavano come luminarie di Natale fuori stagione. Senza spostare gli occhi dal padre, Marshall ripensò alla sua infanzia. Aveva vissuto fino a dieci anni nell’appartamento sopra la galleria, poi, dopo che Owen si era arricchito, la famiglia si era trasferita fuori Londra, in una villa di campagna, Thurstons. Il gallerista dormiva nell’appartamento nei giorni feriali e andava 17 ConnorIMP.indd 17 22/07/11 14:23
a passare i weekend in quell’emblema georgiano di successo nel mercato del lusso. Quando la madre di Marshall era morta, però, Owen aveva iniziato a passare sempre più tempo in Albemarle Street, affidando il figlio alle cure di una governante, e quindi alle attenzioni severe di una scuola privata. «Dove sono finiti i soldi?» ripeté Marshall. Suo padre accennò una scrollata di spalle, ma si interruppe a metà. «Devo fare qualcosa... per forza.» Per la prima volta, Marshall notò che i capelli del padre si stavano un po’ diradando sulla sommità del capo. Nemmeno il suo esperto barbiere riusciva più a camuffarlo, pensò, sapen- do che la cosa avrebbe imbarazzato Owen, poi notò le vene in rilievo sulle sue mani, le macchie che chiazzavano la sua pelle abbronzata. Suo padre stava diventando vecchio, si disse Mar- shall, con un’inspiegabile nota di commozione. Tutte le piccole vanità di Owen erano ormai visibili, lampanti... Marshall distolse lo sguardo, pensando alla telefonata che lo aveva richiamato a Londra, alla richiesta del padre di rientrare dall’Olanda. “Devo parlarti” gli aveva detto Owen con voce tremante e spaventata. “Se solo potessi tornare a casa.” Lui l’aveva fatto al volo, perché suo padre non era mai stato possessivo o esigente. Certo, Marshall avrebbe voluto passare più tempo con lui quando era piccolo, o quando si era trovato a piangere la perdita della madre, ma nel periodo dell’adolescenza aveva capito che l’affetto di suo padre non gli era stato negato. Si era semplicemente spento. Dopo aver perso la moglie in modo così improvviso per un incidente aereo, Owen aveva passato i successivi dieci anni ad aspettare, quasi come se un altro aereo – reale o immaginario – avesse potuto riportarla indietro, come se, rifiutando di accettare la sua scomparsa, avesse potuto ve- derla arrivare prima o poi in qualche terminal spirituale, dove lui l’avrebbe aspettata all’uscita per riportarla a casa. Solo che lei non era più tornata, e Marshall aveva visto suo padre guardare in faccia la realtà dieci anni dopo la sua morte. Aveva assistito al suo dolore, sedendo con lui nella casa di campagna, a fissare il focolare o il panorama. Aveva ascoltato vecchi ricordi che non erano mai stati suoi, ricordi che risalivano a prima della sua nascita, e si era reso conto che nel cuore di alcuni uomini c’è spazio per un’unica donna, e se quella donna 18 ConnorIMP.indd 18 22/07/11 14:23
viene a mancare, lo spazio non può essere colmato mai più. Con un padre così inconsolabile, Marshall aveva dovuto superare la sofferenza con le sue forze, e quando Owen lo aveva solleci- tato a parlare di sua madre, aveva ormai elaborato il lutto. Era una cosa bellissima ma fuori dal tempo, come i vecchi dipinti francesi di suo nonno. Riportando il pensiero al presente, Marshall ripeté: «Hai detto che i soldi sono finiti?». «Tutti» disse Owen, annuendo. «Come?» «Debiti.» «Debiti?» Marshall era sconvolto. Suo padre non gli aveva mai accennato di essere a corto di denaro. «Non hai mai detto di avere dei problemi. L’ultima mostra è stata un successo...» Owen alzò gli occhi sul figlio e lo fissò. «Mi hanno fregato.» “Mi hanno fregato.” Le parole sembrarono diffondersi nella galleria, rasentare i binari a cui venivano appesi i quadri, sci- volare sulla seta rossa delle pareti e infine insinuarsi sulle scale, verso il buio. Una strisciante apprensione avvolse Marshall, la stessa sensazione che provava da piccolo quando dormiva al piano di sopra e ripensava alla tetra storia dell’edificio e av- vertiva la presenza dello spettro del soldato senza nome. Quel giovane usciva di notte, girovagava per la galleria e infine saliva le scale nel buio. «Chi è stato?» «Non avrei mai dovuto dargli retta.» «A chi? Di chi stai parlando?» «Di Manners.» Manners. Il nome cadde come una mannaia, fendendo l’aria tra i due uomini. Tobar Manners, uno dei più vecchi amici e colleghi di Owen, con le piccole mani arrossate e i capelli spiri- tati, svelto, furbo, umorale, sempre gentilissimo con suo padre, anche se a Marshall mostrava un’altra faccia. Era stato proprio lui, infatti, a raccontargli del soldato ucciso, felice di spaventare un bambino con storie di fantasmi per poi scoppiare a ridere e dire che voleva solo prenderlo in giro, ma sapendo di avere insinuato nella sua mente un tormento. Molte delle notti agi- tate della sua infanzia Marshall le imputava a Tobar Manners. 19 ConnorIMP.indd 19 22/07/11 14:23
Spesso, svegliandosi per un rumore improvviso, aveva dato la colpa all’ambiguo amico del padre. «Cosa ha fatto?» Owen scosse il capo. «Papà, cosa ha fatto?» «Da qualche tempo mi sono indebitato» disse Owen piano, scandendo bene le parole, come se così facendo potesse tenere a bada il panico. «Gli affari vanno male, i collezionisti non in- vestono e anche le case d’aste stanno subendo perdite. Alcune gallerie hanno persino dovuto chiudere.» Fece una pausa per prendere fiato. «Negli ultimi anni ho comprato troppo. Ero in- cappato in alcuni quadri interessanti e pensavo che non avrei avuto difficoltà a venderli, ma poi è scoppiata la crisi. Sono in pochi ad acquistare in questo periodo...» «Ma i grossi collezionisti?» «Prendono tempo.» «Tutti?» «No, ma quelli che investono non sono abbastanza per im- pedirmi di andare in rosso.» «Maledizione!» Marshall si sedette vicino al padre. «E la casa?» «Ho dovuto ipotecarla.» «I quadri!» disse Marshall, preso a sua volta dal panico «Vendi tutto quello che hai. Magari ci perderai qualcosa, ma almeno ricaverai un po’ di liquidi.» «Non basterebbe» rispose Owen piano, tormentandosi le mani. «Non volevo dirti quanto fosse grave la situazione. Pensavo di poterne uscire, ho pensato che se... Ho venduto il Rembrandt...» Marshall alzò piano la testa e guardò suo padre negli occhi. Quel quadro era di proprietà di Owen dal 1964, quando l’aveva acquistato in Germania. All’inizio pensava che fosse stato dipinto da Ferdinand Bol, un allievo di Rembrandt, ma dopo diversi test e un’approfondita ricerca, si era dimostrato autentico. Era stato il primo, spettacolare trionfo della carriera di suo padre, un suggello del suo fiuto di mercante. Marshall ricordava di aver sentito raccontare tante volte quella storia da Owen e dal suo mentore, Samuel Hemmings. “Ora devi guardarti le spalle” gli aveva detto allora Samuel. “Hai dei nemici, adesso.” «Hai venduto il Rembrandt?» 20 ConnorIMP.indd 20 22/07/11 14:23
«L’ho portato da Tobar Manners...» «Ebbene?» «Ha detto che non era autentico, che era di Ferdinand Bol, come avevamo pensato all’inizio...» «Ma quel quadro era autentico!» «Dipende tutto dall’attribuzione, Marshall» tagliò corto il padre. «Non ci sono prove inconfutabili...» «Samuel Hemmings aveva sostenuto la tua opinione» lo in- terruppe Marshall. «Il suo nome avrà pure un peso, no?» «Samuel è uno storico controverso, lo sai. Quello che dice è accettato da alcuni e fermamente contestato da altri.» «Soprattutto quando ci sono i soldi di mezzo.» Di colpo, Owen si infiammò, e la sua imperturbabile cortesia fu offuscata dal rancore. «So cosa pensi del mercato, Marshall! Non puoi dirmi nulla che io già non sappia. Hai deciso di non avere niente a che fare con la galleria o con il mondo dell’arte. Benissimo, è stata una tua scelta, ma la mia vita è questa: puoi disprezzarla quanto vuoi, ma è la mia passione.» Quella questione li aveva sempre divisi. Owen aveva dedicato la vita al commercio dell’arte, ma a Marshall non sfuggiva la realtà del mercato, visto che, per l’appunto, di un mercato si trattava. Un piccolo ambiente cinico e spietato dove una manciata di uomini onesti trattava con la legione di quelli privi di scrupoli. I mercanti che avevano ereditato le gallerie lavoravano gomito a gomito con titani che si erano comprati la loro posizione sul mercato. Commercianti della vecchia scuola facevano affari con truffatori che arruolavano offerenti fittizi per far lievitare i prezzi dei loro quadri alle aste. Non tutte le case d’aste erano irreprensibili: i giochi di prestigio andavano per la maggiore. Se un quadro non raggiungeva il prezzo di riserva, si fingeva di venderlo, e invece veniva “bruciato”, messo da parte per anni finché il mercato se n’era dimenticato o si presumeva che fosse stato rimesso in vendita da un privato. Era un modo per far sì che nessun autore famoso perdesse la sua aura o il suo valore di mercato, perché il valore di mercato era fondamentale. Per ogni Cézanne che sfondava la quotazione e fissava un nuovo parametro di riferimento, una dozzina di altri Cézanne in musei 21 ConnorIMP.indd 21 22/07/11 14:23
e collezioni private aumentavano di valore. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, il mercato aveva gonfiato il valore dei Van Gogh al punto che un compratore, per questioni assicurative, aveva dovuto tenere il dipinto in magazzino per dodici anni. A forza di alzare le quotazioni, l’arte veniva tolta dalle gallerie e dalle pareti per finire nelle tombe d’acciaio dei caveau delle banche. Marshall sospirò, rendendosi conto che non era il momento di riesumare quel vecchio conflitto e moderò i toni. «Così Manners ha detto che non era un Rembrandt?» Owen annuì. «Ha detto che era di un allievo di Rembrandt. Tra l’altro, sul dipinto non c’era la firma...» «In molti quadri di Rembrandt manca la firma!» scattò Mar- shall. «Questo non ha mai impedito di attribuirglieli, e Dio sa se non ci sono fior di quadri firmati da lui la cui autenticità non è affatto indubbia.» «Tobar era certo che il mio non fosse autentico. Quando gli ho chiesto di comprarmelo, gli hanno detto che era di Ferdinand Bol. Lo ha fatto valutare due volte, l’ha fatto analizzare in tutti i modi.» «Da chi?» «Da due specialisti!» esclamò Owen, esasperato. «Tobar era così mortificato. Ha detto che mi avrebbe dato il più possibile, ma non quanto avrei ottenuto con un Rembrandt autentico... Maledizione, io di lui mi fidavo. Lo conosco da anni, non avevo motivo di sospettare.» Marshall si vide passare davanti tante immagini sparse – Natali, mostre private, visite alla galleria – e in ognuna di esse c’era Tobar Manners. Era sempre presente, a volte da solo, a volte con altri. Lui, Samuel Hemmings e altri amici di suo padre che parlavano, ridevano, si raccontavano storie su galleristi e clienti... I pette- golezzi passavano di calice in calice, le informazioni venivano scambiate tra il caviale e le tartine, rivoli d’odio scivolavano nelle orecchie avide. «Dunque cosa ha fatto?» chiese infine Marshall. «Mi ha comprato il quadro.» «E poi?» «L’ho appena scoperto» disse Owen. «Poco fa. L’asta a New York. Qualcuno mi ha mostrato il catalogo e c’è, o meglio c’era, il mio quadro, lo stesso che Tobar mi aveva comprato come un Ferdinand Bol, solo che nel catalogo figurava come Rembrandt. 22 ConnorIMP.indd 22 22/07/11 14:23
È stato venduto come un Rembrandt!» Parlava a raffica. «Tobar Manners mi ha dato solo una minima parte del suo valore! Mi ha fregato!» Marshall guardò il padre, sconvolto. «Gli hai parlato? Gli hai chiesto spiegazioni?» «Ha detto che non è stata colpa sua!» rispose Owen. La sua voce si era alzata, e la rabbia gli infiammava le guance. «Ha detto di averlo venduto a qualcuno come un Ferdinand Bol, e di essere stato imbrogliato lui stesso!» «Ma tu non gli credi, vero?» «Certo che no!» esclamò Owen, alzandosi in piedi e avvici- nandosi alla finestra. Con sua grande sorpresa, Marshall vide che il padre stava tremando: il suo corpo elegante fremeva, le sue mani si aprivano e si stringevano ossessivamente. «Ha fatto una fortuna con quella vendita» proseguì Owen. «Ha battuto tutti i record per un Rembrandt prima maniera. Una fortuna con cui avrei potuto salvare la galleria, una fortuna che spettava a me! Cristo santo» disse disperato. «Sono rovinato.» Vedendo la disperazione del padre, Marshall tentò di calmarlo. «Senti, puoi vendere il magazzino, tutto quello che hai. Ci sono migliaia di sterline appese a queste pareti: potresti racimolare un bel gruzzolo.» «Non abbastanza.» «Deve pur essere abbastanza!» rispose suo figlio con un moto di panico. «Chiama i tuoi collezionisti, metti all’incanto tutto quello che hai, telefona ai tuoi contatti. Deve esserci un modo di trovare i soldi...» «Non basterà mai!» gridò Owen. Ormai aveva perso ogni controllo. «Ho debiti di cui tu non sai niente, debiti con molte persone, alcune delle quali mi stanno facendo pressione. Non posso permettermi di mantenere la galleria. Ho continuato a pensare che le cose sarebbero andate meglio, e poi sono arrivati tempi di magra per tutti. Le persone hanno continuato a com- prare, ma negli ultimi mesi sempre meno. Non posso vendere tutto, Marshall, non guadagnerei quello che mi serve. Mi restava solo il Rembrandt. È sempre stato sullo sfondo, come una rete di sicurezza. Sapevo che con quello avrei fatto abbastanza soldi per pagare i debiti e rimettermi in piedi, solo che Manners...» 23 ConnorIMP.indd 23 22/07/11 14:23
Si interruppe a metà della frase. La sua rabbia stava scemando, e quando ricominciò a parlare emanava una calma inquietante. «Non lo ammetterà mai, ma mi ha fregato. Mi ha mentito, sa- pendo che navigavo in cattive acque... Quante volte quell’uomo è venuto a casa mia? Quante volte in questi anni l’ho tirato fuori dai guai? Quante volte gli ho prestato soldi per aiutarlo a tirare avanti quando era in difficoltà?» Owen non parlava più con il figlio, si limitava a fissare la scrivania di fronte a sé. «Ero qui da poco quando Tobar Manners venne a presentarsi. A tua madre non è mai andato a genio, ma io ho sempre pensato che fosse perché poteva sembrare pettegolo, e a lei i pettegolezzi non piacevano. E quando è morta, Tobar è stato molto affettuoso con me...» “È una sanguisuga” avrebbe voluto dire Marshall. “Mia madre lo sapeva, e anch’io, persino da bambino. E poi non è intelligente, non ha un briciolo del tuo talento. Come ha fatto ad abbindolarti? Non è nemmeno degno di allacciarti le scarpe. Ridevi di lui con Samuel Hemmings, senza cattiveria, con indul- genza. Eppure lo hai lasciato entrare nella tua vita, hai lasciato che si prendesse troppe libertà. Dio, come hai fatto a essere così stupido con l’uomo più viscido della terra?” «Ho un po’ di soldi da parte. Posso darteli.» «No, non voglio usare i tuoi soldi» rispose Owen, poi gli sorrise dolcemente, come se quell’offerta avesse alleviato per un attimo la gravità della situazione. «Cosa pensi di fare?» «Me la caverò, in un modo o nell’altro.» Tentava di tenere a bada il panico, di mettere un coperchio sulla bruciante marea della sua disperazione. «Parlerò di nuovo con il contabile e con la banca.» «Pensi che potranno aiutarti?» «Non lo so. Forse...» rispose. Aveva ritrovato il suo contegno. Era di nuovo Owen Zeigler, non un ometto impaurito. «Non ti preoccupare per me, ero solo sconvolto per quello che è suc- cesso. Non avrei dovuto disturbarti, farti preoccupare. Troverò il modo di uscirne.» Poco convinto, Marshall si guardò attorno. «Hai bisogno di cambiare aria. Dovresti andartene di qui per un po’, papà, ti aiuterebbe a ragionare a mente lucida. Potrei venire a stare un po’ con te a Thurstons. Non devo tornare subito ad Amsterdam.» 24 ConnorIMP.indd 24 22/07/11 14:23
«Forse...» «Ti farebbe bene» insistette Marshall. «Se vuoi possiamo parlare, altrimenti ti riposi e basta.» Owen annuì, ma distolse lo sguardo. Lo imbarazzava l’idea che suo figlio lo considerasse un fallito. Si vergognava di essersi fatto prendere dal panico, di aver piagnucolato come un bambi- no. In fondo, cosa poteva farci Marshall? Non aveva i soldi per salvarlo, e non avrebbe mai potuto immaginare la devastante portata dei suoi debiti... Owen non era mai stato un giocatore d’azzardo, avrebbe dovuto trattenersi. Non avrebbe mai dovuto cadere nella trappola di comprare troppa merce, e poi affidarsi a un amico per farsi tirare fuori dai guai, nemmeno a un amico che aveva aiutato, che aveva con lui un debito d’onore. Lo choc della sua imminente rovina gli mandava in tilt il cervello, insieme alla nauseante consapevolezza di quanto era stato stupido. Sa- peva che il quadro era autentico. Lo aveva guardato per anni, lo aveva custodito gelosamente, lo aveva ammirato, viziato come un figlio prediletto. Non poteva essere opera di un allievo, era stato dipinto dalla mano del maestro, e lui lo aveva svenduto. Confuso e spaventato, era caduto nella trappola e si era fatto imbrogliare come un novellino. «Dovresti cambiare aria» insistette Marshall, interrompendo le fantasticherie del padre. «Porta sfortuna.» «Come dici?» «Questa galleria» disse piano Owen. «Quando l’ho comprata, sapevo delle voci che giravano. Qui nessuno ha mai avuto suc- cesso, era un continuo viavai. Magari c’è davvero un fantasma...» «Che scemenza.» Con grande sorpresa di Marshall, suo padre scoppiò a ridere. «Vorrei tanto essere come te, Marshall. Dico sul serio.» «Io invece ho sempre desiderato assomigliare di più a te» replicò il figlio con sincerità, posando una mano sulla spalla del padre. «Stasera potremmo andarcene a Thurstons...» «Non posso» lo interruppe Owen. «Non posso squagliarmela.» «Ma se ti allontanassi, potresti schiarirti le idee.» Owen sospirò. «Ho delle cose da fare. Devo sistemare un paio di questioni prima di potermene andare.» 25 ConnorIMP.indd 25 22/07/11 14:23
«D’accordo» disse Marshall. «Allora lascia che resti ad aiutarti.» «No» rispose Owen, sforzandosi di sorridere. «Non avrei mai dovuto coinvolgerti. Questo non è un tuo problema, mi sono solo fatto prendere dal panico. Hai ragione, Marshall, ho molti quadri in magazzino: forse posso tirare su abbastanza soldi da pagare qualche debito.» «E se chiedessi un prestito alla banca, solo per rimetterti in sesto?» Owen fece un sorriso amaro. «A quanto pare, non mi consi- derano un buon investimento.» «Allora lascia che vada a parlare con la mia banca.» «No» ribatté Owen, quasi con durezza. «Lascia stare, Marshall. Parlare con te mi è stato di grande aiuto. Domani esaminerò la merce e farò qualche calcolo. Ci sono alcune persone che po- trei contattare...» La sua voce si affievolì. Si guardò intorno. «Il Rembrandt avrebbe sistemato ogni cosa, avrebbe ripagato tutti i miei debiti. Ti ho detto che lo hanno venduto per una fortuna?» Marshall annuì preoccupato. «Sì, papà, me l’hai già detto.» «Manners mi ha imbrogliato.» «Perché non andiamo insieme a parlargli?» Owen scrollò le spalle con un’espressione vacua, rassegnata e incosciente al tempo stesso. «Quel che è fatto è fatto. Conosco il settore, io stesso ci ho fatto un sacco di soldi...» «Non imbrogliando gli altri, però.» «No» ammise Owen. «E soprattutto non fregando gli amici.» Fece una pausa, poi raddrizzò la schiena e si lisciò i capelli. Il suo fascino da gentiluomo era tornato. «Forse non tutto è perduto.» «Sei sicuro che non posso fare altro?» «No, niente» rispose Owen con calma. «Vai a Thurstons, ti raggiungerò nel weekend.» Marshall annuì. «Prima devo sbrigare alcune cose, ma tornerò a prenderti e ci andremo insieme, okay?» «Va bene, va bene.» Sollevato, Marshall strinse il braccio del padre. «Quando te ne andrai da questo posto ti sentirai meglio, te lo garantisco. Nel fine settimana sarà tutto diverso.» 26 ConnorIMP.indd 26 22/07/11 14:23
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