I MILLE VOLTI DEL TALENTO - Oltre Gardner per una pedagogia dell'eccellenza Diana Olivieri - Armando Editore

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Diana Olivieri

I MILLE VOLTI DEL TALENTO
           Oltre Gardner
  per una pedagogia dell’eccellenza

                       Prefazione di Umberto Margiotta

          Con il contributo dell’attore e regista teatrale
                                      Simone Fraschetti
Sommario

Prefazione di Umberto Margiotta                             7
Introduzione                                               13

PARTE PRIMA: Tessitori nella società liquida:              25
nuovi paradigmi per la formazione dei talenti

Capitolo primo: Una prospettiva bio-ecologica              27
sull’ontogenesi del talento

Capitolo secondo: Dopo Gardner: dar forma alle             49
intelligenze multiple in ogni età della vita

PARTE SECONDA: I mille volti del talento                  111

Capitolo primo: Il talento musicale                       113
(o intelligenza musicale)

Capitolo secondo: Il talento pittorico e il talento       149
cinematografico (o intelligenza visuo-spaziale)

Capitolo terzo: Il talento scientifico                     183
(o intelligenza logico-matematica) e il talento letterario
(o intelligenza linguistica)

Capitolo quarto: Il talento sportivo e il talento nella   220
danza (o intelligenza fisico-cinestetica)
Capitolo quinto: La formazione del talento nel teatro:     260
alla scoperta di un’intelligenza affabulatoria
di Simone Fraschetti

Capitolo sesto: Il talento criminale: “geni del crimine”   286
o criminali geniali?

Conclusioni: Ristrutturare la progettazione curricolare:   318
sviluppare il curricolo attraverso la formazione
dei talenti

Bibliografia                                               333
Prefazione
di   Umberto Margiotta

    Per definizione, soltanto pochissimi diventano numeri uno, e non
è neppure necessario diventarlo, per avere una vita piena e felice.
Però una cosa è certa: non lo diventano per il talento, o non solo per
il talento, ma soprattutto grazie alla fatica che fanno. Alle rinunce.
Alla determinazione e all’ostinazione. Ma soprattutto al fatto che si
“inventano il lavoro”1.
    Insomma l’idea che il talento sia l’abilità innata a fare qualcosa
meglio di altri viene sempre più spesso e generalmente revocata in
dubbio. Anche qualora esista questa abilità innata, essa risulta irrile-
vante a spiegare le performance superiori. Ciò che conta – si ripete
– è il modo di vivere e di sviluppare le proprie azioni: insomma un
esercizio continuo e deliberato del proprio potenziale. Dunque il
talento non è innato e, come mostra in modo analitico l’Autrice,
     1
       Il Report 2016 del World Economic Forum (dedicato al tema “The future of the Jobs”)
prevede che nel 2020, in Europa, a fronte di 7,1 milioni di posti di lavoro che saranno persi
a seguito dell’introduzione di nuove tecnologie “Industria 4.0”, ne saranno creati appena
2 milioni di nuovi – con un saldo negativo superiore ai 5 milioni. Considerando che la
forza lavoro in Europa comprende circa 300 milioni di posti di lavoro, in ogni caso questo
saldo negativo costituisce di per sé un segnale di allarme. Lo stesso Report, poi, stima nel
65% della popolazione scolastica attuale la percentuale di bambini che cominciano adesso
il loro ciclo di studi e che sono destinati a trovare un lavoro che oggi non esiste. Ancora:
l’Italia non riesce a far fruttare al meglio il suo capitale umano, insomma non è brava nel
far crescere, sviluppare e poi mettere in campo i talenti della popolazione: dalla scuola
fino alla pensione. Così dice la classifica 2016 Human capital index, compilata sempre dal
World Economic Forum. L’Italia è penultima tra i principali Paesi industrializzati, supera
soltanto la Spagna e, nella graduatoria dei big, è battuta anche dalla Grecia. La Finlandia
è prima della classe grazie alla capacità di sviluppare i talenti dei giovani. Il Giappone, vi-
ceversa, si distingue perché riesce ad avvalersi delle competenze degli ultra-55enni meglio
di ogni altro Paese del pianeta. Sono interrogativi fondamentali su cui molta pubblicistica
si attarda. Perché queste differenze? E quanto pesano nel posizionamento internazionale
del nostro Paese rispetto alle prospettive di vita e di occupabilità delle nuove generazioni?

                                                                                             7
non può nemmeno essere confuso con il potenziale di apprendimen-
to e di sviluppo di ciascuno di noi. Il talento si configura piuttosto
come il risultato di un viaggio, o meglio ancora come quella postura
individuale che indica nei tratti, nel modo di esprimersi, nel fare e
nel sentire l’insieme delle caratteristiche di intelligenza, di volontà,
di cultura e di carattere che segnalano la nostra unicità. Insomma il
talento rappresenta, alfine, la forma con cui ci rappresentiamo agli
altri e con cui gli altri ci percepiscono.
    Con una bella espressione l’Autrice ci rappresenta tutti come
“tessitori in una società liquida”: ed in effetti lo siamo, ciascuno a
modo suo, ciascuno in reciproca interazione con il Sé, con il con-
testo, con la variabilità e la volubilità delle opportunità; ciascuno
con le sfide, i successi (rari) e gli insuccessi (molti) che costellano
il nostro agire.
    Oggi il talento costituisce una frontiera della vita umana. Fase
autonoma e prolungata dello sviluppo, deve far fronte ad una mol-
teplicità di compiti specifici di sviluppo. Formazione dell’identità,
iniziazione alle dinamiche relazionali, costruzione del sé, poesia
della vita, innamoramento e amore. E le situazioni di disagio, di
blocco o di disadattamento scattano quando il soggetto non riesce a
conseguire un risultato apprezzabile, in primo luogo ai suoi occhi.
Durata più lunga e laboriosa del processo, dilatarsi del tempo, mo-
ratoria nelle responsabilità.
    Ma la questione – dicevamo (cfr. Margiotta, 2018)2 – interro-
ga profondamente la ricerca pedagogica. E dobbiamo all’Autrice
una preziosa Prima Parte di questo volume in cui ella discute in
modo serrato la teoria dell’intelligenza multipla di H. Gardner, se-
condo una prospettiva bio-ecologica di ontogenesi del talento. È or-
mai consueto riferirsi, infatti, alla teoria delle intelligenze multiple,
come ad un potente catalizzatore nell’ambito educativo, poiché ha
dato nuova linfa e vigore alla ricerca di approcci al curricolo, alla
didattica e alla valutazione più autentici e soprattutto centrati sugli
studenti e sulle loro attitudini. E giustamente l’Autrice rileva come,
“ ...da questa prospettiva, la teoria delle Intelligenze Multiple può
    2
        Margiotta U., La formazione dei talenti, Franco Angeli, Milano 2018.

8
essere utilizzata per soddisfare tre obiettivi, ossia abbinare l’inse-
gnamento alle modalità con cui i discenti apprendono, incoraggiare
i discenti ad incrementare e rinforzare le loro abilità e a sviluppare
i loro talenti al massimo delle loro possibilità, e onorare e celebrare
la diversità. In particolare i discenti apprenderanno meglio quando
potranno lavorare su informazioni che siano state presentate loro in
modo da corrispondere ai loro talenti intellettuali e quando venga
data loro la possibilità di riflettere su ciò che sanno (incluse le loro
conoscenze pregresse ed extra-scolastiche) in una varietà di modi
diversi, che vanno oltre le tradizionali modalità di valutazione del
compito o di un test (Kallenbach & Viens, 2004). 3
    L’ontogenesi, insomma, del talento dipende - secondo l’Autri-
ce - dalla giusta combinazione dei “tratti” su cui le interazioni ge-
ni-ambiente possono agire, a prescindere dalle origini di quei tratti.
E, cosa ancora più importante per la Olivieri, é che gli individui che
possiedono l’intero set di caratteristiche necessarie, hanno anche la
possibilità di varcare la soglia dell’expertise, sempre che siano di-
sponibili i processi prossimali ottimali per attualizzare e sviluppare
quei tratti. Come giustamente ella rileva, “...ricerche sull’Effetto
San Matteo (noto in sociologia) hanno mostrato che, in generale,
è sempre il ricco a diventare più ricco4. Un individuo può avere il
    3
       Con un pò di malizia, poi, l’Autrice scova tra gli scritti di Gardner un passo che ci
sembra molto significativo per la storia delle idee. “Nel volume intitolato Scientists making
a difference (Sternberg, Fiske & Foss, Eds., 2016), tra gli scienziati che hanno risposto
alla domanda su quale fosse stato il loro successo o la loro scoperta più grande, Gardner
ha risposto che per lui si è trattato della teoria delle intelligenze multiple, che ammette lo
abbia reso famoso anche grazie alla scelta delle parole (“intelligenza” invece di “talento”).
Egli afferma: «Molti autori, accademici e non, hanno scritto molto sulla diversità dei ta-
lenti umani […] Io ho definito le categorie che ne risultano come “intelligenze” piuttosto
che come “talenti”. Nel farlo, ho voluto sfidare quegli psicologi che ritenevano di detenere
la proprietà sulla parola “intelligenza” e che avevano il monopolio sulla sua definizione e
misura. Se avessi scritto dei talenti umani, piuttosto che delle intelligenze, probabilmente
non mi avreste mai chiesto di contribuire a questo volume»” (pp.13-14)
    4
      Col termine effetto San Matteo (Matthew effect), in sociologia si indica un processo
per cui, in certe situazioni, le nuove risorse che si rendono disponibili vengono ripartite tra
i partecipanti in proporzione a quanto hanno già. In inglese ciò viene espresso con l’espres-
sione The rich get richer and the poor get poorer, ossia: “I ricchi si arricchiscono sempre
più, i poveri si impoveriscono sempre più”. Il nome deriva dal versetto 25, 29 del Vangelo
di Matteo che recita: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi
non ha sarà tolto anche quello che ha”.

                                                                                             9
potenziale necessario per essere un ottimo violoncellista o un abile
linguista, tuttavia dovrà necessariamente essere esposto a (e forse
anche spronato verso) l’expertise in questi settori, per poter mettere
a frutto questo potenziale” (pp. 31-32). Nè é un caso, dunque, che
la prospettiva bio-ecologica da essa assunta si riferisce a tutto ciò
come alla disponibilità di strutture di opportunità (Bronfenbrenner
& Ceci, 1994). “Se si scopre che un individuo possiede le abilità
necessarie per sviluppare padronanza, ma non viene mai esposto a
un dominio di potenziale talento, la gamma degli esiti di sviluppo
potenziale di quella persona sarà inutilmente limitata” (pp. 35).
   Così la Olivieri adotta una prospettiva dinamico-incrementale sul
talento, “vale a dire un sistema di convinzioni, motivazioni e per-
sistenza che propone che il talento personale possa essere progres-
sivamente sviluppato, attraverso un training specifico e lo sforzo
individuale: tutto ciò in netta contrapposizione con le abilità innate.
   È naturale che l’Autrice elabori una prospettiva siffatta in dia-
logo serrato con le neuroscienze, cui essa attribuisce il merito “di
aver fatto luce sul modo in cui il cervello acquisisce, immagazzina
e utilizza le informazioni, e su quali fattori intrinseci ed estrinseci
possono limitarci nell’ottimizzare tale processo. Forse che i bambi-
ni predisposti a soffrire di disturbo da deficit dell’attenzione sono
anche, fin da principio, quelli più attirati dalla TV? La maggior parte
delle evidenze suggerisce che non è così”.
   Ed é a questo punto che il volume si fa intrigante: lì dove segnala
e indaga quel luogo di senso comune che attraversa tutta l’azione
educativa e didattica, e con cui si scontrano le stesse analisi sui ri-
sultati di apprendimento degli allievi. “Occorre smettere - sostie-
ne la Olivieri - di dissociare implicitamente i risultati scolastici dal
bisogno di crescita personale, iniziando ad interpretare il succes-
so non solo come performance scolastica, ma in termini più ampi,
come progetto di vita e , insieme, come asse tendenziale di risultato
nei diversi ambiti della conoscenza e dell’esperienza. Ma come? La
prospettiva indicata dall’Autrice é convincente: spostare il focus tra-
dizionale dell’insegnamento e dell’educazione dalle “learning skil-
ls” o abilità d’apprendimento verso le life/deep skills, ovviamente

10
in una prospettiva non più solo curricolare ma orientata al lifelong
learning; quest’ultimo progettato e attuato intorno alla possibilità
che i discenti possano sviluppare i loro piani d’apprendimento per-
sonali (le cosiddette “enabling skills” o abilità abilitanti) connesse
a setting esterni alla classe (“social skills” o abilità sociali) e orien-
tate verso un apprendimento maggiormente applicato (“life skills”
o abilità di vita).
   La Seconda Parte del volume consegue coerentemente con le
analisi fin qui succintamente richiamate. Quest’ultima é dedicata
ad una fenomenologia del talento nei suoi diversi ambiti di espres-
sione e di vita. Per ciascuno di essi si ricostruisce la ontogenesi del
talento e si esamina la via formativa ed espressiva. Così dal talento
musicale a quello pittorico e cinematografico; dal talento scientifi-
co a quello letterario, dal talento sportivo a quello della danza; dal
talenti nel teatro (e la relativa scoperta di un’intelligenza affabulato-
ria) al talento criminale: pagine discorsive e bellissime si susseguo-
no nel rivelarci mondi che di certo ignoravamo. Con un messaggio
latente ma potente: i nostri figli si orientano in questi mondi in modi
che concrescono con le attenzioni, le strategie e le opportunità di
formazione che loro forniamo. L’essenziale non é di predeterminare
l’ambito che desideriamo consacri il loro successo: qualsiasi loro
scelta, alfine, saremo obbligati a rispettare. L’essenziale é, ancora
una volta, il metodo con cui li aiutiamo a dare valore e forma al loro
potenziale. Perché sarà quest’ultimo a trasformarsi in tratti identitari
e caratteristici del loro sentire e del loro interagire.
   Dobbiamo esser grati a Diana Olivieri per questo volume, per le
minuziose analisi critiche della letteratura scientifica utilizzata di
volta in volta, e per aver saputo collegare tra loro e declinare in una
scrittura agile e piana concetti e principi complessi.

                                                 Umberto Margiotta
                                            Venezia, 15 Gennaio 2019

                                                                       11
Introduzione

   Gli elementi più comuni normalmente proposti nelle innumere-
voli definizioni di intelligenza sono certamente: 1) la presenza di
abilità di livello superiore (come il ragionamento astratto, la capaci-
tà di rappresentazione mentale, problem solving e decision making)
che siano categoricamente considerate tali dalla cultura d’apparte-
nenza, 2) la capacità di apprendimento, 3) la capacità esecutiva, 4)
l’adattamento per soddisfare le richieste ambientali in modo effica-
ce. È evidente come l’idea di adattamento sia centrale nel definire
intelligenza e talento.
   Tuttavia gli esseri umani vanno ben oltre il semplice adattamen-
to all’ambiente ospitante; sono infatti capaci di modellare, anzi, di
selezionare gli ambienti più adatti alle loro esigenze evolutive, per
poter dare espressione al loro potenziale. L’intelligenza è, a tal pro-
posito, non solo reattiva all’ambiente, ma anche attiva nel dar forma
a quest’ultimo (Sternberg, 1997a).
   Per intelligenza possiamo quindi intendere sia una costellazione
di abilità necessarie a favorire l’adattamento ad un contesto ambien-
tale, sia la capacità di selezionare il contesto più adatto all’espres-
sione del nostro potenziale: insomma la capacità di dar forma ai
nostri talenti, attraverso l’identificazione dell’ambiente giusto, che
sia in grado di stimolarli, di accoglierli ed alimentarli.
   Ciò che lo sviluppo delle intelligenze favorisce è il direziona-
mento delle nostre specifiche abilità ad ottenere una corrisponden-
za esterna, visibile al mondo, rispetto alla nostra coerenza interna
delle varie attitudini e conoscenze che possediamo e delle nostre
strutture di valori. Le persone, dunque, risulteranno “poco intelli-
genti” nella misura in cui viene loro impedito di connettere tale cor-
rispondenza esterna con la loro coerenza interna.

                                                                    13
Anche se le persone solitamente pensano in termini di adatta-
mento al contesto ambientale, non meno importanti sono i processi
di modellamento (shaping) e di selezione degli ambienti. La perso-
na intelligente, infatti, avendo compreso il contesto ambientale, può
decidere di rifiutarne alcuni aspetti e cercare addirittura di modifi-
carlo o, in ultima istanza, di trovarne un altro.
    In letteratura, grande è stata la confusione tra la generalità conte-
stuale dell’intelligenza e la sua specificità, identificabile come talen-
to settoriale, confusione che deriva dallo scambiare erroneamente il
pensiero intelligente con il comportamento intelligente.
    Parafrasando quanto sostenuto da Sternberg (1988) e in linea con
il pensiero di Gardner, possiamo dunque affermare che l’intelligen-
za possegga un nucleo comune di processi mentali, che si manifesta
a livello comportamentale in modi diversi e in contesti diversi.
    Per quanto i processi mentali siano comuni in contesti ambientali
diversi, l’abilità di una persona, la sua motivazione o la decisione di
applicare tali processi in contesti diversi, potrebbero non determi-
nare risultati paragonabili tra loro. Le persone, quindi, possono non
dimostrarsi ugualmente intelligenti, a livello di comportamento, in
tutti i setting. Ad esempio, un individuo potrà dimostrare una parti-
colare abilità nel dominio verbale, ma non in quello del calcolo. Il
risultato di tali differenze è l’evidente specificità e differenziazione
di dominio nel funzionamento intellettuale (Sternberg & Gardner,
1983). Inoltre gli individui possono essere diversamente motivati ad
applicare i loro processi mentali in domini differenti. Una persona
potrebbe dimostrare pari abilità nei domini linguistico e matemati-
co, ma decidere semplicemente che le attività pertinenti ad uno di
questi domini non sono interessanti. O ancora, mancando del senso
di autoefficacia in un particolare dominio (Bandura, 1977), la perso-
na potrebbe essere stata convinta da altri (o essersi autonomamente
convinta) che le manca una data abilità e che quindi non esiste la
possibilità di poterla manifestare, né di fare i giusti passi per svi-
lupparla.
    Consideriamo inoltre la questione della decisione di applicare i
processi mentali al comportamento. Le persone tendono ad utiliz-

14
zare i processi mentali che sono state abituate a considerare degni
di valore nel contesto in cui si trovano (e che spesso, come acca-
de nella scuola, decide per loro). Quindi, i criteri perché un’abilità
naturale possa essere identificata come una forma di “intelligenza”
riguardano la necessità di possedere l’abilità mentale a) per adattarsi
ad un preciso contesto ambientale (non a qualunque ambiente), b)
per modellarlo oppure per selezionarlo a proprio vantaggio.
    Ciò che rende necessaria un’abilità per il proprio adattamento,
per la selezione o per il modellamento di un dato ambiente, è il
grado di coerenza che si ottiene rispetto alle nostre tendenze e pre-
disposizioni o attitudini, che hanno una profonda radice biologica
(cfr. Gagné, 2000), ma che necessitano di essere nutrite.
    Se si accetta la suddetta definizione di intelligenza, allora ne con-
segue che ciò che accade a livello d’intelligenza sarà osservabile
solo nei termini delle abilità rilevanti per attività culturalmente de-
terminate con le quali l’individuo si confronta in momenti diversi
nel corso della sua vita1.
    Gardner (1999) identifica l’intelligenza come «un potenziale
biopsicologico di elaborare le informazioni, che può essere attivato
in un ambiente culturale per risolvere problemi o creare prodotti ai
quali la cultura di appartenenza attribuisce un valore» (pp. 33-34),
suggerendo che le intelligenze siano, appunto, dei potenziali da at-
tivare, a seconda dei valori culturali, delle opportunità offerte nella
cultura e delle decisioni personali.
    La sua Teoria delle Intelligenze Multiple (1983) propone una
prospettiva che «aiuta a specificare quei domini in cui le “doti” in-
tellettuali possono essere messe all’opera, descrivendo così forme
dominio-specifiche di giftedness in termini di intelligenze multiple»
(Chan, 2008, p. 41). Secondo tale teoria, la valutazione delle abili-
tà dovrebbe basarsi su un profilo differenziato di intelligenze che
    1
      Nelle sue numerose ricerche, Sternberg (1997b) ha dimostrato come una concettua-
lizzazione più ampia di cosa siano l’apprendimento e le abilità di pensiero che si trova-
no alla base dell’intelligenza umana può fare realmente la differenza, in particolare nel
contesto scolastico. Tale revisione concettuale vede concessa agli studenti una maggiore
flessibilità nell’utilizzo delle loro abilità mentali per potersi adattare ai loro ambienti, mo-
dellandoli in base alle loro specifiche esigenze.

                                                                                             15
copra le aree specifiche in cui ciascun individuo possa manifestare
i suoi punti di forza e, attraverso di essi, compensare i suoi punti
deboli. Promuovendo così l’importanza delle differenze individuali,
essa favorisce qualunque opportunità venga offerta per trovare il
proprio personale significato da attribuire all’apprendimento (Bar-
rington, 2004) 2.
    Nel lavorare sia con adulti che avevano subito danni cerebrali
che con i cosiddetti gifted children, Gardner si rese conto che le
persone posseggono una vastissima gamma di capacità e che l’abi-
lità del singolo individuo in un’area non assicura in alcun modo che
egli sia ugualmente abile in altre aree. D’altra parte un’intelligenza
non rappresenta uno stile d’apprendimento. Gli stili infatti sono le
modalità con cui il singolo individuo affronta compiti diversi, men-
tre un’intelligenza – alla pari di un talento – è una capacità com-
putazionale3, la cui forza varia da individuo a individuo; fa quindi
     2
       L’apprendimento, in siffatta prospettiva, determina migliori pensatori, dotati di una
migliore visione e padronanza personale, definita da Senge (1990, p. 141) come «la di-
sciplina della crescita personale». Per le persone che posseggono elevate abilità di padro-
nanza personale riuscire ad avanzare verso gli obiettivi desiderati è un fattore fortemente
motivante. La padronanza personale, secondo Senge (1990), è riconoscibile in molti modi:
si può infatti manifestare come un senso speciale di scopo o “chiamata”, come capacità di
valutare accuratamente la propria realtà attuale (in particolare, riconoscendo rapidamente
assunzioni imprecise), come abilità nello sfruttare la tensione creativa per ispirare i propri
progressi, come capacità di vedere il cambiamento come un’opportunità, come profonda
curiosità, come capacità di attribuire elevata priorità alle connessioni personali senza per-
dere di vista la propria individualità, come capacità di pensiero sistemico (ossia vedersi
come parte di un sistema più ampio).
     Sviluppare la padronanza personale è un processo di tipo lifelong; perché esso abbia
inizio, occorre essere pronti ad apprendere. Perché l’apprendimento possa avere luogo,
l’individuo dovrà (ri) conoscere il proprio stile d’apprendimento, e chiunque si occupi
della sua formazione dovrà poter comprendere e descrivere le differenze individuali nel
modo di apprendere, ossia valorizzare l’individualità dei discenti e riconoscere il bisogno
di stimolare la consapevolezza del loro stile d’apprendimento. Quest’ultimo si manifesterà
al suo meglio se applicato a specifiche aree di talento. Studenti diversi potranno preferire
diversi ambienti d’apprendimento e diverse modalità d’apprendimento, mostrando punti di
forza, talenti e punti deboli unici. Comprendere il proprio stile d’apprendimento consente
di «passare a livelli più alti di funzionamento personale e cognitivo» (Knox, 1986, p. 117).
     3
       Secondo la Teoria Computazionale-Rappresentazionale della Mente, la mente uma-
na sarebbe un sistema di elaborazione delle informazioni e la cognizione e la coscienza
sarebbero essé stesse forme di computazione. La teoria, proposta inizialmente da Hilary
Putnam nel 1961, fu in seguito sviluppata da Jerry Fodor nell’arco del ventennio succes-
sivo. Secondo Fodor (1975) la mente è un sistema computazionale realizzato (ossia fisica-

16
riferimento al modo con cui elaboriamo le informazioni, piuttosto
che al modo con cui le incameriamo; quest’ultima è una questione
di “stile” (Viens & Kallenbach, 2004)4.
mente implementato) dall’attività neurale del cervello e il pensiero, a sua volta, sarebbe un
processo computazionale definito dalle infinite rappresentazioni mentali che hanno fisica-
mente sede e realizzazione nel cervello. Fodor propone inoltre che gli stati mentali siano
stati funzionali, definiti dal loro ruolo in un sistema cognitivo e non dal materiale fisico
di cui sono costituiti. La computazione è qui intesa nei termini delle Macchine di Turing
che manipolano simboli in base ad una regola, in combinazione con lo stato interno della
macchina. Secondo Turing, quindi, se una macchina si comporta in modo tanto intelligen-
te, quanto un essere umano, allora è intelligente come un essere umano. Il test di Turing si
basa proprio su questa premessa. L’idea che la manipolazione dei simboli sia alla radice
di tutte le forme di intelligenza e che, se combinato con le adeguate componenti fisiche,
qualunque sistema fisico di simboli di dimensione sufficiente possa essere organizzato per
manifestare un’intelligenza generale (Newell & Simon, 1976), ha portato a ritenere che il
computer e il pensiero umano siano, alla radice, la stessa cosa, dal momento che il com-
portamento simbolico dell’uomo deriva dalle sue caratteristiche che lo configurano come
sistema fisico di simboli.
     I fondamenti computazionali dell’intelligenza naturale stanno oggi emergendo con
forza, a partire dai nuovi sviluppi in ambito neuroscientifico e dell’intelligenza artificiale,
che offrono nuovi insight su come dotare le macchine di capacità simil-umane. In tal senso
alcuni principi computazionali si rivelano importanti anche per la comprensione dell’intel-
ligenza naturale. Comprendere in che modo la mente emerga dalla materia cerebrale è una
delle domande che le scienze cognitive continuano a porsi. L’ambizione di comprendere
l’intelligenza naturale presente negli organismi biologici può essere rapportata alla mo-
tivazione che spinge chi si occupa di intelligenza artificiale a costruire macchine intelli-
genti. Ma se dal punto di vista teorico possediamo solide conoscenze sulle problematiche
computazionali che il nostro cervello è in grado di risolvere (Dayan & Abbott, 2005) e
dal punto di vista empirico le recenti scoperte tecnologiche ci consentono di ispezionare e
manipolare l’attività cerebrale come mai fino ad ora, producendo nuove intuizioni neuro-
scientifiche sulla struttura e sul funzionamento cerebrale (Chang, 2015), ancora non è stata
creata macchina che dimostri una capacità di ragionamento che eguagli la flessibilità e la
capacità di generalizzazione tipiche dell’elaborazione cognitiva degli organismi biologici.
     L’intelligenza naturale può dunque essere meglio intesa come la capacità computa-
zionale del cervello di comportarsi in modo adattivo, modificando le sue risposte in base
al mutare delle circostanze. Non a caso le moderne teorie sul funzionamento del cervello
umano abbracciano l’idea che il cervello possa essere considerato come una macchina
predittiva che ha il compito di generare continuamente previsioni top-down, che vengono
integrate con gli input sensoriali bottom-up (Clark, 2013; Summerfield & de Lange, 2014).
Ad oggi nessuna alternativa proposta alla teoria computazionale della mente si è dimostra-
ta sufficientemente forte da potersi ergere a nuovo paradigma dominante.
     4
       Gli educatori, oggi più che mai, devono confrontarsi con il problema di adattarsi
alle differenze e soddisfare i bisogni dei singoli discenti e di come aiutarli a raggiungere
il loro massimo potenziale, attraverso la formazione dei loro talenti. Dryden e Vos (2005)
sottolineano come molti educatori si ostinino ad insegnare secondo un modello di classe
carta-e-matita e banchi-in-fila, quando invece è evidente che le strategie di insegnamento
e apprendimento debbano essere adattate ad una nuova cornice concettuale che sappia

                                                                                            17
La proposta di Gardner ha profondamente cambiato la conce-
zione stessa dell’intelligenza, avendo contribuito all’espansione dei
parametri dei comportamenti considerati “intelligenti”, fino ad in-
cludere una grande varietà di abilità umane (Bender, 2002). Secon-
do Baum et al. (2005), la Teoria delle Intelligenze Multiple sfida la
nozione di QI (quoziente intellettivo) in almeno tre modi significa-
tivi: 1) numerose intelligenze sono all’opera, non solamente una; 2)
l’intelligenza viene espressa nella performance, attraverso i prodotti
e le idee del singolo individuo, non attraverso un punteggio riferito
ad un test; 3) il modo in cui le intelligenze vengono espresse è cul-
turalmente definito.
    Poiché ogni persona possiede una miscela unica di intelligen-
ze dinamiche, che variano in termini di sviluppo (sia in uno stesso
individuo che tra individui diversi) ne consegue che tutti meritano
l’opportunità di riconoscere e sviluppare la molteplicità dei loro ta-
lenti e che tutte le intelligenze offrono risorse alternative e potenzia-
li capacità per far progredire lo sviluppo umano, indipendentemente
dall’età e dalle circostanze5.
    Pur trattandosi di una teoria descrittiva e non prescrittiva in ter-
mini pedagogici6, la Teoria delle Intelligenze Multiple ha stimolato
innumerevoli idee e pratiche in ambito educativo (in questo conte-
sto ne analizzeremo due, note come PUA e OBE)7.
    Kagan e Kagan (1998) descrivono la Teoria delle Intelligenze
Multiple come un potente catalizzatore in ambito educativo, poiché
ha dato nuova linfa e vigore alla ricerca di approcci al curricolo, alla
rispondere alle richieste fatte dal nuovo sistema educativo. La richiesta più importante che
viene fatta agli educatori è di insegnare al di là ed oltre le tradizionali intelligenze.
     5
       Riconoscendo come ogni intelligenza possegga una storia evolutiva diversa e che si
trovi in parti differenti del cervello, Gardner opera una fusione di componenti biologiche e
comportamentali nei suoi sforzi per sostenere la sua teoria sull’intelligenza umana (Eisner,
2004), affermando quanto segue: «È di massima importanza riconoscere e nutrire tutta la
varietà delle intelligenze umane e tutte le combinazioni possibili di intelligenze. Siamo tut-
ti così diversi in ampia parte perché possediamo diverse combinazioni di intelligenze. Se
riconosciamo questo fatto, avremo qualche possibilità di gestire in modo adeguato i molti
problemi che dovremo affrontare nel mondo» (Gardner, 1993a, p. 12).
     6
       Cfr. Campbell, Campbell & Dickinson, 1996; Kornhaber, Veenema & Fierros, 2003;
Stanford, 2003.
     7
       V. Capitolo 2 (Parte prima) in questo volume.

18
didattica e alla valutazione più autentici e soprattutto centrati sugli
studenti e sulle loro attitudini. Da questa prospettiva, la Teoria delle
Intelligenze Multiple può essere utilizzata per soddisfare tre obietti-
vi, ossia abbinare l’insegnamento alle modalità con cui i discenti ap-
prendono, incoraggiare i discenti ad incrementare e rinforzare le loro
abilità e a sviluppare i loro talenti al massimo delle loro possibilità, e
onorare e celebrare la diversità degli stili di apprendimento (Özdemir,
Güneysu & Tekkaya, 2006). In particolare si afferma che i discenti
apprenderanno meglio quando potranno lavorare su informazioni che
siano state presentate loro in modo da corrispondere ai loro talenti
intellettuali e quando venga data loro la possibilità di riflettere su ciò
che sanno (incluse le loro conoscenze pregresse ed extra-scolastiche)
in una varietà di modi diversi, che vanno oltre le tradizionali modalità
di valutazione del compito o di un test (Kallenbach & Viens, 2004).
    Una panoramica sulla teoria di Gardner conferma che i discenti
posseggono una gamma di intelligenze che possono non venire ri-
conosciute né sviluppate nel corso della loro educazione. È evidente
come l’approccio alle Intelligenze Multiple, proprio come un ap-
proccio alla formazione dei talenti:

1)   si focalizzi sull’unicità della capacità di apprendimento di cia-
     scuno studente;
2)   miri ad elevati standard;
3)   enfatizzi l’espansione delle opportunità;
4)   ritenga che tutti i discenti possano avere successo nell’educa-
     zione;
5)   richieda un cambiamento di paradigma nell’implementazione
     dell’assessment;
6)   richieda un nuovo approccio all’insegnamento, all’apprendi-
     mento e alla valutazione dei risultati;
7)   consideri che tutti i discenti dovrebbero avere l’opportunità di
     lavorare in cooperazione con altri discenti;
8)   ritenga che tutti i discenti dovrebbero avere l’opportunità di
     svilupparsi in modo olistico;
9)   sostenga che tutti i discenti dovrebbero avere successo, quindi

                                                                       19
prepararsi, in quanto individui efficienti, a divenire membri re-
    sponsabili e produttivi della società;
10) si aspetti che le attività apprenditive vengano organizzate in un
    modo tale che la diversità dei discenti venga accolta;
11) si focalizzi sull’applicazione delle conoscenze alla vita reale;
12) attribuisca grande valore all’abilità dei discenti di risolvere i
    problemi.

    Una classe che si ispiri all’approccio alla formazione dei talen-
ti servirà da “microcosmo” del mondo reale, dove al discente e al
“facilitatore” del suo apprendimento vengono attribuiti pari valore.
I discenti saranno dunque desiderosi di dimostrare e condividere i
loro talenti.
    Un buon esempio di questo approccio all’incorporazione di più
intelligenze diverse in un’attività didattica è rappresentato nel film
L’Attimo fuggente, dove l’educatore John Keating – interpretato dal
compianto Robin Williams – lascia che i suoi allievi leggano opere
letterarie mentre ascoltano musica classica o prendono a calci un
pallone da calcio (Armstrong, 1994b). Una combinazione di simili
esperienze d’apprendimento certamente faciliterà una comprensio-
ne più profonda del materiale da apprendere.
    L’educatore può anche mostrare al discente come poter utilizzare
le sue intelligenze più sviluppate come aiuto nell’acquisizione di
conoscenze che normalmente richiederebbero l’utilizzo di altre in-
telligenze in cui risulta più debole (Gardner, 2006).
    Quale ruolo può giocare oggi la formazione dei talenti nell’im-
pegnare i giovani nel loro apprendimento e nell’aiutarli a svilup-
pare abilità e attitudini che offrano loro un orientamento verso un
apprendimento che duri per tutta la vita? Cosa ha oggi la scuola da
offrire in tal senso?
    Un cambiamento-chiave richiesto alla scuola, a tutti i livelli, con-
siste nell’immergere i suoi studenti, in maggiore misura di quanto
non abbia fatto fino ad oggi, nel mondo esterno alla scuola, in parti-
colare nel mondo del lavoro, non solo attraverso il coinvolgimento
in esperienze professionali, come già sperimentato in passato, ma

20
dando molteplici opportunità per sviluppare e modellare le abilità
personali e i talenti, alimentando l’autostima e la fiducia in sé stessi
e massimizzando le possibilità di manifestare la propria intrapren-
denza e immaginazione nel mondo, oltre il recinto dell’aula.
    Per molti aspetti, la scuola ha già il merito di privilegiare ap-
procci socio-costruttivisti nella sua passi didattica con l’obiettivo
di farli divenire dei lifelong learners8. Il suo ruolo (centrale per lo
sviluppo sociale di un Paese) consiste infatti nel dotarli delle ca-
ratteristiche e delle abilità essenziali ad essere multialfabeti nella
società della conoscenza, e dunque di stimolarli al massimo delle
loro capacita9.
    Rimandando al volume La formazione dei talenti (Margiotta,
2018) per una più vasta e approfondita discussione in merito alle
sfide esistenti per educatori e neuroscienziati, in questa sede presen-
teremo storie e stralci biografici di personaggi illustri – noti per un
loro particolare talento – che, a fronte di grandi sforzi e dedizione,
sono riusciti a manifestare al mondo di cosa erano capaci.
    Ci limiteremo a sottolineare come gli attuali lavori neuroscienti-
fici siano diretti non solo all’identificazione delle basi cerebrali per
disturbi dell’apprendimento, come la dislessia e la discalculia evo-
lutiva, dove la padronanza della lettura o della matematica pongono

    8
      Cfr. Margiotta U., Teorie dell’Istruzione, Anicia, Roma 2014.
    9
      Del resto il cambiamento e l’ampliamento dei confini delle skills sono da sempre
due costanti nella teoria e nella pratica educativa. Ad esempio, come risultato della Rivo-
luzione Industriale a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, le persone dovettero imparare
a lavorare con i macchinari, e ciò che l’educazione offriva, perché considerato degno di
essere insegnato sul posto di lavoro, era la precisione, la regolarità, la prevedibilità e la
capacità di seguire dei modelli. Inizialmente non si trattò di un’educazione formale, né di
una formazione professionale vera e propria, piuttosto di un’educazione generalmente of-
ferta sotto forma di regole di comportamento da tenere sul luogo di lavoro. Con l’avanzare
del XIX secolo divenne ovvio che un’educazione generale universale fosse essenziale,
non solo per fornire alle fabbriche una nuova generazione di lavoratori, ma come espres-
sione fondamentale dei diritti umani. A partire dalla fine del XIX secolo l’intelligenza era
principalmente concepita in termini di ragionamento logico-deduttivo (ne sono testimoni i
primissimi test d’intelligenza, come quello di Binet, sviluppato per identificare i bambini
che fossero da considerare “incapaci” di affrontare la scuola di fine Ottocento, dominata
dall’apprendimento mnemonico e dalla richiesta di seguire pedissequamente modelli pre-
vedibili).

                                                                                          21
insolite difficoltà al bambino10, ma anche all’indagine delle basi ce-
rebrali per la formazione dei talenti, attraverso l’identificazione dei
correlati neurocognitivi dell’eccellenza11.
     10
        Anche se la ricerca ha mostrato l’esistenza di correlati cerebrali (o marcatori) per i
disturbi dell’apprendimento, tali marcatori sono sottili e complessi. Al momento, quindi,
non è possibile prevedere o stimare lo specifico disturbo dell’apprendimento di un indivi-
duo da una scansione del cervello (Giedd & Rapoport, 2010).
     11
        John Mighton (2003), pluripremiato drammaturgo canadese, scrittore e docente di Ma-
tematica, ideò nel 1998 il metodo didattico JUMP Math (dove l’acronimo JUMP sta per
“Junior Undiscovered Math Prodigies”), attualmente proposto in Canada, negli Stati Uniti e
in Spagna. Due sono le caratteristiche centrali del metodo: la prima consiste nell’evitare di
sovraccaricare il cervello infantile, passando con eccessiva rapidità dal concreto all’astrat-
to; la seconda, invece, prevede la suddivisione delle classi in base alle capacità specifiche
dei ragazzi, creando gerarchie che non aiutando né gli studenti particolarmente “dotati”, né
quelli che manifestano evidenti difficoltà, permettono la realizzazione di un miglioramento
generale verso l’alto. Si tratta di un servizio di tutoraggio che aiuta i giovani a raggiungere il
loro pieno potenziale in matematica. I principi d’insegnamento proposti da Mighton si foca-
lizzano sugli stessi metodi utilizzati da lui stesso in fase di apprendimento della disciplina: un
approccio all’insegnamento che prevede lo spezzettamento dei problemi in livelli progressivi
di difficoltà. Secondo Mighton, il ruolo dell’insegnante non dovrebbe consistere nell’im-
partire istruzioni dirette, ma nell’incentivare la collaborazione tra i ragazzi, perché trovino
in autonomia soluzioni a problemi reali, approcciandosi a questi ultimi in modo diverso e
provando ad applicare le soluzioni più disparate. Per lo studioso, le persone che mostrano
abilità “esperte” non le posseggono dalla nascita, ma le sviluppano attraverso ingenti quantità
di pratica ripetitiva, imitando e modellandosi sugli stili e sulle idee di altre persone, come i
campioni di scacchi che fanno ripetutamente piccole serie di mosse, memorizzano migliaia
di posizioni e studiano ossessivamente le partite dei maestri. Mighton stesso si sottopose ad
una autoformazione rigorosa, fino a divenire esperto nella scrittura drammaturgica. Il suo
segreto, come lui stesso afferma, è stato quello di spezzettare il compito in una serie di piccoli
passi, e fare pratica fino a rasentare la perfezione. La stessa strategia che ha utilizzato con la
matematica, fino al conseguimento del dottorato all’Università di Toronto.
     Anders Ericsson, professore di Psicologia alla Florida State University, ha studiato le
performance esperte di calciatori, chirurghi, pianisti, scrittori, giocatori di scacchi, pro-
gettisti di software ed altri talenti. I risultati delle due ricerche hanno dimostrato che gli
esecutori esperti non sono dei “talenti nati”, ma dei “talenti formati”. Tuttavia, il concetto
di pratica deliberata introdotto proprio da Ericsson, si riferisce a molto più della semplice
ripetizione di un compito o di un’attività, poiché include la definizione degli obiettivi,
l’ottenimento del feedback necessario, la possibilità di correggere gli errori passati e la
volontà di concentrarsi sul processo, oltre che sul risultato (Ericsson & Charness, 1994).
In termini cerebrali, la pratica continuativa aumenta la produzione della guaina mielinica
isolante attorno alle fibre nervose, rafforzandone la forza, l’accuratezza e la velocità dei se-
gnali elettrici emessi, come spiega Daniel Coyle nel suo libro The Talent Code: Greatness
isn’t born. It’s grown (2009). Ciò, a sua volta, consente alle risposte sensoriali di divenire
più efficaci e ai nostri pensieri di divenire più fluenti. Coyle afferma inoltre che il modo
migliore per costruire un buon circuito consista nell’attivarlo, prestare attenzione agli er-
rori, poi attivarlo di nuovo, ancora e ancora. «La lotta non è un’opzione, è un requisito
biologico», conclude lo studioso.

22
La Gallup Organization Guidata da Marcus Buckingham e Jenni-
fer Fox è stata pioniera nel campo dei talenti e della valorizzazione
del potenziale e dei punti di forza. La premessa di base è la seguente:
    Siamo tutti unici e tutti possediamo diversi punti di forza, di-
versi talenti e diversi modi di pensare e di apprendere. Abbiamo
una immensa capacità di crescita, una crescita che si dimostrerà più
sostenibile, se sapremo attingere alle nostre attitudini, abilità e co-
noscenze per procedere verso ulteriori apprendimenti ed esplora-
zioni. L’intelligenza manifesta è il talento che è stato alimentato. Se
un individuo dimostra un’abilità naturale (erroneamente indicata da
alcuni come “innata”), è possibile convertire quell’abilità in talento
attraverso la formazione. A sua volta il talento dimostrato potrà con-
vertirsi in intelligenza (in senso gardneriano di applicabilità e gene-
ralizzazione a contesti diversi), a patto di dedicarsi a sforzi continui
e ad una pratica deliberata costante. Se invece si rinuncia a dedicarsi
a tale sforzo e alla pratica costante, adagiandosi su ciò che si è già
dimostrato di saper fare, quel talento andrà perdendosi nel lungo
termine, regredendo ad una mera abilità scarsamente sviluppata.
    Nel volume intitolato Scientists making a difference (Sternberg,
Fiske & Foss, Eds., 2016), tra gli scienziati che hanno risposto alla
domanda su quale fosse stato il loro successo o la loro scoperta più
grande, Gardner ha risposto che per lui si è trattato della Teoria del-
le Intelligenze Multiple, che ammette lo abbia reso famoso anche
grazie alla scelta delle parole (“intelligenza” invece di “talento”).
Egli afferma: «Molti autori, accademici e non, hanno scritto molto
sulla diversità dei talenti umani […] Io ho definito le categorie che
ne risultano come “intelligenze” piuttosto che come “talenti”. Nel
farlo, ho voluto sfidare quegli psicologi che ritenevano di detenere
la proprietà sulla parola “intelligenza” e che avevano il monopolio
sulla sua definizione e misura. Se avessi scritto dei talenti umani,
piuttosto che delle intelligenze, probabilmente non mi avreste mai
chiesto di contribuire a questo volume».
    È giunto il momento di andare oltre Gardner, restituendo al ter-
mine “talento” il ruolo principe che gli spetta di diritto.

                                                                     23
PARTE PRIMA

Tessitori nella società liquida:
nuovi paradigmi per la formazione dei talenti

                                                25
Capitolo primo
Una prospettiva bio-ecologica sull’ontogenesi del talento

   «Il salto dai geni al comportamento è molto più lungo rispetto al
                                 salto dal cervello all’educazione».
                                                    Margiotta, 2011, Ed., p. 334

 «Un musicista deve fare musica, un artista deve dipingere, un po-
eta deve scrivere se vuole essere, in ultima analisi, felice ... Questa
 tendenza potrebbe essere formulata come il desiderio di diventare
   sempre più ciò che si è, di diventare tutto ciò che si è in grado di
                                                            diventare».
                                                              Maslow, 1943, p. 383

    Le prime prospettive sul “talento” si focalizzavano per alcuni
solo sulle attività artistiche, per altri sulla performance in un domi-
nio specifico (spesso non accademico, come ad esempio un atleta,
un architetto o un carpentiere “di talento”), per altri ancora su un
livello di performance in un test di Quoziente Intellettivo o di abi-
lità che fosse superiore alla media, ma non abbastanza alto da poter
essere considerato (plus) dotazione.
     In realtà il talento si riferisce a qualunque potenziale naturale
che può o meno essere attualizzato (ossia concretizzato) in exper-
tise1: qualcuno con un potenziale innato per l’acquisizione di una
    1
      L’expertise è l’abilità degli individui di avere prestazioni particolarmente efficienti
in una varietà di compiti dominio-specifici. È possibile disporre i domini di expertise –
che spaziano dalla musica, danza, arte e letteratura, fino allo sport, scacchi, matematica,
scienze e acquisizione delle lingue straniere – su un continuum che ne riflette il grado
di innovazione: all’estremità non-innovativa, troviamo il nuoto (e altre attività, come le
immersioni o il pattinaggio artistico), in cui l’individuo cerca di fare qualcosa esattamente
nello stesso modo ogni volta. Una qualche innovazione si può osservare nelle abilità di me-

                                                                                          27
lingua straniera, come il Russo, può vedere concretizzato questo suo
potenziale solo se la sua scuola o i genitori offrono un’esposizione
alla lingua russa. Allo stesso tempo, qualcuno privo di un talento
naturale per l’acquisizione delle lingue straniere può, se si dedica
ad una pratica sufficiente, raggiungere un livello di fluidità indistin-
guibile dalla sua controparte dotata di un’abilità o “predisposizione
naturale”. Se un bambino di cinque o sei anni non sviluppa il suo
speciale talento per il nuoto, ad esempio, attraverso una pratica rigo-
rosa con il costante supporto di genitori ed insegnanti, probabilmen-
te non sarà considerato talentuoso dieci anni dopo.
   È convincimento di Ericsson che la pratica intenzionale costi-
tuisca la causa più significativa della comparsa del talento (vedi
Ericsson & Charness, 1994). Proprio come portare un animale alla
fonte non assicura che quest’ultimo si abbeveri, offrire condizioni
ambientali di sostegno non garantisce che si generi automatica-
mente eccellenza. Anche i sostenitori di una base genetica per il
talento concordano sul fatto che il raggiungimento dell’expertise
richieda periodi di formazione lunghi (ad es., Ericsson & Char-
ness, 1994), e un talento percepito per uno specifico dominio,
come presentato da Ericsson, Krampe & Tesch-Römer (1993), è
sempre il risultato di un breve periodo iniziale di esposizione al
dominio.

Dal talento come potenziale naturale al talento come expertise

    L’idea che l’eccellenza nell’eseguire un’attività complessa ri-
chieda un livello critico minimo di pratica affiora più e più volte ne-
gli studi sull’expertise. I ricercatori hanno infatti stabilito quello che
ritengono sia il “numero magico” della vera padronanza: diecimila
ore di pratica per diventare esperti compositori, giocatori di basket,
scrittori di fantascienza, pattinatori, concertisti, giocatori di scacchi,
e molto altro ancora.

morizzazione, quando il materiale da ricordare è nuovo. L’innovazione è implicata anche
nella composizione, nella performance di musica classica, jazz e pop (olare), nel gioco del
tennis, degli scacchi e del basket.

28
Nessuno ha ancora trovato un caso in cui la vera expertise di
livello mondiale sia stata realizzata in minor tempo. Sembra, infatti,
che il cervello necessiti esattamente di questo tempo per assimilare
tutto ciò che è necessario sapere, per ottenere la vera maestria.
   Il miglioramento della pratica in giovane età, a causa di questa
esposizione precoce, porta alla percezione che ci si trovi di fronte
ad abilità innate, quando il talento è in realtà dovuto ad una prati-
ca accumulata. Questo talento percepito, a sua volta, porta ad una
precoce iniziazione alla pratica deliberata, con la supervisione di un
coach qualificato.
   L’opportunità di accumulare maggiori quantità di pratica delibe-
rata, rispetto a quella avuta da soggetti dello stesso gruppo di età,
conduce ad una performance comparativamente migliore rispetto ai
coetanei, perpetuando la percezione che il bambino fosse fin dall’i-
nizio dotato di “talento innato” e continui ad esserlo.
   Ogni persona di talento segue un percorso unico verso l’eccellen-
za. Il talento, da questo punto di vista, è solo il potenziale per l’ec-
cellenza, che può essere tanto alimentato, quanto andare sprecato.
In altre parole, fattori ambientali e biologici estremamente variabili
interagiscono in modi complessi per offrire condizioni facilitanti,
ma anche vincolanti per lo sviluppo, una situazione che offre una
plasticità relativa, piuttosto che assoluta (Ford & Lerner, 1992).
   La maggior parte dei domini di expertise oggi hanno una sto-
ria abbastanza lunga di sviluppo continuato. Quando Tchaikovsky
chiese a due tra i più grandi violinisti del suo tempo di suonare il suo
concerto per violino, essi rifiutarono, ritenendo lo spartito inesegui-
bile (Platt, 1966). Oggi i violinisti d’élite considerano quel concerto
parte del loro repertorio standard.
   Ericsson & Charness (1994) si basano sul fatto che nel corso
degli ultimi secoli, i livelli di prestazione sono aumentati, e in al-
cuni domini in modo drammatico. Ericsson (1996) enfatizza ulte-
riormente questo aspetto, citando che il tempo del maratoneta vin-
citore nei primi giochi olimpici oggi può essere raggiunto da molti
corridori dilettanti. Egli utilizza questo continuo miglioramento
della performance esperta per dimostrare che il vero indicatore di

                                                                     29
una performance di questo livello sono la qualità e la quantità del-
la pratica deliberata, giacché molti individui “normali” oggi sono
in grado di raggiungere ciò che solo gli esperti potevano ottenere
in passato.
    I graduali cambiamenti nella composizione genetica delle popo-
lazioni impiegano migliaia di anni a verificarsi, eppure nel corso
dell’ultimo secolo sono emersi incrementi critici nei limiti superiori
della performance. I miglioramenti più evidenti nel livello di per-
formance storica, in particolare, hanno riguardato gli sport (Schulz
& Curnow, 1988). In alcuni eventi, come ad esempio la maratona e
il nuoto, molti seri dilettanti di oggi potrebbero facilmente battere i
vincitori di medaglie d’oro dei primi Giochi Olimpici. Ad esempio,
dopo i IV Giochi Olimpici del 1908, i funzionari quasi vietarono il
doppio salto mortale nelle immersioni, perché credevano che queste
immersioni fossero troppo pericolose e che nessun essere umano
sarebbe mai stato in grado di controllarle. I tuffatori di oggi consi-
derano i doppi salti mortali un’abilità di base da padroneggiare. Allo
stesso modo, alcune composizioni musicali considerate impossibili
da suonare nel XIX secolo, sono diventate parte del repertorio stan-
dard di oggi (Lehmann & Ericsson, 1998).
    Anche il miglioramento nel training musicale è stato così consi-
derevole, che secondo Roth (1982), il virtuoso Paganini «avrebbe
fatto sicuramente una figuraccia se si fosse trovato sul palcoscenico
di un concerto moderno» (p. 23). Le tecniche di Paganini e il con-
certo di Tchaikovsky furono considerati impossibili, fino a che altri
musicisti riuscirono a capire come padroneggiarli e descriverli, in
modo che gli studenti potessero apprenderli anche loro.
    Recenti ricerche hanno esplorato la questione se la pratica inten-
zionale possa spiegare il conseguimento di livelli elitari di perfor-
mance e le differenze individuali tra performer di livello esperto.

Fasi, effetti ed obiettivi della pratica intenzionale

  Lo sforzo e l’intensità della pratica intenzionale sono più pronta-
mente osservabili nel comportamento percettivo-motorio negli sport

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