TABLET E SMARTPHONE AZIENDALI: LE BEST PRACTICES A DIFESA DELLA PRIVACY
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TABLET E SMARTPHONE AZIENDALI: LE BEST PRACTICES A DIFESA DELLA PRIVACY Uno studio condotto da Trend Micro tra USA, UK e Germania rivela che il 78% delle aziende consente ai dipendenti di utilizzare tablet e smartphone per le attività lavorative. Evidentemente, il ricorso a questi dispositivi consente di implementare modelli di flessibilità spazio-temporale prima inimmaginabili in ambito lavorativo. Lo stesso studio rivela anche che un’azienda su due ha registrato falle ai sistemi di sicurezza e che la totalità delle falle registrate ha coinvolto un dispositivo mobile connesso alla rete aziendale. Il ricorso ai dispositivi mobili sta comportando una vera e propria “rivoluzione industriale bianca”, che rende oggi inservibile la distinzione classica tra tempo di vita e tempo di lavoro e comporta una sovrapposizione inedita tra sfera privata (con le sue esigenze di riservatezza) e sfera lavorativa (con le sue esigenze di sicurezza industriale). Dal punto di vista del datore di lavoro, il tema della sicurezza assume un’importanza centrale. Come si può assicurare che i dati contenuti in dispositivi che accompagnano il lavoratore durante tutta la sua giornata fuori dal luogo di lavoro siano veramente sicuri da attacchi esterni? Quali sono le misure di sicurezza adeguate che è necessario implementare, non solo per evitare la perdita di dati ma anche e soprattutto per evitare le responsabilità conseguenti alla perdita nel caso in cui tali misure siano considerate inadeguate? La tecnologia attuale offre alcune soluzioni. 1. Adottare una policy aziendale sull’utilizzo degli strumenti informatici e pubblicizzarla adeguatamente L’importanza di adottare una valida policy aziendale interna per l’uso dei dispositivi mobili si apprezza sotto un duplice versante: sicurezza e controllo. Le principali regole sono: (i) Imporre l’uso della password o di codici di sblocco. Questa misura, richiesta dagli artt. 1 e 2 del «Disciplinare tecnico in materia di misure minime di sicurezza» di cui all’Allegato B al Codice Privacy, di fatto oggi non è comunemente usata su tutti i dispositivi aziendali, anche per via della scarsa consapevolezza che questi ultimi costituiscono, a tutti gli effetti, degli strumenti elettronici per il trattamento dei dati personali. Naturalmente è opportuno implementare i codici di sblocco anche sui dispositivi con tecnologia Bring Your On Device (BYOD). (ii) Imporre agli utenti l’uso di software di remote wiping per cancellare i dati una volta che il dispositivo dovesse cadere in mani sbagliate. (iii) Inibire l’uso di dispositivo con jailbreack (Apple) o root (Android), cioè quei sistemi che consentono di modificare funzionalità del sistema operativo di un dispositivo mobile. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
La policy aziendale deve essere adeguatamente pubblicizzata. Secondo le “Linee guida del garante per posta elettronica e Internet” del 1° marzo 2007, il dipendente deve essere previamente informato con riferimento al trattamento di dati personali che potranno essere effettuati in attuazione di eventuali controlli sull'utilizzo del personal computer concessogli in uso per esclusive finalità professionali, con particolare riferimento alle modalità e alle procedure da seguire per gli stessi. Non basta, in questo documento, far riferimento al fatto che l’azienda effettuerà il salvataggio dei dati su copie di sicurezza con conseguente verifica del buon fine dell'operazione (backup); è necessario fornire anche un'idonea informativa in ordine al trattamento di dati personali connesso ad eventuali attività di verifica e controllo effettuate dalla società stessa sui p.c. concessi in uso ai dipendenti. In assenza degli accorgimenti di cui sopra, il controllo sui dati contenuti sui dispositivi aziendali diventa problematico, in quanto aumentano i rischi che il dipendente – sulla base del suo affidamento di riservatezza – possa chiedere e ottenere il blocco dei dati. E’ importante che il rispetto delle policy sia richiamato nel codice disciplinare, altrimenti l’azienda non potrà agire disciplinarmente nei confronti del lavoratore inadempiente. L'assenza di richiamo nel codice disciplinare comporta, secondo la giurisprudenza maggioritaria, la nullità dell’eventuale provvedimento disciplinare adottato. 2. Policy differenziate in caso di BYOD La tecnologia Bring Your On Device consente ai dipendenti di accedere ai contenuti aziendali dai dispositivi personali e lavorare ovunque e in ogni momento, migliorando produttività e flessibilità. Questo comporta una serie di effetti sia positivi (flessibilità, contenimento dei costi, velocizzazione del lavoro, maggiore propensione ad essere connessi) che negativi (rischi per la sicurezza), acuiti dal fatto che i vari sistemi operativi in commercio sono assai diversi gli uni dagli altri, e le rispettive funzioni si diversificano sensibilmente in una maniera tale da poter sfuggire al controllo stesso dei dipendenti. Per questo motivo, è consigliabile introdurre policy diversificate per sistema operativo. Inoltre, in un sistema BYOD è possibile fare coesistere su uno stesso device partizioni nettamente separate (quella personale e quella lavorativa): questo consente di (a) escludere in radice la possibilità di archiviare informazioni non lavorative sulla partizione business senza comprimere i diritti e le libertà fondamentali del dipendente sul luogo di lavoro, (b) non ingenerare alcun equivoco sull’aspettativa del lavoratore, o di terzi, di confidenzialità rispetto ai dati che transitano sulla partizione business e (c) facilitare evidentemente i controlli ex post (il datore, in un simile scenario, può infatti fare pienamente affidamento sul fatto che la partizione lavorativa non contenga dati personali del lavoratore). Di contro, nel momento in cui si traccia nettamente la distinzione tra partizione personale e lavorativa, è chiaro che quella personale rimarrà totalmente inaccessibile ai controlli del datore di lavoro. Ciò può consentire, se il sistema non è configurato per evitarlo, che alcuni dati transitino dalla partizione lavorativa a quella non lavorativa e lì diventino giuridicamente irrintracciabili dal datore di lavoro. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
3. Virtualizzare i desktop È consigliabile implementare un sistema di virtualizzazione dei desktop, che minimizzi l’installazione di applicazioni e la memorizzazione di dati personali sui dispositivi mobili. In questo modo, si realizza l’esigenza di sicurezza, ma si applica anche il principio di minimizzazione del trattamento dei dati personali in applicazione dell’articolo 11 del Codice Privacy. Laddove sia assolutamente necessario che i dati personali risiedano sugli end- point, è opportuno: (i) individuare nelle policy aziendali quali tipi di dati possono essere memorizzati su dispositivi mobili e portati fuori dall'azienda, (ii) memorizzare tali dati soltanto in forma isolata e crittografata, presidiandoli con meccanismi di cancellazione remota. 4. Mappare la rete aziendale Uno dei grandi equivoci causati dalle recenti modifiche intervenute sul Codice Privacy è quello che l’abolizione dell’obbligo di redigere il Documento Programmatico sulla Sicurezza esoneri l’azienda dal predisporre documentazione relativa alle misure di sicurezza adottate. L’assenza di tale documentazione, infatti, è rischiosa, dal momento che l’azienda si trova privata della possibilità di provare l’adozione delle misure adeguate richieste dal Codice Privacy. Inoltre, va tenuto conto, in un’ottica evolutiva, che tali obblighi sono stati specificati e ripresi anche nella bozza di regolamento UE che dovrebbe applicarsi in tutti i Paesi Europei nel giro dei prossimi anni. Pertanto, è consigliabile continuare a mantenere un inventario della rete aziendale che ricomprenda sia i tipi di dati trattati, sia l'elenco dei dispositivi che accedono al network, oltre individuare e delimitare le aree della rete accessibili ai vari dispositivi mobili. In definitiva, occorre soprattutto accrescere la consapevolezza dei rischi connessi all’uso dei dispositivi mobili presso i dipendenti. Non deve essere sottovalutata la potenzialità lesiva per l’azienda di eventi quali lo smarrimento del dispositivo o l’accesso non autorizzato di terzi ai dati contenuti nel medesimo. L’obiettivo può essere raggiunto attraverso specifici training e soprattutto attraverso l’adozione e la condivisione delle policy interne, che devono essere facilmente accessibili a tutti i dipendenti, e che tengano il passo con le specificità tecnologiche dei vari dispositivi oggi disponibili sul mercato. Oggetto del training dovrebbero anche essere i profili di responsabilità e le conseguenze che un lavoratore potrebbe subire nel caso in cui non si attenesse alle regole di sicurezza (che non sono solo logiche ma anche fisiche) previste dal titolare/responsabile. IL COLORE È SEMPRE PIU’ DI MODA I colori, e le combinazioni cromatiche, sono oramai sempre più utilizzati dalle imprese per identificare i propri prodotti nel mercato. Non è un caso che, spesso, si fa riferimento al “blu” Tiffany, al “rosso” brillante delle suole delle calzature Louboutin, all’“argento/rosso” delle lattine Red Bull, per fare solo alcuni esempi. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
Nell’industria della moda, in tempi recenti, si è assistito a vivaci scontri in tribunale tra le case di moda per far valere i propri diritti su marchi costituiti proprio da colori. Proponiamo qui una breve rassegna in chiave comparata di alcuni dei casi più significativi in materia. ITALIA In Italia, il tema della possibilità di registrare un colore come marchio è stato affrontato in via normativa. L’articolo 7 del Codice della Proprietà Industriale (D. Lgs. 30/2005) include infatti “le combinazioni o le tonalità cromatiche” tra i segni che possono essere registrati come marchio, purché abbiano funzione distintiva (ovvero, “siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”). Tale previsione è più dettagliata rispetto alla corrispondente norma contenuta nella Direttiva sui marchi d’impresa 2008/95/CE, che invece non include i colori tra i segni che possono essere registrati come marchio. E’ interessante osservare che, mentre non è mai stata messa in discussione la possibilità di registrare come marchio combinazioni di colori e immagini e/o parole, le corti italiane sono state in passato piuttosto riluttanti nell’accordare protezione a singoli colori. Si è ad esempio affermato che i colori primari (come il blu e il rosso) non possono mai essere registrati come marchio (così, ad esempio, il Tribunale di Milano in una pronuncia del 7 giugno 2007). In un caso, la Corte di Cassazione ha affermato che soltanto singoli colori che presentino una tonalità cromatica “particolare” o “insolita” sono suscettibili di registrazione come marchio (sentenza n. 7254/2008). Nel caso in questione, la Corte di Cassazione ha confermato una pronuncia della Corte d’Appello di Milano che aveva ritenuto privi di carattere distintivo, e quindi nulli, alcuni marchi della società Louis Vuitton costituiti da colori (nero, marrone, beige, verde, rosso e azzurro): ciò in quanto, secondo la Corte, tali marchi sono frequentemente usati per la pelletteria e non hanno quindi funzione distintiva. Nelle parole della Corte, “La possibilità di registrare marchi per singoli colori monocromi trova dunque un limite nell’interesse generale a non restringere indebitamente la disponibilità di colori per gli altri operatori, che offrono prodotti o servizi analoghi o dello stesso genere”. Questo il principio anche affermato nel 2003 dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, in relazione all’utilizzo del colore arancione per servizi di telecomunicazioni (sentenza del 6 maggio 2003, caso C-104/01, Libertel). In altre parole, la registrazione come marchio di singoli colori monocromi consentirebbe alle imprese di acquisire un monopolio su tali colori, impedendo ad altre imprese concorrenti di utilizzare gli stessi per i propri prodotti o servizi e pertanto deve essere limitata. Tra l’altro, nel caso Louis Vuitton, la Cassazione non ha affrontato la questione relativa all’eventuale carattere distintivo acquistato dai marchi di colore Louis Vuitton attraverso l’uso (cd. “secondary meaning”). Recentemente, il Tribunale di Milano ha ritenuto valido il marchio Gucci raffigurante il nastro “verde-rosso-verde”, in quanto “allo stesso può attribuirsi un’indubbia forza distintiva e l’idoneità del medesimo ad identificare esattamente la provenienza, dei prodotti © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
interessati, da una determinata impresa”. E ciò nonostante la mancata indicazione del codice di identificazione Pantone. Al riguardo, il Tribunale ha ricordato che solo per il marchio costituito da un singolo colore è indispensabile l’indicazione del codice Pantone. Tale necessità non sussiste ove l’abbinamento dei colori presenti già una caratterizzazione tale da far ritenere il segno nel suo complesso sufficientemente rappresentato. Tale condizione è stata ritenuta soddisfatta per il marchio Gucci raffigurante il nastro “verde- rosso-verde”, poiché “l’alternanza dei colori è tale da indurre a ritenere che il marchio sia descritto con la necessaria precisione e sia individuabile in modo oggettivo” (sentenza del 10 gennaio 2013, Guccio Gucci S.p.A. vs Guess? Inc.). Nel medesimo caso, il Tribunale ha ritenuto che l’uso di nastri di colore marrone/rosso/ marrone per le calzature della società Guess non costituisce contraffazione del marchio raffigurante il nastro “verde-rosso-verde”, rilevando che “non è certo proteggibile la semplice idea di utilizzare negli accessori di abbigliamento un nastro caratterizzato dall’alternanza dei colori”. Inoltre, “nel settore della moda sono diffuse strisce inserite in vario modo soprattutto negli accessori recanti l’alternanza dei colori (…)”. FRANCIA Nel maggio 2012 la Corte di Cassazione francese (Cour de Cassation) ha stabilito che l’uso, da parte della società Zara France, del colore rosso scarlatto sulle suole delle sue calzature non costituisce contraffazione del marchio Louboutin per la caratteristica “suola rossa” (30 maggio 2012, Christian Louboutin SA vs Zara France). Nello stesso caso, la Corte francese ha ritenuto nullo il marchio di colore Louboutin in quanto la relativa registrazione non indicava alcun codice Pantone. Peraltro, la circostanza per cui le calzature Zara con suola rossa erano vendute a basso prezzo (49 euro, circa un decimo del prezzo di un paio di scarpe Louboutin) è stata ritenuta dalla Corte indice del fatto che le due società operano in due mercati distinti. PRASSI DELLE COMMISSIONI DI RICORSO UAMI La questione della protezione, come marchio, di colori e combinazioni cromatiche è stata oggetto di diverse pronunce delle Commissioni di Ricorso dell’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI), competenti a deliberare sui ricorsi contro le decisioni di prima istanza in materia di marchi. Ad esempio, è stata ritenuta ammissibile la domanda di registrazione come marchio per il colore rosso utilizzato sulle suole delle calzature Louboutin, in quanto tale colore, nell’uso proposto da Louboutin, è suscettibile di essere percepito dai consumatori come “sorprendente e inaspettato” (decisione 16 giugno 2011, caso R2272/2010-2). La Commissione di Ricorso UAMI ha dato particolare rilievo alla corposa documentazione fornita da Louboutin a sostegno del carattere distintivo che le proprie “suole rosse” hanno acquisito nel mercato (articoli di giornale, ricerche di mercato, ecc.) Con una motivazione simile è stato ritenuto valido, per acquisita capacità distintiva nel mercato, il marchio costituito dal colore arancione usato da Veuve Clicquot per il proprio champagne (decisione 26 aprile 2006, caso R0148/2004). Con decisione del 23 febbraio 2012, la prima commissione di ricorso dell’UAMI ha invece escluso la possibilità di registrare come marchio un segno costituito dalle estremità rosse dei lacci di un paio di scarpe, in quanto privo di capacità distintiva. Secondo la commissione, le estremità rosse dei lacci delle scarpe non produrrebbero un’impressione © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
notevolmente differente da quella prodotta dai modelli normali di scarpe con lacci, e il consumatore non percepirebbe un marchio simile come indicazione di origine. Il Tribunale dell’Unione europea, con sentenza dell’11 luglio 2013, ha confermato la conclusione cui è giunta la commissione UAMI (T-208/12, Think Schuhwerk GmbH vs UAMI). STATI UNITI Negli Stati Uniti, nel caso Christian Louboutin SA vs. Yves Saint Laurent America Holding, Inc., con sentenza del 5 settembre 2012 la Court of Appeals for the Second Circuit ha ritenuto valido il marchio sulle “suole rosse” Louboutin stante la sua capacità di costituire segno di identificazione delle calzature Louboutin nel mercato americano. La sentenza in questione è quindi di segno opposto rispetto alla pronuncia della Corte di Cassazione francese nel caso Christian Louboutin SA vs Zara France sopra citato, che ha ritenuto nullo il marchio in questione. Tuttavia, la Corte d’Appello ha limitato la protezione del marchio al caso in cui la suola rossa contrasti con la parte superiore della calzatura. Quindi i concorrenti di Louboutin potranno realizzare scarpe con la suola rossa solo a condizione che anche la tomaia della calzatura sia di colore rosso. La Corte ha svolto una lunga analisi circa gli elementi forniti da Louboutin a supporto del carattere distintivo acquisito dal marchio (investimenti pubblicitari, successo nel mercato, ecc.) In un caso precedente (Gucci America, Inc. vs. Guess? Inc) , nel maggio 2012, similmente a quanto di recente stabilito in Italia dal Tribunale di Milano, la Corte distrettuale di New York ha ritenuto valido il marchio Gucci raffigurante il nastro “verde-rosso-verde”. CONCLUSIONI Non sorprende rilevare che i casi, europei e non, qui brevemente passati in rassegna, mostrano come la possibilità dei titolari dei diritti di tutelare i propri marchi costituiti da colori, o da loro combinazioni, dipende chiaramente in larga misura dalla capacità di fornire adeguata evidenza che il colore ha acquistato carattere distintivo attraverso l’uso. MOTORI DI RICERCA E DIRITTO ALL’OBLIO - CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE UE L’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Jääskinen ha reso, in data 25 giugno 2013, le proprie conclusioni con riferimento al caso Google Spain SL, Google Inc. vs Agencia Española de Protección de Datos, Mario Costeja González (causa C−131/12). All’origine della vicenda vi è una richiesta con la quale un cittadino spagnolo aveva cercato di ottenere, prima dall’editore e poi da Google, la rimozione di alcuni dati personali pubblicati su un articolo di giornale ritenuti non più attuali. Su ricorso dell’interessato, l’Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) (l’autorità spagnola per la protezione dei dati personali), aveva ordinato a Google di rimuovere i dati in questione dai risultati generati attraverso il motore di ricerca. Google aveva rifiutato di ottemperare alla richiesta rilevando, tra l’altro, come l’intervento imposto dall’AEPD © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
potesse configurare un’indebita compromissione della libertà di espressione dei gestori di siti Internet. La Corte suprema spagnola (Audiencia Nacional), investita dell’appello contro il provvedimento dell’AEPD, sollevava pertanto di fronte alla Corte di Giustizia alcune questioni pregiudiziali relative (i) all’applicabilità della Direttiva 95/46/CE sulla protezione dei dati personali a fornitori di servizi come Google e (ii) al cd. “diritto all’oblio” dei soggetti cui i dati personali si riferiscono. L’Avvocato Generale propone alla Corte di Giustizia, in primo luogo, di dichiarare che la normativa nazionale in materia di protezione dei dati è applicabile ad un fornitore di un motore di ricerca che, per la promozione e la vendita di spazi pubblicitari nel motore di ricerca, apre in uno Stato membro un ufficio che orienta la sua attività nei confronti degli abitanti di tale Stato. In secondo luogo, secondo l’Avvocato Generale, Google, nell’attività di fornitura di un motore di ricerca su Internet, non va considerato come “titolare del trattamento” dei dati personali che compaiono nelle pagine web. Infatti, fornire uno strumento per la localizzazione dell’informazione non implica alcun controllo sui contenuti presenti nei siti web di terzi, e non mette neppure il fornitore del motore di ricerca in condizione di distinguere tra dati qualificabili come “personali” e altri dati. Pertanto, ad avviso dell’Avvocato Generale, un’autorità nazionale per la protezione dei dati non potrebbe in linea di principio ordinare ad un fornitore di servizi di motore di ricerca di eliminare informazioni dal suo indice, tranne nei casi in cui tale fornitore non abbia rispettato i cd. “codici di esclusione” (ovvero codici che avvertono i motori di ricerca di non indicizzare una pagina web o di non mostrarla tra i risultati della ricerca), o non si sia conformato ad una richiesta proveniente dal sito web concernente un aggiornamento della memoria cache. In terzo luogo, l’Avvocato Generale ricorda che la normativa europea in materia di tutela dei dati personali non prevede un “diritto all’oblio” generalizzato, ovvero un diritto assoluto dell’interessato a ottenere la rimozione di dati ritenuti pregiudizievoli. Tale rimozione può infatti essere ottenuta in relazione ai dati il cui trattamento non sia conforme alle disposizioni della stessa Direttiva 95/46/CE. Inoltre, esigere che i fornitori di servizi di motore di ricerca eliminino informazioni legittimamente pubblicate comporterebbe un’ingerenza nella libertà di espressione dell’editore della pagina web. A parere dell’Avvocato Generale, ciò equivarrebbe ad una censura, ad opera di un privato, del contenuto pubblicato dall’editore. Si attende ora la pronuncia della Corte di Giustizia. Le conclusioni presentate dall’Avvocato Generale non sono vincolanti per il giudizio finale della Corte. Tuttavia, in considerazione della loro autorevolezza, esse sono spesso seguite nella stesura della sentenza. ! BREVISSIME INFORMATIVA ECONOMICA DI SISTEMA 2012: INTRODOTTO L’OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DEI RICAVI DA PUBBLICITÀ ONLINE © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
Il 25 giugno 2013 l’Autorità Garante per le Comunicazioni ha emanato con Delibera n. 397/13/CONS l’Informativa Economica di Sistema relativa all’anno 2012. Sono state inoltre pubblicate sul sito le relative istruzioni per la compilazione dei quadri. La principale innovazione consiste nel fatto che da quest’anno rientrano nei ricavi da indicare all’Autorità anche quelli derivanti dalla pubblicità online e ai fini della dichiarazione devono essere considerati i ricavi realizzati sul territorio nazionale, anche se contabilizzati nei bilanci di società aventi sede all’estero. L’Autorità ha ritenuto necessario estendere l’ambito soggettivo degli operatori obbligati all’Informativa, a seguito della recente modifica del comma 10 dell’articolo 43 del Testo Unico dei servivi di media audiovisivi e radiofonici (D. Lgs. n. 177/2005 così come modificato dal D.L. n. 63/2012 convertito in L. n. 103/2012). Sono esentati dall’obbligo di invio dell’IES i soggetti che, rientrando nelle categorie di cui sopra, abbiano conseguito ricavi totali pertinenti alle attività relative ai settori della comunicazione ivi descritti per l’anno di riferimento pari a zero Euro. I ricavi cui si fa riferimento sono quelli relativi al valore della produzione, così come risultante dal bilancio d’esercizio dell’anno precedente o per i soggetti non obbligati alla redazione del bilancio d’esercizio le omologhe voci di altre scritture contabili che attestino il valore complessivo della prodizione. I modelli predisposi dall’Autorità in allegato alla Delibera n. 397/13/CONS e le relative informazioni relative alle modalità di compilazione sono resi disponibili al seguente link. I termini previsti per l’invio telematico sono prorogati rispetto i termini convenzionali: le comunicazioni potranno pervenire a partire dal 15 luglio fino al 15 ottobre. “DECRETO DEL FARE” – NOVITÀ NEL SETTORE MEDIA È stato pubblicato in GU del 21 giugno 2013 il Decreto legge no. 69/2013, cd. Decreto del Fare, contenente alcune previsioni aventi impatto nei seguenti settori: telecomunicazioni, televisivo e cinematografico. Sono, infatti state introdotte le seguenti novità normative: 1) Eliminato l’obbligo di identificazione degli utenti per gestori Wi-Fi L’articolo 10 del Decreto espressamente stabilisce che sono venuti meno gli obblighi di identificazione e di richiesta di licenza al questore, introdotti con il Decreto Pisanu nel nostro ordinamento a fini antiterroristici, nei confronti di coloro che offrono servizi di accesso ad Internet quale attività commerciale non prevalente. Il Decreto specifica, inoltre, il mantenimento dell’obbligo di tracciabilità del collegamento tramite MAC address. Si sottolinea, tuttavia, che il testo pubblicato in GU presenta alcuni elementi di ambiguità circa l’ambito soggettivo d’applicazione della norma, in ragione del quale potrebbe essere emendata a breve in sede di conversione o oggetto di una circolare interpretativa da parte del Ministero dello Sviluppo Economico. 2) Proroga del credito d’imposta per le produzioni cinematografiche L’articolo 11 del Decreto prevede una proroga del credito d’imposta per la produzione, distribuzione e l’esercizio dell’attività cinematografica. L’articolo in esame stabilisce, infatti, © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
che per il periodo d’imposta 2014 spettano i crediti d’imposta previsti dalla legge 24 dicembre 2007 (legge finanziaria 2008) “nel limite massimo di spesa di 45 milioni di euro per l’anno 2014”. È inoltre prevista l’emanazione di un successivo provvedimento da parte dell’Agenzia delle Entrate ai fini della definizione dei termini e modalità di fruizione dei crediti oggetto d’esame. 3) Riduzione dei fondi destinati al finanziamento delle televisioni e radio locali Infine l’articolo 61, comma 1, lettera c) del Decreto prevede la riduzione degli stanziamenti annuali previsti quali misure a sostegno dell’emittenza televisiva e radiofonica, introdotti con legge n. 448/1999. Saranno infatti ridotti a 19 milioni di Euro per l’anno 2013 e a 7,4 milioni di euro per l’anno 2014. ESCLUSIVA TV PER EVENTI DI PARTICOLARE RILEVANZA: LA CORTE DI GIUSTIZIA RESPINGE LE IMPUGNAZIONI PROPOSTE DA FIFA E UEFA Con sentenze del 18 luglio 2013 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha respinto le impugnazioni di FIFA e UEFA contro le sentenze del Tribunale di primo grado sulla trasmissione tv della Coppa del mondo e del campionato d’Europa di calcio (EURO) (cause C-201/11 P, C-204/11 P e C-205/11 P. UEFA e FIFA/Commissione). La Corte ricorda che, secondo la normativa UE, gli Stati hanno il diritto di vietare la trasmissione in esclusiva degli eventi che essi considerano di particolare rilevanza per la società, quando una trasmissione di questo genere priverebbe una parte importante del pubblico della possibilità di seguire tali eventi su canali liberamente accessibili. Nel caso di specie, il Belgio e il Regno Unito avevano redatto un elenco degli eventi considerati di particolare rilevanza per la loro società, che includevano, rispettivamente, tutte le partite della fase finale della Coppa del mondo e tutte le partite della fase finale della Coppa del mondo e dell’EURO. La Commissione europea aveva ritenuto tali elenchi compatibili con il diritto dell’Unione. FIFA e UEFA hanno impugnato tali decisioni dinanzi al Tribunale di primo grado, contestando il fatto che tutte queste partite potessero costituire eventi di particolare rilevanza per il pubblico di detti Stati. A seguito del rigetto dei ricorsi da parte del Tribunale, le società hanno presentato impugnazione dinanzi alla Corte di Giustizia. Con le sentenze in esame, la Corte ha ricordato che nonostante simili divieti di trasmissione in esclusiva costituiscano ostacoli alla libera prestazione dei servizi, alla libertà di stabilimento, alla libera concorrenza e al diritto di proprietà, tuttavia siffatti ostacoli sono giustificati dalla finalità di proteggere il diritto all’informazione e di assicurare un ampio accesso del pubblico alla copertura televisiva di tali eventi. LIMITI ALL’AFFOLLAMENTO PUBBLICITARIO NELLA NORMATIVA ITALIANA: LA LETTURA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA Nel corso del procedimento SKY Italia contro AGCOM, il TAR Lazio ha adito in via pregiudiziale la Corte di giustizia europea perché accertasse se la normativa italiana sui limiti all’affollamento pubblicitario televisivo è conforme al diritto dell’Unione. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
Il procedimento principale era stato avviato da SKY, nel marzo 2012, per chiedere l’annullamento della sanzione comminata dall’AGCOM per aver superato di 2 punti percentuali la soglia stabilita dalla normativa nazionale in materia di affollamento pubblicitario. La norma oggetto della questione pregiudiziale è l’articolo 38 del decreto legislativo n. 177, del 31 luglio 2005 (Testo unico dei Servizi di Media audiovisivi e radiofonici,, come modificato dal decreto Romani,decreto legislativo n. 44, del 15 marzo 2010). Esso contiene delle disposizioni più severe, in materia di limiti all’ affollamento pubblicitario televisivo, rispetto a quelle previste dalla direttiva 2010/13/UE. In particolare, l’articolo 38 prevede una differenziazione di soglia pubblicitaria a seconda che il canale televisivo sia trasmesso in chiaro o a pagamento; una simile differenziazione non è prevista, invece, dalla normativa europea. La Corte si è pronunciata giovedì 18 luglio. La sentenza ha sottolineato che, nel settore dei media audiovisivi, il legislatore nazionale si trova dinanzi il contemperamento di due distinti interessi: il primo, quello delle emittenti televisive, che ha carattere finanziario; il secondo, riguardante quella particolare categoria di consumatori che sono i telespettatori. La Corte ha ritenuto che la differenziazione dei limiti di affollamento pubblicitario tra emittenti in chiaro ed emittenti a pagamento, lungi dal violare il principio di eguaglianza, risulti essere giustificata alla luce della diversa “incidenza economica” che il finanziamento pubblicitario può avere in caso di emittenti in chiaro, eroganti un servizio a titolo gratuito, rispetto alle emittenti a pagamento: “ne consegue che, nel ricercare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli interessi dei telespettatori nel settore della pubblicità televisiva, il legislatore nazionale ha potuto stabilire, senza violare il principio della parità di trattamento, limiti diversi all’affollamento pubblicitario orario a seconda che si tratti di emittenti a pagamento o di emittenti in chiaro”. La Corte ha poi ritenuto inammissibile la questione con cui il giudice italiano aveva domandato se l’articolo 38 del T.U. in materia dei servizi Media audiovisivi e radiofonici favorisca la creazione di posizioni dominanti all’interno della pubblicità televisiva, pregiudicando così il pluralismo informativo, tutelato dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Pertanto, la Corte ha concluso che una normativa nazionale, come quella italiana, che stabilisce limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti televisive a pagamento rispetto a quelli applicabili alle emittenti televisive in chiaro, non è in linea di massima incompatibile con il diritto dell’Unione, a condizione che sia rispettato il principio di proporzionalità, che cioè la normativa sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non ecceda quanto necessario al suo raggiungimento. Il rispetto del principio di proporzionalità deve essere verificato dal giudice nazionale. RELAZIONE AGCOM 2013 L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) ha presentato la propria Relazione annuale 2013, ricca di dati sul settore delle comunicazioni e sull’azione condotta dall’Autorità nel periodo compreso tra il 1° maggio 2012 e il 30 aprile 2013. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
Innanzitutto l’Autorità ha sottolineato l’urgente necessità di investire nelle reti di nuova generazione ( fissa e mobile ) e nello sviluppo dell’architettura IP. A questo riguardo l’Agcom ha richiamato anche la “Raccomandazione del Consiglio sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017” in cui si esorta l’Italia a potenziare la capacità infrastrutturale anche nel settore delle telecomunicazioni e della banda larga. L’Autorità, dopo aver riscontrato un calo di tutti i media tradizionali, principalmente per effetto della contrazione dell’economia e della raccolta pubblicitaria, ha evidenziato come i media dell’area internet siano gli unici a crescere. Questi ultimi, sebbene rappresentino per ora il 4,2% del Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC), secondo l’Agcom costituiscono anche per il futuro “l’unico traino per la crescita dell’intero settore”. L’Autorità, a seguito della legge n 103 del 16 luglio 2012 che ha portato alla modifica dell’art. 43, comma 10, del TUSMAR (testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici), ha proceduto alla riforma della IES (Informativa economica di sistema), sia negli aspetti relativi alla modulistica, che in quelli regolamentari (attraverso una modifica della delibera n.303/11/CONS) relativi alla definizione dei soggetti obbligati e dei ricavi oggetto della richiesta di informazioni. In particolare, l’Agcom ha ritenuto necessario estendere l’ambito soggettivo degli operatori obbligati all’Informativa, includendovi tutti coloro che realizzano qualunque tipologia di ricavo pubblicitario sul mezzo internet: dovranno dunque essere censiti anche gli operatori che gestiscono motori di ricerca e social network. Nella relazione Agcom manifesta anche l’intenzione di avviare a breve un’analisi dei singoli mercati del Sistema Integrato delle Comunicazioni, per verificare l’eventuale presenza di posizioni dominanti. Inoltre l’Agcom, a seguito della legge n 44 del 26 aprile 2012 che ha eliminato il “beauty contest” per l’assegnazione gratuita delle frequenze disponibili in banda televisiva, in data 11 aprile 2013 ha adottato il provvedimento finale recante il regolamento per la procedura d’asta con riguardo l’assegnazione delle frequenze per multiplex digitali terrestri. Questo poi è stato trasmesso al Ministero dello sviluppo economico per l’adozione del bando. Con riferimento al tema della tutela dei minori e degli utenti, il nuovo art.34, ai commi 5 e 11, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, come modificato dal decreto legislativo 28 giugno 2012, n. 120, ha previsto, ai commi 5 e 11, che l’Autorità, a seguito di una procedura di co-regolamentazione, stabilisca la nuova “disciplina di dettaglio contenente l’indicazione degli accorgimenti tecnici da utilizzare per escludere che i minori vedano o ascoltino normalmente i programmi” destinati agli adulti. La norma indica come criteri generali l’adozione di un sistema di parental control attivo di default, con facoltà di disattivazione da parte dell’utente che intenda accedere al servizio (modalità opt-out), nonché la consegna riservata di codici di disattivazione al contraente maggiorenne. In attuazione di tali norme di legge, l’Autorità ha adottato la delibera n. 224/12/CSP recante “Costituzione del tavolo tecnico per l’adozione della disciplina di dettaglio sugli accorgimenti tecnici da adottare per l’esclusione della visione e dell’ascolto da parte dei minori di trasmissioni rese disponibili dai fornitori di servizi di media audiovisivi a richiesta che possono nuocere gravemente al loro sviluppo fisico, mentale o morale”. Inoltre, l’Autorità ha deciso di riesaminare il tema del diritto d’autore on line. A tal fine, il 24 maggio 2013 l’Autorità ha organizzato un workshop presso la Camera dei deputati per confrontare i diversi modelli di intervento adottati a livello internazionale in materia di tutela © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
del diritto d’autore online e analizzare le possibili linee di intervento da realizzare in Italia, quali le misure di educazione dell’utente/consumatore, di promozione e tutela dell’offerta legale di contenuti e di enforcement degli strumenti di tutela. CONTINUA LA LOTTA AGCM ALLA CONTRAFFAZIONE Con provvedimento n. 24403 dell’11 giungo 2013 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”) ha inibito in via cautelare l’accesso al sito web www.emporioarmaniwatchesuk.uk.com attraverso il quale erano venduti orologi contraffatti a marchio Emporio Armani. L’AGCM ha infatti ritenuto il gestore del sito colpevole di aver diffuso mediante i propri siti web messaggi ingannevoli sulla natura, le caratteristiche e l’utilizzo del marchio Armani sui prodotti venduti; di aver omesso informazioni rilevanti sull’identità del professionista e sui diritti previsti a tutela del consumatore nella fase post vendita; di aver violato gli obblighi previsti dal regime di garanzia legale di conformità, precludendo di fatto la sostituzione di prodotti difformi da quelli ordinati. Il provvedimento in esame fa seguito ad altri provvedimenti di simile tenore emessi da AGCM (v. anche Newsletter marzo 2013). Recentemente l’azione di AGCM contro i siti web che vendono prodotti contraffatti è stata giudicata una best practice di “grande valore” dalla giuria che ha assegnato il riconoscimento “highly commended” nell’ambito del Global Anti-Counterfeiting Awards 2013 tenutosi a Parigi. I numeri precedenti sono disponibili online sul sito. Se desideri iscriverti al servizio clicca qui. © 2013 Portolano Cavallo Studio Legale
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