EIKWN: LA PAROLA VISIVA - Anna Carotenuto SPUNTI PER UNA TEOLOGIA ICONICA A PARTIRE DAL CODEX PURPUREUS ROSSANENSIS
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FACOLTÀ TEOLOGICA DELL'ITALIA CENTRALE EIKWN: LA PAROLA VISIVA SPUNTI PER UNA TEOLOGIA ICONICA A PARTIRE DAL CODEX PURPUREUS ROSSANENSIS Anna Carotenuto Dissertazione per il Dottorato Roma 2012
Visto e approvato a norma degli Statuti della Facoltà Prof. Dr. Stefano Tarocchi Prof. Dr. Andrea Bellandi Prof. Dr. Gianni Cioli Prof. Dr. Angelo Pellegrini Firenze, Facoltà Teologica dell’Italia Centrale 13 gennaio 2011
FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’ITALIA CENTRALE Anna Carotenuto E„kèn: la parola visiva Spunti per una teologia iconica a partire dal Codex Purpureus Rossanensis Dissertazione per il Dottorato Roma 2012
Copyright © MMXII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978-88-548-4996-9 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2012
INTRODUZIONE Può un’opera d’arte pittorica essere un’opera teologica? La quaestio che poniamo alla base della nostra ricerca si situa all’in- terno di un discorso ampio e complesso e, solo apparentemente, ovvio quale è il rapporto tra arte e fede, o detto in termini epistemologici tra iconico e concettuale. È un discorso attuale ed urgente visto il ruo- lo straordinario e imponente che le immagini hanno assunto nel nostro millennio: il loro fluire a getto continuo, tanto da diventare, a volte, persino violento, si è imposto nella vita di ogni persona. Anche l’espe- rienza religiosa, sia dal suo immediato versante pratico, sia dal conse- cutivo versante teorico, ne resta coinvolta fino a toccare l’universo del sapere teologico, interpellando il suo patrimonio linguistico, simbolico e contenutistico. Certo, l’uomo ha da sempre posto il logos come fulcro principale at- torno al quale costruire il pensiero filosofico; è stato sempre il logos ad assumere un ruolo fondamentale e insostituibile all’interno delle religioni rivelate, per declinarne la socialità storica; infine è intorno al logos che il cristianesimo ha sviluppato la sua riflessione teologica e dottrinale. Eppure, resta comunque vero, che l’immagine non è solo illustrazione di un evento verbale, essa ne è quantomeno una rilettura e sicuramen- te un’interpretazione; tale posizione non passiva dell’immagine rispetto alla parola, denota che essa possiede una sua rilevanza ed una sua au- tonomia. L’immagine artistica poi, sa spingersi al di là dei suoi effettivi orizzonti, per cogliere l’inesprimibile, e nel caso del sacro, l’inaccessi- bile, l’inafferrabile. Utilizzando le parole di Romano Guardini, si può senz’altro affermare che: «Un’opera d’arte è un universo intero»1 . 1 R. Guardini, L’opera d’arte, trad. F. Tomasoni, Brescia 1998, p. 114.
6 Introduzione La tesi è divisa in due parti. La prima propone un percorso teori- co che, pur muovendosi attraverso istanze filosofiche e semiotiche, vuole connotarsi come riflessione teologica sistematica ponendo la quaestio sul- la possibilità di una Teologia Iconica. La seconda invece, cerca spunti di riflessione attraverso il Codex Purpureus Rossanensis per verificare quanto precedentemente affermato. Nel primo capitolo la nostra ricerca si sofferma sul “terreno confu- so”dell’estetica, luogo in cui ben si radica il rapporto artistico-teologico. L’estetica è, sotto molti aspetti, habitat naturale in cui l’esperienza re- ligiosa cristiana si intreccia con l’esperienza artistica. Una convivenza, per certi versi non facile, soprattutto da quando la cultura moderna ha generato una sorta di esilio dell’estetica, relegandola unicamente ad elemento accessorio; contemporaneamente la teologia, da parte sua, ha elaborato le proprie teorie, fondandole unicamente su un rigido apparato concettuale. Eppure entrambe le esperienze hanno come incipit iniziale una “Ragione dialogica”, ovvero un forte desiderio di far conoscere, di comunicare ad altri il messaggio che custodiscono. Si è pertanto indivi- duato nella comunicazione il contesto da cui muovere la domanda prima della nostra dissertazione. La comunicazione è quel processo che si inne- sca nell’uomo ogni volta che questi interagisce con un altro essere; è la piattaforma da cui la persona umana, coinvolgendo tutte le sue dimen- sioni, incontra l’altro e l’Altro. Suo strumento principale, che frantuma i limiti angusti dell’io, è la parola. Purtroppo le vicissitudini storiche han- no portato ad una totale discrasia tra parola ed immagine: il naturale riferimento concettuale della prima ha relegato ad un ruolo secondario, essenzialmente didascalico ed ornamentale, la seconda. Oggi però stiamo assistendo ad un recupero dell’elemento estetico, considerato di nuovo conditio sine qua non nel processo gnoseologico. Il linguaggio concet- tuale, essenzialmente dimostrativo e il linguaggio iconico, per sua natura argomentativo, stanno di nuovo dialogando per tradursi l’uno nell’altro operando una sintesi strutturale di concettività ed emotività. Anche la teologia sta prendendo coscienza di essere ostensione iconica della realtà salvifica. Nel secondo capitolo si pongono in parallelo le due esperienze co- municative: quella teologica e quella artistica. La ricerca ripercorre, seppure in una forma sintetica e riassuntiva, le vicende che hanno visto l’esperienza artistica e quella teologica incrociarsi e rendersi un recipro-
Introduzione 7 co servizio. Nella prima parte si tenta di scandire una periodicizzazione iconica della teologia non attraverso la tradizionale ripartizione stori- ca, ma elaborando la messa a fuoco di tre funzioni principali assunte dalle immagini: quella dichiarativa, quella partecipativa, quella specula- tiva. Assumono una funzione dichiarativa quelle immagini che aiutano la persona ad una propria declaratio, ovvero ad esprimere il proprio pen- siero chiaramente e in modo non equivoco. Posta in ambito religioso la declaratio acquisisce le connotazioni di una professione di fede. La esplicano quelle raffigurazioni che, immediatamente e senza intermedia- zioni interpretative, si rifanno ad un messaggio biblico o ad un dogma di fede. Assumono invece una funzione partecipativa quelle immagini che invogliano il fedele all’adesione, alla partecipazione ad una realtà ben più grande: la communio ecclesiae. L’immagine assume un ruolo fondamentale all’interno di un progetto unitario: un percorso, ripreso dall’idea biblica del “popolo in cammino”verso la terra promessa, che il fedele attualizza varcando la soglia dell’edificio sacro. Assumono in- fine una funzione speculativa, quelle immagini che, pur essendo frutto della genialità artistica e pur rispettando e mantenendo l’estro creativo, si radicano nell’intellectus fidei sviluppandone iconograficamente la sua ratio e la sua evoluzione. La seconda parte del capitolo e poi dedicata ai momenti in cui la riflessione teologico-filosofica e la rappresentazione artistica hanno viaggiato insieme, nei sentieri della cultura umana, di- ventando l’una speculum dell’altra. Abbiamo riportato alcuni momenti più significativi di tale percorso. Ma il fondamentale ruolo assunto dal- l’immagine in riferimento all’esperienza religiosa, viene da lontano. È fin dal secondo Concilio celebratosi a Nicea, che la Chiesa ha definito uno statuto teologico delle immagini. Il terzo capitolo è interamente dedicato al settimo ed ultimo concilio ecumenico. A nostro parere la sua dottrina è “pietra d’angolo”per un discorso corretto sulla “neces- sità teologia”delle immagini. Dopo aver riportato il contesto, chiarite le motivazioni e illustrato le otto sessioni, la ricerca si sofferma sull’horos finale. In poche e chiare battute, scaturite però da un lungo confronto in cui i Padri si posero all’ascolto della Parola di Dio commentandola opportunamente con la teologia patristica, vennero dettate le coordinate concettuali, teologiche e dottrinali riguardanti lo statuto epistemologi- co delle icone. È a tale magistero che ci siamo ispirati nello scegliere il termine εἰκων, posto nel titolo. Avvicinandosi per la prima volta ai
8 Introduzione documenti del Niceno II ci si aspetta di trovare unicamente riferimenti apologetici in merito alla diatriba iconoclasta. Invece il lavoro dottrina- le, scaturito dalle sessioni del Concilio, ha consegnato a tutto il mondo cristiano, attraverso il dogma dell’Incarnazione, il permesso all’immagi- ne, la capacità di comprenderne l’ambiguità e, soprattutto la possibilità di individuarne la sua valenza teologica. È con Nicea che le immagini artistiche cristiane possono, a ragione, definirsi icone. I Padri conci- liari ne dettarono anzitutto le motivazioni: non vollero solo affermare la liceità dell’icona sacra, bensı̀ dimostrare il perché un’icona è sacra. Nell’enunciato dogmatico è possibile scorgere un filo conduttore unico: la Tradizione. Essa funge da grandangolo che permette di collocare, in un’unica cornice, le affermazioni dottrinali lette in chiave Cristologi- ca, secondo la logica dell’Incarnazione, con una sensibilità Ecclesiale. I Padri furono espliciti nell’indicare le condizioni perché una rappresen- tazione di un episodio evangelico diventi icona. La prima condizione riguarda la fonte ispiratrice: un’immagine è icona quando “concorda” con l’annuncio di salvezza che Cristo ha portato a tutti gli uomini; se cioè si ispira ad un episodio della Sacra Scrittura. La seconda condi- zione è di carattere cristologico: un’immagine è icona quando conferma il mistero dell’Incarnazione; ovvero quando il tratto pittorico raffigura l’effigie del volto assunto dal Figlio di Dio. La terza condizione riguarda il committente: abbiamo un’icona quando nasce all’interno della comu- nità ecclesiale, per il bene dei fedeli. In sintesi un’immagine è icona quando serve a far conoscere i momenti del Misterium salutis. L’arte cristiana cosı̀ diventa sacra perché offre all’uomo una sintesi visuale e ragionata di tutte le dimensioni della sua esperienza di fede. Il Niceno secondo è riuscito, in poche righe, a dettare i canoni di un vero e proprio trattato dogmatico dell’estetica sacra cristiana. Infatti il Concilio Co- stantinopolitano IV, che pure si interesserà della questione iconografica, non farà altro che ribadire quanto definito a Nicea. Ecco perché non si può procedere in una riflessione di “teologia iconica”, prescindendo da tale definizione conciliare.
Introduzione 9 Nella seconda parte della tesi, il primo capitolo è di introduzione al Codex Purpureus Rossanensis: un prezioso manoscritto greco, conte- nente parte di un tetravangelo e alcune miniature a tutta pagina, vere e proprie opere d’arte, custodito nel Museo Diocesano di Rossano Calabro. Il Codex è uno dei cinque Manoscritti purpurei scritti in greco onciale conservati fino ai nostri giorni. È un codice dalla storia controversa, che tutt’ora conserva la sua parte di mistero. Il lavoro procede con l’analisi delle singole Tavole. Rispettando l’or- dine con cui le miniature si presentano oggi, di ognuna, dopo l’introdu- zione, l’identificazione delle fonti evangeliche e la lettura iconografica, si è individuata la teologia proposta attraverso le immagini. Nove fogli miniati, di cui sei a fronte e verso, precedono il testo scritto tranne la tavola dedicata all’evangelista Marco che precede il vangelo omonimo. In totale abbiamo quattordici Tavole illustrate con miniature a tutta pa- gina aventi per soggetto fatti, avvenimenti, parabole riguardanti la vita e la predicazione di Gesù Cristo. Dieci Tavole presentano la medesima impostazione visiva e grafica: un registro superiore occupato dalla scena evangelica e, separato da una sottile linea blu, un registro inferiore con quattro figure veterotestamentarie, dipinte a mezzo busto, con l’aureola aurea e, nel caso di Davide e Salomone, con la corona regia. Ognuno di essi indica, con la mano destra, la scena soprastante mentre regge con l’altra mano un cartiglio con una citazione Ogni Tavola è un meraviglioso lavoro che va ben oltre la raffigura- zione didascalica dell’episodio evangelico riuscendo,in un colpo d’occhio, a fissare la sintesi che la Chiesa di quei tempi operava tra il dato scrit- turistico e quello della tradizione. Ci troviamo al cospetto di un vero e proprio lavoro teologico, ovvero un locus di riflessione originale sui contenuti di fede. Due versanti diversi: quello strettamente scrittu- ristico e quello teologico, con la loro ricchezza e molteplicità di dati, vengono disegnati, armonizzati, in un’unica illustrazione producendo in questo modo una “teologia iconica”, una rappresentazione visiva della riflessione sistematica sulla Rivelazione.
Parte I PER UNO STATUTO TEOLOGICO DELLE IMMAGINI
I LA QUESTIONE I.1. Lo status quaestionis Ho visto dipinta l’immagine della passione non senza piangere sono riuscito a passare oltre questa visione, poiché l’arte ne portava con efficacia agli occhi la storia Gregorio di Nissa1 . Al Dottore della Chiesa il dipinto si è posto con efficacia: ha suscitato in lui un interesse e una commozione facendolo partecipe del dolore del patriarca Abramo a cui YHWH aveva chiesto di sacrificare l’unico figlio, gli ha ricordato la sua storia, ha interagito con lui, sollecitandolo alla consapevolezza, alla partecipazione, potremmo osare dire gli ha fatto da “memoriale”. Questa affermazione che il Vescovo di Nissa faceva in un suo discorso, sembra definire in modo estremamente preciso il perimetro entro cui si svolgerà il nostro lavoro: il ruolo che le immagini artistiche hanno, all’interno dell’esperienza di fede, nella ricerca teologica. 1 Gregorio Di Nissa, Oratio De deitate filii et spiritus sancti, in PG 46, 572 C; (Cfr. E. Rhein, Gregorii Nysseni Sermones, Leiden-NY-Kobenhavn-Koln 1996, pp. 117-149).
14 La questione La quaestio si pone all’interno di un discorso ampio e complesso e solo apparentemente ovvio quale è il rapporto tra arte e fede o, tradot- to in termini filosofici, tra estetico e religioso. Assumendo il termine estetico nella sua accezione originaria, cioè nel senso più generale e com- plessivo, come “aspetto della conoscenza che riguarda l’uso dei sensi”2 , il suo antico rapporto con il religioso, spesso polemico e conflittuale, è irriducibilmente ambivalente. I.1.1. Ambivalenza dell’estetica L’estetica è di per sé un territorio dagli incerti confini. Ciò le con- sente di aprirsi al mondo per la ricerca delle verità che esso racchiude, precludendole però, in via preliminare, una griglia epistemologica chiara. «Questa posizione dell’estetica è senza dubbio interessante e sug- gestiva, per non dire privilegiata, giacché il pensiero filosofico vi compare alle prese con questioni concrete e ben determinate, in modo da rivelare anche al profano la sua utilità e la sua efficacia»3 . In verità una sorta di ambivalenza ha accompagnato la disciplina in tutta la sua storia. Già ad un livello puramente semantico, possiamo individuare una doppia contestualizzazione. Infatti per definire l’origine del termine non basta cercare una risposta nel terreno dell’etimologia ma bisogna inoltrarsi in un contesto poliedrico e complesso richiedendo espli- citazioni sia alla filosofia che al senso comune. I greci non conoscevano il sostantivo estetica, ma dalla parola αἴσvθησvις, che significa sensazione, avevano coniato l’aggettivo αἴσvθητικων, estetico, sensibile; Aristotele lo opporrà a νοέτα cioè alla proprietà specifica degli oggetti di pensiero. Una certa duplicità accompagna la scienza estetica anche per quello che riguarda la sua nascita. Infatti pur affondando le radici nella storia classica, dove la cultura del bello ha dato vita ad innumerevoli espressioni artistiche, deve arrivare al XVIII secolo per essere riconosciuta come disciplina. Per tradizione si considera il padre dell’aestetis Alexander Gotthiel Baumgarten che nel 1760, nella sua opera, Estetica, afferma: 2 Cfr. G. Vattimo, Estetica Moderna, Bologna 1977, pp. 23-24. 3 L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bologna 2002, p. 15.
La questione 15 «L’estetica (ovvero teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensitiva»4 . Essa riguarda:«(Il) complesso delle rappresentazioni sussistenti al di sotto della distinzione»5 . Anche dopo la sua iniziale definizione l’estetica ha portato in sé il carattere di ambivalenza. Kant ne fissa sia il ruolo conoscitivo, sia il legame con le tradizionali ricerche sulla bellezza. Essa è una teoria critica in cui il giudizio è connesso ad un piacere soggettivo, il gusto6 . La duplicità dell’estetica è definitivamente sancita da Kant nella Critica del Giudizio: da un lato essa si rivolge alla conoscenza, dall’altro indica le funzioni critiche delle facoltà soggettive. La riferisce cosı̀ al giudizio di gusto e alla questione della bellezza7 . L’ambivalenza estetica viene altresı̀ specificata da Kierkegaard per cui essa è sı̀ una riflessione teorica sull’arte ma è anche e soprattutto un problema esi- stenziale: «L’estetica nell’uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è»8 . In conclusione e senza entrare nelle grandi dispute epistemologiche, possiamo definire l’estetica come scienza della sensibilità che si radica in un “terreno confuso”; tale confusione non è però da temere, anzi essa diventa “condizione irrinunciabile” per poter scoprire la verità9 . In essa troviamo le ricerche artistiche, antiche e moderne, sul bello, 4 A.G. Baumgarten, Aestetica, Frankfurt 1750; Estetica, trad. F. Piselli, Mila- no 1992, p. 17. Per le opere di autori stranieri citeremo solo la prima volta l’originale e successivamente si farà riferimento alla traduzione in italiano. In effetti già negli anni precedenti, in un’altra sua opera, Meditazioni filosofiche su alcuni aspetti del poema, il filosofo seguendo una moda culturale di quei tempi che coniava grecismi, scrivendo poi in latino, parla della prima volta di estetica. 5 Ibidem, p. 20. 6 Kant tratta dell’estetica sia nella Critica della ragione pura sia nella Critica del giudizio. Sostenendo il suo ruolo conoscitivo, il filosofo definisce l’estetica come trascendentale in quanto «scienza di tutti i principi a priori della sensibilità» E. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Koenigsberg 1781; Critica della ragione pura, trad. G. Gentile, G.Lombardo Radice, Bari 1975, p. 67. 7 Cfr.E. Franzini, M. Mazzacut Mis, Breve storia dell’estetica, Milano 2003, p. 24. 8 S. Kierkegaard, Enten-Eller, København 1843; Aut-Aut, trad. R. Cantoni, Milano 1956, p. 45. 9 Baugmarten in merito afferma: «La natura non fa salti passando dall’oscurità alla distinzione. Il mezzodı̀ viene dalla notte passando dall’aurora». A.G. Baumgarten, Estetica, o.c., p. 17.
16 La questione sull’arte, sull’immaginazione, sulla poetica, sulla retorica; scienze che si rivolgono alla logica della sensazione e che l’estetica tende a portare alla loro perfezione, ovvero alla bellezza. I.2. Pensare teologicamente l’arte ed esteticamente la fede È proprio su tale terreno confuso, su questo carattere ambivalente, con- naturale alla riflessione estetica, che si è fondato il rapporto tra l’espe- rienza artistica e l’esperienza religiosa. Per il cristianesimo tale ambiva- lenza si è radicalizzata e ha prodotto effetti spesso utili ed originali sia per l’ambito di fede che per quello del pensiero. «La Chiesa ha bisogno dell’arte»10 . Questa acuta affermazione di Giovanni Paolo II rende emblemati- camente chiaro il “bene” che la genialità artistica di tutti i tempi ha fatto per la nostra religione. L’arte ha coniato un intero lessico con cui, attraverso i secoli, ha parlato agli uomini dell’Ineffabile, del Totalmente Altro, attraverso le sue metafore. Dall’altro lato però la cultura estetica ha avuto bisogno del sacro come input per molti dei suoi sviluppi. «Mi è sembrato e mi sembra tuttora che la Bibbia sia la princi- pale fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora ha sempre creato questo riflesso nella vita e nell’arte. Per me come per tutti i pittori dell’occidente, essa è stata l’alfabeto colorato in cui ho attinto i pennelli»11 . Se è indubbio che sempre, in qualsiasi esperienza religiosa, di qualsia- si epoca, l’uomo ha cercato il contatto con la divinità utilizzando l’arte12 , 10 «Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio». Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti 12, in AAS 91, Città del Vaticano 1999. 11 M. Chagall, Ma vie, Paris 1957; La mia vita, trad. M.Mauri, Firenze 1992, p. 34. 12 Fin dalle prime civiltà pre-cristiane l’arte ha aiutato l’uomo a dialogare con le divinità. Le forme interpretano i miti in se stessi e si fondono con i misteri attraverso le narrazioni poetiche scolpite o dipinte Con il cristianesimo poi l’importanza della
La questione 17 è anche vero che ci sono sviluppi della cultura occidentale che sono stati direttamente generati dallo sguardo cristiano sul mondo e sulle cose13 . È evidente che qui si intersecano ambiti complessi e totalmente di- versi: ragione ed immaginazione, concetto e immagine, forma e rappre- sentazione si intrecciano in modo tale da produrre nel tempo solo una frammentaria e rapsodica riflessione. Invero è che la cultura tutta ha generato una sorta di “esilio dell’e- stetica” relegandola unicamente ad un elemento accessorio nella ricerca di senso che accompagna l’attività umana; oggi più che mai l’afferma- zione dostojevskiana: «La bellezza salverà il mondo» ci confonde14 . La teologia, dal canto suo, soprattutto in alcuni periodi, ha elaborato teorie fondando la sua epistemologia su un rigido ed univoco apparato concet- tuale lasciando la creatività in disparte. Gli “incontri con l’estetica”, hanno assunto solo la connotazione di un confronto strumentale, spesso occasionale e dentro un rigido schema estetico inteso come “forma del bello”15 . Solo da poco tempo i teologi sono pervenuti alla consapevolezza di dover rivedere il loro metodo per costruire un apparato epistemolo- gico poliedrico in cui il concetto dottrinale si lascia di nuovo affiancare dal simbolo ed insieme agire ermeneuticamente nei confronti della Ri- velazione. La teologia contemporanea post-conciliare è più ospitale nei confronti delle varie istanze umanistiche e culturali16 . D’altra parte an- presenza delle figurazioni visive è garantita dalla stessa Incarnazione, evento centrale e culmine della Rivelazione. Il figlio di Dio ora si può vedere, toccare e amare, la sua umanità è conosciuta, la sua divinità è rintracciata attraverso segni. Cfr. G. Fallani, Per una teologia dell’arte sacra, in G. Fallani(a cura di), Orientamenti dell’arte sacra dopo il Vaticano II, Bergamo 1969, pp. 65-117. 13 «Esisterebbe la musica occidentale, certo un caso più unico che raro, senza l’affezione e la libertà tipicamente cristiana nei confronti della parola sacra, sempre alla ricerca di nuovi sensi e di nuove forme espressive? Si sarebbe sviluppata, in tutta la sua complessa polifonica armonia senza il concetto cristiano di concepire il popolo non più come etnı̀a con un solo sangue e una sola lingua ma come potenziale ekklesı̀a di voci diverse?». P.A. Sequeri, L’estro di Dio. Saggio di estetica, Milano 2000, p. 104. 14 F.M. Dostoevskij, Idiot, Leningrad 1869; L’Idiota, trad. G. Pacini, Milano 1998, p. 645. 15 Cito come esempio la riflessione teologica del XVI secolo, precisa risposta alla Riforma Protestante: seppure per un motivo apologetico era estranea ad ogni slancio creativo. 16 Cfr. P.A. Sequeri, L’estro di Dio, o.c., p. 130. È comunque vero che la riflessio- ne teologica è attenta a tenersi lontana da “improvvisate retoriche” che, radicandosi
18 La questione che l’estetica è oggi generalmente di nuovo letta come “dottrina globale della percezione e dell’immagine, del sentimento e dell’emozione” . Ebbene in tale orizzonte ampio e complesso dove l’esperienza religio- sa cristiana si intreccia con la teoria estetica, e in modo più preciso il lavoro teologico si intreccia con l’attività artistica, la domanda che pone questa ricerca è: può un’opera d’arte pittorica essere un’opera teologi- ca? 17 Come può la Teologia “dirsi” nell’arte e con l’arte? Come può l’arte indossare quel vestito sı̀ variopinto e multiforme eppure sempre dai tagli precisi e rigorosi quale è la ricerca teologica? La questione posta non si radica in un terreno pratico che potrebbe interessare campi di studio propri della Liturgia o della Pastorale: per altro bravi ed illustri pastori e teologi hanno intrapreso, ormai da tem- po, questa strada producendo fruttuose riflessioni e validi suggerimenti; essa si pone ad un livello teorico, entrando nel merito della riflessione sistematica della teologia. Certo, pretendere di sviluppare in proposito un’argomentazione organica e precisa oltre che arduo potrebbe sembrare borioso e irriverente. Ecco perché cercheremo di semplificare il lavoro ponendo l’attenzione su un elemento che accomuna l’esperienza teolo- gica con quella artistica. Ebbene seppure con motivazioni ed obiettivi diversi, entrambe hanno come incipit iniziale una “Ragione Dialogica” cioè un forte desiderio di far conoscere ad altri una determinata realtà, in breve un’esigenza di comunicare. È quindi la comunicazione l’ambito da cui muove la domanda della presente ricerca intendendo con essa, al- la maniera personalista: «l’esperienza primitiva della persona attraverso cui l’uomo conosce il mondo e se stesso»18 . Tale scelta focalizzerà un punto di vista parziale ma sicuramente non arbitrario. Come speriamo di mostrare, essa permetterà di individuare un aspetto della questio- ne che, senza alcuna presunzione, si può collocare a monte dell’intera problematica. su un umanesimo cosmico, originano quelle sincresie religiose che privilegiano non un’ascesi disinteressata ma solo facili espedienti che si fondano su una cattiva im- magine di comunicazione. Vedi la forte critica che von Balthasar attua nei confronti della teologia dell’idealismo e del romanticismo, accusandola di essersi adattata ad un’estetica mondana. Cfr. H.U. Von Balthasar, Herrlichkeit, Einsiedeln 1962; Gloria I: La percezione della forma, trad. G. Ruggieri, Milano 1985, pp. 68-90. 17 Intendiamo il termine “opera” secondo la definizione che ne dà Zingarelli: «Ri- sultato di un lavoro intellettuale o di un’attività artistica». N. Zingarelli, Il nuovo dizionario della lingua italiana, Bologna 2001. 18 E. Mounier, Le personallisme, Paris 1949, p. 38.
La questione 19 La comunicazione è quel processo che ha inizio nell’uomo ogni volta che egli interagisce con un altro essere vivente e che ha la sua manife- stazione più alta quando il ricevente è un’altra persona (in senso oriz- zontale) o addirittura Dio (in senso verticale)19 . Essa penetra tutto, è dappertutto; piattaforma da cui la persona coinvolge tutte le sue dimen- sioni al fine di incontrare l’altro e l’Altro. Ma tale incontro avviene solo se si è aperti all’evento della parola. Anzi è la parola stessa strumen- to che frantuma i limiti angusti e muti dell’io per aprirsi alla frontalità espressiva. Utilizzando una terminologia molto cara a Gadamer è la pa- rola che permette alla persona di “giocare” con la realtà che la circonda e di “rappresentarla”20 . I.3. Guardare la parola e dire l’immagine L’età classica individuava nella parola la caratteristica distintiva del- l’uomo, considerato come ζοομ λογον εχων21 . Successivamente Boezio, lo definı̀ “sostanza individuale di natura razionale”, pur scandendone la rappresentazione che egli attuava del mondo su un registro ternario formato da percezione, immagine e concetto22 . 19 «A l’origine de la culture de l’homme se trouve la communication». S.M. Ka- tz, Antropologie sociale culturelle et biologie, in AA.VV., Pour une anthropologie fondamentale, vol.III, Paris 1974, p. 83. 20 Cfr. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen, 1960; Verità e metodo, trad. G. Vattimo, Milano 1983, pp. 132-142. 21 Cfr. Aristotele, Politica I, 1253 a 9-18, (a cura di) A. Beccari, Padova 1938. Dopo aver ribadito che l’uomo è animale politico, il filosofo distingue la voce, phonè, che è data anche agli altri animali, dal logos, che costituisce il proprio dell’uomo, l’unico ad avere coscienza del bene e del male. Nell’uomo la voce diventa logos perché si fa significante articolandosi in parole che dicono l’utile, il nocivo, il giusto, l’ingiusto, il bene e il male. Il logos è una phonè semantikè, una voce significante. Il discorso umano è allora una realtà simbolica, è una manifestazione sensibile di significati colti dall’intelletto. 22 Spieghiamo anzitutto i termini di cui la definizione di Boezio si compone: “so- stanza individuale” o “individuo”, nel vocabolario di questo autore (e di quelli che lo hanno valorizzato al riguardo, tra i quali ricordiamo Tommaso d’Aquino), è qualcosa che è sempre e solo “soggetto di predicazione” e mai “attributo di un altro sogget- to”. “Razionale” vuol dire capace di aver presente l’orizzonte dell’essere, in cui ogni realtà si dà: capace, dunque, di avere presente un orizzonte che si estende all’infinito. La parola “natura” (dal verbo latino nascor ), a sua volta, indica una capacità pro- gressiva: un dinamismo non compiuto, ma stabile come disposizione. Una realtà di natura razionale, in sintesi, è una realtà capace di aprirsi costantemente all’orizzonte
20 La questione Si era ben lontani quindi da quelle interpretazioni univoche, pretese dalle assolutizzazioni delle filosofie idealiste e razionaliste del diciasset- tesimo secolo, dove il cogito prevaleva su tutte le altre istanze dell’uo- mo. È in tale atteggiamento che occorre trovare la causa della discrasia tra parola e immagine a cui la storia ci ha abituati: il naturale riferi- mento concettuale della prima ha relegato ad un ruolo essenzialmente didascalico e ornamentale la seconda23 . Oggi, superate le assolutizzazioni, stiamo recuperando nuovamente la portata estetica del nostro comunicare al mondo, partendo di nuovo dal nascor e dal loquor. L’uomo è inteso come realtà coscienziale e vive rapportandosi intenzionalmente alle cose, le avvicina nella loro alterità ontologica, le conosce, ovvero esplora il mondo delle realtà acquisendo la consapevolezza del mistero della loro esistenza. Da tale rapporto si genera la parola. Guardando la problematica da questa angolazione, la parola prende forma e dà forma all’interno di un rapporto “intimo ed unitario”24 . «La parola ha in sé, in qualche modo enigmatico, un lega- me con ciò che “rappresenta”; essa appartiene in qualche modo all’essere della cosa che rappresenta»25 . Essa assume la sua forma partendo dal- la volontà comunicativa della nostra anima. È tanto più vera quanto più è sincera, cioè quando riesce a varcare il limite della sua forma per raccontare i luoghi nascosti e velati che da essa traspaiono. Cosı̀ la pa- rola, non eliminando il mondo sensibile, riesce a leggervi la sua simboli- cità, impedendo ad esso di disperdersi nella varia e complessa esteriorità del vissuto. In tale processo la parola è sempre preceduta dalla conti- nua decostruzione che la nostra coscienza fa dell’esperienza pratica per trasformarla in metafora che si concilia con il nostro spirito. Con tale impostazione riusciamo di nuovo a superare la discrasia tra parola e immagine. A ragione Ricoeur ha posto in evidenza il re- ciproco richiamarsi del λόγος raziocinante e concettuale con il μύθος immaginante ed aestetico 26 . Per dirla con parole di Italo Calvino: dell’essere, all’orizzonte che non ha limiti; e anche il suo desiderio avrà i confini di questo orizzonte: perciò non sarà mai propriamente captato da nessuna realtà finita. 23 Da Cartesio a Kant, da Frege ad Husserl, c’è stata una lotta contro la pretesa gnoseologica dell’immagine. In psicologia poi, l’immagine ha subito un ulteriore eclissi perché considerata come entità mentale quindi non osservabile. 24 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, o.c., p. 465. 25 Ivi, p. 478. 26 Cfr. P. Ricoeur, Du texte à l’action: essais d’erméneutique, Paris 1986.
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